PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro
Novelli
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Decameron
di Giovanni Boccaccio
COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO
DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO, NEL QUALE SI CONTENGONO CENTO NOVELLE
IN DIECI DI' DETTE DA SETTE DONNE E DA TRE GIOVANI UOMINI.
Umana cosa è aver
compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro
è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto
mestiere e hannol trovato in alcuni; fra quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno o
gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per
ciò che, dalla mia prima giovinezza infino a questo tempo oltre modo
essendo acceso stato d'altissimo e nobile amore, forse più assai che
alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque
appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e
da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a
sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio
fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò
che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare, più di noia
che bisogno non m'era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto
rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico le sue
laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere
avvenuto che io non sia morto.
Ma sì come a Colui
piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte
le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn'altro fervente e il quale
niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo
che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per sè
medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sè
nella mente m'ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di
porgere a chi troppo non si mette né suoi più cupi pelaghi navigando;
per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il
sento esser rimaso .
Ma quantunque cessata sia
la pena, non per ciò è la memoria fuggita de'benefici già
ricevuti, datimi da coloro à quali per benivolenza da loro a me portata
erano gravi le mie fatiche: ne passerà mai, sì come io credo, se
non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo,
trall'altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da
biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel
poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora
che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono alli quali per
avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abbisogna, a quegli
almeno a qual fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio
sostenta mento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia à
bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere
dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità
vi farà e si ancora perché più vi fia caro avuto.
E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto
più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro
à dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l'amorose fiamme
nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il
sanno che l'hanno provate: e oltre a ciò, ristrette dà voleri,
dà piaceri, dà comandamenti de'padri, delle madri, de'fratelli e
de'mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere
racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una
medesima ora , seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è
possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da
focoso disio, sopravviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave
noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle
sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini
non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna
malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare
o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l'andare
a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare,
giucare o mercatare: de'quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in
parte, l'animo a sè e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno
spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion
sopraviene o diventa la noia minore.
Adunque, acciò che
in parte per me s'ammendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di
forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara
fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che
all'altre è assai l'ago e '1 fuso e l'arcolaio,intendo di raccontare
cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate
in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel
pistelenzioso, tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette
dalle predette donne cantate al lor diletto.
Nelle quali novelle
piacevoli e aspri casi d'amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno
così né moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le
già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle
sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in
quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da
seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano
intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia; a Amore ne
rendano grazie, il quale liberandomi dà suoi legami m'ha conceduto il
potere attendere à lor piaceri.
Comincia la Giornata prima
del Decameron, nella quale dopo la dimostrazione fatta dall'autore, per che
cagione avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano, ragunare
a ragionare insieme, sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di quello che
più aggrada a ciascheduno.
Giornata prima -
Introduzione
Quantunque volte,
graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente: tutte
siete pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio
avrà grave e noioso principio, sì come è la dolorosa
ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno
che quella vide o altramenti conobbe dannosa, la quale essa porta nella fronte.
Ma non voglio per ciò che questo di più avanti leggere vi
spaventi, quasi sempre sospiri e tralle lagrime leggendo dobbiate trapassare.
Questo orrido cominciamento vi fia non altramenti che a' camminanti una
montagna aspra e erta, presso alla quale un bellissimo piano e dilettevole sia
reposto, il quale tanto più viene lor piacevole quanto maggiore è
stata del salire e dello smontare la gravezza. E sì come la
estremità della allegrezza il dolore occupa, così le miserie da
sopravegnente letizia sono terminate.
A questa brieve noia (dico
brieve in quanto poche lettere si contiene) seguita prestamente la dolcezza e
il piacere quale io v'ho davanti promesso e che forse non sarebbe da
così fatto inizio, se non si dicesse, aspettato. E nel vero, se io
potuto avessi onestamente per altra parte menarvi a quello che io desidero che
per così aspro sentiero come fia questo, io l'avrei volentier fatto: ma
ciò che, qual fosse la cagione per che le cose che appresso si
leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa ramemorazion dimostrare,
quasi da necessità constretto a scriverle mi conduco.
Dico adunque che già
erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero
pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di
Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera
pestilenza: la quale, per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique
opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali,
alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d'inumerabile
quantità de' viventi avendo private, senza ristare d'un luogo in uno
altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata.
E in quella non valendo
alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata
la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l'entrarvi
dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità,
né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate,
in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della
primavera dell'anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi
effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva
fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di
inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d'essa a' maschi e alle
femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali
alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune
più e alcun' altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E
dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il
già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello
a nascere e a venire: e da questo appresso s'incominciò la
qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o
livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del
corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come
il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura
morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali
infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva
che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che
la ignoranza de' medicanti (de' quali, oltre al numero degli scienziati,
così di femine come d'uomini senza avere alcuna dottrina di medicina
avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si
movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente
pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra 'l terzo giorno dalla apparizione
de' sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza
alcuna febbre o altro accidente, morivano.
E fu questa pestilenza di
maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare
insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose
secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe
di male: ché non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani
infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o
qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco
quella cotale infermità nel toccator transportare.
Maravigliosa cosa è
da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei
non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di
scriverlo, quantunque da fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia
fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro,
che non solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto più,
assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato,
o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie
dell'uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra
brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti
è detto, presero tra l'altre volte un dì così fatta
esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità
morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli
secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e
scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento,
come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti
caddero in terra.
Dalle quali cose e da assai
altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in
quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era
di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose; e così faccendo, si
credeva ciascuno medesimo salute acquistare.
E erano alcuni, li quali
avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità
avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni
altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove
niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente
usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di
fuori di morte o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli
piaceri che aver poteano si dimovano. Altri, in contraria oppinion tratti,
affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando attorno e sollazzando
e il sodisfare d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che
avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e
così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la
notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e
senza misura, e molto più ciò per l'altrui case faccendo,
solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere E
ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non
più viver dovesse, aveva, sì come se', le sue cose messe in
abbandono; di che le più delle case erano divenute comuni, e così
l'usava lo straniere, pure che ad esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio
signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl'infermi
fuggivano a lor potere.
E in tanta afflizione e
miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi,
così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e
esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o
morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non
potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era
d'adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana
via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell'altre
dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli
appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle
mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle
al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali
odori confortare, con ciò fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo
de' morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e
puzzolente.
Alcuni erano di più
crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo
niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così
buona come il fuggir loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando
d'alcuna cosa se non di se' , assai e uomini e donne abbandonarono la propia
città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e
cercarono l'altrui o almeno il lor contado, quasi l'ira di Dio a punire le
iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse,
ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor
città si trovassero, commossa intendesse; o quasi avvisando niuna
persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta.
E come che questi
così variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti
campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi
stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi
abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l'uno cittadino l'altro
schifasse e quasi niuno vicino avesse dell'altro cura e i parenti insieme rade
volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento
questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l'un
fratello l'altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e
spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non
credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di
visitare e di servire schifavano.
Per la qual cosa a coloro,
de' quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano,
niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur
pochi) o l'avarizia de' serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli
tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e
quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali
servigi non usati, li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose
dagl'infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal
servigio, se molte volte col guadagno perdeano.
E da questo essere
abbandonati gli infermi da' vicini, da' parenti e dagli amici e avere
scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che
niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non
curava d'avere a' suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui
senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una
femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità
il richiedesse; il che, in quelle che ne guerirono, fu forse di minore
onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la
morte di molti che per avventura, se stati fossero atati , campati sarieno; di
che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl'infermi aver non
poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la
moltitudine che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir
dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose contrarie
a' primi costumi de' cittadini nacquero tra quali rimanean vivi.
Era usanza (sì come
ancora oggi veggiamo usare) che le donne parenti e vicine nella casa del morto
si ragunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e
d'altra parte dinanzi alla casa del morto co' suoi prossimi si ragunavano i
suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi
veniva il chericato; ed egli sopra gli omeri se' suoi pari, con funeral pompa
di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n'era
portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità
della pestilenza tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor
luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne
da torno morivan le genti, ma assai n'erano di quelli che di questa vita senza
testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a' quali i pietosi pianti e
l'amare lagrime de' suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle
s'usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale
usanza le donne, in gran parte proposta la donnesca pietà per la salute
di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de' quali
fosser più che da un diece o dodici de' suoi vicini alla chiesa
acompagnati; li quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri
portavano, ma una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente, che
chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano
alla bara; e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva
anzi la morte disposto ma alla più vicina le più volte il
portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume e tal fiata senza
alcuno; li quali con l'aiuto de' detti becchini, senza faticarsi in troppo
lungo uficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più
tosto il mettevano.
Della minuta gente, e forse
in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria
pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà
ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno
infermavano; e non essendo né serviti né atati d'alcuna cosa, quasi senza
alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n'erano che nella strada pubblica o
di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero,
prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a' vicini sentire
se' esser morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno.
Era il più da' vicini
una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de'
morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a' trapassati.
Essi, e per se' medesimi e con l'aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne
potevano, traevano dalle lor case li corpi de' già passati, e quegli
davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n'avrebbe
potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare,
(e tali furono, che, per difetto di quelle, sopra alcuna tavole) ne portavano.
Né fu una bara sola quella
che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne
sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e 'l marito, di due o
tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne
contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per
alcuno, si misero tre o quatro bare, dà portatori portate, di dietro a
quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n'avevano sei o
otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o
lume o compagnia onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non
altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre;
per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle
cose non avea potuto con piccoli e radi danni a' savi mostrare doversi con
pazienza passare, la grandezza de'mali eziandio i semplici far di ciò
scorti e non curanti.
Alla gran moltitudine
de'corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn'ora concorreva
portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo
dare a ciascun luogo proprio secondo l'antico costume, si facevano per gli
cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali
a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono
le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino
a tanto che la fossa al sommo si pervenia.
E acciò che dietro a
ogni particularità le nostre passate miserie per la città
avvenute più ricercando non vada, dico che, così inimico tempo
correndo per quella, non per ciò meno d' alcuna cosa risparmiò il
circustante contado, nel quale, (lasciando star le castella, che erano nella
loro piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i
lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o
aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì
e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per
la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti
lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno
nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d'aiutare i
futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di
consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per
che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani
medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li
campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte
ma pur segate) come meglio piaceva loro se n'andavano. E molti, quasi come
razionali , poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza
alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli.
Che più si
può dire (lasciando stare il contado e alla città ritornando) se
non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella
degli uomini, che infra 'l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la
forza della pestifera infermità e per l'esser molti infermi mal serviti
o abbandonati né lor bisogni per la paura ch'aveono i sani, oltre a centomilia
creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze
essere stati di vita tolti, che forse, anzi l'accidente mortifero, non si saria
estimato tanti avervene dentro avuti? 0 quanti gran palagi, quante belle case,
quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne,
infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante
ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor
debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri
giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno
giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici,
che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!
A me medesimo incresce
andarmi tanto tra tante miserie ravolgendol: per che, volendo omai lasciare
star quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare, dico che,
stando in questi termini la nostra città, d'abitatori quasi vota,
addivenne, sì come io poi da persona degna di fede sentii, che nella
venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina, non
essendovi quasi alcuna altra persona, uditi li divini ufici in abito lugubre
quale a sì fatta stagione si richiedea, si ritrovarono sette giovani
donne tutte l'una all'altra o per amistà o per vicinanza o per parentado
congiunte, delle quali niuna il venti e ottesimo anno passato avea né era minor
di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di
costumi e di leggiadra onestà. Li nomi delle quali io in propria forma
racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è
questa: che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e
per l'ascoltare nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna,
essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere che allora, per le cagioni
di sopra mostrate, erano non che alla loro età ma a troppo più
matura larghissime; né ancora dar materia agl'invidiosi, presti a
mordere"' ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l'onestà
delle valorose donne con isconci parlari. E però, acciò che
quello che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere appresso, per
nomi alle qualità di ciascuna convenienti o in tutto o in parte intendo
di nominarle: delle quali la prima, e quella che di più età era,
Pampinea chiameremo e al seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta
Emilia, e appresso Lauretta diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e l'ultima
Elissa non senza cagion nomeremo.
Le quali, non già da
alcuno proponimento tirate ma per caso in una delle parti della chiesa
adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo più sospiri lasciato
stare il dir de' paternostri, seco delle qualità del tempo molte e varie
cose cominciarono a ragionare.
E dopo alcuno spazio,
tacendo l'altre, così Pampinea cominciò a parlare: - Donne mie
care, voi potete, così come io, molte volte avere udito che a niuna
persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione
è, di ciascuno che ci nasce, la sua vita quanto può aiutare e
conservare e difendere: e concedesi questo tanto, che alcuna volta è
già addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono
uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle
quali è il ben vivere d'ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa
d'alcuno, è a noi e a qualunque altro onesto alla conservazione della
nostra vita prendere quegli rimedii che noi possiamo? Ognora che io vengo ben
raguardando alli nostri modi di questa mattina e ancora di più a quegli
di più altre passate e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti
sieno, io comprendo, e voi similemente il potete prendere, ciascuna di noi di
se medesima dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi
forte, avvedendomi ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per
voi a quello di che ciascuna di voi meritamente teme alcun compenso . Noi
dimoriamo qui, al parer mio, non altramente che se essere volessimo o dovessimo
testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d'ascoltare
se i frati di qua entro, de' quali il numero è quasi venuto al niente,
alle debite ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce,
né nostri abiti, la qualità e la quantità delle nostre miserie.
E, se di quinci usciamo, o veggiamo corpi morti o infermi trasportarsi dattorno,
o veggiamo coloro li quali per li loro difetti l'autorità delle publiche
leggi già condannò ad essilio, quasi quelle schernendo, per
ciò che sentono gli essecutori di quelle o morti o malati, con
dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della nostra
città, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini e in strazio di
noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni
rimproverandoci i nostri danni. Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: - I
cotali son morti - , e - Gli altrettali sono per morire -; e, se ci fosse chi
fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo.
E, se alle nostre case
torniamo, non so se a voi così come a me adiviene: io, di molta
famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco
e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare; e parmi, dovunque io vado
o dimoro per quella, l'ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con
quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile, non so donde il loro
nuovamente venuta, spaventarmi.
Per le quali cose, e qui e
fuori di qui e in casa mi sembra star male; e tanto più ancora quanto
egli mi pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare,
come noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi. E ho sentito e veduto più
volte, ( se pure alcuni ce ne sono) quegli cotali, senza fare distinzione
alcuna dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che l'appetito le
cheggia, e soli e accompagnati, e di dì e di notte, quelle fare che
più di diletto lor porgono. E non che le solite persone, ma ancora le
racchiuse ne' monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e
non si disdica che all'altre, rotte della obedienza le leggi, datesi a' diletti
carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute.
E se così è
(che essere manifestamente si vede) che faccian noi qui? che attendiamo? che
sognamo? perché più pigre e lente alla nostra salute, che tutto il
rimanente de' cittadini, siamo? reputianci noi men care che tutte l'altre? o crediam
la nostra vita con più forti catene esser legata al nostro corpo che
quella degli altri sia, e così di niuna cosa curar dobbiamo, la quale
abbia forza d'offenderla? Noi erriamo, noi siamo ingannate; che
bestialità è la nostra se così crediamo; quante volte noi
ci vorrem ricordare chenti e quali sieno stati i giovani e le donne vinte da
questa crudel pestilenza, noi ne vedremo apertissimo argomento.
E perciò,
acciò che noi per ischifaltà o per traccuttaggine non cadessimo
in quello, di che noi per avventura per alcuna maniera, volendo, potremmo
scampare ( non so se a voi quello se ne parrà che a me ne parrebbe), io
giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come
molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo; e, fuggendo
come la morte i disonesti essempli degli altri, onestamente a' nostri luoghi in
contado, de' quali a ciascuna di noi è gran copia, ce ne andassimo a
stare; e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi
potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo.
Quivi s'odono gli
uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi
pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d'alberi ben mille
maniere, e il cielo più apertamente, il quale, ancora che crucciato ne
sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto
più belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città.
Ed evvi oltre a questo l'aere assai più fresco, e di quelle cose che
alla vita bisognano in questi tempi v'è la copia maggiore, e minore il
numero delle noie. Per ciò che, quantunque quivi così muoiano i
lavoratori come qui fanno i cittadini, v'è tanto minore il dispiacere
quanto vi sono, più che nella città, rade le case e gli abitanti.
E qui d'altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne
possiamo con verità dire molto più tosto abbandonate; per
ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro,
sole in tanta afflizione n'hanno lasciate.
Niuna riprensione adunque
può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non
seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le
nostre fanti e con le cose oportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo
e domane in quello quella alle grezza e festa prendendo che questo tempo
può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in
tal guisa, che noi veggiamo (se prima da morte non siam sopragiunte ) che fine
il cielo riserbi a queste cose. E ricordivi che egli non si disdice più
a noi l'onesta mente andare, che faccia a gran parte dell'altre lo star
disonestamente.
L'altre donne, udita
Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo
avevan già più particularmente tra se' cominciato a trattar del
modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in
cammino. Ma Filomena, la quale discretissima era, disse: - Donne, quantunque
ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per
ciò così da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare.
Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n'ha niuna sì fanciulla,
che non possa ben conoscere come le femine sien ragionate insieme e senza la
provedenza d'alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo mobili, riottose, sospettose,
pusillanime e paurose; per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra
guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo
più tosto, e con meno onor di noi, che non ci bisognerebbe; e per
ciò è buono a provederci avanti che cominciamo.
Disse allora Elissa:
- Veramente gli uomini sono
delle femine capo e senza l'ordine loro rare volte riesce alcuna nostra opera a
laudevole fine; ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che
de' suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono, chi qua
e chi là in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo quello
che noi cerchiamo di fuggire; e il prender gli strani non saria convenevole;
per che, se alla nostra salute, vogliamo andar dietro, trovare si convien modo
di sì fattamente ordinarci che, dove per diletto e per riposo andiamo,
noia e scandalo non ne segua.
Mentre tralle donne erano
così fatti ragionamenti, e ecco entrar nella chiesa tre giovani non per
ciò tanto che meno di venticinque anni fosse l'età di colui che
più giovane era di loro; ne quali né perversità di tempo né
perdita d'amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor, non che
spegnere, ma raffreddare. De' quali, l'uno era chiamato Panfilo, e Filostrato
il secondo, e l'ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno; e andavano
cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le
loro donne, le quali per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come
che dell'altre alcune ne fossero congiunte parenti d'alcuni di loro. Né prima
esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che
Pampinea allor cominciò sorridendo:
- Ecco che la fortuna a'
nostri cominciamenti è favorevole, e hacci davanti posti discreti
giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno, se di
prendergli a questo uficio non schiferemo.
Neifile allora, tutta nel
viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che l'una era di quelle
che dall'un de giovani era amata, disse:
- Pampinea, per Dio, guarda
ciò che tu dichi; io conosco assai apertamente niuna altra cosa che
tutta buona dir potersi di qualunque s'è l'uno di costoro, e credogli a
troppo maggior cosa che questa non è sofficienti; e similmente avviso
loro buona compagnia e onesta dover tenere non che a noi, ma a molto più
belle e più care che noi non siamo. Ma, per ciò che assai
manifesta cosa è loro essere d'alcune che qui ne sono innamorati, temo
che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli
meniamo.
Disse allora Filomena:
- Questo non monta niente:
là dove io onestamente viva né mi rimorda d'alcuna cosa la coscienza,
parli chi vuole in contrario; Iddio e la verità l'arme per me
prenderanno. Ora, fossero essi pur già disposti a venire, ché veramente,
come Pampinea disse, potremmo dire la fortuna essere alla nostra andata
favoreggiante.
L'altre, udendo costei
così fattamente parlare, non solamente si tacquero ma con consentimento
concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro
intenzione e pregassersi che dovesse loro piacere in così fatta andata
lor tener compagnia. Per che senza più parole Pampinea, levatasi in
piè, la quale a alcun di loro per consanguinità era congiunta,
verso loro, che fermi stavano a riguardarle, si fece e, con lieto viso
salutatigli, loro la lor disposizione fe' manifesta, e pregogli per parte di
tutte che con puro e fratellevole animo a tener loro compagnia si dovessero
disporre. I giovani si credettero primieramente essere beffati; ma, poi che
videro che da dovero parlava la donna, rispuosero lietamente se' essere
apparecchiati; e senza dare alcuno indugio all'opera, anzi che quindi si
partissono, diedono ordine a ciò che a fare avessono in sul partire. E
ordinatamente fatta ogni cosa opportuna apparecchiare, e prima mandato
là dove intendevan d'andare, la seguente mattina, cioè il
mercoledì, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante delle lor
fanti e i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della città, si
misero in via; né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi
pervennero al luogo da loro primieramente ordinato. Era il detto luogo sopra
una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di
varii albuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare;
in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e
con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di se' bellissima e di
liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini
maravigliosi e con pozzi d'acque freschissime e con volte piene di preziosi
vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne. Il
quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, e ogni cosa di fiori, quali
nella stagione si potevano avere, piena e di giunchi giuncata, la vegnente
brigata trovò con suo non poco piacere.
E postisi nella prirna
giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre a ogni altro era piacevole
giovane e pieno di motti:- Donne, il vostro senno, più che il nostro
avvedimento ci ha qui guidati. Io non so quello che de' vostri pensieri voi
v'intendete di fare; li miei lasciai io dentro dalla porta della città
allora che io con voi poco fa me ne uscì fuori; e per ciò, o voi
a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico,
quanto alla vostra dignità s'appartiene), o voi mi licenziate che io per
li miei pensieri mi ritorni e steami nella città tribolata.-
A cui Pampinea, non d'altra
maniera che se similmente tutti i suoi avesse da se' cacciati, lieta rispose:
- Dioneo, ottimamente
parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha
fatto fuggire. Ma, per ciò che le cose che sono senza modo non possono
lungamente durare, io, che cominciatrice fui de' ragionamenti da' quali questa
così bella compagnia è stata fatta pensando al continuare della
nostra letizia, estimo che di necessità sia convenire esser tra noi
alcuno principale, il quale noi e onoriamo e ubbidiamo come maggiore, nel quale
ogni pensiero stea di doverci a lietamente viver disporre. E acciò che
ciascun pruovi il peso della sollecitudine insieme col piacere della
maggioranza, e per conseguente, d'una parte e d'altra tratto, non possa, chi
nol pruova, invidia avere alcuna, dico che a ciascun per un giorno
s'attribuisca e '1 peso e l'onore; e chi il primo di noi esser debba nella
elezion di noi tutti sia; di quelli che seguiranno, come l'ora del vespro
s'avvicinerà, quegli o quella che a colui o a colei piacerà, che
quel giorno avrà avuta la signoria; e questo cotale, secondo il suo
arbitrio, del tempo che la sua signoria dee bastare, del luogo e del modo nel
quale a vivere abbiamo ordini e disponga.
Queste parole sommamente
piacquero e ad una voce lei per reina del primo giorno elessero; e Filomena,
corsa prestamente ad uno alloro, per ciò che assai volte aveva udito
ragionare di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d'onore
facevano chi n'era meritamente incoronato, di quello alcuni rami colti, ne le
fece una ghirlanda onorevole e apparente, la quale messale sopra la testa, fu
poi mentre durò la lor compagnia manifesto segno a ciascuno altro della
real signoria e maggioranza.
Pampinea, fatta reina,
comandò che ogni uom tacesse, avendo già fatti i famigliari de'
tre giovani e le loro fanti, che eran quattro, davanti chiamarsi, e tacendo
ciascun, disse:
- Acciò che io prima
essemplo dea a tutte voi, per lo quale, di bene in meglio procedendo, la nostra
compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a
grado ne fia, io primieramente costituisco Parmeno, famigliar di Dioneo, mio
siniscalco, e a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia
commetto e ciò che al servigio della sala appartiene. Sirisco, famigliar
di Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e tesoriere e di Parmeno seguiti i
comandamenti. Tindaro al servigio di Filostrato e degli altri due attenda nelle
camere loro, qualora gli altri, intorno a' loro ufici impediti, attendere non
vi potessero. Misia mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno
continue e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro
saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al governo
delle camere delle donne intente vogliamo che stieno e alla nettezza de' luoghi
dove staremo; e ciascuno generalmente, per quanto egli avrà cara la
nostra grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove che egli vada, onde
che egli torni, che egli oda o vegga, niuna novella, altro che lieta, ci rechi
di fuori.
E questi ordini
sommariamente dati, li quali da tutti commendati furono, lieta drizzata in
piè disse:
- Qui sono giardini, qui
sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo
piacer sollazzando si vada, e come terza suona, ciascun qui sia, acciò
che per lo fresco si mangi.
Licenziata adunque dalla
nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme colle belle donne, ragionando
dilettevoli cose, con lento passo si misono per uno giardino, belle ghirlande
di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando.
E poi che in quello tanto
fur dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati,
trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per
ciò che, entrati in sala terrena, quivi le tavole messe videro con
tovaglie bianchissime e con bicchieri che d'ariento parevano, e ogni cosa di
fiori di ginestra coperta; per che, data l'acqua alle mani, come piacque alla
reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere.
Le vivande dilicatamente
fatte vennero e finissimi vini fur presti; e senza più chetamente li tre
famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle e
ordinate erano rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono.
E levate le tavole (con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar
sapessero e similmente i giovani e parte di loro ottima mente e sonare e
cantare), comandò la reina che gli strumenti venissero; e per
comandamento di lei Dioneo preso un liuto e la Fiammetta una viuola,
cominciarono soavemente una danza a sonare. Per che la reina coll'altre donne,
insieme co' due giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari
a mangiare, a carolar cominciarono; e quella finita, canzoni vaghette e liete
cominciarono a cantare.
E in questa maniera stettero
tanto che tempo parve alla reina d'andare a dormire: per che, data a tutti la
licenzia, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate, se
n'andarono, le quali co' letti ben fatti e così di fiori piene come la
sala trovarono, e simigliantemente le donne le loro; per che, spogliatesi,
s'andarono a riposare.
Non era di molto spazio
sonata nona, che la reina, levatasi, tutte l'altre fece levare, e similmente i
giovani, affermando esser nocivo il troppo dormire di giorno; e così se
n'andarono in uno pratello, nel quale l'erba era verde e grande né vi poteva
d'alcuna parte il sole; e quivi sentendo un soave venticello venire, sì
come volle la lor reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a
sedere, a' quali ella disse così:
- Come voi vedete, il sole
è alto e il caldo è grande, né altro s'ode che le cicale su per
gli ulivi; per che l'andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio
sciocchezza. Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e
tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all'animo gli è
più di piacere, diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si
seguisse, non giucando, nel quale l'animo dell'una delle parti convien che si
turbi senza troppo piacere dell'altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il
che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto)
questa calda parte del giorno trapasseremo. Voi non avrete compiuta ciascuno di
dire una sua novelletta, che il sole fia declinato e il caldo mancato, e
potremo dove più a grado vi fia andare prendendo diletto; e per
ciò, quando questo che io dico vi piaccia (ché disposta sono in
ciò di seguire il piacer vostro), faccianlo; e dove non vi piacesse,
ciascuno infino all'ora del vespro quello faccia che più gli piace. Le
donne parimente e gli uomini tutti lodarono il novellare.
- Adunque, disse la reina,
se questo vi piace, per questa Giornata prima voglio che libero sia a ciascuno
di quella materia ragionare che più gli sarà a grado.
E rivolta a Panfilo, il
quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una delle sue
novelle all'altre desse principio. Laonde Panfilo, udito il comandamento,
prestamente, essendo da tutti ascoltato, cominciò così.
Giornata prima - Novella
prima
Ser Cepperello con una
falsa confessione inganna uno santo frate, e muorsi; ed essendo stato un
pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san
Ciappelletto.
Convenevole cosa è,
carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l'uomo fa, dallo ammirabile e
santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le dea principio. Per che,
dovendo io al nostro novellare, sì come primo, dare cominciamento,
intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che,
quella udita, la nostra speranza in lui, sì come in cosa impermutabile,
si fermi e sempre sia da noi il suo nome lodato.
Manifesta cosa è
che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali,
così in se' e fuor di se' essere piene di noia e d'angoscia e di fatica
e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza niuno fallo né potremmo
noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d'esse, durare né
ripararci, se spezial grazia di Dio forza e avvedimento non ci prestasse. La
quale a noi e in noi non è da credere che per alcuno nostro merito discenda,
ma dalla sua propia benignità mossa e da prieghi di coloro impetrata
che, sì come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre
furono in vita seguendo, ora con lui etterni sono divenuti e beati; alli quali
noi medesimi, sì come a procuratori informati per esperienza della
nostra fragilità, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel
cospetto di tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli
porgiamo.
E ancora più in
questo lui verso noi di pietosa liberalità pieno discerniamo, che, non
potendo l'acume dell'occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare
in alcun modo, avvien forse tal volta che, da oppinione ingannati, tale dinanzi
alla sua maestà facciamo procuratore, che da quella con etterno essilio è
scacciato; e nondimeno esso, al quale niuna cosa è occulta, più
alla purità del pregator riguardando che alla sua ignoranza o allo
essilio del pregato, così come se quegli fosse nel suo conspetto beato,
esaudisce coloro che 'l priegano. Il che manifestamente potrà apparire
nella novellala quale di raccontare intendo; manifestamente dico, non il
giudicio di Dio, ma quel degli uomini seguitando.
Ragionasi adunque che
essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier
divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello
del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso, sentendo
egli gli fatti suoi, sì come le più volte son quegli de'
mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere
né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a più persone;
e a tutti trovò modo; fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar
potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni.
E la cagion del dubbio era
il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali; e a
lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse
alcuna fidanza avere che opporre alla loro malvagità si potesse.
E sopra questa
essaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepperello
da Prato, il qual molto alla sua casa in Parigi si riparava. Il quale, per
ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li
franceschi che si volesse dire Cepperello, credendo che cappello, cioè
ghirlanda, secondo il loro volgare, a dir venisse, per ciò che piccolo
era come dicemmo, non Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per
Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello
il conoscieno.
Era questo Ciappelletto di questa
vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de' suoi
strumenti (come che pochi ne facesse) fosse altro che falso trovato; de' quali
tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richiesto, e quelli più
volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false
con sommo diletto diceva, richiesto e non richiesto; e dandosi a que' tempi in
Francia a' saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante
quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua
fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere
tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de'
quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d'allegrezza
prendea. Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo
mai, volenterosamente v'andava; e più volte a fedire e ad uccidere
uomini colle propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de'
santi era grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che
più che alcun altro era iracundo. A chiesa non usava giammai; e i
sacramenti di quella tutti, come vil cosa, con abominevoli parole scherniva; e
così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri
e usavagli.
Delle femine era
così vago come sono i cani de' bastoni; del contrario più che
alcun altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella
conscienzia che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto
che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giuocatore e mettitor di malvagi
dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore
uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e
lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle
quali assai sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu
riguardato.
Venuto adunque questo ser
Cepperello nell'animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita
conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale
quale la malvagità de' borgognoni il richiedea; e perciò,
fattolsi chiamare, gli disse così:
- Ser Ciappelletto, come tu
sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, e avendo tra gli altri a fare co'
borgognoni, uomini pieni d'inganni, non so cui io mi possa lasciare a
riscuotere il mio da loro più convenevole di te; e perciò, con
ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli
intendere, io intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella
parte di ciò che tu riscoterai che convenevole sia.
Ser Ciappelletto, che
scioperato si vedea e male agitato delle cose del mondo e lui ne vedeva andare
che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da
necessità costretto si diliberò, e disse che volea volentieri.
Per che, convenutisi
insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re,
partitosi messer Musciatto, n'andò in Borgogna dove quasi niuno il
conoscea; e quivi, fuor di sua natura, benignamente e mansuetamente
cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v'era, quasi si
riserbasse l'adirarsi al da sezzo.
E così faccendo,
riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura
prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli
infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venire medici e
fanti che il servissero e ogni cosa opportuna alla sua santà
racquistare.
Ma ogni aiuto era nullo,
per ciò che 'l buono uomo, il quale già era vecchio e
disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in
giorno di male in peggio, come colui ch'aveva il male della morte; di che li
due fratelli si dolevan forte.
E un giorno, assai vicini
della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi
cominciarono a ragionare:
- Che farem noi- diceva
l'uno all'altro- di costui? Noi abbiamo dei fatti suoi pessimo partito alle
mani, per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo
ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che
noi l'avessimo ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare così
sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacere
ci debba, così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo
mandar fuori. D'altra parte, egli è stato sì malvagio uomo che
egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sacramento della Chiesa;
e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere,
anzi sarà gittato a' fossi a guisa d'un cane. E, se egli si pur
confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili che il simigliante
n'avverrà, per ciò che frate né prete ci sarà che 'l
voglia né possa assolvere; per che, non assoluto, anche sarà gittato a'
fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per
lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto 'l giorno ne dicon
male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo
ciò, si leverà a romore e griderrà: - Questi lombardi
cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si vogliono più
sostenere - ; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l'avere ci
ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di che noi in
ogni guisa stiam male, se costui muore.
Ser Ciappelletto, il quale,
come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano,
avendo l'udire sottile, sì come le più volte veggiamo avere
gl'infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si
fece chiamare, e disse loro:
- Io non voglio che voi di
niuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io
ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così
n'avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate;
ma ella andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a
Domenedio che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né
meno ne farà. E per ciò procacciate di farmi venire un santo e
valente frate, il più che aver potete, se alcun ce n'è, e
lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e i miei
in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti.
I due fratelli, come che
molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n'andarono ad una
religione di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione
d'un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico di
santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel
quale tutti i cittadini grandissima e spezial divozione aveano, e lui menarono.
Il quale, giunto nella
camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima
benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò
quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser
Ciappelletto, che mai confessato non s'era, rispose:
- Padre mio, la mia usanza
suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta, senza che assai
sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi ch'io
infermai, che son presso a otto dì, io non mi confessai, tanta è
stata la noia che la infermità m'ha data.
Disse allora il frate:
- Figliuol mio, bene hai
fatto, e così si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì
spesso ti confessi, poca fatica avrò d'udire o di domandare.
Disse ser Ciappelletto:
- Messer lo frate, non dite
così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io
sempre non mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi
ricordassi dal dì ch'i' nacqui infino a quello che confessato mi sono; e
per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntualmente d'ogni
cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi. E non mi riguardate
perch'io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni
che, faccendo agio loro, io facessi cosa che potesse essere perdizione della anima
mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue.
Queste parole piacquero
molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a
ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a
domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al qual ser
Ciappelletto sospirando rispose:
- Padre mio, di questa
parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria.
Al quale il santo frate
disse:
- Dì sicuramente,
ché il ver dicendo né in confessione né in altro atto si pecco' giammai.
Disse allora ser
Ciappelletto:
- Poiché voi di questo mi
fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io
uscì del corpo della mamma mia.
- Oh benedetto sia tu da
Dio!- disse il frate- come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più
meritato, quanto, volendo, avevi più d'arbitrio di fare il contrario che
non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola sono
costretti.
E appresso questo il
domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto; al quale,
sospirando forte, ser Ciappelletto rispose del sì, e molte volte;
perciò che con ciò fosse cosa che egli, oltre a' digiuni delle
quaresime che nell'anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre
dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con
quello appetito l'acqua bevuta avea, e spezialmente quando avesse alcuna fatica
durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il
vino; e molte volte aveva disiderato d'avere cotali insalatuzze d'erbucce, come
le donne fanno quando vanno in villa; e alcuna volta gli era paruto migliore il
mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione,
come digiunava egli.
Al quale il frate disse:
- Figliuol mio, questi
peccati sono naturali e sono assai leggieri; e per ciò io non voglio che
tu ne gravi più la conscienzia tua che bisogni. Ad ogni uomo addiviene,
quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e
dopo la fatica il bere.
- Oh! - disse ser
Ciappelletto- padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io
so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente
e senza alcuna ruggine d'animo; e chiunque altri menti le fa, pecca.
Il frate contentissimo
disse:
- E io son contento che
così ti cappia nell'animo, e piacemi forte la tua pura e buona
conscienzia in ciò. Ma, dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando
più che il convenevole, o tenendo quello che tu tener non dovesti?
Al quale ser Ciappelletto
disse:
- Padre mio, io non vorrei
che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far
nulla; anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo
abbominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non m'avesse
così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco
uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi,
per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte
mie picciole mercatantie, e in quelle ho desiderato di guadagnare, e sempre co'
poveri di Dio quello che ho guadagnato ho partito per mezzo, l'una metà
convertendo né miei bisogni, l'altra metà dando loro; e di ciò
m'ha sì bene il mio Creatore aiutato che io ho sempre di bene in meglio
fatti i fatti miei.
- Bene hai fatto,- disse il
frate - ma come ti se' tu spesso adirato?
- Oh!- disse ser
Ciappelletto- cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se ne
potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose,
non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state
assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che
vivo, veggendo i giovani andare dietro alle vanità e vedendogli giurare
e spergiurare, andare alle taverne, non visitare le chiese e seguir più
tosto le vie del mondo che quella di Dio.
Disse allora il frate:
- Figliuol mio, cotesta
è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre. Ma, per
alcuno caso, avrebbeti l'ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire
villania a persona o a fare alcun'altra ingiuria?
A cui ser Ciappelletto
rispose:
- Ohimè, messere, o
voi mi parete uom di Dio: come dite voi coteste parole? o s'io avessi avuto
pure un pensieruzzo di fare qualunque s'è l'una delle cose che voi dite,
credete voi che io creda che Iddio m'avesse tanto sostenuto? Coteste son cose
da farle gli scherani e i rei uomini, de' quali qualunque ora io n'ho mai
veduto alcuno, sempre ho detto: - Va che Dio ti converta -
Allora disse il frate:
- Or mi dì, figliuol
mio, che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta
contro alcuno o detto mal d'altrui o tolte dell'altrui cose senza piacer di
colui di cui sono?
- Mai, messere, sì,-
rispose ser Ciappelletto- che io ho detto male d'altrui; per ciò che io
ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro
che battere la moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti
della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella, la
quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica.
Disse allora il frate:
- Or bene, tu mi di' che
se' stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i
mercatanti?
- Gnaffe,- disse ser
Ciappelletto- messer sì; ma io non so chi egli si fu, se non che uno,
avendomi recati danari che egli mi dovea dare di panno che io gli avea venduto,
e io messogli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai
ch'egli erano quattro piccioli più che essere non doveano; per che, non
rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli
diedi per l'amor di Dio.
Disse il frate:
- Cotesta fu piccola cosa;
e facesti bene a farne quello che ne facesti.
E, oltre a questo, il
domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose
a questo modo. E volendo egli già procedere all'assoluzione, disse ser
Ciappelletto:
- Messere, io ho ancora
alcun peccato che io non v'ho detto.
Il frate il domandò
quale; ed egli disse:
- Io mi ricordo che io feci
al fante mio un sabato dopo nona spazzare la casa, e non ebbi alla santa
domenica quella reverenza che io dovea.
- Oh!- disse il frate-
figliuol mio, cotesta è leggier cosa.
- Non,- disse ser
Ciappelletto- non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da
onorare, però che in così fatto dì risuscitò da
morte a vita il nostro Signore.
Disse allora il frate: - O
altro hai tu fatto?
- Messer sì,-
rispose ser Ciappelletto- ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella
chiesa di Dio.
Il frate cominciò a
sorridere e disse:
- Figliuol mio, cotesta non
è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi
sputiamo.
Disse allora ser
Ciappelletto:
- E voi fate gran villania,
per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel
quale si rende sacrificio a Dio.
E in brieve de' così
fatti ne gli disse molti, e ultimamente cominciò a sospirare, e appresso
a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.
Disse il santo frate:
- Figliuol mio, che hai tu?
Rispose ser Ciappelletto:
- Ohimè, messere,
ché un peccato m'è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì
gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta ch'io me ne ricordo piango come
voi vedete, e parmi essere molto certo che Iddio mai non avrà
misericordia di me per questo peccato.
Allora il santo frate
disse:
- Va via, figliuol, che
è ciò che tu dì? Se tutti i peccati che furon mai fatti da
tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo
durerà, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e
contrito come io veggio te, si è tanta la benignità e la
misericordia di Dio che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente;
e per ciò dillo sicuramente.
Disse allora ser
Ciappelletto, sempre piagnendo forte:
- Ohimè, padre mio,
il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri
prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato.
A cui il frate disse:
- Dillo sicuramente, ché io
ti prometto di pregare Iddio per te.
Ser Ciappelletto pur
piagnea e nol dicea, e il frate pur il confortava a dire. Ma poi che ser
Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così
sospeso, ed egli gittò un gran sospiro e disse:
- Padre mio, poscia che voi
mi promettete di pregare Iddio per me, e io il vi dirò. Sappiate che,
quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia- ; e così
detto ricominciò a piagnere forte.
Disse il frate:
- O figliuol mio, or parti
questo così grande peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto 'l giorno
Iddio, e sì perdona egli volentieri a chi si pente d'averlo bestemmiato;
e tu non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché
fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la
contrizione ch'io ti veggio, sì ti perdonerebbe egli.
Disse allora ser
Ciappelletto:
- Ohimè, padre mio,
che dite- voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il
dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci
male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio
per me, egli non mi sarà perdonato.
Veggendo il frate non
essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l'assoluzione e
diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui
che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto.
E chi sarebbe colui che nol
credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir così? E poi, dopo tutto
questo, gli disse:
- Ser Ciappelletto,
coll'aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Iddio la
vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a se', piacev'egli che 'l
vostro corpo sia sepellito al nostro luogo?
Al quale ser Ciappelletto
rispose:
- Messer sì; anzi
non vorre' io essere altrove, poscia che voi mi avete promesso di pregare Iddio
per me; senza che io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine. E per
ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me
vegna quel veracissimo corpo di Cristo, il qual voi la mattina sopra l'altare
consecrate; per ciò che (come che io degno non ne sia) io intendo colla
vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione,
acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano.
Il santo uomo disse che
molto gli piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente gli sarebbe
apportato; e così fu.
Li due fratelli, li quali
dubitavan forte non ser Ciappelletto gl'ingannasse, s'eran posti appresso ad un
tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva divideva da
un'altra, e ascoltando leggiermente udivano e intendevano ciò che ser
Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di
ridere, udendo le cose le quali egli confessava d'aver fatte, che quasi
scoppiavano, e fra se' talora dicevano:
- Che uomo è costui,
il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte alla qual si vede
vicino, né ancora di Dio dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora
s'aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l'hanno potuto
rimuovere, né far ch'egli così non voglia morire come egli è
vivuto?
Ma pur vedendo che
sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente
del rimaso si curarono.
Ser Ciappelletto poco
appresso si comunico', e peggiorando senza modo, ebbe l'ultima unzione; e poco
passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si
morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui
medesimo come egli fosse onorevolmente sepellito, e man datolo a dire al luogo
de' frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia secondo l'usanza e
la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna disposero.
Il santo frate che confessato
l'avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo, e
fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser
Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione
conceputo avea; e sperando per lui Domenedio dover molti miracoli dimostrare,
persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si
dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli
s'accordarono; e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto
giaceva, sopr'esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti
vestiti co' camici e co' pieviali, con libri in mano e con le croci innanzi,
cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità
il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città,
uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l'avea,
salito in sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de' suoi
digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e
santità maravigliose cose a predicare, tra l'altre cose narrando quello
che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piagnendo gli avea confessato,
e come esso appena gli avea potuto mettere nel capo che Iddio gliele dovesse
perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo:
- E voi, maledetti da Dio,
per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra' piedi bestemmiate Iddio e la
Madre, e tutta la corte di paradiso.
E oltre a queste, molte
altre cose disse della sua lealtà e della sua purità; e in brieve
colle sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede,
sì il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v'erano che,
poi che fornito fu l'uficio, colla maggior calca del mondo da tutti fu andato a
baciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono in dosso stracciati,
tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere; e convenne che tutto
il giorno così fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere
veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in una arca di marmo sepellito fu
onorevolmente in una cappella, e a mano a mano il dì seguente vi
cominciarono le genti ad andare e ad accender lumi e ad adorarlo, e per
conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini della cera secondo la promession
fatta.
E in tanto crebbe la fama
della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era, che in alcuna
avversità fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo
e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Iddio aver mostrati per
lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui.
Così adunque visse e
morì ser Cepperello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale
negar non voglio essere possibile lui essere beato nella presenza di Dio, per
ciò che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli
potè in su l'estremo aver sì fatta contrizione, che per avventura
Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette; ma, per ciò
che questo n'è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono,
e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in
perdizione che in paradiso. E se così è, grandissima si
può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al
nostro errore, ma alla purità della fede riguardando, così
faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come
se ad uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per
ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti
avversità e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi
servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l'abbiamo, lui in reverenza
avendo, né nostri bisogni gli ci raccomandiamo, sicurissimi d'essere uditi.
E qui si tacque.
Giornata prima - Novella
seconda
Abraam giudeo, da Giannotto
di Civignì stimolato, va in corte di Roma; e veduta la malvagità
de' cherici, torna a Parigi e fassi cristiano.
La novella di Panfilo fu in
parte risa e tutta commendata dalle donne; la quale diligentemente ascoltata e
al suo fine essendo venuta, sedendo appresso di lui Neifile, le comandò
la reina che, una dicendone, l'ordine dello incominciato sollazzo seguisse. La
quale, sì come colei che non meno era di cortesi costumi che di bellezza
ornata, lietamente rispose che volentieri, e cominciò in questa guisa.
Mostrato n'ha Panfilo nel
suo novellare la benignità di Dio non guardare a' nostri errori, quando
da cosa che per noi veder non si possa procedano; e io nel mio intendo di
dimostrarvi quanto questa medesima benignità, sostenendo pazientemente i
difetti di coloro li quali d'essa ne deono dare e colle opere e colle parole
vera testimonianza, il contrario operando, di se' argomento d'infallibile
verità ne dimostri, acciò che quello che noi crediamo con
più fermezza d'animo seguitiamo.
Sì come io, graziose
donne, già udii ragionare, in Parigi fu un gran mercatante e buono uomo,
il quale fu chiamato Giannotto di Civignì, lealissimo e diritto e di
gran traffico d'opera di drapperia; e avea singulare amistà con uno
ricchissimo uomo giudeo, chiamato Abraam, il qual similmente mercatante era e
diritto e leale uomo assai. La cui dirittura e la cui lealtà veggendo
Giannotto, gl'incominciò forte ad increscere che l'anima d'un
così valente e savio e buono uomo per difetto di fede andasse a
perdizione. E per ciò amichevolmente lo cominciò a pregare che
egli lasciasse gli errori della fede giudaica e ritornasse alla verità
cristiana, la quale egli poteva vedere, sì come santa e buona, sempre
prosperare e aumentarsi; dove la sua, in contrario, diminuirsi e venire al
niente poteva discernere.
Il giudeo rispondeva che
niuna ne credeva né santa né buona fuor che la giudaica, e che egli in quella
era nato e in quella intendeva e vivere e morire; né cosa sarebbe che mai da
ciò il facesse rimuovere. Giannotto non stette per questo che egli,
passati alquanti dì, non gli rimovesse simiglianti parole, mostrandogli,
così grossamente come il più i mercatanti sanno fare, per quali
ragioni la nostra era migliore che la giudaica. E come che il giudeo fosse
nella giudaica legge un gran maestro, tuttavia, o l'amicizia grande che con
Giannotto avea che il movesse, o forse parole le quali lo Spirito Santo sopra
la lingua dell'uomo idiota poneva che sel facessero, al giudeo cominciarono
forte a piacere le dimostrazioni di Giannotto; ma pure, ostinato in su la sua
credenza, volger non si lasciava.
Così come egli
pertinace dimorava, così Giannotto di sollecitarlo non finava giammai,
tanto che il giudeo, da così continua instanzia vinto, disse:
- Ecco, Giannotto, a te
piace che io divenga cristiano, e io sono disposto a farlo, sì veramente
che io voglio in prima andare a Roma, e quivi vedere colui il quale tu
dì che è vicario di Dio in terra, e considerare i suoi modi e i
suoi costumi e similmente dei suoi fratelli cardinali; e se essi mi parranno
tali che io possa tra per le tue parole e per quelli comprendere che la vostra
fede sia migliore che la mia, come tu ti se' ingegnato di dimostrarmi, io
farò quello che detto t'ho; ove così non fosse, io mi
rimarrò giudeo come io mi sono.
Quando Giannotto intese
questo, fu in se' stesso oltremodo dolente, tacitamente dicendo:
-Perduta ho la fatica, la
quale ottimamente mi parea avere impiegata, credendomi costui aver convertito;
per ciò che, se egli va in corte di Roma e vede la vita scelerata e
lorda de' cherici, non che egli di giudeo si faccia cristiano, ma, se egli
fosse cristiano fatto, senza fallo giudeo si ritornerebbe - .
E ad Abraam rivolto disse:
- Deh, amico mio, perché
vuoi tu entrare in questa fatica e così grande spesa, come a te
sarà d'andare di qui a Roma? senza che, e per mare e per terra, ad un
ricco uomo come tu se', ci è tutto pien di pericoli. Non credi tu trovar
qui chi i1 battesimo ti dea? E, se forse alcuni dubbi hai intorno alla fede che
io ti dimostro, dove ha maggiori maestri e più savi uomini in quella,
che son qui, da poterti di ciò che tu vorrai o domanderai dichiarire?
Per le quali cose al mio parere questa tua andata è di soperchio. Pensa
che tali sono là i prelati quali tu gli hai qui potuti vedere e puoi, e
tanto ancor migliori quanto essi son più vicini al pastor principale. E
perciò questa fatica, per mio consiglio, ti serberai in altra volta ad
alcuno perdono, al quale io per avventura ti farò compagnia.
A cui il giudeo rispose:
- Io mi credo, Giannotto,
che così sia come tu mi favelli, ma, recandoti le molte parole in una,
io son del tutto (se tu vuogli che io faccia quello di che tu m'hai cotanto
pregato) disposto ad andarvi, e altramenti mai non ne farò nulla.
Giannotto, vedendo il voler
suo, disse:
- E tu va con buona
ventura- ; e seco avvisò lui mai non doversi far cristiano, come la
corte di Roma veduta avesse; ma pur, niente perdendovi, si stette.
Il giudeo montò a
cavallo e, come più tosto potè, se n'andò in corte di
Roma, là dove pervenuto dà suoi giudei fu onorevolmente ricevuto.
E quivi dimorando, senza dire ad alcuno per che andato vi fosse, cautamente
cominciò a riguardare alle maniere del papa e de' cardinali e degli
altri prelati e di tutti i cortigiani; e tra che egli s'accorse, sì come
uomo che molto avveduto era, e che egli ancora da alcuno fu informato, egli
trovò dal maggiore infino al minore generalmente tutti
disonestissimamente peccare in lussuria, e non solo nella naturale, ma ancora
nella soddomitica, senza freno alcuno di rimordimento o di vergogna, in tanto
che la potenzia delle meretrici e de' garzoni in impetrare qualunque gran cosa
non v'era di picciol potere. Oltre a questo, universalmente gulosi, bevitori,
ebriachi e più al ventre serventi a guisa d'animali bruti, appresso alla
lussuria, che ad altro, gli conobbe apertamente.
E più avanti
guardando, in tanto tutti avari e cupidi di denari gli vide, che parimente
l'uman sangue, anzi il cristiano, e le divine cose, chenti che elle si fossero,
o a' sacrifici o a' benefici appartenenti, a denari e vendevano e comperavano,
maggior mercatantia faccendone e più sensali avendone che a Parigi di
drappi o di alcun'altra cosa non erano, avendo alla manifesta simonia "
procureria " posto nome, e alla gulosità "sustentazioni
", quasi Iddio, lasciamo stare il significato de' vocaboli, ma la
'ntenzione de' pessimi animi non conoscesse, e a guisa degli uomini a' nomi
delle cose si debba lasciare ingannare. Le quali cose, insieme con molte altre
le quali da tacer sono, sommamente spiacendo al giudeo, sì come a colui
che sobrio e modesto uomo era, parendogli assai aver veduto, propose di tornare
a Parigi, e così fece. Al quale, come Giannotto seppe che venuto se
n'era, niuna cosa meno sperando che del suo farsi cristiano, se ne venne, e
gran festa insieme si fecero; e, poi che riposato si fu alcun giorno, Giannotto
il domandò quello che del santo padre e de' cardinali e degli altri
cortigiani gli parea.
Al quale il giudeo
prestamente rispose:
- Parmene male, che Iddio
dea a quanti sono; e di coti così che, se io ben seppi considerare,
quivi niuna santità, niuna divozione, niuna buona opera o essemplo di
vita o d'altro in alcuno che cherico fosse veder mi parve; ma lussuria,
avarizia e gulosità, fraude, invidia e superbia e simili cose e piggiori
(se piggiori essere possono in alcuno) mi vi parve in tanta grazia di tutti
vedere, che io ho più tosto quella per una fucina di diaboliche
operazioni che di divine. E per quello che io estimi, con ogni sollecitudine e
con ogni ingegno e con ogni arte mi pare che il vostro pastore, e per consequente
tutti gli altri, si procaccino di riducere a nulla e di cacciare del mondo la
cristiana religione, là dove essi fondamento e sostegno esser dovrebber
di quella.
E per ciò che io
veggio non quello avvenire che essi procacciano, ma continuamente la vostra
religione aumentarsi e più lucida e più chiara divenire,
meritamente mi par di scerner io Spirito Santo esser d'essa, sì come di
vera e di santa più che alcun'altra, fondamento e sostegno. Per la qual
cosa, dove io rigido e duro stava a' tuoi conforti e non mi volea far
cristiano, ora tutto aperto ti dico che io per niuna cosa lascerei di cristian
farmi. Andiamo adunque alla chiesa: e quivi, secondo il debito costume della
vostra santa fede, mi fa battezzare.
Giannotto, il quale
aspettava dirittamente contraria conclusione a questa, come lui così
udì dire fu il più contento uomo che giammai fosse. E a Nostra
Dama di Parigi con lui insieme andatosene, richiese i cherici di là
entro che ad Abraam dovessero dare il battesimo.
Li quali, udendo che esso
l'addomandava, prestamente il fecero: e Giannotto il levò del sacro
fonte e nominollo Giovanni; e appresso a gran valenti uomini il fece
compiutamente ammaestrare nella nostra fede la quale egli prestamente apprese,
e fu, poi buono e valente uomo e di santa vita.
Giornata prima - Novella
terza
Melchisedech giudeo, con
una novella di tre anella, cessa un gran pericolo dal Saladino
apparecchiatogli.
Poiché, commendata da tutti
la novella di Neifile, ella si tacque, come alla reina piacque, Filomena
così cominciò a parlare.
La novella da Neifile detta
mi ritorna a memoria il dubbioso caso già avvenuto ad un giudeo. Per
ciò che già e di Dio e della verità della nostra fede
è assai bene stato detto, il discendere oggimai agli avvenimenti e agli
atti degli uomini non si dovrà disdire; e a narrarvi quella
verrò, la quale udita, forse più caute diverrete nelle risposte
alle quistioni che fatte vi fossero. Voi dovete, amorose compagne, sapere che,
sì come la sciocchezza spesse volte trae altrui di felice stato e mette
in grandissima miseria, così il senno di grandissimi pericoli trae il
savio e ponlo in grande e in sicuro riposo. E che vero sia che la sciocchezza
di buono stato in miseria altrui conduca, per molti essempli si vede, li quali
non fia al presente nostra cura di raccontare, avendo riguardo che tutto '1
dì mille essempli n'appaiano manifesti. Ma che il senno di consolazione
sia cagione, come promisi, per una novelletta mosterrò brievemente.
Il Saladino, il valore del
qual fu tanto che non solamente di piccolo uomo il fe' di Babillonia soldano,
ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere,
avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo
tesoro, e, per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona
quantità di danari, né veggendo donde così prestamente come gli
bisognavano aver gli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome
era Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria, e pensossi costui
avere da poterlo servire quando volesse; ma sì era avaro che di sua
volontà non l'avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che,
strignendolo il bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il
servisse, s'avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata. E
fattolsi chiamare e familiarmente ricevutolo, seco il fece sedere e appresso
gli disse:
- Valente uomo, io ho da
più persone inteso che tu se' savissimo e nelle cose di Dio senti molto
avanti; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu
reputi la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana.
Il giudeo, il quale
veramente era savio uomo, s'avvisò troppo bene che il Saladino guardava
di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò
non potere alcuna di queste tre più l'una che l'altra lodare, che il
Saladino non avesse la sua intenzione. Per che, come colui al qual pareva
d'aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo
'ngegno, gli venne prestamente avanti quello che dir dovesse, e disse:
- Signor mio, la quistione
la qual voi mi fate è bella, e a volervene dire ciò che io ne
sento, mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete.
Se io non erro, io mi
ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il
quale, intra l'altre gioie più care che nel suo tesoro avesse, era uno
anello bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza
volendo fare onore e in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò
che colui de' suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui,
fosse questo anello trovato, che colui s'intendesse essere il suo erede e
dovesse da tutti gli altri essere come maggiore onorato e reverito.
E colui al quale da costui
fu lasciato il simigliante ordinò né suoi discendenti e così fece
come fatto avea il suo predecessore; e in brieve andò questo anello di
mano in mano a molti successori; e ultimamente pervenne alle mani ad uno, il
quale avea tre figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per
la qual cosa tutti e tre parimente gli amava. E i giovani, li quali la
consuetudine dello anello sapevano, sì come vaghi d'essere ciascuno il
più onorato tra' suoi ciascuno per se', come meglio sapeva, pregava il
padre, il quale era già vecchio, che, quando a morte venisse, a lui
quello anello lasciasse.
Il valente uomo, che
parimente tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere a qual più
tosto lasciar lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di
volergli tutti e tre sodisfare; e segretamente ad uno buono maestro ne fece
fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero, che esso
medesimo che fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il vero. E
venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de' figliuoli. Li quali,
dopo la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l'onore occupare,
e l'uno negandolo all'altro, in testimonianza di dover ciò
ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo anello. E trovatisi gli
anelli sì simili l'uno all'altro che qual di costoro fosse il vero non
si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del
padre, in pendente, e ancor pende.
E così vi dico,
signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la
quistion proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi
comandamenti dirittamente si crede avere e fare; ma chi se l'abbia, come degli
anelli, ancora ne pende la quistione.
Il Saladino conobbe costui
ottimamente essere saputo uscire del laccio il quale davanti a' piedi teso gli
aveva; e per ciò dispose d'aprirgli il suo bisogno e vedere se servire
il volesse; e così fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto
di fare, se così discretamente, come fatto avea, non gli avesse
risposto.
Il giudeo liberamente
d'ogni quantità che il Saladino richiese il servì; e il Saladino
poi interamente il soddisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi
doni e sempre per suo amico l'ebbe e in grande e onorevole stato appresso di
se' il mantenne.
Giornata prima - Novella
quarta
Un monaco, caduto in peccato
degno di gravissima punizione, onestamente rimproverando al suo abate quella
medesima colpa, si libera dalla pena.
Già si tacea
Filomena, dalla sua novella espedita, quando Dioneo, che appresso di lei
sedeva, senza aspettare dalla reina altro comandamento, conoscendo già,
per l'ordine cominciato, che a lui toccava il dover dire, in cotal guisa
cominciò a parlare.
Amorose donne, se io ho
bene la 'ntenzione di tutte compresa, noi siam qui per dovere a noi medesimi
novellando piacere; e per ciò, solamente che contro a questo non si
faccia, estimo a ciascuno dovere essere licito (e così ne disse la
nostra reina, poco avanti, che fosse) quella novella dire che più crede
che possa dilettare; per che, avendo udito per li buoni consigli di Giannotto
di Civignì Abraam aver l'anima salvata Melchisedech per lo suo senno
avere le sue ricchezze dagli agguati del Saladino difese, senza riprensione
attender da voi, intendo di raccontar brievemente con che cautela un monaco il
suo corpo da gravissima pena liberasse.
Fu in Lunigiana, paese non
molto da questo lontano, uno monistero già di santità e di monaci
più copioso che oggi non è, nel quale tra gli altri era un monaco
giovane, il vigore del quale né la freschezza né i digiuni né le vigilie
Potevano macerare. Il quale per ventura un giorno in sul mezzodì, quando
gli altri monaci tutti dormivano, andandosi tutto solo dattorno alla sua
chiesa, la quale in luogo assai solitario era, gli venne veduta una giovinetta
assai bella, forse figliuola d'alcuno de' lavoratori della contrada, la quale
andava per gli campi certe erbe cogliendo; né prima veduta l'ebbe, che egli
fieramente assalito fu dalla concupiscenza carnale.
Per che, fattolesi
più presso, con lei entrò in parole e tanto andò d'una in
altra, che egli si fu accordato con lei e seco nella sua cella ne la
menò, che niuna persona se n'accorse. E mentre che egli, da troppa
volontà trasportato, men cautamente con lei scherzava, avvenne che
l'abate, da dormir levatosi e pianamente passando davanti alla cella di costui,
sentì lo schiamazzio che costoro insieme faceano; e per conoscere meglio
le voci, chetamente s'accostò all'uscio della cella ad ascoltare e
manifestamente conobbe che dentro a quella era femina e tutto fu tentato di
farsi aprire; poi pensò di voler tenere in ciò altra maniera e,
tornatosi alla sua camera, aspettò che il monaco fuori uscisse.
Il monaco, ancora che da
grandissimo suo piacere e diletto fosse con questa giovane occupato, pur
nondimeno tuttavia sospettava; e parendogli aver sentito alcuno stropiccio di
piedi per lo dormentorio, ad un piccolo pertugio pose l'occhio e vide
apertissimamente l'abate stare ad ascoltarlo e molto bene comprese l'abate aver
potuto conoscere quella giovane essere nella sua cella. Di che egli, sappiendo
che di questo gran pena gli dovea seguire, oltre modo fu do lente; ma pur,
senza del suo cruccio niente mostrare alla giovane, prestamente seco molte cose
rivolse, cercando se a lui alcuna salutifera trovar ne potesse; e occorsegli
una nuova malizia, la quale al fine imaginato da lui dirittamente pervenne. E
faccendo sembiante che esser gli paresse stato assai con quella giovane, le
disse:
- Io voglio andare a trovar
modo come tu esca di qua entro senza esser veduta; e per ciò statti
pianamente infino alla mia tornata.
E uscito fuori e serrata la
cella colla chiave, dirittamente se n'andò alla camera dello abate, e
presentatagli quella, secondo che ciascuno monaco faceva quando fuori andava,
con un buon volto disse:
- Messere, io non potei
stamane farne venire tutte le legne le quali io avea fatte fare, e
perciò con vostra licenzia io voglio andare al bosco e farlene venire.
L'abate, per potersi
più pienamente informare del fallo commesso da costui, avvisando che
questi accorto non se ne fosse che egli fosse stato da lui veduto, fu lieto di
tale accidente, e volentier prese la chiave e similmente li die' licenzia. E,
come il vide andato via, cominciò a pensar qual far volesse più
tosto, o in presenza di tutti i monaci aprir la cella di costui e far loro
vedere il suo difetto, acciò che poi non avesser cagione di mormorare
contra di lui quando il monaco punisse, o di voler prima da lei sentire come
andata fosse la bisogna. E, pensando seco stesso che questa potrebbe essere tal
femina o figliuola di tale uomo, che egli non le vorrebbe aver fatta quella
vergogna d'averla a tutti i monaci fatta vedere, s'avvisò di voler prima
veder chi fosse e poi prender partito; e chetamente andatosene alla cella, quel
la aprì ed entrò dentro e l'uscio richiuse.
La giovane, vedendo venire
l'abate, tutta smarrì, e temendo di vergogna cominciò a piagnere.
Messer l'abate, postole l'occhio addosso e veggendola bella e fresca, ancora
che vecchio fosse, sentì subitamente non meno cocenti gli stimoli della
carne che sentiti avesse il suo giovane monaco, e fra se' stesso
cominciò a dire: - Deh, perché non prendo io del piacere quando io ne
posso avere, con ciò sia cosa che il dispiacere e la noia, sempre che io
ne vorrò, sieno apparecchiati? Costei è una bella giovane, ed
è qui che niuna per sona del mondo il sa; se io la posso recare a fare i
piacer miei, io non so perché io nol mi faccia. Chi saprà? ai
più; io estimo che egli sia gran senno a pigliarsi del bene, quando
Domenedio ne man da altrui -. E così dicendo, e avendo del tutto mutato
proposito da quello per che andato v'era, fattosi più presso alla
giovane, pianamente la cominciò a confortare e a pregarla che non
piagnesse; e, d'una parola in altra procedendo, ad aprirle il suo desiderio
pervenne.
La giovane, che non era di
ferro né di diamante, assai agevolmente si piegò a' piaceri dello abate;
il quale, abbracciatala e baciatala più volte, in sul letticello del
monaco salitosene, avendo forse riguardo al grave peso della sua dignità
e alla tenera età della giovane, temendo forse di non offenderla per
troppa gravezza, non sopra il petto di lei salì, ma lei sopra il suo
petto pose, e per lungo spazio con lei si trastullò.
Il monaco, che fatto avea
sembiante d'andare al bosco, essendo nel dormentorio occultato, come vide
l'abate solo nella sua cella entrare, così tutto rassicurato,
estimò il suo avviso dovere avere effetto; e veggendol serrar dentro,
l'ebbe per certissimo. E, uscito di là dov'era, chetamente n'andò
ad un pertugio, per lo quale ciò che l'abate fece o disse, e udì
e vide. Parendo allo abate essere assai colla giovanetta dimorato, serratala
nella cella, alla sua camera se ne tornò; e dopo al quanto, sentendo il
monaco e credendo lui esser tornato dal bosco, avvisò di riprenderlo
forte e di farlo incarcerare, acciò che esso solo possedesse la
guadagnata preda; e fattoselo chiamare, gravissimamente e con mal viso il
riprese e comandò che fosse in carcere messo.
Il monaco prontissimamente
rispose:
- Messere, io non sono
ancora tanto all'ordine di san Benedetto stato, che io possa avere ogni
particularità di quello apparata; e voi ancora non m'avavate mostrato
che i monaci si debban far dalle femine priemere, come dà digiuni e
dalle vigilie; ma ora che mostrato me l'avete, vi prometto, se questa mi
perdonate, di mai più in ciò non peccare, anzi farò sempre
come io a voi ho veduto fare.
L'abate, che accorto uomo
era, prestamente conobbe costui non solamente aver più di lui saputo, ma
veduto ciò che esso aveva fatto. Perché, dalla sua colpa stessa rimorso,
si vergognò di fare al monaco quello che egli, sì come lui, aveva
meritato. E perdonatogli e impostogli di ciò che veduto aveva silenzio,
onestamente misero la giovinetta di fuori, e poi più volte si dee
credere ve la facesser tornare.
Giornata prima - Novella
quinta
La marchesana di
Monferrato, con un convito di galline e con alquante leggiadre parolette,
reprime il folle amore del re di Francia.
La novella da Dioneo raccontata,
prima con un poco di vergogna punse i cuori delle donne ascoltanti e con onesto
rossore né loro visi apparito ne diedon segno; e poi quella, l'una l'altra
guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando ascoltarono. Ma
venuta di questa la fine, poiché lui con alquante dolci parole ebber morso,
volendo mostrare che simili novelle non fosser tra donne da raccontare, la
reina verso la Fiammetta, che appresso di lui sopra l'erba sedeva, rivolta, che
essa l'ordine seguitasse le comandò. La quale vezzosamente e con lieto
viso a lei riguardando incominciò.
Sì perché mi piace
noi essere entrati a dimostrare con le novelle quanta sia la forza delle belle
e pronte risposte, e sì ancora perché quanto negli uomini è gran
senno il cercar d'amar sempre donna di più alto legnaggio ch'egli non
è, così nelle donne è grandissimo avvedimento il sapersi
guardare dal prendersi dello amore di maggiore uomo ch'ella non è,
m'è caduto nell'animo, donne mie belle, di mostrarvi, nella novella che
a me tocca di dire, come e con opere e con parole una gentil donna se' da
questo guardasse e altrui ne rimovesse
Era il marchese di
Monferrato, uomo d'alto valore, gonfaloniere della Chiesa, oltre mar passato in
un general passaggio da' cristiani fatto con armata mano. E del suo valore
ragionandosi nella corte del re Filippo il Bornio, il quale a quel medesimo
passaggio andar di Francia s'apparecchiava, fu per un cavalier detto non essere
sotto le stelle una simile coppia a quella del marchese e della sua donna; però
che, quanto tra' cavalieri era d'ogni virtù il marchese famoso, tanto la
donna tra tutte l'altre donne del mondo era bellissima e valorosa.
Le quali parole per
sì fatta maniera nell'animo del re di Francia entrarono, che, senza mai
averla veduta, di subito ferventemente la cominciò ad amare e propose di
non volere, al passaggio al quale andava, in mare entrare altrove che a Genova;
acciò che quivi, per terra andando, onesta cagione avesse di dovere
andare la marchesana a vedere, avvisandosi che, non essendovi il marchese, gli
potesse venir fatto di mettere ad effetto il suo disio.
E secondo il pensier fatto
mandò ad esecuzione; per ciò che, mandato avanti ogni uomo, esso
con poca compagnia e di gentili uomini entrò in cammino; e avvicinandosi
alle terre del marchese, un dì davanti mandò a dire alla donna
che la seguente mattina l'attendesse a desinare. La donna, savia e avveduta,
lietamente rispose che questa l'era somma grazia sopra ogni altra e che egli
fosse il ben venuto. E appresso entrò in pensiero che questo volesse
dire, che un così fatto re, non essendovi il marito di lei, la venisse a
visitare; né la 'ngannò in questo l'avviso, cioè che la fama
della sua bellezza il vi traesse. Nondimeno, come valorosa donna dispostasi ad
onorarlo, fattisi chiamare di que' buoni uomini che rimasi v'erano, ad ogni
cosa opportuna con loro consiglio fece ordine dare, ma il convito e le vivande
ella sola volle ordinare. E fatte senza indugio quante galline nella contrada
erano ragunare, di quelle sole varie vivande divisò a' suoi cuochi per
lo convito reale.
Venne adunque il re il
giorno detto, e con gran festa e onore dalla donna fu ricevuto. Il quale, oltre
a quello che compreso aveva per le parole del cavaliere, riguardandola, gli
parve bella e valorosa e costumata, e sommamente se ne maravigliò e
commendolla forte, tanto nel suo disio più accendendosi, quanto da
più trovava esser la donna che la sua passata stima di lei. E dopo alcun
riposo preso in camere ornatissime di ciò che a quelle, per dovere un
così fatto re ricevere, s'appartiene, venuta l'ora del desinare, il re e
la marchesana ad una tavola sedettero, e gli altri secondo la lor
qualità ad altre mense furono onorati.
Quivi essendo il re
successivamente di molti messi servito e di vini ottimi e preziosi, e oltre a ciò
con diletto talvolta la marchesana bellissima riguardando, sommo piacere avea.
Ma pure, venendo l'un messo appresso l'altro, cominciò il re alquanto a
maravigliarsi, conoscendo che quivi, quantunque le vivande diverse fossero, non
per tanto di niuna cosa essere altro che di galline. E come che il re
conoscesse il luogo, là dove era, dovere esser tale che copiosamente di
diverse salvaggine avervi dovesse, e l'avere davanti significata la sua venuta
alla donna spazio l'avesse dato di poter far cacciare; non pertanto, quantunque
molto di ciò si maravigliasse, in altro non volle prender cagione di
doverla mettere in parole, se non delle sue galline, e con lieto viso rivoltosi
verso lei disse:
- Dama, nascono in questo
paese solamente galline senza gallo alcuno
La marchesana, che
ottimamente la dimanda intese, parendole che secondo il suo disidero Domenedio
l'avesse tempo mandato opportuno a poter la sua intenzion dimostrare, al re
domandante, baldanzosamente verso lui rivolta, rispose:
- Monsignor no, ma le femine,
quantunque in vestimenti e in onori alquanto dall'altre variino, tutte
perciò son fatte qui come altrove.
Il re, udite queste parole,
raccolse bene la cagione del convito delle galline e la virtù nascosa
nelle parole; e accorsesi che invano con così fatta donna parole si
gitterebbono, e che forza non v'avea luogo; per che così come
disavvedutamente acceso s'era di lei, così saviamente era da spegnere
per onor di lui il mal concetto fuoco. E senza più motteggiarla, temendo
delle sue risposte, fuori d'ogni speranza desinò; e, finito il desinare,
acciò che col presto partirsi ricoprisse la sua disonesta venuta,
ringraziatala dell'onor ricevuto da lei, accomandandolo ella a Dio, a Genova se
n'andò.
Giornata prima - Novella
sesta
Confonde un valente uomo
con un bel detto la malvagia ipocresia de' religiosi.
Emilia, la quale appresso
la Fiammetta sedea, essendo già stato da tutte commendato il valore e il
leggiadro gastigamento della marchesana fatto al re di Francia, come alla sua
reina piacque, baldanzosamente a dire cominciò.
Né io altresì
tacerò un morso dato da un valente uomo secolare ad uno avaro religioso
con un motto non meno da ridere che da commendare.
Fu adunque, o care giovani,
non è ancora gran tempo, nella nostra città un frate minore
inquisitore della eretica pravità, il quale, come che molto s'ingegnasse
di parere santo e tenero amatore della cristiana fede, sì come tutti
fanno, era non men buono investigatore di chi piena aveva la borsa, che di chi
di scemo nella fede sentisse. Per la quale sollecitudine per avventura gli
venne trovato un buono uomo, assai più ricco di denari che di senno, al
quale, non già per difetto di fede, ma semplicemente parlando, forse da
vino o da soperchia letizia riscaldato, era venuto detto un dì ad una
sua brigata se' avere un vino sì buono che ne berrebbe Cristo.
Il che essendo allo
inquisitore rapportato, ed egli sentendo che gli suoi poderi eran grandi e ben
tirata la borsa, cum gladiis et fustibus impetuosissimamente corse a formargli
un processo gravissimo addosso, avvisando non di ciò alleviamento di
miscredenza nello inquisito, ma empimento di fiorini nella sua mano ne dovesse
procedere, come fece. E fattolo richiedere, lui domandò se vero fosse
ciò che contro di lui era stato detto. Il buono uomo rispose del
sì , e dissegli il modo. A che lo 'nquisitore santissimo e divoto di san
Giovanni Boccadoro disse:
- Dunque hai tu fatto
Cristo bevitore e vago de' vini solenni, come se egli fosse Cinciglione o
alcuno altro di voi bevitori ebriachi e tavernieri? E ora, umilmente parlando,
vuogli mostrare questa cosa molto essere leggiera. Ella non è come ella
ti pare; tu n'hai meritato il fuoco, quando noi vogliamo, come noi dobbiamo,
verso te operare.
E con queste e con altre
parole assai, col viso dell'arme, quasi costui fosse stato epicuro negante la
etternità delle anime, gli parlava. E in brieve tanto lo spaurì
che il buono uomo per certi mezzani gli fece con una buona quantità
della grascia di san Giovanni Boccadoro ugner le mani (la quale molto giova
alle infermità delle pestilenziose avarizie de' cherici, e spezialmente
de' frati minori, che denari non osan toccare) acciò ch'egli dovesse
verso lui misericordiosamente operare.
La quale unzione, sì
come molto virtuosa, avvegna che Galieno non ne parli in alcuna parte delle sue
medicine, sì e tanto adoperò, che il fuoco minacciatogli di
grazia si permutò in una croce; e, quasi al passaggio d'oltremare andar
dovesse, per far più bella bandiera, gialla gliele pose in sul nero. E
oltre a questo, già ricevuti i denari, più giorni appresso di se'
il sostenne, per penitenzia dandogli che egli ogni mattina dovesse udire una
messa in Santa Croce e all'ora del mangiare avanti a lui presentarsi, e poi il
rimanente del giorno quello che più gli piacesse potesse fare.
Il che costui
diligentemente faccendo, avvenne una mattina tra l'altre che egli udì
alla messa uno evangelio, nel quale queste parole si cantavano: - Voi
riceverete per ogn'un cento, e possederete la vita etterna - ; le quali esso
nella memoria fermamente ritenne, e, secondo il comandamento fattogli, ad ora
di mangiare davanti allo inquisitore venendo, il trovò desinare. Il quale
lo 'nquisitore domandò se egli avesse la messa udita quella mattina. Al
quale esso prestamente rispose:
-Messer sì.
A cui lo 'nquisitore disse:
- Udisti tu in quella cosa
niuna della quale tu dubiti o vogline domandare?
- Certo- rispose il buono
uomo- di niuna cosa che io udissi dubito, anzi tutte per fermo le credo vere.
Udìne io bene alcuna che m'ha fatto e fa avere di voi e degli altri
vostri frati grandissima compassione, pensando al malvagio stato che voi di
là nell'altra vita dovrete avere.
Disse allora lo
'nquisitore:
- E qual fu quella parola,
che t'ha mosso ad aver questa compassion di noi?
Il buono uomo rispose:
- Messere, ella fu quella
parola dello evangelio, la qual dice: - Voi riceverete per ogn'un cento-
. Lo inquisitore disse:
- Questo è vero; ma
perché t'ha per ciò questa parola commosso?
- Messere,- rispose il
buono uomo - io vel dirò: poi che io usai qui, ho io ogni dì
veduto dar qui di fuori a molta povera gente, quando una e quando due
grandissime caldaie di broda, la quale a' frati di questo convento e a voi si
toglie sì come soperchia, davanti; per che, se per ogn'una cento vene
fieno rendute di là, voi n'avrete tanta che voi dentro tutti vi dovrete
affogare.
Come che gli altri, che
alla tavola dello inquisitore erano, tutti ridessono, lo 'nquisitore sentendo
trafiggere la lor brodaiuola ipocresia, tutto si turbò; e se non fosse
che biasimo portava di quello che fatto avea, un altro processo gli avrebbe
addosso fatto, per ciò che con ridevol motto lui e gli altri poltroni
aveva morsi; e per bizzarria gli comandò che quello che più gli
piacesse facesse, senza più davanti venirgli.
Giornata prima - Novella
settima
Bergamino, con una novella
di Primasso e dello abate di Clignì, onestamente morde una avarizia
nuova venuta in messer can della Scala.
Mosse la piacevolezza
d'Emilia e la sua novella la reina e ciascun altro a ridere e a commendare il
nuovo avviso del crociato. Ma, poi che le risa rimase furono e racquetato
ciascuno, Filostrato, al qual toccava il novellare, in cotal guisa cominciò
a parlare.
Bella cosa è,
valorose donne, il ferire un segno che mai non si muti, ma quella è
quasi maravigliosa, quando alcuna cosa non usata apparisce di subito, se
subitamente da uno arciere è ferita. La viziosa e lorda vita de'
cherici, in molte cose quasi di cattività fermo segno, senza troppa
difficultà dà di se' da parlare, da mordere e da riprendere a
ciascuno che ciò disidera di fare; e per ciò, come che ben
facesse il valente uomo che lo inquisitore della ipocrita carità de'
frati, che quello danno a' poveri che converrebbe loro dare al porco o gittar
via, trafisse, assai estimo più da lodare colui del quale, tirandomi a
ciò la precedente novella, parlar debbo; il quale messer Cane della
Scala, magnifico signore, d'una subita e disusata avarizia in lui apparita
morse con una leggiadra novella, in altrui figurando quello che di se' e di lui
intendeva di dire; la quale è questa.
Sì come chiarissima
fama quasi per tutto il mondo suona, messer Cane della Scala, al quale in assai
cose fu favorevole la fortuna, fu uno de' più notabili e de' più
magnifici signori che dallo imperadore Federigo secondo in quasi sapesse in Italia.
Il quale, avendo disposto
di fare una notabile e maravigliosa festa in Verona, e a quella molte genti e
di varie parti fossero venute, e massimamente uomini di corte d'ogni maniera,
subito (qual che la cagion si fosse) da ciò si ritrasse, e in parte
provedette coloro che venuti v'erano e licenziolli. Solo uno, chiamato
Bergamino, oltre al credere di chi non lo udì presto parlatore e ornato,
senza essere d'alcuna cosa proveduto o licenzia datagli, si rimase, sperando
che non senza sua futura utilità ciò dovesse essere stato fatto.
Ma nel pensiero di messer Cane era caduto ogni cosa che gli si donasse vie
peggio esser perduta che se nel fuoco fosse stata gittata; né di ciò gli
dicea o facea dire alcuna cosa.
Bergamino dopo alquanti
dì, non veggendosi né chiamare né richiedere a cosa che a suo mestier
partenesse e oltre a ciò consumarsi nello albergo co' suoi cavalli e co'
suoi fanti, incominciò a prender malinconia; ma pure aspettava, non
parendogli ben far di partirsi. E avendo seco portate tre belle e ricche robe,
che donate gli erano state da altri signori, per comparire orrevole alla festa,
volendo il suo oste esser pagato, primieramente gli diede l'una, e appresso,
soprastando ancora molto più, convenne, se più volle col suo oste
tornare, gli desse la seconda; e cominciò sopra la terza a mangiare,
disposto di tanto stare a vedere quanto quella durasse e poi partirsi.
Ora, mentre che egli sopra
la terza roba mangiava, avvenne che egli si trovò un giorno, desinando
messer Cane, davanti da lui assai nella vista malinconoso. Il qual messer Can
veggendo, più per istraziarlo che per diletto pigliare d'alcun suo
detto, disse:
- Bergamino, che hai tu? tu
stai così malinconoso! dinne alcuna cosa.
Bergamino allora, senza
punto pensare, quasi molto tempo pensato avesse, subitamente in acconcio de'
fatti suoi disse questa novella:
- Signor mio, voi dovete
sapere che Primasso fu un gran valente uomo in gramatica e fu oltre ad
ogn'altro grande e presto versificatore, le quali cose il renderono tanto
ragguardevole e sì famoso che, ancora che per vista in ogni parte
conosciuto non fosse, per nome e per fama quasi niuno era che non sapesse chi
fosse Primasso.
Ora avvenne che, trovandosi
egli una volta a Parigi in povero stato, sì come egli il più del
tempo dimorava, per la virtù che poco era gradita da coloro che possono
assai, udì ragionare d'uno abate di Clignì, il quale si crede che
sia il più ricco prelato di sue entrate che abbia la Chiesa di Dio, dal
papa in fuori; e di lui udì dire maravigliose e magnifiche cose in tener
sempre corte e non esser mai ad alcuno, che andasse là dove egli fosse,
negato né mangiare né bere solo che quando l'abate mangiasse il domandasse. La
qual cosa Primasso udendo, sì come uomo che si dilettava di vedere i
valenti uomini e signori, diliberò di volere andare a vedere la
magnificenza di questo abate e domandò quanto egli allora dimorasse
presso a Parigi. A che gli fu risposto che forse a sei miglia ad un suo luogo;
al quale Primasso pensò di potervi essere, movendosi la mattina a buona
ora, ad ora di mangiare.
Fattasi adunque la via
insegnare, non trovando alcun che v'andasse, temette non per isciagura gli
venisse smarrita, e così potere andare in parte dove così tosto
non troveria da mangiare; per che, se ciò avvenisse, acciò che di
mangiare non patisse disagio, seco pensò di portare tre pani, avvisando
che dell'acqua ( come che ella gli piacesse poco) troverebbe in ogni parte. E
quegli messisi in seno, prese il suo cammino, e vennegli sì ben fatto
che avanti ora di mangiare pervenne là dove l'abate era. Ed entrato
dentro andò riguardando per tutto, e veduta la gran moltitudine delle
tavole messe e il grande apparecchio della cucina e l'altre cose per lo
desinare apprestate, fra se' medesimo disse: - Veramente è questi
così magnifico come uom dice - . E stando alquanto intorno a queste cose
attento, il siniscalco dello abate (per ciò che ora era di mangiare)
comandò che l'acqua si desse alle mani; e, data l'acqua, mise ogni uomo
a tavola. E per avventura avvenne che Primasso fu messo a sedere appunto dirimpetto
all'uscio della camera donde l'abate dovea uscire per venire nella sala a
mangiare.
Era in quella corte questa
usanza, che in su le tavole né vino né pane né altre cose da mangiare o da bere
si ponea giammai, se prima l'abate non veniva a sedere alla tavola Avendo
adunque il siniscalco le tavole messe, fece dire all'abate che, qualora gli
piacesse, il mangiare era presto.
L'abate fece aprir la
camera per venire nella sala, e venendo si guardò innanzi, e per ventura
il primo uomo che agli occhi gli corse fu Primasso, il quale assai male era in
arnese e cui egli per veduta non conoscea; e come veduto l'ebbe, incontanente
gli corse nello animo un pensier cattivo e mai più non statovi, e disse
seco: « Vedi a cui io do mangiare il mio!>> E tornandosi addietro,
comandò che la camera fosse serrata e domandò coloro che appresso
lui erano, se alcuno conoscesse quel ribaldo che a rimpetto all'uscio della sua
camera sedeva alle tavole. Ciascuno rispose del no.
Primasso, il quale avea
talento di mangiare, come colui che camminato avea e uso non era di digiunare,
avendo alquanto aspettato e veggendo che lo abate non veniva, si trasse di seno
l'un de' tre pani li quali portati avea, e cominciò a mangiare. L'abate,
poi che alquanto fu stato, comandò ad uno de' suoi famigliari che
riguardasse se partito si fosse questo Primasso.
Il famigliare rispose:
- Messer no, anzi mangia
pane, il quale mostra che egli seco recasse.
Disse allora l'abate:
- Or mangi del suo, se egli
n'ha, ché del nostro non mangerà egli oggi.
Avrebbe voluto l'abate che
Primasso da se' stesso si fosse partito, per ciò che accomiatarlo non
gli pareva far bene. Primasso, avendo l'un pane mangiato, e l'abate non
vegnendo, cominciò a mangiare il secondo; il che similmente all'abate fu
detto, che fatto avea guardare se partito si fosse.
Ultimamente, non venendo
l'abate, Primasso, mangiato il secondo, cominciò a mangiare il terzo; il
che ancora fu allo abate detto, il quale seco stesso cominciò a pensare
e a dire: « Deh questa che novità è oggi che nell'anima m'è
venuta? che avarizia? chente sdegno? e per cui? Io ho dato mangiare il mio,
già è molt'anni, a chiunque mangiare n'ha voluto, senza guardare
se gentile uomo è o villano, povero o ricco. o mercatante o barattiere
stato sia, e ad infiniti ribaldi con l'occhio me l'ho veduto straziare, né mai
nello animo m'entrò questo pensiero che per costui mi c'è oggi
entrato. Fermamente avarizia non mi dee avere assalito per uomo di picciolo
affare, qualche gran fatto dee essere costui che ribaldo mi pare, poscia che così
mi s'è rintuzzato l'animo d'onorarlo>>.
E, così detto, volle
sapere chi fosse, e trovato ch'era Primasso, quivi venuto a vedere della sua
magnificenzia quello che n'aveva udito, il quale avendo l'abate per fama molto
tempo davante per valente uom conosciuto, si vergognò; e, vago di fare
l'ammenda, in molte maniere s'ingegnò d'onorarlo. E appresso mangiare,
secondo che alla sufficienza di Primasso si conveniva, il fe' nobilmente
vestire e, donatigli denari e un pallafreno, nel suo arbitrio rimise l'andare e
lo stare. Di che Primasso contento, rendutegli quelle grazie le quali
potè maggiori, a Parigi, donde a piè partito s'era,
ritornò a cavallo.
Messer Cane, il quale
intendente signore era, senza altra dimostrazione alcuna ottimamente intese
ciò che dir volea Bergamino, e sorridendo gli disse:
- Bergamino, assai
acconciamente hai mostrati i danni tuoi, la tua virtù e la mia avarizia
e quel che da me disideri; e veramente mai più che ora per te da
avarizia assalito non fui; ma io la caccerò con quel bastone che tu
medesimo hai divisato.
E fatto pagare l'oste di
Bergamino, e lui nobilissimamente d'una sua roba vestito, datigli denari e un
pallafreno, nel suo piacere per quella volta rimise l'andare e lo stare.
Giornata prima - Novella
ottava
Guglielmo Borsiere con
leggiadre parole trafigge l'avarizia di messer Erminio de' Grimaldi.
Sedeva appresso Filostrato
Lauretta, la quale, poscia che udito ebbe lodare la 'ndustria di Bergamino e
sentendo a lei convenir dire alcuna cosa, senza alcun comandamento aspettare,
piacevolmente così cominciò a parlare.
La precedente novella, care
compagne, m'induce a voler dire come un valente uomo di corte similemente e non
senza frutto pugnesse d'un ricchissimo mercatante la cupidigia; la quale,
perché l'effetto della passata somigli, non vi dovrà perciò
essere men cara, pensando che bene n'addivenisse alla fine.
Fu adunque in Genova, buon
tempo è passato, un gentile uomo chiamato messere Ermino de' Grimaldi,
il quale (per quello che da tutti era creduto) di grandissime possessioni e di
denari di gran lunga trapassava la ricchezza d'ogni altro ricchissimo cittadino
che allora si sapesse in Italia. E sì come egli di ricchezza ogni altro
avanzava che italico fosse, così d'avarizia e di miseria ogni altro misero
e avaro che al mondo fosse soperchiava oltre misura; per ciò che, non
solamente in onorare altrui teneva la borsa stretta, ma nelle cose opportune
alla sua propria persona, contra il general costume de' genovesi che usi sono
di nobilmente vestire, sosteneva egli, per non spendere, difetti grandissimi, e
similmente nel mangiare e nel bere. Per la qual cosa, e meritamente, gli era
de' Grimaldi caduto il soprannome e solamente messer Ermino Avarizia era da
tutti chiamato.
Avvenne che in questi tempi
che costui, non spendendo, il suo multiplicava, arrivò a Genova un
valente uomo di corte e costumato e ben parlante, il quale fu chiamato
Guiglielmo Borsiere, non miga simile a quelli li quali sono oggi, li quali, non
senza gran vergogna de' corrotti e vituperevoli costumi di coloro li quali al
presente vogliono essere gentili uomini e signor chiamati e reputati, sono
più tosto da dire asini nella bruttura di tutta la cattività de'
vilissimi uomini allevati, che nelle corti. E là dove a que' tempi soleva
essere il lor mestiere e consumarsi la lor fatica in trattar paci, dove guerre
o sdegni tra gentili uomini fosser nati, o trattar matrimoni, parentadi e
amistà, e con belli motti e leggiadri ricreare gli animi degli
affaticati e sollazzar le corti, e con agre riprensioni, sì come padri,
mordere i difetti de' cattivi, e questo con premi assai leggieri; oggidì
in rapportar male dall'uno all'altro, in seminare zizzania, in dire
cattività e tristizie, e, che è peggio, in farle nella presenza
degli uomini, in rimproverare i mali, le vergogne e le tristezze vere e non
vere l'uno all'altro, e con false lusinghe gli animi gentili alle cose vili e
scelerate ritrarre, s'ingegnano il lor tempo di consumare; e colui è
più caro avuto, e più da' miseri e scostumati signori onorato e
con premi grandissimi essaltato, che più abominevoli parole dice o fa
atti: gran vergogna e biasimevole del mondo presente, e argomento assai
evidente che le virtù ,di qua giù dipartitesi, hanno nella feccia
de' vizi i miseri viventi abbandonati.
Ma, tornando a ciò
che io cominciato avea, da che giusto sdegno un poco m'ha trasviata più
che io non credetti dico che il già detto Guiglielmo da tutti i gentili
uomini di Genova fu onorato e volentieri veduto. Il quale, essendo dimorato
alquanti giorni nella città e avendo udite molte cose della miseria e
della avarizia di messer Ermino, il volle vedere.
Messer Ermino aveva
già sentito come questo Guiglielmo Borsiere era valente uomo, e pure
avendo in se', quantunque avaro fosse, alcuna favilluzza di gentilezza, con
parole assai amichevoli e con lieto viso il ricevette, e con lui entrò
in molti e vari ragionamenti, e ragionando il menò seco, insieme con
altri genovesi che con lui erano, in una sua casa nuova, la quale fatta avea
fare assai bella; e, dopo avergliele tutta mostrata, disse:
- Deh, messer Guiglielmo,
voi che avete e vedute e udite molte cose, saprestemi voi insegnare cosa alcuna
che mai più non fosse stata veduta, la quale io potessi far dipignere
nella sala di questa mia casa?
A cui Guiglielmo, udendo il
suo mal conveniente parlare, rispose:
- Messere, cosa che non
fosse mai stata veduta non vi crederrei io sapere insegnare, se ciò non
fosser già starnuti o cose a quegli somiglianti; ma, se vi piace, io ve
ne insegnerò bene una che voi non credo che vedeste giammai.
Messere Ermino disse:
- Deh, io ve ne priego,
ditemi quale è dessa- ; non aspettando lui quello dover rispondere che
rispose.
A cui Guiglielmo allora
prestamente disse:
- Fateci dipignere la
Cortesia.
Come messere Ermino
udì questa parola, così subitamente il prese una vergogna tale,
che ella ebbe forza di fargli mutare animo quasi tutto in contrario a quello
che infino a quella ora aveva avuto, e disse:
- Messer Guiglielmo, io la
ci farò dipignere in maniera che mai né voi né altri con ragione mi potrà
più dire che io non l'abbia veduta e conosciuta.
E da questo dì
innanzi (di tanta virtù fu la parola da Guiglielmo detta) fu il
più liberale e il più grazioso gentile uomo e quello che
più e cittadini e forestieri onorò che altro che in Genova fosse
a' tempi suoi.
Giornata prima - Novella
nona
Il re di Cipri, da una
donna di Guascogna trafitto, di cattivo valoroso diviene.
Ad Elissa restava l'ultimo
comandamento della reina; la quale, senza aspettarlo, tutta festevole
cominciò.
Giovani donne, spesse volte
già addivenne che quello che varie riprensioni e molte pene date ad
alcuno non hanno potuto in lui adoperare, una parola molte volte per accidente,
non che ex proposito, detta l'ha operato. Il che assai bene appare nella
novella raccontata dalla Lauretta, e io ancora con un'altra assai brieve ve lo
intendo dimostrare; perché , con ciò sia cosa che le buone sempre possan
giovare, con attento animo son da ricogliere, chi che d'esse sia il dicitore.
Dico adunque che né tempi
del primo re di Cipri, dopo il conquisto fatto della Terra Santa da
Gottifrè di Buglione, avvenne che una gentil donna di Guascogna in
pellegrinaggio andò al Sepolcro, donde tornando, in Cipri arrivata, da
alcuni scelerati uomini villanamente fu oltraggiata. Di che ella senza alcuna
consolazion dolendosi, pensò d'andarsene a richiamare al re; ma detto le
fu per alcuno che la fatica si perderebbe, perciò che egli era di
sì rimessa vita e da sì poco bene, che, non che egli l'altrui
onte con giustizia vendicasse, anzi infinite con vituperevole viltà a
lui fattene sosteneva; in tanto che chiunque avea cruccio alcuno, quello col
fargli alcuna onta o vergogna sfogava.
La qual cosa udendo la
donna, disperata della vendetta, ad alcuna consolazione della sua noia propose
di voler mordere la miseria del detto re; e andatasene piagnendo davanti a lui,
disse:
- Signor mio, io non vengo
nella tua presenza per vendetta che io attenda della ingiuria che m'è
stata fatta, ma in sodisfacimento di quella ti priego che tu m'insegni come tu
sofferi quelle le quali io intendo che ti son fatte, acciò che, da te
apparando, io possa pazientemente la mia comportare; la quale, sallo Iddio, se
io far lo potessi, volentieri la ti donerei, poi così buon portatore ne
se'.
Il re, infino allora stato
tardo e pigro, quasi dal sonno si risvegliasse, cominciando dalla ingiuria
fatta a questa donna, la quale agramente vendicò, rigidissimo
persecutore divenne di ciascuno che contro all'onore della sua corona alcuna
cosa commettesse da indi innanzi.
Giornata prima - Novella
decima
Maestro Alberto da Bologna
onestamente fa vergognare una donna, la quale lui d'esser di lei innamorato
voleva far vergognare.
Restava, tacendo già
Elissa, l'ultima fatica del novellare alla reina, la quale, donnescamente cominciando
a parlare, disse.
Valorose giovani, come né
lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de'
verdi prati, così de' laudevoli costumi e de' ragionamenti piacevoli
sono i leggiadri motti. Li quali, per ciò che brievi sono, molto meglio
alle donne stanno che agli uomini, in quanto più alle donne che agli
uomini il molto parlare e lungo, quando senza esso si possa fare, si disdisce,
come che oggi poche o niuna donna rimasa ci sia, la quale o ne 'ntenda alcuno
leggiadro o a quello, se pur lo 'ntendesse, sappia rispondere: general vergogna
e di noi e di tutte quelle che vivono. Per ciò che quella virtù
che già fu nell'anime delle passate hanno le moderne rivolta in
ornamenti del corpo; e colei la quale si vede indosso li panni più
screziati e più vergati e con più fregi, si crede dovere essere
da molto più tenuta e più che l'altre onorata, non pensando che,
se fosse chi addosso o in dosso gliele ponesse, uno asino ne porterebbe troppo
più che alcuna di loro; né per ciò più da onorar sarebbe
che uno asino.
Io mi vergogno di dirlo,
per ciò che contro all'altre non posso dire che io contro a me non dica:
queste così fregiate, così dipinte, così screziate, o come
statue di marmo mutole e insensibili stanno, o sì rispondono, se sono
addomandate, che molto sarebbe meglio l'avere taciuto; e fannosi a credere che
da purità d'animo proceda il non saper tra le donne e co' valenti uomini
favellare, e alla loro milensaggine hanno posto nome onestà, quasi niuna
donna onesta sia se non colei che colla fante o colla lavandaia o colla sua
fornaia favella: il che se la natura avesse voluto, come elle si fanno a
credere, per altro modo loro avrebbe limitato il cinguettare.
E il vero che, così
come nell'altre cose, è in questa da riguardare e il tempo e il luogo e
con cui si favella; per ciò che talvolta avviene che, credendo alcuna
donna o uomo con alcuna paroletta leggiadra fare altrui arrossare, non avendo
bene le sue forze con quelle di quel cotale misurate, quello rossore che in
altrui ha creduto gittare sopra se' l'ha sentito tornare. Per che, acciò
che voi vi sappiate guardare, e oltre a questo acciò che per voi non si
possa quello proverbio intendere che comunemente si dice per tutto, cioè
che le femine in ogni cosa sempre pigliano il peggio, questa ultima novella di
quelle d'oggi, la quale a me tocca di dover dire, voglio venerenda ammaestrate;
acciò che come per nobiltà d'animo dall'altre divise siete,
così ancora per eccellenzia di costumi separate dall'altre vi dimostriate.
Egli non sono ancora molti
anni passati, che in Bologna fu un grandissimo medico e di chiara fama quasi a
tutto 'l mondo, e forse ancora vive, il cui nome fu maestro Alberto. Il quale,
essendo già vecchio di presso a settanta anni, tanta fu la
nobiltà del suo spirito che, essendo già del corpo quasi ogni
natural caldo partito, in se' non schifò di ricevere l'amorose fiamme;
perché avendo veduta ad una festa una bellissima donna vedova, chiamata,
secondo che alcuni dicono, madonna Malgherida de' Ghisolieri, e piaciutagli
sommamente, non altrimenti che un giovinetto, quelle nel maturo petto
ricevette, in tanto che a lui non pareva quella notte ben riposare che il
dì precedente veduto non avesse il vago e dilicato viso della bella
donna.
E per questo
incominciò a continuare, quando a piè e quando a cavallo, secondo
che più in destro gli venia, la via davanti alla casa di questa donna.
Per la qual cosa ed ella e molte altre donne s'accorsero della cagione del suo
passare, e più volte insieme ne motteggiarono di vedere uno uomo,
così antico d'anni e di senno, innamorato, quasi credessero questa
passione piacevolissima d'amore solamente nelle sciocche anime de' giovani e
non in altra parte capere e dimorare.
Per che, continuando il
passare del maestro Alberto, avvenne un giorno di festa che, essendo questa
donna con molte altre donne a sedere davanti alla sua porta e avendo di lontano
veduto il maestro Alberto verso loro venire, con lei insieme tutte si proposero
di riceverlo e di fargli onore, e appresso di motteggiarlo di questo suo
innamoramento; e così fecero. Per ciò che, levatesi tutte e lui
invitato, in una fresca corte il menarono, dove di finissimi vini e confetti
fecer venire; e al fine con assai belle e leggiadre parole come questo potesse
essere, che egli di questa bella donna fosse innamorato, il domandarono,
sentendo esso lei da molti belli, gentili e leggiadri giovani essere amata.
Il maestro, sentendosi
assai cortesemente pugnere, fece lieto viso e rispose:
- Madonna, che io ami,
questo non dee esser maraviglia ad alcuno savio, e spezialmente voi,
però che voi il valete. E come che agli antichi uomini sieno
naturalmente tolte le forze le quali agli amorosi esercizi si richieggiono, non
è per ciò lor tolta la buona volontà né lo intendere
quello che sia da essere amato, ma tanto più dalla natura conosciuto,
quanto essi hanno più di conoscimento che i giovani. La speranza la
quale mi muove che io vecchio ami voi amata da molti giovani, è questa:
io sono stato più volte già là dove io ho veduto
merendarsi le donne e mangiare lupini e porri; e come che nel porro niuna cosa
sia buona, pur men reo e più piacevole alla bocca è il capo di
quello, il quale voi generalmente, da torto appetito tirate, il capo vi tenete
in mano, e manicate le frondi, le quali non solamente non sono da cosa alcuna,
ma son di malvagio sapore. E che so io, madonna, se nello eleggere degli amanti
voi vi faceste il simigliante? E se voi il faceste, io sarei colui che eletto
sarei da voi, e gli altri cacciati via.
La gentil donna insieme
coll'altre alquanto vergognandosi disse:
- Maestro, assai bene e
cortesemente gastigate n'avete della nostra presuntuosa impresa; tuttavia il
vostro amor m'è caro, sì come di savio e valente uomo esser dee;
e per ciò, salva la mia onestà, come a vostra cosa ogni vostro piacere
m'imponete sicuramente.
Il maestro, levatosi co'
suoi compagni, ringraziò la donna, e ridendo e con festa da lei preso
commiato, si partì. Così la donna, non guardando cui
motteggiasse, credendo vincere, fu vinta: di che voi, se savie sarete, ottimamente
vi guarderete.
Giornata prima -
Conclusione
Già era il sole
inchinato al vespro, e in gran parte il caldo diminuito, quando le novelle
delle giovani donne e de' tre giovani si trovarono esser finite. Per la qual
cosa la loro reina piacevolmente disse:
- Omai, care compagne,
niuna cosa resta più a fare al mio reggimento per la presente giornata,
se non darvi reina nuova, la quale di quella che è a venire, secondo il
suo giudicio, la sua vita e la nostra ad onesto diletto disponga; e quantunque
il dì paia di qui alla notte durare, perciò che chi alquanto non
prende di tempo avanti non pare che ben si possa provedere per l'avvenire, e
acciò che quello che la reina nuova dilibererà esser per
domattina opportuno si possa preparare, a questa ora giudico doversi le
seguenti giornate incominciare. E perciò a reverenza di Colui a cui
tutte le cose vivono e consolazione di noi, per questa seconda giornata
Filomena, discretissima giovane, reina guiderà il nostro regno.
E così detto, in
piè levatasi e trattasi la ghirlanda dello alloro, a lei reverente la
mise; la quale essa prima e appresso tutte l'altre e i giovani similmente
salutaron come reina e alla sua signoria piacevolmente s'offersero.
Filomena, alquanto per
vergogna arrossata veggendosi coronata del regno e ricordandosi delle parole
poco avanti dette da Pampinea, acciò che milensa non paresse, ripreso
l'ardire, primieramente gli ufici dati da Pampinea riconfermò, e dispose
quello che per la seguente mattina e per la futura cena fare si dovesse, quivi
dimorando dove erano; e appresso così cominciò a parlare:
- Carissime compagne,
quantunque Pampinea, per sua cortesia più che per mia virtù,
m'abbia di voi tutti fatta reina, non sono io per ciò disposta nella
forma del nostro vivere dovere solamente il mio giudicio seguire, ma col mio il
vostro insieme; e acciò che quello che a me par di fare conosciate, e
per consequente aggiugnere e menomar possiate a vostro piacere, con poche
parole ve lo intendo di dimostrare. Se io ho ben riguardato alle maniere oggi
da Pampinea tenute, egli me le pare avere parimente laudevoli e dilettevoli
conosciute; e per ciò infino a tanto che elle, o per troppa continuanza
o per altra cagione, non ci divenisser noiose, quelle non giudico da mutare.
Dato adunque ordine a
quello che abbiamo già a fare cominciato, quinci levatici, alquanto
n'andrem sollazzando, e come il sole sarà per andar sotto, ceneremo per
lo fresco, e, dopo alcune canzonette e altri sollazzi, sarà ben fatto
l'andarsi a dormire. Domattina, per lo fresco levatici, similmente in alcuna
parte n'andremo sollazzando, come a ciascuno sarà più a grado di
fare, e, come oggi avem fatto, così all'ora debita torneremo a mangiare,
balleremo, e da dormire levatici, come oggi state siamo, qui al novellar torneremo,
nel quale mi par grandissima parte di piacere e d'utilità similmente
consistere.
È il vero che quello
che Pampinea non potè fare, per lo esser tardi eletta al reggimento, io
il voglio cominciare a fare, cioè a ristrignere dentro ad alcun termine
quello di che dobbiamo novellare e davanti mostrarlovi, acciò che
ciascuno abbia spazio di poter pensare ad alcuna bella novella sopra la data
proposta contare; la quale, quando questo vi piaccia, sia questa: che, con
ciò sia cosa che dal principio del mondo gli uomini sieno stati da
diversi casi della fortuna menati, e saranno infino alla fine, ciascun debba
dire sopra questo: chi, da diverse cose infestato, sia, oltre alla sua
speranza, riuscito a lieto fine.
Le donne e gli uomini
parimente tutti questo ordine commendarono e quello dissero di seguire. Dioneo
solamente, tutti gli altri tacendo già, disse:
- Madonna, come tutti
questi altri hanno detto, così dico io sommamente esser piacevole e
commendabile l'ordine dato da voi; ma di spezial grazia vi chieggio un dono, il
quale voglio che mi sia confermato per infino a tanto che la nostra compagnia
durerà, il quale è questo: che io a questa legge non sia
costretto di dover dire novella secondo la proposta data, se io non
vorrò, ma quale più di dire mi piacerà. E acciò che
alcun non creda che io questa grazia voglia sì come uomo che delle
novelle non abbia alle mani, infino da ora son contento d'esser sempre l'ultimo
che ragioni.
La reina, la quale lui e
sollazzevole uomo e festevole conoscea e ottimamente si avvisò questo
lui non chiedere se non per dovere la brigata, se stanca fosse del ragionare,
rallegrare con alcuna novella da ridere, col consentimento degli altri
lietamente la grazia gli fece.
E da seder levatasi, verso
un rivo d'acqua chiarissima, il quale d'una montagnetta discendeva in una valle
ombrosa da molti arbori fra vive pietre e verdi erbette, con lento passo se
n'andarono. Quivi, scalze e colle braccia nude per l'acqua andando,
cominciarono a prendere vari diletti fra se' medesime. E appressandosi l'ora
della cena, verso il palagio tornatesi, con diletto cenarono.
Dopo la qual cena, fatti
venir gli strumenti, comandò la reina che una danza fosse presa, e
quella menando la Lauretta, Emilia cantasse una canzone, dal leuto di Dioneo
aiutata. Per lo qual comandamento Lauretta prestamente prese una danza, e
quella menò , cantando Emilia la seguente canzone amorosamente:
Io son sì vaga della
mia bellezza,
che d'altro amor giammai
non curerò, né credo
aver vaghezza.
Io veggio in quella,
ogn'ora ch'io mi specchio,
quel ben che fa contento lo
'ntelletto,
né accidente nuovo o
pensier vecchio
mi può privar di si
caro diletto.
Qual altro dunque piacevole
oggetto
potrei veder giammai,
che mi mettesse in cuor
nuova vaghezza?
Non fugge questo ben,
qualor disio
di rimirarlo in mia
consolazione;
anzi si fa incontro al
piacer mio
tanto soave a sentir, che
sermone
dir nol poria, ne prendere
intenzione
d'alcun mortal giammai,
che non ardesse di cotal
vaghezza.
E io, che ciascun'ora
più m'accendo,
quanto più fiso gli
occhi tengo in esso,
tutta mi dono a lui, tutta
mi rendo,
gustando già di
ciò ch'el m'ha promesso,
e maggior gioia spero
più da presso
sì fatta, che
giammai
simil non si sentì
qui di vaghezza.
Questa ballatetta finita,
alla qual tutti lietamente aveano risposto, ancor che alcuni molto alle parole
di quella pensar facesse, dopo alcune altre carolette fatte, essendo già
una particella della brieve notte passata, piacque alla reina di dar fine alla
Giornata prima; e, fatti i torchi accendere, comandò che ciascuno infino
alla seguente mattina s'andasse a riposare; per che ciascuno, alla sua camera
tornatosi, così fece.
Finisce la giornata prima
del Decameron
Incomincia la seconda
giornata, nella quale. sotto il reggimento di Filomena, sl ragiona di chi, da
diverse cose infestato, sia, oltre alla sua speranza, riuscito a lieto fine.
Giornata seconda -
Introduzione
Già per tutto aveva
il sol recato colla sua luce il nuovo giorno e gli uccelli, su per gli verdi
rami cantando piacevoli versi, ne davano agli orecchi testimonianza, quando
parimente tutte le donne e i tre giovani levatisi ne'giardini se n'entrarono e
le rugiadose erbe con lento passo scalpitando, d'una parte in un'altra, belle
ghirlande faccendosi, per lungo spazio diportando s'andarono. E sì come
il trapassato giorno avean fatto, così fecero il presente: per lo fresco
avendo mangiato, dopo alcun ballo s'andarono a riposare, e da quello appresso
la nona levatisi, come alla loro reina piacque, nel fresco pratello venuti, a
lei dintorno si posero a sedere.
Ella, la quale era formosa
e di piacevole aspetto molto, della sua ghirlanda dello alloro coronata,
alquanto stata e tutta la sua compagnia riguardata nel viso, a Neifile
comandò che alle future novelle con una desse principio; la quale, senza
scusa alcuna fare, così lieta cominciò a parlare.
Giornata seconda - Novella
prima
Martellino, infignendosi
attratto, sopra santo Arrigo fa vista di guarire, e, conosciuto il suo inganno,
è battuto, e poi, preso e in pericolo venuto d'esser impiccato per la
gola, ultimamente scampa.
Spesse volte, carissime
donne, avvenne che chi altrui s'è di beffare ingegnato, e massimamente
quelle cose che sono da reverire, s'è colle beffe e talvolta col danno di
sé solo ritrovato. Il che, acciò che io al comandamento della reina
ubbidisca e principio dea con una mia novella alla proposta, intendo di
raccontarvi quello che prima sventuratamente, e poi fuori di tutto il suo
pensiero assai felicemente, ad un nostro cittadino avvenisse.
Era, non è ancora
lungo tempo passato, un tedesco a Trivigi, chiamato Arrigo, il quale, povero
uomo essendo, di portar pesi a prezzo serviva chi il richiedeva; e, con questo,
uomo di santissima vita e di buona era tenuto da tutti. Per la qual cosa, o
vero o non vero che si fosse, morendo egli, adivenne, secondo che i trivigiani
affermano, che nell'ora della sua morte le campane della maggior chiesa di
Trivigi tutte, senza essere da alcuno tirate, cominciarono a sonare. Il che in
luogo di miracolo avendo, questo Arrigo esser santo dicevano tutti; e concorso
tutto il popolo della città alla casa nella quale il suo corpo giaceva,
quello a guisa d'un corpo santo nella chiesa maggiore ne portarono, menando
quivi zoppi attratti e ciechi e altri di qualunque infermità o difetto
impediti, quasi tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani.
In tanto tumulto e
discorrimento di popolo, avvenne che in Trivigi giunsero tre nostri cittadini,
de'quali l'uno era chiamato Stecchi, l'altro Martellino e il terzo Marchese,
uomini li quali, le corti de'signori visitando, di contraffarsi e con nuovi
atti contraffacendo qualunque altro uomo li veditori sollazzavano. Li quali
quivi non essendo stati giammai, veggendo correre ogni uomo, si maravigliarono,
e udita la cagione per che ciò era, disiderosi divennero d'andare a
vedere. E poste le lor cose ad uno albergo, disse Marchese:
- Noi vogliamo andare a
veder questo santo; ma io per me non veggio come noi vi ci possiam pervenire,
per ciò che io ho inteso che la piazza è piena di tedeschi e
d'altra gente armata, la quale il signor di questa terra, acciò che
romor non si faccia, vi fa stare; e oltre a questo la chiesa, per quello che si
dica, è sì piena di gente che quasi niuna persona più vi
può entrare.
Martellino allora, che di
veder questa cosa disiderava, disse:
- Per questo non rimanga;
ché di pervenire infino al corpo santo troverrò io ben modo.
Disse Marchese:
- Come?
Rispose Martellino:
- Dicolti. Io mi
contraffarò a guisa d'uno attratto, e tu dall'un lato e Stecchi
dall'altro, come se io per me andar non potessi, mi verrete sostenendo,
faccendo sembianti di volermi là menare acciò che questo santo mi
guarisca; egli non sarà alcuno che veggendoci non ci faccia luogo, e
lascici andare. A Marchese e a Stecchi piacque il modo; e, senza alcuno indugio
usciti fuori dello albergo, tutti e tre in un solitario luogo venuti,
Martellino si storse in guisa le mani, le dita e le braccia e le gambe, e oltre
a questo la bocca e gli occhi e tutto il viso, che fiera cosa pareva a vedere;
né sarebbe stato alcuno che veduto l'avesse, che non avesse detto lui veramente
esser tutto della persona perduto rattratto. E preso così fatto da
Marchese e da Stecchi, verso la chiesa si dirizzarono, in vista tutti pieni di
pietà, umilemente e per lo amor di Dio domandando a ciascuno che dinanzi
lor si parava, che loro luogo facesse; il che agevolmente impetravano; e in
brieve, riguardati da tutti, e quasi per tutto gridandosi -fa luogo, fa luogo-,
là pervennero ove il corpo di santo Arrigo era posto; e da certi gentili
uomini, che v'erano dattorno, fu Martellino prestamente preso e sopra il corpo
posto, acciò che per quello il beneficio della sanità
acquistasse.
Martellino, essendo tutta
la gente attenta a vedere che di lui avvenisse, stato alquanto,
cominciò, come colui che ottimamente far lo sapeva, a far sembiante di
distendere l'uno dediti, e appresso la mano, e poi il braccio, e così
tutto a venirsi distendendo. Il che veggendo la gente, sì gran romore in
lode di santo Arrigo facevano che i tuoni non si sarieno potuti udire.
Era per avventura un
fiorentino vicino a questo luogo, il quale molto bene conoscea Martellino, ma
per l'essere così travolto quando vi fu menato non lo avea conosciuto;
il quale, veggendolo ridirizzato e riconosciutolo, subitamente cominciò
a ridere e a dire:
- Domine, fallo tristo! chi
non avrebbe creduto, veggendol venire, che egli fosse stato attratto da dovero?
Queste parole udirono
alcuni trivigiani, li quali incontanente il domandarono:
- Come! Non era costui
attratto?
A'quali il fiorentino
rispose:
- Non piaccia a Dio! egli
è sempre stato diritto come è qualunque di noi, ma sa meglio che
altro uomo, come voi avete potuto vedere, far queste ciance di contraffarsi in
qualunque forma vuole.
Come costoro ebbero udito
questo, non bisognò più avanti; essi si fecero per forza innanzi
e cominciarono a gridare:
- Sia preso questo
traditore e beffatore di Dio e de'santi, il quale, non essendo attratto, per
ischernire il nostro santo e noi, qui a guisa d'attratto è venuto.
E così dicendo il
pigliarono, e giù del luogo dove era il tirarono, e presolo per li
capelli e stracciatigli tutti i panni in dosso, gli cominciarono a dare delle
pugna e de'calci; né parea a colui esser uomo, che a questo far non correa.
Martellino gridava mercé per Dio e quanto poteva s'aiutava; ma ciò era
niente: la calca gli multiplicava ogni ora addosso maggiore.
La qual cosa veggendo
Stecchi e Marchese, cominciarono fra sé a dire che la cosa stava male, e di sé
medesimi dubitando, non ardivano ad aiutarlo; anzi con gli altri insieme
gridavano ch'el fosse morto, avendo nondimeno pensiero tuttavia come trarre il
potessero delle mani del popolo. Il quale fermamente l'avrebbe ucciso, se uno
argomento non fosse stato, il qual Marchese subitamente prese; che, essendo ivi
di fuori la famiglia tutta della signoria, Marchese, come più tosto
potè, n'andò a colui che in luogo del podestà v'era, e
disse:
- Mercé per Dio! egli
è qua un malvagio uomo che m'ha tagliata la borsa con ben cento fiorini
d'oro; io vi priego che voi il pigliate, sì che io riabbia il mio.
Subitamente, udito questo,
ben dodici de'sergenti corsero là dove il misero Martellino era senza
pettine carminato, e alle maggior fatiche del mondo rotta la calca, loro tutto
pesto e tutto rotto il trassero delle mani e menaronnelo a palagio; dove molti
seguitolo che da lui si tenevano scherniti, avendo udito che per tagliaborse
era stato preso, non parendo loro avere alcuno altro più giusto titolo a
fargli dar la mala ventura, similemente cominciarono a dire , ciascuno da lui
essergli stata tagliata la borsa.
Le quali cose udendo il
giudice del podestà, il quale era un ruvido uomo, prestamente da parte
menatolo, sopra ciò 'ncominciò ad esaminare. Ma Martellino rispondea
motteggiando, quasi per niente avesse quella presura; di che il giudice
turbato, fattolo legare alla colla, parecchie tratte delle buone gli fece dare
con animo di fargli confessare ciò che coloro dicevano, per farlo poi
appiccare per la gola. Ma poi che egli fu in terra posto, domandandolo il
giudice se ciò fosse vero che coloro incontro a lui dicevano, non
valendogli il dire di no, disse:
- Signor mio, io son presto
a confessarvi il vero, ma fatevi a ciascun che mi accusa dire quando e dove io
gli tagliai la borsa, e io vi dirò quello che io avrò fatto, e
quel che no.
Disse il giudice:
- Questo mi piace-; e
fattine alquanti chiamare, l'uno diceva che gliele avea tagliata otto dì
eran passati, l'altro sei, l'altro quattro, e alcuni dicevano quel dì
stesso.
Il che udendo Martellino,
disse:
- Signor mio, essi mentono
tutti per la gola; e che io dica il vero, questa pruova ve ne posso fare, che
così non fossi io mai in questa terra entrato, come io mal non ci fui,
se non da poco fa in qua; e come io giunsi, per mia disavventura andai a vedere
questo corpo santo, dove io sono stato pettinato come voi potete vedere; e che
questo che io dico sia vero, ve ne può far chiaro l'uficiale del signore
il quale sta alle presentagioni, e il suo libro, e ancora l'oste mio. Per che,
se così trovate come io vi dico, non mi vogliate ad instanzia di questi
malvagi uomini straziare e uccidere.
Mentre le cose erano in
questi termini, Marchese e Stecchi, li quali avevan sentito che il giudice del
podestà fieramente contro a lui procedeva, e già l'aveva collato,
temetter forte, seco dicendo: "Male abbiam procacciato; noi abbiamo costui
tratto della padella, e gittatolo nel fuoco". Per che, con ogni
sollecitudine dandosi attorno, e l'oste loro ritrovato, come il fatto era gli
raccontarono. Di che esso ridendo, gli menò ad un Sandro Agolanti, il
quale in Trivigi abitava e appresso al signore avea grande stato, e ogni cosa
per ordine dettagli, con loro insieme il pregò che de'fatti di
Martellino gli tenesse.
Sandro, dopo molte risa, andatosene
al signore, impetrò che per Martellino fosse mandato, e così fu.
Il quale coloro che per lui andarono trovarono ancora in camicia dinanzi al
giudice, e tutto smarrito e pauroso forte, perciò che il giudice niuna
cosa in sua scusa voleva udire; anzi, per avventura avendo alcuno odio né
fiorentini, del tutto era disposto a volerlo fare impiccar per la gola, e in
niuna guisa rendere il voleva al signore, infino a tanto che costretto non fu
di renderlo a suo dispetto. Al quale poiché egli fu davanti, e ogni cosa per
ordine dettagli, porse prieghi che in luogo di somma grazia via il lasciasse
andare; per ciò che, infino che in Firenze non fosse, sempre gli
parrebbe il capestro aver nella gola. Il signore fece grandissime risa di
così fatto accidente; e fatta donare una roba per uomo, oltre alla
speranza di tutti e tre di così gran pericolo usciti, sani e salvi se ne
tornarono a casa loro.
Giornata seconda - Novella
seconda
Rinaldo d'Esti, rubato,
capita a Castel Guiglielmo ed è albergato da una donna vedova e, de'suoi
danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua.
Degli accidenti di
Martellino da Neifile raccontati senza modo risero le donne, e massimamente
tra'giovani Filostrato, al quale, per ciò che appresso di Neifile sedea,
comandò la reina che novellando la seguitasse. Il quale senza indugio
alcuno incominciò.
Belle donne, a raccontarsi
mi tira una novella di cose catoliche e di sciagure e d'amore in parte
mescolata, la quale per avventura non fia altro che utile avere udita; e spezialmente
a coloro li quali per li dubbiosi paesi d'amore sono camminanti, né quali, chi
non ha detto il paternostro di san Giuliano, spesse volte, ancora che abbia
buon letto, alberga male.
Era adunque, al tempo del
marchese Azzo da Ferrara, un mercatante chiamato Rinaldo d'Esti per sue bisogne
venuto a Bologna; le quali avendo fornite e a casa tornandosi, avvenne che,
uscito di Ferrara e cavalcando verso Verona, s'abbattè in alcuni li
quali mercatanti parevano ed erano masnadieri e uomini di malvagia vita e
condizione, con li quali ragionando incautamente s'accompagnò.
Costoro, veggendol
mercatante e stimando lui dover portar danari, seco diliberarono che, come
prima tempo si vedessero, di rubarlo; e perciò, acciò che egli
niuna suspezion prendesse, come uomini modesti e di buona condizione, pure
d'oneste cose e di lealtà andavano con lui favellando, rendendosi, in
ciò che potevano e sapevano, umili e benigni verso di lui; per che egli
di avergli trovati si reputava in gran ventura, per ciò che solo era con
uno suo fante a cavallo. E così camminando, d'una cosa in altra, come né
ragionamenti addiviene, trapassando, caddero in sul ragionare delle orazioni
che gli uomini fanno a Dio; e l'un de'masnadieri, che erano tre, disse verso
Rinaldo:
- E voi, gentile uomo, che
orazione usate di dir camminando?
Al quale Rinaldo rispose:
- Nel vero io sono uomo di
queste cose assai materiale e rozzo, e poche orazioni ho per le mani, sì
come colui che mi vivo all'antica e lascio correr due soldi per ventiquattro
denari; ma nondimeno ho sempre avuto in costume camminando di dir la mattina,
quando esco dell'albergo, un paternostro e una avemaria per l'anima del padre e
della madre di san Giuliano, dopo il quale io priego Iddio e lui che la
seguente notte mi deano buono albergo. E assai volte già de'miei
dì sono stato camminando in gran pericoli, de'quali tutti scampato, pur
sono la notte poi stato in buon luogo e bene albergato; per che io porto ferma
credenza che san Giuliano, a cui onore io il dico, m'abbia questa grazia impetrata
da Dio; né mi parrebbe il dì ben potere andare, né dovere la notte
vegnente bene arrivare, che io non l'avessi la mattina detto.
A cui colui, che domandato
l'avea, disse:
- E istamane dicestel voi?
A cui Rinaldo rispose:
- Sì bene.
Allora quegli che già
sapeva come andar doveva il fatto, disse seco medesimo: "Al bisogno ti fia
venuto; ché, se fallito non ci viene, per mio avviso tu albergherai pur
male"; e poi gli disse:
- Io similmente ho
già molto camminato, e mai nol dissi, quantunque io l'abbia a molti
molto già udito commendare, né giammai non m'avvenne che io per
ciò altro che bene albergassi; e questa sera per avventura ve ne potrete
avvedere chi meglio albergherà, o voi che detto l'avete o io che non
l'ho detto. Bene è il vero che io uso in luogo di quello il Dirupisti, o
la 'ntemerata, o il Deprofundi, che sono, secondo che una mia avola mi soleva
dire, di grandissima virtù .
E così di varie cose
parlando e al lor cammin procedendo, e aspettando luogo e tempo al loro
malvagio proponimento, avvenne che, essendo già tardi, di là da
Castel Guiglielmo, al valicare d'un fiume, questi tre, veggendo l'ora tarda e
il luogo solitario e chiuso, assalitolo, il rubarono, e lui a piè e in
camicia lasciato, partendosi dissero:
- Va e sappi se il tuo san
Giuliano questa notte ti darà buono albergo, ché il nostro il
darà bene a noi -; e, valicato il fiume, andaron via.
Il fante di Rinaldo
veggendolo assalire, come cattivo, niuna cosa al suo aiuto adoperò, ma,
volto il cavallo sopra il quale era, non si ritenne di correre sì fu a
Castel Guiglielmo, e in quello, essendo già sera, entrato, senza darsi
altro impaccio, albergò. Rinaldo rimaso in camicia e scalzo, essendo il
freddo grande e nevicando tuttavia forte, non sappiendo che farsi, veggendo
già sopravvenuta la notte, tremando e battendo i denti, cominciò
a riguardare se dattorno alcun ricetto si vedesse, dove la notte potesse stare,
che non si morisse di freddo; ma niun veggendone (per ciò che poco
davanti essendo stata guerra nella contrada v'era ogni cosa arsa), sospinto
dalla freddura, trottando si dirizzò verso Castel Guiglielmo, non
sappiendo perciò che il suo fante là o altrove si fosse fuggito,
pensando, se dentro entrare vi potesse, qual che soccorso gli manderebbe Iddio.
Ma la notte oscura il
soprapprese di lungi dal castello presso ad un miglio; per la quale cosa
sì tardi vi giunse che, essendo le porti serrate e i ponti levati,
entrar non vi potè dentro. Laonde, dolente e isconsolato, piagnendo
guardava dintorno dove porre si potesse, che almeno addosso non gli nevicasse;
e per avventura vide una casa sopra le mura del castello sportata alquanto in
fuori, sotto il quale sporto diliberò d'andarsi a stare infino al
giorno; e là andatosene e sotto quello sporto trovato un uscio, come che
serrato fosse, a piè di quello ragunato alquanto di pagliericcio che
vicin v'era, tristo e dolente si pose a stare, spesse volte dolendosi a san
Giuliano, dicendo questo non essere della fede che aveva in lui. Ma san
Giuliano, avendo a lui riguardo, senza troppo indugio gli apparecchiò
buono albergo.
Egli era in questo castello
una donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra, la quale il
marchese Azzo amava quanto la vita sua, e quivi ad instanzia di sé la facea
stare. E dimorava la predetta donna in quella casa, sotto lo sporto della quale
Rinaldo s'era andato a dimorare. Ed era il dì dinanzi per avventura il
marchese quivi venuto per doversi la notte giacere con essolei, e in casa di
lei medesima tacitamente aveva fatto fare un bagno, e nobilmente da cena. Ed
essendo ogni cosa presta, e niun'altra cosa che la venuta del marchese era da
lei aspettata, avvenne che un fante giunse alla porta, il quale recò
novelle al marchese, per le quali a lui subitamente cavalcar convenne; per la
qual cosa, mandato a dire alla donna che non lo attendesse, prestamente
andò via. Onde la donna, un poco sconsolata, non sappiendo che farsi,
deliberò d'entrare nel bagno fatto per lo marchese, e poi cenare e
andarsi al letto; e così nel bagno se n'entrò.
Era questo bagno vicino
all'uscio dove il meschino Rinaldo s'era accostato fuori della terra; per che,
stando la donna nel bagno, sentì il pianto e 'l tremito che Rinaldo
faceva, il quale pareva diventato una cicogna. Laonde, chiamata la sua fante,
le disse:
- Va su e guarda fuor del
muro a piè di questo uscio chi v'è, e chi egli è, e quel
ch'el vi fa.
La fante andò, e
aiutandola la chiarità dell'aere, vide costui in camicia e scalzo quivi
sedersi come detto è, tremando forte; per che ella il domandò chi
el fosse. E Rinaldo, sì forte tremando che appena poteva le parole
formare, chi el fosse e come e perché quivi, quanto più brieve
potè, le disse; e poi pietosamente la cominciò a pregare che, se
esser potesse, quivi non lo lasciasse di freddo la notte morire.
La fante, divenutane
pietosa, tornò alla donna e ogni cosa le disse. La qual similmente
pietà avendone, ricordatasi che di quello uscio aveva la chiave, il
quale alcuna volta serviva alle occulte entrate del marchese, disse:
- Va, e pianamente gli
apri; qui è questa cena, e non saria chi mangiarla, e da poterlo
albergare ci è assai.
La fante di questa
umanità avendo molto commendata la donna, andò e sì gli
aperse, e dentro messolo, quasi assiderato veggendolo, gli disse la donna:
- Tosto, buono uomo, entra
in quel bagno, il quale ancora è caldo.
Ed egli questo, senza
più inviti aspettare, di voglia fece; e tutto dalla caldezza di quello
riconfortato, da morte a vita gli parve essere tornato. La donna gli fece
apprestare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li quali
come vestiti s'ebbe, a suo dosso fatti parevano; e aspettando quello che la
donna gli comandasse, incominciò a ringraziare Iddio e san Giuliano che
di sì malvagia notte, come egli aspettava, l'avevano liberato, e a buono
albergo, per quello che gli pareva, condotto
Appresso questo la donna
alquanto riposatasi, avendo fatto fare un grandissimo fuoco in una sua
camminata, in quella se ne venne, e del buono uomo domandò che ne fosse.
A cui la fante rispose:
- Madonna, egli s'è
rivestito, ed è un bello uomo e par persona molto da bene e costumato.
- Va dunque,- disse la
donna - e chiamalo, e digli che qua se ne venga al fuoco, e sì
cenerà, ché so che cenato non ha.
Rinaldo nella camminata
entrato, e veggendo la donna, e da molto parendogli, reverentemente la
salutò, e quelle grazie le quali seppe maggiori del beneficio fattogli
le rende'. La donna, vedutolo e uditolo, e parendole quello che la fante dicea,
lietamente il ricevette e seco al fuoco familiarmente il fè sedere e
dello accidente che quivi condotto l'avea il domandò. Alla quale Rinaldo
per ordine ogni cosa narrò.
Aveva la donna, nel venire
del fante di Rinaldo nel castello, di questo alcuna cosa sentita, per che ella
ciò che da lui era detto interamente credette; e sì gli disse
ciò che del suo fante sapeva e come leggiermente la mattina appresso
ritrovare il potrebbe. Ma poi che la tavola fu messa, come la donna volle,
Rinaldo, con lei insieme le mani lavatesi, si pose a cenare.
Egli era grande della
persona e bello e piacevole nel viso e di maniere assai laudevoli e graziose e
giovane di mezza età; al quale la donna avendo più volte posto
l'occhio addosso e molto commendatolo, e già, per lo marchese che con
lei dovea venire a giacersi, il concupiscibile appetito avendo desto nella mente,
dopo la cena, da tavola levatasi, colla sua fante si consigliò se ben
fatto le paresse che ella, poi che il marchese beffata l'avea, usasse quel bene
che innanzi l'avea la fortuna mandato. La fante, conoscendo il disiderio della
sua donna, quanto potè e seppe a seguirlo la confortò; per che la
donna, al fuoco tornatasi, dove Rinaldo solo lasciato aveva, cominciatolo
amorosamente a guardare, gli disse:
- Deh, Rinaldo, perché
state voi così pensoso? Non credete voi potere essere ristorato d'un
cavallo e d'alquanti panni che voi abbiate perduti? Confortatevi, state
lietamente, voi siete in casa vostra; anzi vi voglio dire più avanti,
che, veggendovi cotesti panni in dosso, li quali del mio morto marito furono,
parendomi voi pur desso, m'è venuto stasera forse cento volte voglia d'abbracciarvi
e di baciarvi; e, se io non avessi temuto che dispiaciuto vi fosse, per certo
io l'avrei fatto.
Rinaldo, queste parole
udendo e il lampeggiar degli occhi della donna veggendo, come colui che
mentecatto non era, fattolesi incontro colle braccia aperte, disse:
- Madonna, pensando che io
per voi possa omai sempre dire che io sia vivo, a quello guardando donde torre
mi faceste, gran villania sarebbe la mia se io ogni cosa che a grado vi fosse
non m'ingegnassi di fare; e però contentate il piacer vostro
d'abbracciarmi e di baciarmi, ché io abbraccerò e bacerò voi vie
più che volentieri.
Oltre a queste non bisognar
più parole. La donna, che tutta d'amoroso disio ardeva, prestamente gli
si gittò nelle braccia; e poi che mille volte, disiderosamente strignendolo,
baciato l'ebbe e altrettante da lui fu baciata, levatisi di quindi, nella
camera se n'andarono, e senza niuno indugio coricatisi, pienamente e molte
volte, anzi che il giorno venisse, i lor disii adempierono.
Ma poi che ad apparire
cominciò l'aurora, sì come alla donna piacque, levatisi,
acciò che questa cosa non si potesse presummere per alcuno, datigli
alcuni panni assai cattivi ed empiutagli la borsa di denari, pregandolo che
questo tenesse celato, avendogli prima mostrato che via tener dovesse a venir
dentro a ritrovare il fante suo, per quello usciolo onde era entrato, il mise
fuori.
Egli, fatto dì
chiaro, mostrando di venire di più lontano, aperte le porti,
entrò nel castello e ritrovò il suo fante; per che, rivestitosi
de'panni suoi che nella valigia erano, e volendo montare in su 'l cavallo del
fante, quasi per divino miracolo addivenne che li tre masnadieri che la sera
davanti rubato l'aveano, per altro maleficio da loro fatto poco poi appresso
presi, furono in quel castello menati, e per confessione da loro medesimi
fatta, gli fu restituito il suo cavallo, i panni e i danari, né ne perdé altro
che un paio di cintolini, dei quali non sapevano i masnadieri che fatto se
n'avessero.
Per la qual cosa Rinaldo,
Iddio e san Giuliano ringraziando, montò a cavallo e sano e salvo
ritornò a casa sua; e i tre masnadieri il dì seguente andarono a
dar de'calci a rovaio.
Giornata seconda - Novella
terza
Tre giovani, male il loro
avere spendendo, impoveriscono; dei quali un nepote con uno abate accontatosi
tornandosi a casa per disperato, lui truova essere la figliuola del re
d'lnghilterra, la quale lui per marito prende e de'suoi zii ogni danno ristora,
tornandogli in buono stato
Furono con ammirazione
ascoltati i casi di Rinaldo d'Esti dalle donne e dà giovani, e la sua
divozion commendata, e Iddio e san Giuliano ringraziati, che al suo bisogno
maggiore gli avevano prestato soccorso. Né fu per ciò (quantunque cotal
mezzo di nascoso si dicesse) la donna reputata sciocca, che saputo aveva
pigliare il bene che Iddio a casa l'aveva mandato. E mentre che della buona
notte che colei ebbe sogghignando si ragionava, Pampinea, che sé allato allato
a Filostrato vedea, avvisando, sì come avvenne, che a lei la volta
dovesse toccare, in sé stessa recatasi, quel che dovesse dire cominciò a
pensare; e dopo il comandamento della reina, non meno ardita che lieta,
così cominciò a parlare. Valorose donne, quanto più si
parla de'fatti della Fortuna, tanto più , a chi vuole le sue cose ben
riguardare, ne resta a poter dire; e di ciò niuno dee aver maraviglia,
se discretamente pensa che tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre
chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei secondo il suo
occulto giudicio, senza alcuna posa d'uno in altro e d'altro in uno successivamente,
senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate. Il che,
quantunque con piena fede in ogni cosa e tutto il giorno si mostri, e ancora in
alcune novelle di sopra mostrato sia, nondimeno, piacendo alla nostra reina che
sopra ciò si favelli, forse non senza utilità degli ascoltanti
aggiugnerò alle dette una mia novella, la quale avviso dovrà
piacere.
Fu già nella nostra
città un cavaliere, il cui nome fu messer Tebaldo, il quale, secondo che
alcuni vogliono, fu de'Lamberti; e altri affermano lui essere stato degli
Agolanti, forse più dal mestiere de'figliuoli di lui poscia fatto,
conforme a quello che sempre gli Agolanti hanno fatto e fanno, prendendo
argomento, che da altro. Ma, lasciando stare di quale delle due case si fosse,
dico che esso fu né suoi tempi ricchissimo cavaliere, ed ebbe tre figliuoli,
de'quali il primo ebbe nome Lamberto, il secondo Tedaldo, e il terzo Agolante,
già belli e leggiadri giovani, quantunque il maggiore a diciotto anni
non aggiugnesse, quando esso messer Tebaldo ricchissimo venne a morte, e a
loro, sì come a legittimi suoi eredi, ogni suo bene e mobile e stabile
lasciò.
Li quali, veggendosi rimasi
ricchissimi e di contanti e di possessioni, senza alcuno altro governo che del
loro medesimo piacere, senza alcuno freno o ritegno cominciarono a spendere,
tenendo grandissima famiglia e molti e buoni cavalli e cani e uccelli e
continuamente corte, donando e armeggiando, e faccendo ciò non solamente
che a gentili uomini s'appartiene, ma ancora quello che nello appetito loro
giovenile cadeva di voler fare. Né lungamente fecer cotal vita ,che il tesoro
lasciato loro dal padre venne meno; e non bastando alle cominciate spese
seguire le loro rendite, cominciarono a impegnare e a vendere le possessioni; e
oggi l'una e doman l'altra vendendo, appena s'avvidero che quasi al niente
venuti furono, e aperse loro gli occhi la povertà, li quali la ricchezza
aveva tenuti chiusi.
Per la qual cosa Lamberto,
chiamati un giorno gli altri due, disse loro qual fosse l'orrevolezza del padre
stata e quanta la loro, e quale la lor ricchezza e chente la povertà
nella quale per lo disordinato loro spendere eran venuti; e, come seppe il
meglio, avanti che più della lor miseria apparisse, gli confortò
con lui insieme a vendere quel poco che rimaso era loro e andarsene via; e
così fecero. E, senza commiato chiedere o fare alcuna pompa, di Firenze
usciti, non si ritenner sì furono in Inghilterra; e quivi, presa in
Londra una casetta, faccendo sottilissime spese, agramente cominciarono a
prestare ad usura; e sì fu in questo loro favorevole la fortuna, che in
pochi anni grandissima quantità di denari avanzarono.
Per la qual cosa con
quelli, successivamente or l'uno or l'altro a Firenze tornandosi, gran parte
delle lor possessioni ricomperarono, e molte dell'altre comperar sopra quelle,
e presero moglie; e continuamente in Inghilterra prestando, ad attendere
a'fatti loro un giovane loro nepote, che avea nome Alessandro, mandarono, ed
essi tutti e tre a Firenze avendo dimenticato a qual partito gli avesse lo
sconcio spendere altra volta recati, nonostante che in famiglia tutti venuti
fossero, più che mai strabocchevolmente spendevano ed erano sommamente
creduti da ogni mercatante, e d'ogni gran quantità di danari. Le quali
spese alquanti anni aiutò loro sostenere la moneta da Alessandro loro
mandata, il quale messo s'era in prestare a'baroni sopra castella e altre loro
entrate, le quali di gran vantaggio bene gli rispondevano.
E mentre così i tre
fratelli largamente spendeano, e mancando denari accattavano, avendo sempre la
speranza ferma in Inghilterra, avvenne che, contro alla oppinion d'ogni uomo,
nacque in Inghilterra una guerra tra il re e un suo figliuolo, per la qual
tutta l'isola si divise, e chi tenea con l'uno e chi coll'altro; per la qual cosa
furono tutte le castella de'baroni tolte ad Alessandro, né alcuna altra rendita
era che di niente gli rispondesse. E sperandosi che di giorno in giorno tra 'l
figliuolo e 'l padre dovesse esser pace, e per conseguente ogni cosa restituita
ad Alessandro, e merito e capitale, Alessandro dell'isola non si partiva, e i
tre fratelli, che in Firenze erano, in niuna cosa le loro spese grandissime
limitavano, ogni giorno più accattando.
Ma poi che in più anni niuno effetto
seguire si vide alla speranza avuta, li tre fratelli non solamente la credenza
perderono, ma, volendo coloro che aver doveano esser pagati, furono subitamente
presi; e non bastando al pagamento le lor possessioni, per lo rimanente
rimasono in prigione, e le lor donne e i figliuoli piccioletti qual se ne
andò in contado e qual qua e qual là assai poveramente in arnese,
più non sappiendo che aspettare si dovessono, se non misera vita sempre.
Alessandro, il quale in Inghilterra la pace
più anni aspettata avea, veggendo che ella non venia e parendogli quivi
non meno in dubbio della vita sua che invano dimorare, di liberato di tornarsi
in Italia, tutto soletto si mise in cammino. E per ventura di Bruggia uscendo,
vide n'usciva similmente uno abate bianco con molti monaci accompagnato e con
molta famiglia e con gran salmeria avanti, al quale appresso venieno due
cavalieri antichi e parenti del re, co'quali, sì come con conoscenti,
Alessandro accontatosi, da loro in compagnia fu volentieri ricevuto. Camminando
adunque Alessandro con costoro, dolcemente gli domandò chi fossero i
monaci che con tanta famiglia cavalcavano avanti e dove andassono. Al quale
l'uno de'cavalieri rispose:
- Questi che avanti cavalca
è un giovinetto nostro parente, nuovamente eletto abate d'una delle
maggior badie d'lnghilterra; e per ciò che egli è più
giovane che per le leggi non è conceduto a sì fatta
dignità, andiam noi con esso lui a Roma ad impetrare dal Santo Padre che
nel difetto della troppo giovane età dispensi con lui, e appresso nella
dignità il confermi; ma ciò non si vuol con alcuno ragionare.
Camminando adunque il
novello abate ora avanti e ora appresso alla sua famiglia, sì come noi
tutto il giorno veggiamo per cammino avvenire de'signori, gli venne nel cammino
presso di sé veduto Alessandro, il quale era giovane assai, di persona e di
viso bellissimo, e, quanto alcuno altro esser potesse, costumato e piacevole e
di bella maniera; il quale maravigliosamente nella prima vista gli piacque
quanto mai alcuna altra cosa gli fosse piaciuta e, chiamatolo a sè, con
lui cominciò piacevolmente a ragionare e domandar chi fosse, donde
venisse e dove andasse. Al quale Alessandro ogni suo stato liberamente aperse e
sodisfece alla sua domanda e sé ad ogni suo servigio, quantunque poco potesse,
offerse.
L'abate, udendo il suo
ragionare bello e ordinato, e più partitamente i suoi costumi
considerando e lui seco estimando, come che il suo mestiere fosse stato
servile, essere gentile uomo, più del piacer di lui s'accese e,
già pieno di compassion divenuto delle sue sciagure, assai familiarmente
il confortò e gli disse che a buona speranza stesse, per ciò che,
se valente uom fosse, ancora Iddio il riporterebbe là onde la fortuna
l'aveva gittato, e più ad alto; e pregollo che, poi verso Toscana
andava, gli piacesse d'essere in sua compagnia, con ciò fosse cosa che
esso là similmente andasse. Alessandro gli rendè grazie del
conforto e sé ad ogni suo comandamento disse esser presto.
Camminando adunque l'abate,
al quale nuove cose si volgean per lo petto del veduto Alessandro, avvenne che
dopo più giorni essi pervennero ad una villa, la quale non era troppo
riccamente fornita d'alberghi; e volendo quivi l'abate albergare, Alessandro in
casa d'uno oste, il quale assai suo dimestico era, il fece smontare, e fecegli
la sua camera fare nel meno disagiato luogo della casa; e quasi già
divenuto uno siniscalco dello abate, sì come colui che molto era
pratico, come il meglio si potè per la villa allogata tutta la sua
famiglia chi qua e chi là, avendo l'abate cenato e già essendo
buona pezza di notte e ogni uomo andato a dormire, Alessandro domandò
l'oste là dove esso potesse dormire. Al quale l'oste rispose:
- In verità io non
so; tu vedi che ogni cosa è pieno, e puoi veder me e la mia famiglia
dormir su per le panche; tuttavia nella camera dello abate sono certi granai,
à quali io ti posso menare e porrovvi su alcun letticello, e quivi, se
ti piace, come meglio puoi questa notte ti giaci.
A cui Alessandro disse:
- Come andrò io
nella camera dello abate, che sai che è piccola e per istrettezza non
v'è potuto giacere alcuno de'suoi monaci? Se io mi fossi di ciò
accorto quando le cortine si tesero, io avrei fatto dormire sopra i granai i
monaci suoi e io mi sarei stato dove i monaci dormono.
Al quale l'oste disse:
- L'opera sta pur
così , e tu puoi, se tu vuogli, quivi stare il meglio del mondo: l'abate
dorme, e le cortine son dinanzi; io vi ti porrò chetamente una
coltricetta, e dormiviti.
Alessandro, veggendo che
questo si poteva fare senza da re alcuna noia allo abate, vi s'accordò,
e quanto più cheta mente potè vi s'acconciò.
L'abate, il quale non
dormiva, anzi alli suoi nuovi disii fieramente pensava, udiva ciò che
l'oste e Alessandro parlavano, e similmente avea sentito dove Alessandro s'era
a giacer messo; per che, seco stesso forte contento, cominciò a dire: -
Iddio ha mandato tempo a'miei desiri: se io nol prendo, per avventura simile a
pezza non mi tornerà -
E diliberatosi del tutto di
prenderlo, parendogli ogni cosa cheta per lo albergo, con sommessa voce
chiamò Alessandro e gli disse che appresso lui si coricasse; il quale,
dopo molte disdette spogliatosi, vi si coricò. L'abate postagli la mano
sopra 'l petto, lo 'ncominciò a toccare non altramenti che sogliano fare
le vaghe giovani i loro amanti; di che Alessandro si maravigliò forte e
dubitò non forse l'abate, da disonesto amore preso si movesse a
così fattamente toccarlo. La qual dubitazione, o per presunzione o per
alcuno atto che Alessandro facesse, subitamente l'abate conobbe, e sorrise; e
prestamente di dosso una camicia, che avea, cacciatasi, prese la mano
d'Alessandro e quella sopra il petto si pose, dicendo:
- Alessandro, caccia via il
tuo sciocco pensiero, e, cercando qui, conosci quello che io nascondo.
Alessandro, posta la mano
sopra il petto dello abate, trovò due poppelline tonde e sode e
dilicate, non altramenti che se d'avorio fossono state; le quali egli trovate e
conosciuto tantosto costei esser femina, senza altro invito aspettare,
prestamente abbracciatala, la voleva baciare, quando ella gli disse:
- Avanti che tu più
mi t'avvicini, attendi quello che io ti voglio dire. Come tu puoi conoscere, io
son femina e non uomo; e pulcella partitami da casa mia, al papa andava che mi
maritasse. O tua ventura o mia sciagura che sia, come l'altro giorno ti vidi,
sì di te m'accese Amore, che donna non fu mai che tanto amasse uomo; e
per questo io ho diliberato di volere te avanti che alcuno altro per marito;
dove tu me per moglie non vogli, tantosto di qui ti diparti e nel tuo luogo
ritorna.
Alessandro, quantunque non
la conoscesse, avendo riguardo alla compagnia che ella avea, lei estimò
dovere essere nobile e ricca, e bellissima la vedea; per che, senza troppo
lungo pensiero, rispose che, se questo a lei piacea, a lui era molto a grado.
Essa allora, levatasi a
sedere in su il letto, davanti ad una tavoletta dove Nostro Signore era
effigiato, postogli in mano uno anello, gli si fece sposare; e appresso insieme
abbracciatisi, con gran piacere di ciascuna delle parti, quanto di quella notte
restava si sollazzarono. E, preso tra loro modo e ordine alli lor fatti, come
il giorno venne, Alessandro levatosi e per quindi della camera uscendo, donde
era entrato, senza sapere alcuno dove la notte dormito si fosse, lieto oltre
misura, con lo abate e con sua compagnia rientrò in cammino, e dopo molte
giornate pervennero a Roma.
E quivi, poi che alcun
dì dimorati furono, l'abate con li due cavalieri e con Alessandro senza
più entrarono al papa, e fatta la debita reverenza, così
cominciò l'abate a favellare:
- Santo padre, sì
come voi meglio che alcuno altro dovete sapere, ciascun che bene e onestamente
vuol vivere, dee, in quanto può, fuggire ogni cagione la quale ad
altramenti fare il potesse conducere; il che acciò che io, che
onestamente viver disidero, potessi compiutamente fare, nell'abito nel quale mi
vedete, fuggita segretamente con grandissima parte de'tesori del re
d'lnghilterra mio padre (il quale al re di Scozia vecchissimo signore, essendo
io giovane come voi mi vedete, mi voleva per moglie dare), per qui venire,
acciò che la vostra santità mi maritasse, mi misi in via. Né mi
fece tanto la vecchiezza del re di Scozia fuggire, quanto la paura di non fare
per la fragilità della mia giovanezza, se a lui maritata fossi, cosa che
fosse contra le divine leggi e contra l'onore del real sangue del padre mio.
E così disposta
venendo, Iddio, il quale solo ottimamente conosce ciò che fa mestiere a
ciascuno, credo per la sua misericordia, colui che a lui piacea che mio marito
fosse mi pose avanti agli occhi; e quel fu questo giovane - e mostrò
Alessandro - il quale voi qui appresso di me vedete, li cui costumi e il cui
valore son degni di qualunque gran donna, quantunque forse la nobiltà
del suo sangue non sia così chiara come è la reale. Lui ho
adunque preso e lui voglio; né mai alcuno altro n'avrò, che che se ne
debba parere al padre mio o ad altrui. Per che la principal cagione per la
quale mi mossi è tolta via; ma piacquemi di fornire il mio cammino,
sì per visitare li santi luoghi e reverendi, de'quali questa
città è piena, e la vostra santità, e sì
acciò che per voi il contratto matrimonio tra Alessandro e me solamente
nella presenza di Dio io facessi aperto nella vostra e per conseguente degli
altri uomini. Per che umilemente vi priego che quello che a Dio e a me è
piaciuto sia a grado a voi, e la vostra benedizion ne doniate, acciò che
con quella, sì come con più certezza del piacere di Colui del
quale voi siete vicario, noi possiamo insieme, all'onore di Dio ed al vostro,
vivere e ultimamente morire.
Maravigliossi Alessandro,
udendo la moglie esser figliuola del re d'lnghilterra, e di mirabile allegrezza
occulta fu ripieno; ma più si maravigliarono li due cavalieri e
sì si turbarono che, se in altra parte che davanti al papa stati
fossero, avrebbono ad Alessandro e forse alla donna fatta villania. D'altra parte
il papa si maravigliò assai e dello abito della donna e della sua
elezione; ma, conoscendo che indietro tornare non si potea, la volle del suo
priego sodisfare. E primieramente, racconsolati i cavalieri li quali turbati
conoscea e in buona pace con la donna e con Alessandro rimessigli, diede ordine
a quello che da far fosse.
E il giorno posto da lui
essendo venuto, davanti a tutti i cardinali e dimolti altri gran valenti
uomini, li quali invitati ad una grandissima festa da lui apparecchiata eran
venuti, fece venire la donna realmente vestita, la qual tanto bella e sì
piacevol parea che meritamente da tutti era commendata e simigliantemente
Alessandro splendidamente vestito, in apparenza e in costurni non miga giovane
che ad usura avesse prestato, ma più tosto reale e da'due cavalieri
molto onorato; e quivi da capo fece solennemente le sponsalizie celebrare, e
appresso le nozze belle e magnifiche fatte, colla sua benedizione gli
licenziò.
Piacque ad Alessandro e
similmente alla donna, di Roma partendosi, di venire a Firenze, dove già
la fama aveva la novella recata; e quivi, da'cittadini con sommo onore
ricevuti, fece la donna li tre fratelli liberare, avendo prima fatto ogni uom
pagare, e loro e le lor donne rimise nelle lor possessioni. Per la qual cosa,
con buona grazie di tutti, Alessandro con la sua donna, menandone seco
Agolante, si partì di Firenze, e a Parigi venuti, onorevolmente dal re
ricevuti furono. Quindi andarono i due cavalieri in Inghilterra e tanto col re
adoperarono, che egli le rende'la grazia sua e con grandissima festa lei e 'l
suo genero ricevette, il quale egli poco appresso con grandissimo onore
fè cavaliere e donogli la contea di Cornovaglia.
Il quale fu da tanto e
tanto seppe fare, che egli paceficò il figliuolo col padre, di che seguì
gran bene all'isola, ed egli n'acquistò l'amore e la grazia di tutti i
paesani; e Agolante ricoverò tutto ciò che aver vi doveano
interamente e ricco oltre modo si tornò a Firenze, avendol prima il
conte Alessandro cavalier fatto. Il conte poi con la sua donna gloriosamente
visse; e, secondo che alcuni voglion dire, tra col suo senno e valore e l'aiuto
del suocero, egli conquistò poi la Scozia e funne re coronato.
Giornata seconda - Novella
quarta
Landolfo Rufolo,
impoverito, divien corsale e da'Genovesi preso, rompe in mare, e sopra una
cassetta, di gioie carissime piena, scampa, e in Gurfo ricevuto da una femina,
ricco si torna a casa sua.
La Lauretta appresso
Pampinea sedea, la qual veggendo lei al glorioso fine della sua novella, senza
altro aspettare, a parlar cominciò in cotal guisa.
Graziosissime donne, niuno
atto della Fortuna, secondo il mio giudicio, si può veder maggiore, che
vedere uno d'infima miseria a stato reale elevare, come la novella di Pampinea
n'ha mostrato essere al suo Alessandro addivenuto. E per ciò che a
qualunque della proposta materia da quinci innanzi novellerà
converrà che infra questi termini dica, non mi vergognerò io di
dire una novella, la quale, ancora che miserie maggiori in sé contenga, non per
ciò abbia così splendida riuscita. Ben so che, pure a quella
avendo riguardo, con minor diligenzia fia la mia udita; ma altro non potendo,
sarò scusata.
Credesi che la marina da
Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d'ltalia; nella quale
assai presso a Salerno e una costa sopra 'l mare riguardante, la quale gli
abitanti chiamano la costa d'Amalfi, piena di picciole città, di
giardini e di fontane, e d'uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia
sì come alcuni altri. Tra le quali città dette n'è una
chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v'abbia di ricchi uomini, ve
n'ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al
quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di raddoppiarla, venne presso
che fatto di perder con tutta quella sé stesso.
Costui adunque, sì
come usanza suole essere de'mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un
grandissimo legno, e quello tutto di suoi denari caricò di varie
mercatantie e andonne con esse in Cipri. Quivi, con quelle qualità medesime
di mercatantie che egli aveva portate, trovò essere più altri
legni venuti; per la qual cagione, non solamente gli convenne far gran mercato
di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele
convenne gittar via; laonde egli fu vicino al disertarsi.
E portando egli di questa
cosa seco grandissima noia, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo
uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando
ristorare i danni suoi, acciò che la onde ricco partito s'era povero non
tornasse. E, trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con
gli altri che della sua mercatantia avuti avea, comperò un legnetto
sottile da corseggiare, e quello d'ogni cosa opportuna a tal servigio
armò e guernì ottimamente, e diessi a far sua della roba d'ogni
uomo, e massimamente sopra i turchi.
Al qual servigio gli fu
molto più la fortuna benivola che alla mercatantia stata non era. Egli,
forse infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si
trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea
perduto, ma di gran lunga quello avere raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato
dal primo dolore della perdita, conoscendo che egli aveva assai per non
incappar nel secondo, a sé medesimo dimostrò quello che aveva, senza
voler più , dovergli bastare; e per ciò si dispose di tornarsi
con esso a casa sua. E pauroso della mercatantia, non s'mpacciò
d'investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale
guadagnati gli avea, dato de'remi in acqua, si mise al ritornare. E già
nello Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco, il quale non solamente
era contrario al suo cammino, ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il
suo picciol legno non avrebbe bene potuto comportare, in uno seno di mare, il
quale una piccola isoletta faceva, da quello vento coperto, si raccolse, quivi
proponendo d'aspettarlo migliore. Nel qual seno poco stante due gran cocche di
genovesi, le quali venivano di Costantinopoli, per fuggire quello che Landolfo
fuggito avea, con fatica pervennero. Le genti delle quali, veduto il legnetto e
chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per
fama conoscendol ricchissimo, sì come uomini naturalmente vaghi di
pecunia e rapaci, a doverlo avere si disposero. E messa in terra parte della
lor gente con balestra e bene armata, in parte la fecero andare che del
legnetto niuna persona, sé saettato esser non voleva, poteva discendere; ed
essi, fattisi tirare a'paliscalmi e aiutati dal mare, s'accostarono al picciol
legno di Landolfo, e quello con picciola fatica in picciolo spazio, con tutta
la ciurma, senza perderne uomo, ebbero a man salva; e fatto venire sopra l'una
delle lor cocche Landolfo e ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono,
lui in un povero farsettino ritenendo.
Il dì seguente,
mutatosi il vento, le cocche ver ponente venendo fer vela: e tutto quel
dì prosperamente vennero al loro viaggio; ma nel far della sera si mise
un vento tempestoso, il qual faccendo i mari altissimi, divise le due cocche
l'una dall'altra. E per forza di questo vento addivenne che quella sopra la
quale era il misero e povero Landolfo, con grandissimo impeto di sopra
all'isola di Cifalonia percosse in una secca e, non altramenti che un vetro
percosso ad un muro tutta s'aperse e si stritolò; di che i miseri
dolenti che sopra quella erano, essendo già il mare tutto pieno di
mercatantie che notavano e di casse e di tavole, come in così fatti casi
suole avvenire, quantunque oscurissima notte fosse e il mare grossissimo e
gonfiato, notando quelli che notar sapevano, s'incominciarono ad appiccare a
quelle cose che per ventura loro si paravan davanti.
Intra li quali il misero
Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse,
seco eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero
come si vedea, vedendola presta n'ebbe paura; e, come gli altri, venutagli alle
mani una tavola, a quella s'appicco', se forse Iddio, indugiando egli
l'affogare, gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo; e a cavallo a quella,
come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua e ora
in là, si sostenne infino al chiaro giorno. Il quale venuto, guardandosi
egli d'attorno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea, e una cassa la quale
sopra l'onde del mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli
s'appressava, temendo non quella cassa forse il percotesse per modo che gli
noiasse; e sempre che presso gli venia, quanto potea con mano, come che poca
forza n'avesse, la lontanava.
Ma, come che il fatto
s'andasse, avvenne che, solutosi subitamente nell'aere un groppo di vento e
percosso nel mare, sì grande in questa cassa diede e la cassa nella
tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo
lasciatola andò sotto l'onde e ritornò suso notando, più
da paura che da forza aiutato, e vide da se molto dilungata la tavola; per che,
temendo non potere ad essa pervenire, s'appressò alla cassa la quale gli
era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio
poteva, colle braccia la reggeva diritta. E in questa maniera, gittato dal mare
ora in qua e ora in là, senza mangiare, sì come colui che non
aveva che, e bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si
fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte
vegnente.
Il dì seguente
appresso, o piacer di Dio o forza di vento che 'l facesse, costui divenuto
quasi una spugna, tenendo forte con amendue le mani gli orli della cassa a
quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono, quando prendono
alcuna cosa, pervenne al lito dell'isola di Gurfo, dove una povera feminetta
per ventura suoi stovigli con la rena e con l'acqua salsa lavava e facea belli.
La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma,
dubitando e gridando si trasse indietro.
Questi non potea favellare
e poco vedea, e perciò niente le disse; ma pure, mandandolo verso la
terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e più sottilmente
guardando e vedendo, conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa,
quindi appresso ravvisò la faccia e quello essere che era
s'imaginò. Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare,
che già era tranquillo, e per li capelli presolo, con tutta la cassa il
tiro in terra, e quivi con fatica le mani dalla cassa sviluppatogli, e quella
posta in capo ad una sua figlioletta che con lei era, lui come un picciol
fanciullo ne portò nella terra, e in una stufa messolo, tanto lo
stropicciò e con acqua calda lavo che in lui ritornò lo smarrito
calore e alquante delle perdute forze; e quando tempo le parve trattonelo, con
alquanto di buon vino e di confetto il riconforto, e alcun giorno, come
potè il meglio, il tenne, tanto che esso, le forze recuperate, conobbe
la dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere,
la quale salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura, e
così fece.
Costui, che di cassa non si
ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella
non potere sì poco valere che alcun dì non gli facesse le spese;
e trovandola molto leggiera, assai manco della sua speranza. Nondimeno, non
essendo la buona femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi
fosse, e trovò in quella molte preziose pietre, e legate e sciolte,
delle quali egli alquanto s'intendea; le quali veggendo e di gran valore
conoscendole, lodando Iddio che ancora abbandonare non l'avea voluto, tutto si
riconfortò. Ma, si come colui che in picciol tempo fieramente era stato
balestrato dalla fortuna due volte, dubitando della terza, pensò
convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose poter conducere a casa sua;
per che in alcuni stracci, come meglio potè, ravvoltole, disse alla
buona femina che più di cassa non avea bisogno, ma che, se le piacesse,
un sacco gli donasse e avessesi quella.
La buona femina il fece
volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del
beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì
, e montato sopra una barca, passò a Brandizio, e di quindi, marina marina,
si condusse infino a Trani, dove trovati de'suoi cittadini li quali eran
drappieri, quasi per l'amor di Dio fu da loro rivestito, avendo esso già
loro tutti li suoi accidenti narrati, fuori che della cassa; e oltre a questo,
prestatogli cavallo e datogli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto
diceva di voler tornare, il rimandarono.
Quivi parendogli essere
sicuro, ringraziando Iddio che condotto ve l'avea, sciolse il suo sacchetto, e
con più diligenzia cercata ogni cosa che prima fatto non avea,
trovò sé avere tante e sì fatte pietre che, a convenevole pregio
vendendole e ancor meno, egli era il doppio più ricco che quando partito
s'era. E trovato modo di spacciare le sue pietre, infino a Gurfo mandò
una buona quantità di denari, per merito del servigio ricevuto, alla
buona femina che di mare l'avea tratto, e il simigliante fece a Trani a coloro
che rivestito l'aveano; e il rimanente, senza più volere mercatare, si
ritenne e onorevolmente visse infino alla fine.
Giornata seconda - Novella
quinta
Andreuccio da Perugia,
venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti
soprapreso, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua
Le pietre da Landolfo
trovate - cominciò la Fiammetta, alla quale del novellar toccava -
m'hanno alla memoria tornata una novella non guari meno di pericoli in sé
contenente che la narrata dalla Lauretta, ma in tanto differente da essa, in
quanto quegli forse in più anni e questi nello spazio d'una sola notte
addivennero, come udirete.
Fu, secondo che io già
intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di
cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli,
messisi in borsa cinquecento fiorin d'oro, non essendo mai più fuori di
casa stato, con altri mercatanti là se n'andò: dove giunto una
domenica sera in sul vespro , dall'oste suo informato la seguente mattina fu in
sul Mercato , e molti ne vide e assai ne gli piacquero e di più e
più mercato tenne , né di niuno potendosi accordare , per mostrare che
per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto più volte in
presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de'fiorini
che aveva.
E in questi trattati
stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana
bellissima, ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza
vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco
disse: - Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?- e
passò oltre.
Era con questa giovane una
vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la
giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane
veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a
attendere. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran
festa, e promettendogli essa di venire a lui all'albergo, senza quivi tenere
troppo lungo sermone, si partì : e Andreuccio si tornò a
mercatare ma niente comperò la mattina.
La giovane, che prima la
borsa d'Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta,
per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti
o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o donde e che
quivi facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa così
particularmente de'fatti d'Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli
stesso, sì come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a
Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse e perché
venuto fosse.
La giovane, pienamente
informata e del parentado di lui e de'nomi, al suo appetito fornire con una
sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, e a casa
tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò che a
Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa assai
bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la
mandò all'albergo dove Andreuccio tornava. La qual, quivi venuta, per
ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il
domandò. Alla quale dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da
parte, disse:
- Messere, una gentil donna
di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri- .
Il quale ve vedendola,
tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona,
s'avvisò questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel
giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che
era apparecchiato e domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse. A
cui la fanticella rispose:
- Messere, quando di venir
vi piaccia, ella v'attende in casa sua- .
Andreuccio presto, senza
alcuna cosa dir nell'albergo, disse:
- Or via mettiti avanti, io
ti verrò appresso- .
Laonde la fanticella a casa
di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio,
la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso,
niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo
luogo andare e a una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se
n'entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella
già sua donna chiamata e detto - Ecco Andreuccio- , la vide in capo
della scala farsi a aspettarlo.
Ella era ancora assai
giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente;
alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese con
le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa
dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò
la fronte e con voce alquanto rotta disse:
- O Andreuccio mio, tu sii
il ben venuto!-
Esso, maravigliandosi di
così tenere carezze, tutto stupefatto rispose:
- Madonna, voi siate la ben
trovata!-
Ella appresso, per la man
presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna cosa
parlare, con lui nella sua camera se n'entrò, la quale di rose, di fiori
d'aranci e d'altri odori tutta oliva , là dove egli un bellissimo letto
incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là , e
altri assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sì come
nuovo, fermamente credette lei dovesse essere non men che gran donna. E postisi
a sedere insieme sopra una cassa che appiè del suo letto era,
così gli cominciò a parlare:
- Andreuccio, io sono molto
certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie
lagrime, sì come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar
non m'udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse
maravigliare, sì come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi
che Idio m'ha fatta tanta grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno
de'miei fratelli, come che io disideri di vedervi tutti, io non morrò a
quella ora che io consolata non muoia. E se tu forse questo mai più non
udisti, io tel vo'dire. Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi
potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e
piacevolezza vi fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai. Ma
tra gli altri che molto l'amarono, mia madre, che gentil donna fu e allora era
vedova, fu quella che più l'amò, tanto che, posta giù la
paura del padre e de'fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si
dimestico', che io ne nacqui e sonne qual tu mi vedi.
Poi, sopravenuta cagione a
Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre piccola
fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di
me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte
il riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre
mostrata (lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliola non nata d'una
fante né di vil femina dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente,
senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise
nelle sue mani.
Ma che è?. Le cose mal fatte e di gran
tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che a emendare: la
cosa andò pur così . Egli mi lasciò piccola fanciulla in
Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era,
mi diede per moglie a uno da Gergenti, gentile uomo e da bene, il quale per
amor di mia madre e di me tornò a stare a Palermo; e quivi, come colui
che è molto guelfo cominciò a avere alcuno trattato col nostro re
Carlo. Il quale, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto,
fu cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior
cavalleressa che mai in quella isola fosse; donde, prese quelle poche cose che
prender potemmo (poche dico per rispetto alle molte le quali avavamo), la
sciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo
verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici in parte li danni li
quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà
continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione,
sì come tu potrai ancor vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la
buona mercé di Dio e non tua , fratel mio dolce, ti veggio -.
E così detto, da
capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la
fronte.
Andreuccio, udendo questa
favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei,
alla quale in niuno atto moriva la parola tra'denti né balbettava la lingua, e
ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo
de'giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e
veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ciò
che ella diceva più che per vero: e poscia che ella tacque, le rispose:
- Madonna, egli non vi dee
parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio
padre, per che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse
giammai, o che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per
me niuna coscienza aveva di voi se non come se non foste; e emmi tanto
più caro l'avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci sono più
solo e meno questo sperava. E nel vero io non conosco uomo di sì alto
affare al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un picciolo
mercatante sono. Ma d'una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi
che io qui fossi?"
Al quale ella rispose: -
Questa mattina mel fè sapere una povera femina la qual molto meco si
ritiene, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica,
lungamente e in Palermo e in Perugia stette, e se non fosse che più
onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua che io a te nell'altrui,
egli ha gran pezza che io a te venuta sarei - .
Appresso queste parole ella
cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente,
alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo
quello che meno di creder gli bisognava.
Essendo stati i
ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti e
fè dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per
ciò che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne, ma sembiante fatto
di forte turbarsi abbracciandol disse:
- Ahi lassa me, ché assai
chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con
una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui
venendo, smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare
all'albergo? Di vero tu cenerai con esso meco: e perché mio marito non ci sia,
di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco
d'onore - .
Alla quale Andreuccio, non
sappiendo altro che rispondersi, disse:
- Io v'ho cara quanto
sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato
a cena e farò villania.
Ed ella allora disse:
- Lodato sia Idio, se io non
ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu faresti
assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a'tuoi compagni che qui
venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti tutti
andar di brigata -.
Andreuccio rispose che
de'suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l'era, di lui
facesse il piacer suo. Ella allora fè vista di mandare a dire
all'albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri
ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più vivande serviti,
astutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura; ed essendo
da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in
niuna guisa sofferrebbe , per ciò che Napoli non era terra da andarvi
per entro di notte, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena
non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il
somigliante.
Egli, questo credendo e
dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d'esser con costei, stette. Furono
adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione tenuti; e
essendo della notte una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire
nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse
nulla, con le sue femine in un'altra camera se n'andò.
Era il caldo grande: per la
qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò in
farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose; e
richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre,
dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell'uno
de'canti della camera gli mostrò uno uscio e disse:
- Andate là entro -
.
Andreuccio dentro
sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola,
la quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era ;
per la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n'andò
quindi giuso: e di tanto l'amò Idio, che niuno male si fece nella
caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della
quale il luogo era pieno, s'imbrattò. Il quale luogo, acciò che
meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come
stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto stretto, come spesso tra
due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l'una casa e l'altra posti, alcune
tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che
con lui cadde era l'una.
Ritrovandosi adunque
là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso,
cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l'ebbe
cadere, così corse a dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua camera,
prestamente cercò se i suoi panni v'erano; e trovati i panni e con essi
i denari, li quali esso non fidandosi mattamente sempre portava addosso, avendo
quello a che ella di Palermo, sirocchia d'un perugin faccendosi, aveva teso il
lacciuolo, più di lui non curandosi prestamente andò a chiuder
l'uscio del quale egli era uscito quando cadde.
Andreuccio, non
rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma
ciò era niente. Per che egli, già sospettando e tardi dello
inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello
chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all'uscio della casa, il
quale egli molto ben riconobbe, se n'andò, e quivi invano lungamente
chiamò e molto il dimenò e percosse . Di che egli piagnendo, come
colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire:
- Oimè lasso, in
come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!-
E dopo molte altre parole,
da capo cominciò a battere l'uscio e a gridare; e tanto fece così
che molti de'circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si
levarono; e una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa,
fattasi alla finestra proverbiosamente disse:
- Chi picchia là
giù ?-
- Oh! - disse Andreuccio -
o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso- .
Al quale ella rispose: -
Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi e tornerai domattina; io non so
che Andreuccio né che ciance son quelle che tu dì ; va in buona ora e
lasciaci dormir, se ti piace- .
- Come- disse Andreuccio -
non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i
parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi
almeno i panni miei li quali lasciati v'ho, e io m'andrò volentier con
Dio- .
Al quale ella quasi ridendo
disse:
- Buono uomo, e'mi par che
tu sogni- , e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una
cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de'suoi danni, quasi per doglia
fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria propose di
rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una
gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominiciò a
percuotere la porta. La qual cosa molti de'vicini avanti destisi e levatisi,
credendo lui essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse per
noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva,
fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli
della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire:
- Questa è una gran
villania a venire a questa ora a casa le buone femine e dire queste ciance;
deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a
far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte-
Dalle quali parole forse
assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale
egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce grossa,
orribile e fiera disse:
- Chi è
laggiù ?-
Andreuccio, a quella voce
levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè,
mostrava di dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al
volto, e come se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e
stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose:
- Io sono un fratello della
donna di là entro- .
Ma colui non aspettò
che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima
disse:
- Io non so a che io mi
tegno che io non vegno là giù , e deati tante bastonate quante io
ti vegga muovere, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa
notte non ci lascerai dormire persona- ; e tornatosi dentro serrò la
finestra.
Alcuni de'vicini, che
meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando a Andreuccio
dissono:
- Per Dio, buono uomo,
vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì : vattene per lo
tuo migliore- .
Laonde Andreuccio,
spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da'conforti di coloro
li quali gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai
alcuno altro e de'suoi denar disperato, verso quella parte onde il dì
aveva la fanticella seguita, senza sa per dove s'andasse, prese la via per
tornarsi all'albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui
veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e
su per una via chiamata la Ruga Catalana si mise. E verso l'alto della
città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una
lanterna in mano venieno li quali temendo non fosser della famiglia della corte
o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in un casolare, il qual si
vide vicino, pianamente ricoverò. Ma costoro, quasi come a quello
proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n'entrarono; e
quivi l'un di loro, scaricati certi ferramenti che in collo avea, con l'altro
insieme gl'incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando. E
mentre parlavano, disse l'uno:
- Che vuol dir questo? Io
sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire- ; e questo detto alzata
alquanto la lanterna, ebbe veduto il cattivel d'Andreuccio, e stupefatti
domandar: - Chi è là?-
Andreuccio taceva, ma essi
avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse:
alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente.
Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra
sè: - Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo- . E a
lui rivolti, disse l'uno:
- Buono uomo, come che tu
abbi perduti i tuoi denari, tu molto a lodare Idio che quel caso ti venne che
tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non
fossi, vivi sicuro che, come prima adormentato ti fossi, saresti stato amazzato
e co'denari avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu ne
potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo:
ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola- .
E detto questo,
consigliatisi alquanto, gli dissero:
- Vedi, a noi è
presa compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna
cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti
toccherà il valere di troppo più che perduto non hai -
Andreuccio, sì come
disperato, rispuose ch'era presto.
Era quel dì
sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, era
stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con uno rubino in dito il quale
valeva oltre cinquecento fiorin d'oro, il quale costoro volevano andare a
spogliare; e così a Andreuccio fecer veduto. Laonde Andreuccio, più
cupido che consigliato, con loro si mise in via; e andando verso la chiesa
maggiore, e Andreuccio putendo forte, disse l'uno:
- Non potremmo noi trovar
modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse
così fieramente?-
Disse l'altro:
- Sì , noi siam qui
presso a un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione;
andianne là e laverenlo spacciatamente.
Giunti a questo pozzo
trovarono che la fune v'era ma il secchione n'era stato levato: per che insieme
diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là
giù si lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune e essi il
tirerebber suso; e così fecero.
Avvenne che, avendol costor
nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per lo
caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a
bere: li quali come quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire, li
famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti.
Essendo già nel
fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati,
posti giù lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune
a tirare credendo a quella il secchion pien d'acqua essere appicato.
Come Andreuccio si vide
alla sponda del pozzo vicino così , lasciata la fune, con le mani si
gittò sopra quella. La qual cosa costoro vedendo, da subita paura presi,
senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a
fuggire: di che Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse
bene attenuto, egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran
danno o morte; ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che
i suoi compagni non avean portate, ancora più s'incominciò a
maravigliare. Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi,
senza alcuna cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza
saper dove.
Così andando si
venne scontrato in que'due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano;
e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l'avesse
tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era
avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi
come stato era, ridendo gli contarono perché s'eran fuggiti e chi stati eran
coloro che su l'avean tirato. E senza più parole fare, essendo
già mezzanotte, n'andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai
leggiermente entrarono e furono all'arca, la quale era di marmo e molto grande;
e con lor ferro il coperchio, ch'era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno
uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo. E fatto questo, cominciò l'uno
a dire:
- Chi entrerà
dentro?-
A cui l'altro rispose:
- Non io- .
- Nè io- disse colui
- ma entrivi Andreuccio-.
- Questo non farò
io- disse Andreuccio. Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero:
- Come non v'enterrai? In
fè di Dio, se tu non v'entri, noi ti darem tante d'uno di questi pali di
ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto- .
Andreuccio temendo
v'entrò, e entrandovi pensò seco: - Costoro mi ci fanno entrare
per ingannarmi, per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato,
mentre che io penerò a uscir dall'arca, essi se ne andranno pe'fatti
loro e io rimarrò senza cosa alcuna- . E per ciò s'avisò
di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro anello che aveva
loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse
all'arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra
è guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro
dicendo che più niente v'avea.
Costoro, affermando che
esser vi doveva l'anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso
rispondendo che non trovava e sembiante facendo di cercarne, alquanto li tenne
ad aspettare. Costoro che d'altra parte eran sì come lui maliziosi
,dicendo pur che ben cercasse preso tempo, tirarono via il puntello che il
coperchio dell'arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall'arca lasciaron
racchiuso.
La qual cosa sentendo
Andreuccio, qual egli allor divenisse ciascun sel può pensare.
Egli tentò
più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma
invano si faticava: per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il
morto corpo dell'arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe
conosciuto chi più si fosse morto, o l'arcivescovo o egli. Ma poi che in
sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi
senza dubbio all'un de'due fini dover pervenire: o in quella arca, non
venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra'vermini del morto
corpo convenirlo morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì
come ladro dovere essere appiccato.
E in così fatti
pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e
parlar molte persone, le quali sì come gli avvisava, quello andavano a
fare che esso co'suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli
crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero l'arca aperta e puntellata, in quistion
caddero chi vi dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione
un prete disse:
- Che paura avete voi?
credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io
v'entrerò dentro io - .
E così detto, posto
il petto sopra l'orlo dell'arca, volse il capo in fuori e dentro mandò
le gambe per doversi giuso calare.
Andreuccio, questo vedendo,
in piè levatosi prese il prete per l'una delle gambe e fè
sembiante di volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno
strido grandissimo e presto dell'arca si gittò fuori; della qual cosa
tutti gli altri spaventati, lasciata l'arca aperta, non altramente a fuggir
cominciarono che se da centomilia diavoli fosser perseguitati.
La qual cosa veggendo
Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e
per quella via onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già
avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando all'avventura,
pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbattè ; dove li suoi
compagni e l'albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine
de'fatti suoi. A'quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo
consiglio dell'oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire;
la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo
investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato.
Giornata seconda - Novella
sesta
Madonna Beritola, con due
cavriuoli sopra una isola trovata, avendo due figliuoli perduti, ne va in
Lunigiana; quivi l'un de'figliuoli col signor di lei si pone e colla figliuola
di lui giace ed è messo in prigione. Cicilia ribellata al re Carlo, e il
figliuolo riconosciuto dalla madre, sposa la figliuola del suo signore e il suo
fratello ritrova e in grande stato ritornano.
Avevan le donne parimente e
i giovani riso molto de'casi d'Andreuccio dalla Fiammetta narrati, quando
Emilia, sentendo la novella finita, per comandamento della reina, così
cominciò.
Gravi cose e noiose sono i
movimenti vari della Fortuna, de'quali perché quante volte alcuna cosa si
parla, tante è un destare delle nostre menti, le quali leggiermente
s'addormentano nelle sue lusinghe, giudico mai rincrescer non dover l'ascoltare
e a'felici e agli sventurati, in quanto li primi rende avvisati e i secondi
consola. E per ciò, quantunque
gran cose dette ne sieno
avanti, io intendo di raccontarvene una novella non meno vera che pietosa; la
quale, ancora che lieto fine avesse, fu tanta e sì lunga l'amaritudine,
che appena che io possa credere che mai da letizia seguita si raddolcisse.
Carissime donne, voi dovete
sapere che appresso la morte di Federigo secondo imperadore fu re di Cicilia
coronato Manfredi, appo il quale in grandissimo stato fu un gentile uomo di
Napoli chiamato Arrighetto Capece, il quale per moglie avea una bella e gentil
donna similmente napoletana, chiamata madonna Beritola Caracciola. Il quale
Arrighetto, avendo il governo dell'isola nelle mani, sentendo che il re Carlo
primo avea a Benevento vinto e ucciso Manfredi, e tutto il regno a lui si
rivolgea, avendo poca sicurtà della corta fede de'ciciliani e non
volendo suddito divenire del nimico del suo signore, di fuggire
s'apparecchiava. Ma questo da' ciciliani conosciuto, subitamente egli e molti
altri amici e servitori del re Manfredi furono per prigioni dati al re Carlo, e
la possessione dell'isola appresso.
Madonna Beritola in tanto
mutamento di cose, non sappiendo che d'Arrighetto si fosse e sempre di quello
che era avvenuto temendo, per tema di vergogna, ogni sua cosa lasciata, con un
suo figliuolo d'età forse d'otto anni, chiamato Giusfredi, e gravida e
povera, montata sopra una barchetta, se ne fuggì a Lipari, e quivi
partorì un altro figliuol maschio, il quale nominò lo Scacciato;
e presa una balia, con tutti sopra un legnetto montò per tornarsene a
Napoli a'suoi parenti. Ma altramenti avvenne che il suo avviso; perciò
che per forza di vento il legno, che a Napoli andar dovea, fu trasportato
all'isola di Ponzo, dove, entrati in un picciol seno di mare, cominciarono ad
attender tempo al loro viaggio.
Madama Beritola, come gli
altri, smontata in su l'isola e sopra quella un luogo solitario e rimoto
trovato, quivi a dolersi del suo Arrighetto si mise tutta sola. E questa
maniera ciascun giorno tenendo, avvenne che, essendo ella al suo dolersi
occupata, senza che alcuno o marinaro o altri se n'accorgesse, una galea di
corsari sopravvenne, la quale tutti a man salva gli prese, e andò via.
Madama Beritola, finito il
suo diurno lamento, tornata al lito per rivedere i figliuoli, come usata era di
fare, niuna persona vi trovò; di che prima si maravigliò, e poi,
subitamente di quello che avvenuto era sospettando, gli occhi infra 'l mare
sospinse, e vide la galea, non molto ancora allungata, dietro tirarsi il
legnetto; per la qual cosa ottimamente conobbe, sì come il marito, aver
perduti i figliuoli; e povera e sola e abbandonata, senza saper dove mai alcuno
doversene ritrovare, quivi vedendosi, tramortita, il marito è figliuoli
chiamando, cadde in su 'l lito.
Quivi non era chi con acqua
fredda o con altro argomento le smarrite forze rivocasse; per che a bello agio
poterono gli spiriti andar vagando dove lor piacque; ma, poi che nel misero
corpo le partite forze insieme colle lagrime e col pianto tornate furono,
lungamente chiamò i figliuoli, e molto per ogni caverna gli andò
cercando. Ma poi che la sua fatica conobbe vana e vide la notte sopravvenire,
sperando e non sappiendo che, di sé medesima alquanto divenne sollicita, e dal
lito partitasi, in quella caverna, dove di piagnere e di dolersi era usa, si
ritornò.
E poi che la notte con
molta paura e con dolore inestimabile fu passata, e il dì nuovo venuto,
e già l'ora della terza valicata, essa, che la sera avanti cenato non
avea, da fame costretta, a pascere l'erbe si diede; e, pasciuta come
potè, piagnendo, a vari pensieri della sua futura vita si diede.
Nè quali mentre ella dimorava, vide venire una cavriuola ed entrare ivi
vicino in una caverna, e dopo alquanto uscirne e per lo bosco andarsene; per
che ella, levatasi, là entrò donde uscita era la cavriuola, e
videvi due cavriuoli forse il dì medesimo nati, li quali le parevano la
più dolce cosa del mondo e la più vezzosa; e, non essendolesi
ancora del nuovo parto rasciutto il latte del petto, quegli teneramente prese e
al petto gli si pose. Li quali, non rifiutando il servigio, così lei
poppavano come la madre avrebber fatto; e d'allora innanzi dalla madre a lei
niuna distinzion fecero. Per che, parendo alla gentil donna avere nel diserto
luogo alcuna compagnia trovata, l'erbe pascendo e bevendo l'acqua, e tante
volte piagnendo quante del marito e de'figliuoli e della sua preterita vita si ricordava,
quivi e a vivere e a morire s'era disposta, non meno dimestica della cavriuola
divenuta che de'figliuoli.
E così dimorando la
gentil donna divenuta fiera, avvenne dopo più mesi che per fortuna
similmente quivi arrivò un legnetto di pisani, dove ella prima era
arrivata, e più giorni vi dimorò.
Era sopra quel legno un
gentile uomo chiamato Currado de'marchesi Malespini con una sua donna valorosa
e santa; e venivano di pellegrinaggio da tutti i santi luoghi li quali nel
regno di Puglia sono, e a casa loro se ne tornavano. Il quale, per passare
malinconia, insieme colla sua donna e con alcuni suoi famigliari e con suoi
cani, un dì ad andare fra l'isola si mise, e non guari lontano al luogo,
dove era madama Beritola, cominciarono i cani di Currado a seguire i due
cavriuoli, li quali già grandicelli pascendo andavano; li quali
cavriuoli da'cani cacciati, in nulla altra parte fuggirono che alla caverna
dove era madama Beritola.
La quale, questo vedendo,
levata in piè e preso un bastone, li cani mandò indietro; e quivi
Currado e la sua donna, che i lor cani seguitavano, sopravvenuti, vedendo
costei, che bruna e magra e pilosa divenuta era, si maravigliarono, ed ella
molto più di loro. Ma poi che a'prieghi di lei ebbe Currado i suoi cani
tirati indietro, dopo molti prieghi la piegarono a dire chi ella fosse e che
quivi facesse; la quale pienamente ogni sua condizione e ogni suo accidente e
il suo fiero proponimento loro aperse. Il che udendo Currado, che molto bene
Arrighetto Capece conosciuto avea, di compassion pianse, e con parole assai
s'ingegnò di rimuoverla da proponimento sì fiero, offerendole di
rimenarla a casa sua o di seco tenerla in quello onore che sua sorella, e
stesse tanto che Iddio più lieta fortuna le mandasse innanzi. Alle quali
proferte non piegandosi la donna, Currado con lei lasciò la moglie e le
disse che da mangiare quivi facesse venire, e lei, che tutta era stracciata,
d'alcuna delle sue robe rivestisse e del tutto facesse che seco la ne menasse.
La gentil donna con lei
rimasa, avendo prima molto con madama Beritola pianto de'suoi infortuni, fatti
venire vestimenti e vivande, colla maggior fatica del mondo a prendergli e a
mangiar la condusse; e ultimamente, dopo molti prieghi, affermando ella di mai
non volere andare ove conosciuta fosse, la 'ndusse a doversene seco andare in
Lunigiana insieme co'due cavriuoli e colla cavriuola, la quale in quel mezzo
era tornata e, non senza gran maraviglia della gentil donna, l'avea fatta
grandissima festa.
E così venuto il
buon tempo, madama Beritola con Currado e colla sua donna sopra il lor legno
montò, e con loro insieme la cavriuola e i due cavriuoli (da'quali, non
sappiendosi per tutti il suo nome, ella fu Cavriuola dinominata), e con buon
vento tosto infino nella foce della Magra n'andarono, dove smontati, alle lor
castella ne salirono.
Quivi appresso la donna di
Currado madama Beritola, in abito vedovile, come una sua damigella, onesta e
umile e obediente stette, sempre a'suoi cavriuoli avendo amore e faccendogli
nutricare.
I corsari, li quali avevano
a Ponzo preso il legno sopra il quale madama Beritola venuta era, lei lasciata
sì come da lor non veduta, con tutta l'altra gente a Genova n'andarono;
e quivi tra'padroni della galea divisa la preda, tocco'per avventura, tra
l'altre cose, in sorte ad un messer Guasparrin d'Oria la balia di madama
Beritola e i due fanciulli con lei; il quale lei co'fanciulli insieme a casa
sua ne mandò, per tenergli a guisa di servi né servigi della casa.
La balia, dolente oltre
modo della perdita della sua donna e della misera fortuna nella quale sé e i
due fanciulli caduti vedea, lungamente pianse. Ma, poi che vide le lacrime
niente giovare e sé esser serva con loro insieme, ancora che povera femina
fosse, pure era savia e avveduta; per che, prima come potè il meglio riconfortatasi,
e appresso riguardando dove erano pervenuti, s'avvisò che, se i due
fanciulli conosciuti fossono, per avventura potrebbono di leggiere impedimento
ricevere; e oltre a questo sperando che, quando che sia, si potrebbe mutar la
fortuna ed essi potrebbero, se vivi fossero, nel perduto stato tornare,
pensò di non palesare ad alcuna persona chi fossero, se tempo di
ciò non vedesse; e a tutti diceva, che di ciò domandata
l'avessero, che suoi figliuoli erano. E il maggiore non Giusfredi, ma Giannotto
di Procida nominava; al minore non curò di mutar nome; e con somma
diligenzia mostrò a Giusfredi perché il nome cambiato gli avea e a qual
pericolo egli potesse essere se conosciuto fosse; e questo non una volta ma
molte e molto spesso, gli ricordava; la qual cosa il fanciullo, che intendente
era, secondo l'ammaestramento della savia balia ottimamente faceva.
Stettero adunque, e mal
vestiti e peggio calzati, ad ogni vil servigio adoperati, colla balia insieme
pazientemente più anni i due garzoni in casa messer Guasparrino. Ma
Giannotto, già d'età di sedici anni, avendo più animo che
a servo non s'apparteneva, sdegnando la viltà della servil condizione,
salito sopra galee che in Alessandria andavano, dal servigio di messer Guasparrino
si partì , e in più parti andò in niente potendosi
avanzare.
Alla fine, forse dopo tre o
quattro anni appresso la partita fatta da messer Guasparrino, essendo bel
giovane e grande della persona divenuto, e avendo sentito il padre di lui, il
quale morto credeva che fosse, essere ancor vivo, ma in prigione e in
cattività per lo re Carlo guardato, quasi della fortuna disperato,
vagabundo andando, pervenne in Lunigiana, e quivi per ventura con Currado
Malespina si mise per famigliare, lui assai acconciamente e a grado servendo. E
come che (non) rade volte la sua madre, la quale colla donna di Currado era,
vedesse, niuna volta la conobbe, né ella lui; tanto la età l'uno e
l'altro, da quello che esser soleano quando ultimamente si videro, gli avea
trasformati.
Essendo adunque Giannotto al
servigio di Currado, avvenne che una figliuola di Currado, il cui nome era
Spina, rimasa vedova d'uno Niccolò da Grignano, alla casa del padre
tornò; la quale, essendo assai bella e piacevole e giovane di poco
più di sedici anni, per ventura pose gli occhi addosso a Giannotto, ed
egli a lei, e ferventissimamente l'uno dell'altro s'innamorò. Il quale
amore non fu lungamente senza effetto; e più mesi durò avanti che
di ciò niuna persona s'accorgesse. Per la qual cosa essi, troppo
assicurati, cominciarono a tener maniera men discreta che a così fatte
cose non si richiedea. E andando un giorno per un bosco bello e folto d'alberi
la giovane insieme con Giannotto, lasciata tutta l'altra compagnia, entrarono
innanzi; e parendo loro molto di via aver gli altri avanzati, in un luogo
dilettevole e pien d'erba e di fiori, e d'alberi chiuso, ripostisi, a prendere
amoroso piacere l'un dell'altro incominciarono.
E, come che lungo spazio
stati già fossero insieme, avendo il gran diletto fattolo loro parere
molto brieve, in ciò dalla madre della giovane prima, e appresso da
Currado, soprappresi furono. Il quale, doloroso oltre modo questo vedendo,
senza alcuna cosa dire del perché, amenduni gli fece pigliare a tre suoi
servidori e ad uno suo castello legati menargliene; e d'ira e di cruccio
fremendo andava, disposto di fargli vituperosamente morire.
La madre della giovane,
quantunque molto turbata fosse e degna reputasse la figliuola per lo suo fallo
d'ogni crudel penitenzia, avendo per alcuna parola di Currado compreso qual
fosse l'animo suo verso i nocenti, non potendo ciò comportare,
avacciandosi sopraggiunse l'adirato marito, e cominciollo a pregare che gli
dovesse piacere di non correr furiosamente a volere nella sua vecchiezza della
figliuola divenir micidiale e a bruttarsi le mani del sangue d'un suo fante, e
che egli altra maniera trovasse a sodisfare all'ira sua, sì come di
fargli imprigionare e in prigione stentare e piagnere il peccato commesso. E
tanto e queste e molte altre parole gli andò dicendo la santa donna, che
essa da uccidergli l'animo suo rivolse; e comandò che in diversi luoghi
ciascun di loro imprigionato fosse, e quivi guardati bene, e con poco cibo e
con molto disagio servati infino a tanto che esso altro diliberasse di loro; e
così fu fatto. Quale la vita loro in cattività e in continue
lagrime e in più lunghi digiuni che loro non sarien bisognati si fosse,
ciascuno sel può pensare.
Stando adunque Giannotto e
la Spina in vita così dolente ed essendovi già uno anno, senza
ricordarsi Currado di loro, dimorati, avvenne che il re Piero di Raona, per
trattato di messer Gian di Procida, l'isola di Cicilia ribellò e tolse
al re Carlo; di che Currado, come ghibellino, fece gran festa. La quale
Giannotto sentendo da alcuno di quelli che a guardia l'aveano, gittò un
gran sospiro, e disse:
- Ahi lasso me! che passati
sono omai quattordici anni che io sono andato tapinando per lo mondo, niuna
altra cosa aspettando che questa, la quale, ora che venuta è,
acciò che io mai d'aver ben più non speri, m'ha trovato in prigione,
della quale mai se non morto uscire non spero!
- E come ? - disse il
prigioniere - che monta a te quello che i grandissimi re si facciano? Che avevi
tu a fare in Cicilia?
A cui Giannotto disse:
- El pare che 'l cuor mi si
schianti, ricordandomi di ciò che già mio padre v'ebbe a fare; il
quale, ancora che picciol fanciul fossi quando me ne fuggii, pur mi ricorda che
io nel vidi signore, vivendo il re Manfredi.
Seguì il
prigioniere:
- E chi fu tuo padre?
- Il mio padre - disse
Giannotto - posso io omai sicuramente manifestare, poi del pericolo mi veggio
fuori, il quale io temeva scoprendolo. Egli fu chiamato ed è ancora,
s'el vive, Arrighetto Capece, e io non Giannotto, ma Giusfredi ho nome; e non
dubito punto, se io di qui fossi fuori, che tornando in Cicilia io non vi
avessi ancora grandissimo luogo.
Il valente uomo, senza
più avanti andare, come prima ebbe tempo, tutto questo raccontò a
Currado. Il che Currado udendo, quantunque al prigioniere mostrasse di non
curarsene, andatosene a madonna Beritola, piacevolmente la domandò se
alcun figliuolo avesse d'Arrighetto avuto che Giusfredi avesse nome. La donna
piagnendo rispose che, se il maggiore de'suoi due che avuti avea fosse vivo,
così si chiamerebbe e sarebbe d'eta di ventidue anni.
Questo udendo Currado,
avvisò lui dovere esser desso, e caddegli nell'animo, se così
fosse, che egli ad una ora poteva una gran misericordia fare e la sua vergogna
e quella della figliuola tor via, dandola per moglie a costui; e per ciò
fattosi segretamente Giannotto venire, partitamente d'ogni sua passata vita
l'esaminò. E trovando per assai manifesti indizi lui veramente esser
Giusfredi, figliuolo d'Arrighetto Capece, gli disse:
- Giannotto, tu sai quanta
e quale sia la 'ngiuria la qual tu m'hai fatta nella mia propia figliuola,
là dove, trattandoti io bene e amichevolmente, secondo che servidor si
dee fare, tu dovevi il mio onore e delle mie cose sempre e cercare e operare; e
molti sarebbero stati quegli, a'quali se tu quello avessi fatto che a me
facesti, che vituperosamente ti avrebber fatto morire; so il che la mia
pietà non sofferse. Ora, poi che così è come tu mi
dì , che tu figliuolo sé di gentile uomo e di gentil donna, io voglio
alle tue angoscie, quando tu medesimo vogli, porre fine e trarti della miseria
e della cattività nella qual tu dimori, e ad una ora il tuo onore e 'l
mio nel suo debito luogo riducere. Come tu sai, la Spina, la quale tu con
amorosa, avvegna che sconvenevole a te e a lei, amistà prendesti,
è vedova, e la sua dota è grande e buona; quali sieno i suoi
costumi, e il padre e la madre di lei, tu il sai; del tuo presente stato niente
dico. Per che, quando tu vogli, io sono disposto, dove ella disonestamente
amica ti fu, ch'ella onestamente tua moglie divenga e che in guisa di mio
figliuolo qui, con esso meco e con lei, quanto ti piacerà dimori.
Aveva la prigione macerate
le carni di Giannotto, ma il generoso animo dalla sua origine tratto non aveva
ella in cosa alcuna diminuito, né ancora lo 'ntero amore il quale egli alla sua
donna portava. E quantunque egli ferventemente disiderasse quello che Currado
gli offereva e sé vedesse nelle sue forze, in niuna parte piegò quello
che la grandezza dello animo suo gli mostrava di dover dire, e rispose:
- Currado, né
cupidità di signoria né desiderio di denari né altra cagione alcuna mi
fece mai alla tua vita né alle tue cose insidie, come traditor, porre. Amai tua
figliuola e amo e amerò sempre, per ciò che degna la reputo del
mio amore; e se io seco fui meno che onestamente, secondo la oppinion de'meccanici,
quel peccato commisi, il quale sempre seco tiene la giovanezza congiunto e che,
se via si volesse torre, converrebbe che via si togliesse la giovanezza, e il
quale, se i vecchi si volessero ricordare d'essere stati giovani e gli altrui
difetti colli loro misurare e li loro cogli altrui, non saria grave come tu e
molti altri fanno; e come amico e non come nemico il commisi. Quello che tu
offeri di voler fare sempre il disiderai, e se io avessi creduto che conceduto
mi dovesse esser suto, lungo tempo è che domandato l'avrei; e tanto mi
sarà ora più caro, quanto di ciò la speranza è
minore. Se tu non hai quello animo che le parole tue dimostrano, non mi pascere
di vana speranza; fammi ritornare alla prigione e quivi quanto ti piace mi fa
affliggere, ché quanto io amerò la Spina, tanto sempre per amor di lei
amerò te, che che tu mi ti facci, e avrotti in reverenza.
Currado, avendo costui
udito, si maravigliò e di grande animo il tenne e il suo amore fervente
reputò, e più ne l'ebbe caro; e per ciò levatosi in
piè, l'abbracciò e baciò, e senza dar più indugio
alla cosa, comandò che quivi chetamente fosse menata la Spina.
Ella era nella prigione
magra e pallida divenuta e debole, e quasi un'altra femina che esser non soleva
parea, e così Giannotto un altro uomo: i quali nella presenzia di
Currado di pari consentimento contrassero le sponsalizie secondo la nostra
usanza.
E poi che più
giorni, senza sentirsi da alcuna persona di ciò che fatto era alcuna
cosa, gli ebbe di tutto ciò che bisognò loro e di piacere era
fatti adagiare, parendogli tempo di farne le loro madri liete, chiamate la sua
donna e la Cavriuola, così verso lor disse:
- Che direste voi, madonna,
se io vi facessi il vostro figliuolo maggior riavere, essendo egli marito d'una
delle mie figliuole?
A cui la Cavriuola rispose:
- Io non vi potrei di
ciò altro dire se non che, se io vi potessi più esser tenuta che
io non sono, tanto più vi sarei quanto voi più cara cosa che non
sono io medesima a me mi rendereste; e rendendomela in quella guisa che voi
dite, alquanto in me la mia perduta speranza rivocareste -; e lagrimando si
tacque.
Allora disse Currado alla
sua donna:
- E a te che ne parrebbe,
donna, se io così fatto genero ti donassi?
A cui la donna rispose:
- Non che un di loro, che
gentili uomini sono, ma un ribaldo, quando a voi piacesse, mi piacerebbe.
Allora disse Currado:
- Io spero infra pochi
dì farvi di ciò liete femine.
E veggendo già nella
prima forma i due giovani ritornati, onorevolmente vestitigli, domandò
Giusfredi:
- Che ti sarebbe caro sopra
l'allegrezza la qual tu hai, se tu qui la tua madre vedessi?
A cui Giusfredi rispose:
- Egli non mi si lascia
credere che i dolori de'suoi sventurati accidenti l'abbian tanto lasciata viva;
ma, se pur fosse, sommamente mi saria caro, sì come colui che ancora per
lo suo consiglio mi crederrei gran parte del mio stato ricoverare in Cicilia.
Allora Currado l'una e
l'altra donna quivi fece venire. Elle fecero amendune maravigliosa festa alla
nuova sposa, non poco maravigliandosi, quale spirazione potesse essere stata
che Currado avesse a tanta benignità recato, che Giannotto con lei
avesse congiunto. Al quale madama Beritola, per le parole da Currado udite,
cominciò a riguardare, e da occulta virtù desta in lei alcuna
rammemorazione de'puerili lineamenti del viso del suo figliuolo, senza
aspettare altro dimostramento, colle braccia aperte gli corse al collo; né la
soprabondante pietà e allegrezza materna le permisero di potere alcuna
parola dire, anzi sì ogni virtù sensitiva le chiusero che quasi
morta nelle braccia del figliuol cadde. Il quale, quantunque molto si
maravigliasse, ricordandosi d'averla molte volte avanti in quel castello
medesimo veduta e mai non riconosciutola, pur non dimeno conobbe incontanente
l'odor materno e sé medesimo della sua preterita trascutaggine biasimando, lei
nelle braccia ricevuta lagrimando teneramente baciò. Ma poi che madama
Beritola, pietosamente dalla donna di Currado e dalla Spina aiutata e con acqua
fredda e con altre loro arti, in sé le smarrite forze ebbe rivocate,
rabbraccò da capo il figliuolo con molte lagrime e con molte parole
dolci; e piena di materna pietà mille volte o più il
baciò, ed egli lei reverentemente molto la vide e ricevette.
Ma poi che l'accoglienze
oneste e liete furo iterate tre e quattro volte, non senza gran letizia e
piacere de'circustanti, e l'uno all'altro ebbe ogni suo accidente narrato;
avendo già Currado a'suoi amici significato con gran piacere di tutti il
nuovo parentado fatto da lui, e ordinando una bella e magnifica festa, gli
disse Giusfredi:
- Currado, voi avete fatto
me lieto di molte cose e lungamente avete onorata mia madre; ora, acciò
che niuna parte in quello che per vo'si possa ci resti a fare, vi priego che
voi mia madre e la mia festa e me facciate lieti della presenza di mio
fratello, il quale in forma di servo messer Guasparrin d'Oria tiene in casa il
quale come io vi dissi già, e lui e me prese in corso; e appresso che
voi alcuna persona mandiate in Cicilia, il quale pienamente s'informi delle condizioni
e dello stato del paese, e mettasi a sentire quello che è d'Arrighetto
mio padre, se egli è o vivo o morto; e se è vivo, in che stato; e
d'ogni cosa pienamente informato, a noi ritorni.
Piacque a Currado la
domanda di Giusfredi e, senza alcuno indugio, discretissime persone
mandò e a Genova e in Cicilia. Colui che a Genova andò, trovato
messer Guasparrino, da parte di Currado diligentemente il pregò che lo
Scacciato e la sua balia gli dovesse mandare, ordinatamente narrandogli ciò
che per Currado era stato fatto verso Giusfredi e verso la madre.
Messer Guasparrin si
maraviò forte, questo udendo, e disse:
- Egli è vero che io
farei per Currado ogni cosa, che io potessi, che gli piacesse; e ho bene in
casa avuti, già sono quattordici anni, il garzon che tu dimandi e una
sua madre, li quali io gli manderò volentieri; ma dira'gli da mia parte
che si guardi di non aver troppo creduto o di non credere alle favole di
Giannotto, il qual dì che oggi si fa chiamar Giusfredi, per ciò
che egli è troppo più malvagio che egli non s'avvisa.
E così detto, fatto onorare il valente
uomo, si fece in segreto chiamar la balia e cautamente la esaminò di
questo fatto. La quale, avendo udita la rebellion di Cicilia e sentendo
Arrighetto esser vivo, cacciata via la paura che già avuta avea,
ordinatamente ogni cosa gli disse. e le cagioni gli mostrò per che
quella maniera che fatto aveva tenuta avesse.
Messer Guasparrino,
veggendo li detti della balia con quegli dello ambasciador di Currado
ottimamente convenirsi. cominciò a dar fede alle parole; e per un modo e
per un altro, sì come uomo che astutissimo era, fatta inquisizion di
questa opera, e più ogni ora trovando cose che più fede gli
davano al fatto, vergognandosi del vil trattamento fatto del garzone, in ammenda
di ciò, avendo una sua bella figlioletta d'età d'undici anni,
conoscendo egli chi Arrighetto era stato e fosse, con una gran dota gli
diè per moglie; e, dopo una gran festa di ciò fatta. col garzone
e colla figliuola e collo ambasciadore di Currado e colla balia montato sopra
una galeotta bene armata, se ne venne a Lerici; dove, ricevuto da Currado, con
tutta la sua brigata n'andò ad un castel di Currado, non molto di quivi
lontano, dove la festa grande era apparecchiata.
Quale la festa della madre
fosse rivedendo il suo figliuolo, qual quella de'due fratelli, qual quella di
tutti e tre alla fedel balia, qual quella di tutti fatta a messer Guasparrino e
alla sua figliuola, e di lui a tutti, e di tutti insieme con Currado e colla
sua donna e co'figliuoli e co'suoi amici, non si potrebbe con parole spiegare;
e per ciò a voi, donne, la lascio ad imaginare. Alla quale, acciò
che compiuta fosse, volle Domeneddio, abbondantissimo donatore quando comincia,
sopraggiugnere le liete novelle della vita e del buono stato d'Arrighetto Capece.
Per ciò che, essendo
la festa grande e i convitati (le donne e gli uomini) alle tavole ancora alla
prima vivanda, sopraggiunse colui il quale andato era in Cicilia, e tra l'altre
cose, raccontò d'Arrighetto che, essendo egli in Catania per lo re Carlo
guardato in prigione quando il romore contro al re si levò nella terra,
il popolo a furore corse alla prigione e, uccise le guardie, lui n'avean tratto
fuori, e sì come capitale nemico del re Carlo, l'avevano fatto lor
capitano e seguitolo a cacciare e ad uccidere i franceschi. Per la qual cosa
egli sommamente era venuto nella grazia del re Pietro, il quale lui in tutti i
suoi beni e in ogni suo onore rimesso aveva; laonde egli era in grande e in
buono stato; aggiugnendo che egli aveva lui con sommo onore ricevuto e
inestimabile festa aveva fatta della sua donna e del figliuolo, de'quali mai
dopo la presura sua niente aveva saputo; e oltre a ciò mandava per loro
una saettia con alquanti gentili uomini, li quali appresso venieno.
Costui fu con grande
allegrezza e festa ricevuto e ascoltato; e prestamente Currado con alquanti dei
suoi amici in contro si fecero a'gentili uomini che per madama Beritola e per
Giusfredi venieno, e loro lietamente ricevette, e al suo convito, il quale
ancora al mezzo non era, gl'introdusse.
Quivi e la donna e
Giusfredi e oltre a questi tutti gli altri con tanta letizia gli videro, che
mai simile non fu udita; e essi, avanti che a mangiar si ponessero, da parte
d'Arrighetto e salutarono e ringraziarono, quanto il meglio seppero e
più poterono, Currado e la sua donna dell'onore fatto e alla donna di
lui e al figliuolo; e Arrighetto e ogni cosa che per lui si potesse offersero
al lor piacere. Quindi a messer Guasparrino rivolti, il cui beneficio era
inoppinato, dissero sé essere certissimi che, qualora ciò che per lui
verso lo Scacciato stato era fatto da Arrighetto si sapesse, che grazie
simiglianti e maggiori rendute sarebbono. Appresso questo, lietissimamente
nella festa delle due nuove spose e con li novelli sposi mangiarono.
Nè solo quel
dì fece Currado festa al genero e agli altri suoi e parenti e amici, ma
molti altri. La quale poi che riposata fu, parendo a madama Beritola e a
Giusfredi e agli altri di doversi partire, con molte lagrime da Currado e dalla
sua donna e da messer Guasparrino, sopra la saettia montati, seco la Spina
menandone, si partirono; e avendo prospero vento, tosto in Cicilia pervennero,
dove con tanta festa da Arrighetto tutti parimente, è figliuoli e le
donne, furono in Palermo ricevuti, che dire non si potrebbe giammai: dove poi
molto tempo si crede che essi tutti felicemente vivessero, e, come conoscenti
del ricevuto beneficio, amici di Messer Domeneddio.
Giornata seconda - Novella
settima
Il soldano di Babilonia ne
manda una sua figliuola a marito al re del Garbo, la quale per diversi
accidenti in spazio di quattro anni alle mani di nove uomini perviene in
diversi luoghi; ultimamente, restituita al padre per pulcella, ne va al re del
Garbo, come prima faceva, per moglie.
Forse non molto più
si sarebbe la novella d'Emilia distesa, che la compassione avuta dalle giovani
donne a'casi di madama Beritola loro avrebbe condotte a lagrimare. Ma, poi che
a quella fu posta fine, piacque alla reina che Panfilo seguitasse, la sua
raccontando; per la qual cosa egli, che ubidientissimo era, incominci.
Malagevolmente, piacevoli
donne, si può da noi conoscer quello che per noi si faccia, per ci che,
se come assai volte s'è potuto vedere, molti estimando, se essi ricchi
divenissero, senza sollecitudine e sicuri poter vivere, quello non solamente
con prieghi a Dio addomandarono, ma sollecitamente, non recusando alcuna fatica
o pericolo, d'acquistarlo cercarono; e, come che loro venisse fatto, trovarono
chi per vaghezza di così ampia eredità gli uccise, li quali
avanti che arricchiti fossero amavan la vita loro. Altri di basso stato per
mille pericolose battaglie, per mezzo il sangue de'fratelli e degli amici loro
saliti all'altezza de'regni, in quegli somma felicità esser credendo,
senza le infinite sollecitudini e paure di che piena la videro e sentirono,
conobbero, non senza la morte loro, che nell'oro alle mense reali si beveva il
veleno. Molti furono che la forza corporale e la bellezza, e certi gli ornamenti,
con appetito ardentissimo disiderarono, né prima d'aver mal disiderato
s'avvidero, che essi quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita
cagione.
E acciò che io
partitamente di tutti gli umani disideri non parli, affermo niuno poterne
essere con pieno avvedimento, sì come sicuro da'fortunosi casi, che
da'viventi si possa eleggere; per che, se dirittamente operar volessimo, a
quello prendere e possedere ci dovremmo disporre che Colui ci donasse, il quale
sol ciò che ci fa bisogno conosce e puolci dare. Ma per ciò che,
come che gli uomini in varie cose pecchino disiderando, voi, graziose donne,
sommamente peccate in una, cioè nel disiderare d'esser belle, in tanto
che, non bastandovi le bellezze che dalla natura concedute vi sono, ancora con
maravigliosa arte quelle cercate d'accrescere, mi piace di raccontarvi quanto
sventuratamente fosse bella una saracina, alla quale in forse quattro anni
avvenne per la sua bellezza di fare nuove nozze da nove volte.
Già è buon
tempo passato che di Babilonia fu un soldano, il quale ebbe nome Beminedab, al
quale ne'suoi dì assai cose secondo il suo piacere avvennero. Aveva
costui, tra gli altri suoi molti figliuoli e maschi e femine, una figliuola
chiamata Alatiel, la quale, per quello che ciascuno che la vedeva dicesse, era
la più bella femina che si vedesse in quei tempi nel mondo; e per
ciò che in una grande sconfitta, la quale aveva data ad una gran
moltitudine d'arabi che addosso gli eran venuti, l'aveva maravigliosamente
aiutato il re del Garbo, a lui, domandandogliele egli di grazia speziale,
l'aveva per moglie data, e lei con onorevole compagnia e d'uomini e di donne e
con molti nobili e ricchi arnesi fece sopra una nave bene armata e ben
corredata montare, e a lui mandandola, l'accomandò a Dio.
I marinari, come videro il
tempo ben disposto, diedero le vele a'venti e del porto d'Alessandria si
partirono e più giorni felicemente navigarono; e già avendo la
Sardigna passata, parendo loro alla fine del loro cammino esser vicini, si
levarono subitamente un giorno diversi venti, li quali, essendo ciascuno oltre
modo impetuoso, sì faticarono la nave dove la donna era e'marinari, che
più volte per perduti si tennero. Ma pure, come valenti uomini, ogni
arte e ogni forza operando, essendo da infinito mare combattuti, due dì
sostennero; e surgendo già dalla tempesta cominciata la terza notte, e
quella non cessando ma crescendo tutta fiata, non sappiendo essi dove si
fossero né potendolo per estimazion marinaresca comprendere né per vista, per
ciò che oscurissimo di nuvoli e di buia notte era il cielo, essendo essi
non guari sopra Maiolica, sentirono la nave sdrucire.
Per la qual cosa, non
veggendovi alcun rimedio al loro scampo, avendo a mente ciascun sè
medesimo e non altrui, in mare gittarono un paliscalmo, e sopra quello più
tosto di fidarsi disponendo, che sopra la isdrucita nave, si gittarono i
padroni; a'quali appresso or l'uno or l'altro di quanti uomini erano nella
nave, quantunque quelli che prima nel paliscalmo eran discesi colle coltella in
mano il contradicessero, tutti si gittarono; e, credendosi la morte fuggire, in
quella incapparono; per ciò che non potendone per la contrarietà
del tempo tanti reggere il paliscalmo, andato sotto, tutti quanti perirono. E
la nave, che da impetuoso vento era sospinta, quantunque sdrucita fosse e
già presso che piena d'acqua (non essendovi su rimasa altra persona che
la donna e le sue femine, e quelle tutte per la tempesta del mare e per la
paura vinte su per quella quasi morte giacevano), velocissimamente correndo, in
una piaggia dell'isola di Maiolica percosse; e fu tanta e sì grande la
foga di quella, che quasi tutta si ficcò nella rena vicina al lito forse
una gittata di pietra; e quivi dal mar combattuta, la notte, senza poter
più dal vento esser mossa, si stette.
Venuto il giorno chiaro e
alquanto la tempesta acchetata, la donna, che quasi mezza morta era,
alzò la testa, e così debole come era cominciò a chiamare
ora uno e ora un altro della sua famiglia; ma per niente chiamava, ché i
chiamati eran troppo lontani. Per che, non sentendosi rispondere ad alcuno né
alcuno veggendone, si maravigliò molto e cominciò ad avere
grandissima paura; e come meglio potè levatasi, le donne che in
compagnia di lei erano e l'altre femine tutte vide giacere, e or l'una e or
l'altra dopo molto chiamare tentando, poche ve ne trovò che avessono
sentimento, sì come quelle che, tra per grave angoscia di stomaco e per
paura morte s'erano; di che la paura alla donna divenne maggiore. Ma nondimeno,
strignendola necessità di consiglio, per ciò che quivi tutta sola
si vedeva, non conoscendo o sappiendo dove si fosse, pure stimolò tanto
quelle che vive erano, che su le fece levare; e trovando quelle non sapere dove
gli uomini andati fossero, e veggendo la nave in terra percossa e d'acqua
piena, con quelle insieme dolorosamente cominciò a piagnere.
E già era ora di
nona, avanti che alcuna persona su per lo lito o in altra parte vedessero, a
cui di sé potessero fare venire alcuna pietà ad aiutarle. In su la nona,
per avventura da un suo luogo tornando, passò quindi un gentile uomo, il
cui nome era Pericon da Visalgo, con più suoi famigli a cavallo, il
quale, veggendo la nave, subitamente imaginò ciò che era e
comandò ad un de'famigli che senza indugio procacciasse di su montarvi e
gli raccontasse ciò che vi fosse. Il famigliare, ancora che con
difficultà il facesse, pur vi montò su, e trovò la gentil
giovane, con quella poca compagnia che avea, sotto il becco della proda della
nave tutta timida star nascosa. Le quali, come costui videro, piagnendo
più volte misericordia addomandarono; ma, accorgendosi che intese non
erano, né esse lui intendevano, con atti s'ingegnarono di dimostrare la loro
disavventura.
Il famigliare, come
potè il meglio ogni cosa ragguardata, raccontò a Pericone
ciò che su v'era; il quale, prestamente fattone giù torre le
donne e le più preziose cose che in essa erano e che aver si potessono,
con esse n'andò ad un suo castello; e quivi con vivande e con riposo
riconfortate le donne, comprese, per gli arnesi ricchi, la donna che trovata
avea dovere essere gran gentil donna, e lei prestamente conobbe all'onore che
vedeva dall'altre fare a lei sola. E quantunque pallida e assai male in ordine
della persona per la fatica del mare allor fosse la donna, pur parevano le sue
fattezze bellissime a Pericone; per la qual cosa subitamente seco
diliberò, se ella marito non avesse, di volerla per moglie, e se per
moglie avere non la potesse, di volere avere la sua amistà.
Era Pericone uomo di fiera
vista e robusto molto; e avendo per alcun dì la donna ottimamente fatta
servire, e per questo essendo ella riconfortata tutta, veggendola esso oltre ad
ogni estimazione bellissima, dolente senza modo che lei intendere non poteva né
ella lui, e così non poter saper chi si fosse, acceso nondimeno della
sua bellezza smisuratamente, con atti piacevoli e amorosi s'ingegnò
d'inducerla a fare senza contenzione i suoi piaceri. Ma ciò era niente:
ella rifiutava del tutto la sua dimestichezza; e intanto più s'accendeva
l'ardore di Pericone. Il che la donna veggendo, e già quivi per alcuni
giorni dimorata, e per li costumi avvisando che tra cristiani era e in parte
dove, se pure avesse saputo, il farsi conoscere le montava poco, avvisandosi
che a lungo andare o per forza o per amore le converrebbe venire a dovere i
piaceri di Pericon fare, con altezza d'animo seco propose di calcare la miseria
della sua fortuna, e alle sue femine, che più che tre rimase non le ne
erano, comandò che ad alcuna persona mai manifestassero chi fossero,
salvo se in parte si trovassero dove aiuto manifesto alla lor libertà
conoscessero; oltre a questo sommamente confortandole a conservare la loro
castità, affermando sé aver seco proposto che mai di lei se non il suo
marito goderebbe. Le sue femine di ciò la commendarono, e dissero di servare
al loro potere il suo comandamento.
Pericone, più di
giorno in giorno accendendosi, e tanto più quanto più vicina si
vedeva la disiderata cosa e più negata, e veggendo che le sue lusinghe
non gli valevano, di spose lo 'ngegno e l'arti, riserbandosi alla fine le forze.
Ed essendosi avveduto alcuna volta che alla donna piaceva il vino, sì
come a colei che usata non n'era di bere per la sua legge che il vietava, con
quello, sì come con ministro di Venere, s'avvisò di poterla
pigliare; e mostrando di non aver cura di ciò che ella si mostrava
schifa, fece una sera, per modo di solenne festa, una bella cena, nella quale
la donna venne; e in quella, essendo di molte cose la cena lieta, ordinò
con colui che a lei serviva, che di vari vini mescolati le desse bere. Il che colui
ottimamente fece; ed ella, che di ciò non si guardava, dalla
piacevolezza del beveraggio tirata, più ne prese che alla sua
onestà non sarebbe richiesto; di che ella, ogni avversità
trapassata dimenticando, divenne lieta, e veggendo alcune femine alla guisa di Maiolica
ballare, essa alla maniera alessandrina ballò.
Il che veggendo Pericone,
esser gli parve vicino a quel che egli disiderava; e continuando in più
abbondanza di cibi e di beveraggi la cena, per grande spazio di notte la
prolungò. Ultimamente, partitisi i convitati, colla donna solo se
n'entrò nella camera; la quale, più calda di vino che
d'onestà temperata, quasi come se Pericone una delle sue femine fosse,
senza alcuno ritegno di vergogna, in presenza di lui spogliatasi, se n'entrò
nel letto. Pericone non diede indugio a seguitarla; ma spento ogni lume,
prestamente dall'altra parte le si coricò allato, e in braccio
recatalasi, senza alcuna contradizione di lei, con lei incominciò
amorosamente a sollazzarsi; il che poi che ella ebbe sentito, non avendo mai
davanti saputo con che corno gli uomini cozzano, quasi pentuta del non avere
alle lusinghe di Pericone assentito, senza attendere d'essere a così
dolci notti invitata, spesse volte sé stessa invitava, non colle parole, ché
non si sapea fare intendere, ma co'fatti.
A questo gran piacere di
Pericone e di lei, non essendo la fortuna contenta d'averla di moglie d'un re
fatta divenire amica d'un castellano, le si parò davanti più
crudele amistà.
Aveva Pericone un fratello
d'età di venticinque anni, bello e fresco come una rosa, il cui nome era
Marato; il quale, avendo costei veduta ed essendogli sommamente piaciuta,
parendogli, secondo che per gli atti di lei poteva comprendere, essere assai
bene della grazia sua ed estimando che ciò che di lei disiderava niuna
cosa gliele toglieva se non la solenne guardia che faceva di lei Pericone,
cadde in un crudel pensiero, e al pensiero seguì senza indugio lo
scelerato effetto.
Era allora per ventura nel
porto della città una nave, la quale di mercatantia era carica per
andare in Chiarenza in Romania, della quale due giovani genovesi eran padroni,
e già aveva collata la vela per doversi, come buon vento fosse, partire;
colli quali Marato convenutosi, ordinò come da loro colla donna la
seguente notte ricevuto fosse. E questo fatto, faccendosi notte, seco
ciò che far doveva avendo disposto, alla casa di Pericone, il quale di
niente da lui si guardava, sconosciutamente se n'andò con alcuni suoi
fidatissimi compagni, li quali a quello che fare intendeva richiesti aveva, e nella
casa, secondo l'ordine tra lor posto, si nascose.
E poi che parte della notte
fu trapassata, aperto a'suoi compagni, là dove Pericon colla donna
dormiva n'andarono, e quella aperta, Pericon dormente uccisono, e la donna
desta e piagnente minacciando di morte, se alcun romore facesse, presero; e con
gran parte delle più preziose cose di Pericone, senza essere stati
sentiti, prestamente alla marina n'andarono, e quivi senza indugio sopra la
nave se ne montarono Marato e la donna, e'suoi compagni se ne tornarono.
I marinari, avendo buon
vento e fresco, fecero vela al lor viaggio.
La donna amaramente e della
sua prima sciagura e di questa seconda si dolfe molto; ma Marato, col santo
Cresci-in-man che Iddio ci diè, la cominciò per sì fatta
maniera a consolare, che ella, già con lui dimesticatasi, Pericone
dimenticato avea; e già le pareva star bene, quando la fortuna
l'apparecchiò nuova tristizia, quasi non contenta delle passate. Per
ciò che, essendo ella di forma bellissima, sì come già
più volte detto avemo, e di maniere laudevoli molto, sì forte di
lei i due giovani padroni della nave s'innamorarono che, ogn'altra cosa
dimenticatane, solamente a servirle e a piacerle intendevano, guardandosi
sempre non Marato s'accorgesse della cagione.
Ed essendosi l'uno dell'altro
di questo amore avveduto, di ciò ebbero insieme segreto ragionamento, e
convennersi di fare l'acquisto di questo amor comune, quasi amore così
questo dovesse patire, come la mercatantia o i guadagni fanno. E veggendola
molto da Marato guardata, e per ciò alla loro intenzione impediti,
andando un dì a vela velocissimamente la nave, e Marato standosi sopra
la poppa e verso il mare riguardando, di niuna cosa da loro guardandosi, di
concordia andarono e, lui prestamente di dietro preso, il gittarono in mare; e
prima per ispazio di più d'un miglio dilungati furono, che alcuno si
fosse pure avveduto Marato esser caduto in mare; il che sentendo la donna, e
non veggendosi via da poterlo ricoverare, nuovo cordoglio sopra la nave a far
cominciò.
Al conforto della quale i
due amanti incontanente vennero, e con dolci parole e con promesse grandissime,
quantunque ella poco intendesse, lei, che non tanto il perduto Marato quanto la
sua sventura piagnea, s'ingegnavan di racchetare. E dopo lunghi sermoni e una e
altra volta con lei usati, parendo loro lei quasi avere racconsolata, a
ragionamento vennero tra sé medesimi, qual prima di loro la dovesse con seco
menare a giacere. E, volendo ciascuno essere il primo, né potendosi in
ciò tra loro alcuna concordia trovare, prima con parole grave e dura
riotta incominciarono, e da quella accesi nell'ira, messo mano alle coltella,
furiosamente s'andarono addosso, e più colpi (non potendo quelli che
sopra la nave erano dividergli) si diedono insieme, de'quali incontanente l'un
cadde morto e l'altro, in molte parti della persona gravemente fedito, rimase
in vita. Il che dispiacque molto alla donna, sì come a colei che quivi
sola senza aiuto o consiglio d'alcun si vedea, e temeva forte non sopra lei
l'ira si volgesse de'parenti e degli amici de'due padroni; ma i prieghi del
fedito e il prestamente pervenire a Chiarenza, dal pericolo della morte la
liberarono. Dove col fedito insieme discese in terra, e con lui dimorando in
uno albergo, subitamente corse la fama della sua gran bellezza per la
città, e agli orecchi del prenze della Morea, il quale allora era in
Chiarenza, pervenne; laonde egli veder la volle, e vedutola, e oltre a quello
che la fama portava bella parendogli, sì forte di lei subitamente
s'innamorò, che ad altro non poteva pensare.
E avendo udito in che guisa
quivi pervenuta fosse, s'avvisò di doverla potere avere. E cercando
de'modi, e i parenti del fedito sappiendolo, senza altro aspettare, prestamente
gliele mandarono; il che al prenze fu sommamente caro e alla donna
altressì, per ciò che fuor d'un gran pericolo esser le parve. Il
prenze vedendola, oltre alla bellezza, ornata di costumi reali, non potendo
altramenti saper chi ella si fosse, nobile donna dovere essere l'estimò,
e per tanto il suo amore in lei si raddoppiò; e onorevolmente molto
tenendola, non a guisa d'amica, ma di sua propia moglie la trattava.
Il perché, avendo
a'trapassati mali alcun rispetto la donna e parendole assai bene stare, tutta
riconfortata e lieta divenuta, in tanto le sue bellezze fiorirono, che di niuna
altra cosa pareva che tutta la Romania avesse da favellare. Per la qual cosa al
duca d'Atene, giovane e bello e pro'della persona, amico e parente del prenze,
venne disidero di vederla; e mostrando di venirlo a visitare, come usato era talvolta
di fare, con bella e onorevole compagnia se ne venne a Chiarenza, dove
onorevolmente fu ricevuto e con gran festa.
Poi dopo alcuni dì
venuti insieme a ragionamento delle bellezze di questa donna, domandò il
duca se così era mirabil cosa come si ragionava. A cui il prenze
rispose:
- Molto più; ma di
ciò non le mie parole, ma gli occhi tuoi voglio ti faccian fede.
A che sollecitando il duca
il prenze, insieme n'andarono là dove ella era; la quale costumatamente
molto e con lieto viso, avendo davanti sentita la lor venuta, gli ricevette; e
in mezzo di loro fattala sedere, non si potè di ragionar con lei prender
piacere, per ciò che essa poco o niente di quella lingua intendeva. Per
che ciascun lei, sì come maravigliosa cosa, guardava, e il duca
massimamente, il quale appena seco poteva credere lei essere cosa mortale; e
non accorgendosi, riguardandola, dell'amoroso veleno che egli con gli occhi
bevea, credendosi al suo piacer sodisfare mirandola, sé stesso miseramente
impacciò, di lei ardentissimamente innamorandosi.
E poi che da lei insieme
col prenze partito si fu ed ebbe spazio di poter pensare seco stesso, estimava
il prenze sopra ogni altro felice, sì bella cosa avendo al suo piacere;
e, dopo molti e vari pensieri, pesando più il suo focoso amore che la
sua onestà, diliberò, che che avvenir se ne dovesse, di privare
di questa felicità il prenze e sé a suo potere farne felice.
E avendo l'animo al doversi
avacciare, lasciando ogni ragione e ogni giustizia dall'una delle parti,
agl'inganni tutto il suo pensier dispose; e un giorno, secondo l'ordine
malvagio da lui preso, insieme con un segretissimo cameriere del prenze, il
quale avea nome Ciuriaci, segretissimamente tutti i suoi cavalli e le sue cose
fece mettere in assetto per doversene andare; e la notte vegnente insieme con
un compagno, tutti armati, messo fu dal predetto Ciuriaci nella camera del
prenze chetamente, il quale egli vide che per lo gran caldo che era, dormendo
la donna, esso tutto ignudo si stava ad una finestra volta alla marina a
ricevere un venticello che da quella parte veniva. Per la qual cosa, avendo il
suo compagno davanti informato di quello che avesse a fare, chetamente
n'andò per la camera infino alla finestra, e quivi con un coltello
ferito il prenze per le reni, infino all'altra parte il passò e,
prestamente presolo, dalla finestra il gittò fuori.
Era il palagio sopra il
mare, e alto molto, e quella finestra alla quale allora era il prenze, guardava
sopra certe case dall'impeto del mare fatte cadere, nelle quali rade volte o
non mai andava persona; per che avvenne, sì come il duca davanti avea
provveduto, che la caduta del corpo del prenze da alcuno non fu né potè
esser sentita.
Il compagno del duca
ciò veggendo esser fatto, prestamente un capestro da lui per ciò
portato, faccendo vista di fare carezze a Ciuriaci, gli gittò alla gola,
e tirò sì che Ciuriaci niuno romore potè fare; e sopraggiuntovi
il duca, lui strangolarono, e dove il prenze gittato avea il gittarono. E
questo fatto, manifestamente conoscendo sé non esser stati né dalla donna né da
altrui sentiti, prese il duca un lume in mano, e quello portò sopra il
letto, e chetamente tutta la donna, la quale fisamente dormiva, scoperse; e
riguardandola tutta, la lodò sommamente, e se vestita gli era piaciuta,
oltre ad ogni comparazione ignuda gli piacque. Per che, di più caldo
disio accesosi, non spaventato dal ricente peccato da lui commesso, con le mani
ancor sanguinose, allato le si coricò e con lei, tutta sonnocchiosa e
credente che il prenze fosse, si giacque.
Ma poi che alquanto con
grandissimo piacere fu dimorato con lei, levatosi e fatto alquanti de'suoi
compagni quivi venire, fe'prender la donna in guisa che romore far non potesse,
e per una falsa porta, dond'egli entrato era, trattala, e a caval messala,
quanto più potè tacitamente, con tutti i suoi entrò in
cammino, e verso Atene se ne tornò. Ma (per ciò che moglie aveva)
non in Atene, ma ad un suo bellissimo luogo, che poco di fuori dalla
città sopra il mare aveva, la donna più che altra dolorosa mise,
quivi nascosamente tenendola e faccendola onorevolmente di ciò che
bisognava servire.
Avevano la seguente mattina
i cortigiani del prenze infino a nona aspettato che '1 prenze si levasse; ma
niente sentendo, sospinti gli usci delle camere, che solamente chiusi erano, e
niuna persona trovandovi, avvisando che occultamente in alcuna parte andato
fosse per istarsi alcun dì a suo diletto con quella sua bella donna,
più non si dierono impaccio.
E così standosi,
avvenne che il dì seguente un matto, entrato intra le ruine dove il
corpo del prenze e di Ciuriaci erano, per lo capestro tirò fuori
Ciuriaci, e andavaselo tirando dietro. Il quale non senza gran maraviglia fu
riconosciuto da molti, li quali con lusinghe fattisi menare al matto là,
onde tratto l'avea, quivi, con grandissimo dolore di tutta la città,
quello del prenze trovarono, e onorevolmente il sepellirono; e de'commettitori
di così grande eccesso investigando, e veggendo il duca d'Atene non
esservi, ma essersi furtivamente partito, estimarono, così come era, lui
dovere aver fatto questo e menatasene la donna. Per che prestamente in lor
prenze un fratello del morto prenze sustituendo, lui alla vendetta con ogni lor
potere incitarono; il quale, per più altre cose poi accertato
così essere come imaginato avieno, richiesti e amici e parenti e
servidori di diverse parti, prestamente congregò una bella e grande e
poderosa oste, e a far guerra al duca d'Atene si dirizzò.
Il duca, queste cose
sentendo, a difesa di sé similmente ogni suo sforzo apparecchiò, e in
aiuto di lui molti signor vennero, tra'quali, mandati dallo imperadore di
Costantino poli, furono Constanzio suo figliuolo e Manovello suo nepote, con
bella e con gran gente; li quali dal duca onorevolemente ricevuti furono, e
dalla duchessa più, per ciò che loro sirocchia era.
Appressandosi di giorno in
giorno più alla guerra le cose, la duchessa, preso tempo, amenduni nella
camera se gli fece venire, e quivi con lagrime assai e con parole molte tutta
la istoria narrò, le cagioni della guerra mostrando e il dispetto a lei
fatto dal duca della femina, la quale nascosamente si credeva tenere; e forte
di ciò condogliendosi, gli pregò che allo onor del duca e alla
consolazion di lei quello compenso mettessero, che per loro si potesse il
migliore.
Sapevano i giovani tutto il
fatto come stato era, e per ciò, senza troppo addomandar, la duchessa
come seppero il meglio riconfortarono e di buona speranza la riempirono; e da
lei informati dove stesse la donna, si dipartirono. E avendo molte volte udita
la donna di maravigliosa bellezza commendare, disideraron di vederla e il duca
pregarono che loro la mostrasse. Il quale, mal ricordandosi di ciò che
al prenze avvenuto era per averla mostrata a lui, promise di farlo; e fatto in
un bellissimo giardino (che nel luogo, dove la donna dimorava, era)
apparecchiare un magnifico desinare, loro la seguente mattina con pochi altri
compagni a mangiar con lei menò.
E sedendo Constanzio con
lei, la cominciò a riguardare pieno di maraviglia, seco affermando mai
sì bella cosa non aver veduta, e che per certo per iscusato si doveva
avere il duca e qualunque altro che, per avere una così bella cosa,
facesse tradimento o altra disonesta cosa; e una volta e altra mirandola, e
più ciascuna commendandola, non altramenti a lui avvenne che al duca
avvenuto era. Per che, da lei innamorato partitosi, tutto il pensiero della
guerra abbandonato, si diede a pensare come al duca torre la potesse, ottimamente
a ciascuna persona il suo amor celando.
Ma, mentre che esso in
questo fuoco ardeva, sopravenne il tempo d'uscire contro al prenze, che
già alle terre del duca s'avvicinava; per che il duca e Constanzio e gli
altri tutti, secondo l'ordine dato, d'Atene usciti, andarono a contrastare a
certe frontiere, acciò che più avanti non potesse il prenze
venire. E quivi per più dì dimorando, avendo sempre Constanzio
l'animo e '1 pensiero a quella donna, imaginando che, ora che '1 duca non l'era
vicino, assai bene gli potrebbe venir fatto il suo piacere, per aver cagione di
tornarsi ad Atene si mostrò forte della persona disagiato; per che, con
licenzia del duca, commessa ogni sua podestà in Manovello, ad Atene se
ne venne alla sorella, e quivi, dopo alcun dì, messala nel ragionare del
dispetto che dal duca le pareva ricevere per la donna la qual teneva, le disse
che, dove ella volesse, egli assai bene di ciò l'aiuterebbe, faccendola
di colà ove era trarre e menarla via.
La duchessa, estimando
Constanzio questo per amore di lei e non della donna fare, disse che molto le
piacea, sì veramente dove in guisa si facesse che il duca mai non
risapesse che essa a questo avesse consentito; il che Constanzio pienamente le
promise. Per che la duchessa consentì che egli, come il meglio gli
paresse, facesse.
Constanzio chetamente fece
armare una barca sottile, e, quella una sera ne mandò vicina al giardino
dove dimorava la donna, informati de'suoi che su v'erano quello che a fare
avessero, e appresso con altri n'andò al palagio dove era la donna; dove
da quegli che quivi al servigio di lei erano fu lietamente ricevuto, e ancora
dalla donna, e con esso lui da'suoi servidori accompagnata e da'compagni di
Constanzio, sì come gli piacque, se n'andò nel giardino. E quasi
alla donna da parte del duca parlar volesse con lei verso una porta che sopra
il mare usciva solo se n'andò, la quale già essendo da uno de
suoi compagni aperta, e quivi col segno dato chiamata la barca, fattala
prestamente prendere e sopra la barca porre, rivolto alla famiglia di lei
disse:
- Niuno se ne muova né
faccia motto, se egli non vuol morire, per ciò che io intendo non di
rubare al duca la femina sua, ma di torre via l'onta la quale egli fa alla mia
sorella.
A questo niuno ardì
di rispondere; per che Constanzio co'suoi sopra la barca montato e alla donna
che piagnea accostatosi, comandò che de'remi dessero in acqua e andasser
via. Li quali, non vogando ma volando, quasi in sul dì del seguente
giorno ad Egina pervennero.
Quivi in terra discesi e
riposandosi, Constanzio colla donna, che la sua sventurata bellezza piagnea, si
sollazzò; quindi, rimontati in su la barca, infra pochi giorni
pervennero a Chios, e quivi, per tema delle riprensioni del padre e che la
donna rubata non gli fosse tolta, piacque a Constanzio, come in sicuro luogo,
di rimanersi; dove più giorni la bella donna pianse la sua disavventura;
ma pur poi da Constanzio riconfortata, come l'altre volte fatto avea,
s'incominciò a prendere piacere di ciò che la fortuna avanti
l'apparecchiava.
Mentre queste cose andavano
in questa guisa, Osbech, allora re de'turchi, il quale in continua guerra stava
collo imperadore, in questo tempo venne per caso alle Smirre; e quivi udendo
come Constanzio in lasciva vita con una sua donna, la quale rubata avea, senza
alcun provedimento si stava in Chios, con alcuni legnetti armati là
andatone una notte e tacitamente colla sua gente nella terra entrato, molti
sopra le letta ne prese prima che s'accorgessero li nemici esser sopravenuti; e
ultimamente alquanti, che, risentiti, erano all'arme corsi, n'uccisero; e arsa
tutta la terra, e la preda e'prigioni sopra le navi posti, verso le Smirre si
ritornarono.
Quivi pervenuti, trovando
Osbech, che giovane uomo era, nel riveder della preda, la bella donna, e
conoscendo questa esser quella che con Constanzio era stata sopra il letto
dormendo presa, fu sommamente contento veggendola; e senza niuno indugio sua
moglie la fece e celebrò le nozze e con lei si giacque più mesi
lieto.
Lo 'mperadore, il quale,
avanti che queste cose avvenissero, aveva tenuto trattato con Basano re di
Capadocia, acciò che sopra Osbech dall'una parte con le sue forze
discendesse, ed egli colle sue l'assalirebbe dall'altra, né ancora pienamente
l'aveva potuto fornire, per ciò che alcune cose le quali Basano addomandava,
sì come meno convenevoli, non aveva voluto fare, sentendo ciò che
al figliuolo era avvenuto, dolente fuor di misura, senza alcuno indugio
ciò che il re di Capadocia domandava fece, e lui quanto più
potè allo scendere sopra Osbech sollecitò, apparecchiandosi egli
d'altra parte d'andargli addosso.
Osbech, sentendo questo, il
suo essercito ragunato, prima che da due potentissimi signori fosse stretto in
mezzo, andò contro al re di Capadocia, lasciata nelle Smirre a guardia
d'un suo fedel famigliare e amico la sua bella donna, e col re di Capadocia
dopo alquanto tempo affrontatosi combatté, e fu nella battaglia morto e il suo
essercito sconfitto e disperso. Per che Basano vittorioso cominciò
liberamente a venirsene verso le Smirre, e vegnendo, ogni gente a lui,
sì come a vincitore, ubbidiva.
Il famigliare d'Osbech, il
cui nome era Antioco, a cui la bella donna era a guardia rimasa, ancora che
attempato fosse, veggendola così bella, senza servare al suo amico e
signor fede, di lei s'innamorò; e sappiendo la lingua di lei (il che
molto a grado l'era, sì come a colei alla quale parecchi anni a guisa
quasi di sorda e di mutola era convenuta vivere, per lo non aver persona
inteso, né essa essere stata intesa da persona), da amore incitato, cominciò
seco tanta famigliarità a pigliare in pochi dì, che non dopo
molto, non avendo riguardo al signor loro che in arme e in guerra era, fecero
la dimestichezza non solamente amichevole, ma amorosa divenire, l'uno
dell'altro pigliando sotto le lenzuola maraviglioso piacere.
Ma sentendo costoro Osbech
essere vinto e morto, e Basano ogni cosa venir pigliando, insieme per partito
presero di quivi non aspettarlo; ma, presa grandissima parte delle più
care cose che quivi eran d'Osbech, insieme nascosamente se n'andarono a Rodi; e
quivi non guari di tempo dimorarono, che Antioco infermò a morte. Col
quale tornando per ventura un mercatante cipriano, da lui molto amato e
sommamente suo amico, sentendosi egli verso la fine venire, pensò di
volere e le sue cose e la sua cara donna lasciare a lui. E già alla
morte vicino, amenduni gli chiamò, così dicendo:
- Io mi veggio senza alcun
fallo venir meno; il che mi duole, per ciò che di vivere mai non mi
giovò come or faceva. E' il vero che d'una cosa contentissimo muoio, per
ciò che, pur dovendo morire, mi veggio morire nelle braccia di quelle
due persone le quali io più amo che alcune altre che al mondo ne sieno,
cioè nelle tue, carissimo amico, e in quelle di questa donna, la quale
io più che me medesimo ho amata poscia che io la conobbi. E' il vero che
grave m'è, lei sentendo qui forestiera e senza aiuto e senza consiglio,
morendomi io, rimanere; e più sarebbe grave ancora, se io qui non
sentissi te, il quale io credo che quella cura di lei avrai per amor di me, che
di me medesimo avresti; e per ciò quanto più posso ti priego, che
s'egli avviene che io muoia, che le mie cose ed ella ti sieno raccomandate, e
quello dell'une e dell'altra facci, che credi che sia consolazione dell'anima
mia. E te, carissima donna, priego che dopo la mia morte me non dimentichi,
acciò che io di là vantar mi possa, che io di qua amato sia dalla
più bella donna che mai formata fosse dalla natura. Se di queste due
cose voi mi darete intera speranza, senza niun dubbio n'andrò consolato.
L'amico mercatante e la donna
similmente, queste parole udendo, piagnevano; e avendo egli detto, il
confortarono e promisongli sopra la lor fede di quel fare che egli pregava, se
avvenisse che el morisse. Il quale non stette guari che trapassò e da
loro fu onorevolmente fatto sepellire.
Poi, pochi dì
appresso, avendo il mercatante cipriano ogni suo fatto in Rodi spacciato e in
Cipri volendosene tornare sopra una cocca di catalani che v'era, domandò
la bella donna quello che far volesse, con ciò fosse cosa che a lui convenisse
in Cipri tornare. La donna rispose che con lui, se gli piacesse, volentieri se
n'andrebbe, sperando che per amor d'Antioco da lui come sorella sarebbe
trattata e riguardata. Il mercatante rispose che d'ogni suo piacere era
contento; e acciò che da ogni ingiuria che sopravenire le potesse avanti
che in Cipri fosser la difendesse, disse che era sua moglie. E sopra la nave
montati, data loro una cameretta nella poppa, acciò che i fatti non
paressero alle parole contrari, con lei in uno lettuccio assai piccolo si dormiva.
Per la qual cosa avvenne quello che né dell'un né dell'altro nel partir da Rodi
era stato intendimento, cioè che incitandogli il buio e l'agio e '1
caldo del letto, le cui forze non son piccole, dimenticata l'amistà e
l'amor d'Antioco morto, quasi da iguale appetito tirati, cominciatisi a
stuzzicare insieme, prima che a Baffa giugnessero, là onde era il
cipriano, insieme fecero parentado; e a Baffa pervenuti, più tempo
insieme col mercatante si stette.
Avvenne per ventura che a
Baffa venne per alcuna sua bisogna un gentile uomo, il cui nome era Antigono,
la cui età era grande, ma il senno maggiore, e la ricchezza piccola; per
ciò che in assai cose intramettendosi egli ne'servigi del re di Cipri,
gli era la fortuna stata contraria. Il quale, passando un giorno davanti la
casa dove la bella donna dimorava, essendo il cipriano mercatante andato con
sua mercatantia in Erminia, gli venne per ventura ad una finestra della casa di
lei questa donna veduta, la quale, per ciò che bellissima era, fiso cominciò
a riguardare, e cominciò seco stesso a ricordarsi di doverla avere altra
volta veduta, ma il dove in niuna maniera ricordar si poteva.
La bella donna, la quale
lungamente trastullo della fortuna era stata, appressandosi il termine nel
quale i suoi mali dovevano aver fine, come ella Antigono vide, così si
ricordò di lui in Alessandria ne'servigi del padre in non piccolo stato
aver veduto; per la qual cosa subita speranza prendendo di dover potere ancora
nello stato real ritornare per lo colui consiglio, non sentendovi il mercatante
suo, come più tosto potè, si fece chiamare Antigono. Il quale a
lei venuto, ella vergognosamente domandò se egli Antigono di Famagosta
fosse, sì come ella credeva. Antigono rispose del sì, e oltre a
ciò disse:
- Madonna, a me par voi riconoscere,
ma per niuna cosa mi posso ricordar dove, per che io vi priego, se grave non
v'è, che a memoria mi riduciate chi voi siete.
La donna, udendo che desso
era, piagnendo forte gli si gittò colle braccia al collo, e dopo
alquanto, lui che forte si maravigliava domandò se mai in Alessandria
veduta l'avesse. La qual domanda udendo Antigono, incontanente riconobbe costei
essere Alatiel figliuola del soldano, la quale morta in mare si credeva che
fosse, e vollele fare la debita reverenza; ma ella nol sostenne e pregollo che
seco alquanto si sedesse. La qual cosa da Antigono fatta, egli reverentemente
la domandò come e quando e donde quivi venuta fosse, con ciò
fosse cosa che per tutta terra d'Egitto s'avesse per certo lei in mare, già
eran più anni passati, essere annegata.
A cui la donna disse:
- Io vorrei bene che
così fosse stato più tosto che avere avuta la vita la quale avuta
ho, e credo che mio padre vorrebbe il simigliante, se giammai il saprà
-; e così detto ricominciò maravigliosamente a piagnere.
Per che Antigono le disse:
- Madonna, non vi
sconfortate prima che vi bisogni; se vi piace, narratemi i vostri accidenti e
che vita sia stata la vostra; per avventura l'opera potrà essere andata
in modo che noi ci troveremo collo aiuto di Dio buon compenso.
- Antigono,- disse la bella
donna - a me parve, come io ti vidi, vedere il padre mio, e da quello amore e
da quella tenerezza, che io a lui tenuta son di portare, mossa, potendomiti
celare, mi ti feci palese, e di poche persone sarebbe potuto addivenire d'aver
vedute, delle quali io tanto contenta fossi, quanto sono d'aver te innanzi ad
alcuno altro veduto e riconosciuto; e per ciò quello che nella mia
malvagia fortuna ho sempre tenuto nascoso, a te, sì come a padre,
paleserò. Se vedi, poi che udito l'avrai, di potermi in alcuno modo nel
mio pristino stato tornare, priegoti l'adoperi; se nol vedi, ti priego che mai
ad alcuna persona dichi d'avermi veduta o di me avere alcuna cosa sentita.
E questo detto, sempre
piagnendo, ciò che avvenuto l'era dal dì che in Maiolica ruppe
infino a quel punto, gli raccontò. Di che Antigono pietosamente a
piagnere cominciò; e poi che alquanto ebbe pensato, disse:
- Madonna, poi che occulto
è stato ne'vostri infortuni chi voi siete, senza fallo più cara
che mai vi renderò al vostro padre, e appresso per moglie al re del
Garbo.
E, domandato da lei del
come, ordinatamente ciò che da far fosse le dimostrò; e
acciò che altro per indugio intervenir non potesse, di presente si
tornò Antigono in Famagosta, e fu al re, al qual disse:
- Signor mio, se a voi
aggrada, voi potete ad una ora a voi far grandissimo onore, e a me, che povero
sono per voi, grande utile senza gran vostro costo.
Il re domandò come.
Antigono allora disse:
- A Baffa è
pervenuta la bella giovane figliuola del soldano, di cui è stata
così lunga fama che annegata era, e per servare la sua onestà
grandissimo disagio ha sofferto lungamente, e al presente è in povero
stato e disidera di tornarsi al padre. Se a voi piacesse di mandargliele sotto
la mia guardia questo sarebbe grande onor di voi, e di me gran bene; né credo
che mai tal servigio di mente al soldano uscisse.
Il re, da una reale
onestà mosso, subitamente rispose che gli piacea; e onoratamente per lei
mandando, a Famagosta la fece venire, dove da lui e dalla reina con festa
inestimabile e con onor magnifico fu ricevuta. La qual poi dal re e dalla reina
de'suoi casi addomandata, secondo l'ammaestramento datole da Antigono rispose e
contò tutto.
E pochi dì appresso,
addomandandolo ella, il re, con bella e onorevole compagnia d'uomini e di
donne, sotto il governo d'Antigono la rimandò al soldano; dal quale se
con festa fu ricevuta niun ne dimandi, e Antigono similmente con tutta la sua
compagnia. La quale poi che alquanto fu riposata, volle il soldano sapere come
fosse che viva fosse, e dove tanto tempo dimorata, senza mai avergli fatto di
suo stato alcuna cosa sentire.
La donna, la quale
ottimamente gli ammaestramenti d'Antigono aveva tenuti a mente, appresso al
padre così cominciò a parlare:
- Padre mio, forse il
ventesimo giorno dopo la mia partita da voi, per fiera tempesta la nostra nave,
sdrucita, percosse a certe piaggie là in ponente, vicine d'un luogo
chiamato Aguamorta una notte; e che che degli uomini, che sopra la nostra nave
erano, s'avvenisse, io nol so né seppi giammai; di tanto mi ricorda che, venuto
il giorno, e io quasi di morte a vita risurgendo, essendo già la
stracciata nave da'paesani veduta ed essi a rubar quella di tutta la contrada
corsi, io con due delle mie femine prima sopra il lito poste fummo, e
incontanente da'giovani prese, chi qua con una e chi là con un'altra
cominciarono a fuggire. Che di loro si fosse io nol seppi mai; ma, avendo me
contrastante due giovani presa e per le trecce tirandomi, piagnendo io sempre
forte, avvenne che, passando costoro che mi tiravano una strada per entrare in
un grandissimo bosco, quattro uomini in quella ora di quindi passavano a
cavallo, li quali come quegli che mi tiravano vidono, così lasciatami
prestamente presero a fuggire.
Li quattro uomini, li quali
nel sembiante assai autorevoli mi parevano, veduto ciò, corsero dove io
era e molto mi domandarono, e io dissi molto, ma né da loro fui intesa né io
loro intesi. Essi, dopo lungo consiglio, postami sopra uno de'lor cavalli, mi menarono
ad uno monastero di donne secondo la lor legge religiose, e quivi, che che essi
dicessero, io fui da tutte benignamente ricevuta e onorata sempre, e con gran
divozione con loro insieme ho poi servito a san Cresci in Val Cava, a cui le
femine di quel paese voglion molto bene. Ma, poi che per alquanto tempo con
loro dimorata fui, e già alquanto avendo della loro lingua apparata,
domandandomi esse chi io fossi e donde, e io conoscendo là dove io era e
temendo, se il vero dicessi, non fossi da lor cacciata sì come nemica
della lor legge, risposi che io era figliuola d'un gran gentile uomo di Cipri,
il quale mandandomene a marito in Creti, per fortuna quivi eravam corsi e
rotti.
E assai volte in assai
cose, per tema di peggio, servai i lor costumi; e domandata dalla maggiore di
quelle donne, la quale elle appellan badessa, se in Cipri tornare me ne
volessi, risposi che niuna cosa tanto desiderava; ma essa, tenera del mio
onore, mai ad alcuna persona fidar non mi volle che verso Cipri venisse, se
non, forse due mesi sono, venuti quivi certi buoni uomini di Francia colle loro
donne, de'quali alcun parente v'era della badessa, e sentendo essa che in
Jerusalem andavano a visitare il Sepolcro, dove colui cui tengon per Iddio fu
sepellito poi che da'giudei fu ucciso, a loro mi raccomandò, e pregogli
che in Cipri a mio padre mi dovessero presentare.
Quanto questi gentili
uomini m'onorassono e lietamente mi ricevessero insieme colle lor donne, lunga
istoria sarebbe a raccontare. Saliti adunque sopra una nave, dopo più
giorni pervenimmo a Baffa; e quivi veggendomi pervenire, né persona
conoscendomi né sappiendo che dovermi dire a'gentili uomini che a mio padre mi
volean presentare, secondo che loro era stato imposto dalla veneranda donna,
m'apparecchiò Iddio, al qual forse di me incresceva, sopra il lito
Antigono in quella ora che noi a Baffa smontavamo; il quale io prestamente
chiamai, e in nostra lingua, per non essere da'gentili uomini né dalle lor
donne intesa, gli dissi che come figliuola mi ricevesse. Egli prestamente
m'intese; e fattami la festa grande, quegli gentili uomini e quelle donne
secondo la sua povera possibilità onorò, e me ne menò al
re di Cipri, il quale con quello onor mi ricevette e qui a voi m'ha rimandata,
che mai per me raccontare non si potrebbe. Se altro a dir ci resta, Antigono,
che molte volte da me ha questa mia fortuna udita, il racconti.
Antigono allora al soldano
rivolto disse:
- Signor mio,
ordinatissimamente sì come ella m'ha più volte detto e come
quegli gentili uomini colli quali venne mi dissero, v'ha raccontato. Solamente
una parte v'ha lasciata a dire, la quale io estimo che, per ciò che bene
non sta a lei di dirlo, l'abbia fatto; e questo è, quanto quegli gentili
uomini e donne, colli quali venne, dicessero della onesta vita la quale con le
religiose donne aveva tenuta e della sua virtù e de'suoi laudevoli
costumi, e delle lagrime e del pianto che fecero e le donne e gli uomini
quando, a me restituitola, si partiron da lei. Delle quali cose se io volessi a
pien dire ciò che essi mi dissero, non che il presente giorno, ma la
seguente notte non ci basterebbe; tanto solamente averne detto voglio che
basti, che (secondo che le loro parole mostravano e quello ancora che io n'ho
potuto vedere) voi vi potete vantare d'avere la più bella figliuola e la
più onesta e la più valorosa che altro signore che oggi corona
porti.
Di queste cose fece il
soldano maravigliosissima festa e più volte pregò Iddio che
grazia gli concedesse di poter degni meriti rendere a chiunque avea la
figliuola onorata, e massimamente al re di Cipri, per cui onoratamente gli era
stata rimandata; e appresso alquanti dì, fatti grandissimi doni
apparecchiare ad Antigono, al tornarsi in Cipri il licenziò, al re per
lettere e per speziali ambasciadori grandissime grazie rendendo di ciò
che fatto aveva alla figliuola.
Appresso questo, volendo
che quello che cominciato era avesse effetto, cioè che ella moglie fosse
del re del Garbo, a lui ogni cosa significò pienamente, scrivendoli
oltre a ciò che, se gli piacesse d'averla, per lei si mandasse. Di
ciò fece il re del Garbo gran festa, e mandato onorevolmente per lei,
lietamente la ricevette. Ed essa che con otto uomini forse diecemilia volte
giaciuta era, allato a lui si coricò per pulcella, e fecegliele credere
che così fosse; e reina con lui lietamente poi più tempo visse. E
perciò si disse: - Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnuova come
fa la luna. -
Giornata seconda - Novella
ottava
Il conte d'Anguersa,
falsamente accusato, va in essilio e lascia due suoi figliuoli in diversi
luoghi in Inghilterra, ed egli sconosciuto tornando, lor truova in buono stato,
va come ragazzo nello essercito del re di Francia, e riconosciuto innocente,
è nel primo stato ritornato.
Sospirato fu molto dalle
donne per li vari casi della bella donna: ma chi sa che cagione moveva
que'sospiri? Forse v'eran di quelle che non meno per vaghezza di così
spesse nozze che per pietà di colei sospiravano. Ma lasciando questo
stare al presente, essendosi da loro riso per l'ultime parole da Panfilo dette,
e veggendo la reina in quelle la novella di lui esser finita, ad Elissa
rivolta, impose che con una delle sue l'ordine seguitasse. La quale, lietamente
faccendolo, in cominciò.
Ampissimo campo è
quello per lo quale noi oggi spaziando andiamo, né ce n'è alcuno, che,
non che uno aringo, ma diece non ci potesse assai leggiermente correre,
sì copioso l'ha fatto la Fortuna delle sue nuove e gravi cose; e per
ciò, venendo di quelle che infinite sono a raccontare alcuna, dico che
essendo lo 'mperio di Roma da'franceschi né tedeschi trasportato, nacque tra
l'una nazione e l'altra grandissima nimistà e acerba e continua guerra,
per la quale, sì per la difesa del suo paese e sì per l'offesa
dell'altrui, il re di Francia e un suo figliuolo, con ogni sforzo del lor regno,
e appresso d'amici e di parenti, che far poterono, ordinarono un grandissimo
essercito per andare sopr'a'nimici; e avanti che a ciò procedessero, per
non lasciare il regno senza governo, sentendo Gualtieri conte d'Anguersa
gentile e savio uomo e molto lor fedele amico e servidore, e ancora che assai
ammaestrato fosse nell'arte della guerra, per ciò che loro più
alle dilicatezze atto che a quelle fatiche parea, lui in luogo di loro sopra
tutto il governo del reame di Francia general vicario lasciarono, e andarono al
loro cammino.
Cominciò adunque
Gualtieri e con senno e con ordine l'uficio commesso, sempre d'ogni cosa colla
reina e colla nuora di lei conferendo; e benché sotto la sua custodia e
giurisdizione lasciate fossero, nondimeno come sue donne e maggiori in
ciò che per lui si poteva l'onorava. Era il detto Gualtieri del corpo
bellissimo e d'età forse di quaranta anni, e tanto piacevole e
costumato, quanto alcuno altro gentile uomo il più esser potesse; e,
oltre a tutto questo, era il più leggiadro e il più dilicato
cavaliere che a quegli tempi si conoscesse, e quegli che più della
persona andava ornato.
Ora avvenne che, essendo il
re di Francia e il figliuolo nella guerra già detta, essendosi morta la
donna di Gualtieri e a lui un figliuol maschio e una femina piccoli fanciulli
rimasi di lei senza più , che costumando egli alla corte delle donne
predette e con loro spesso parlando delle bisogne del regno, che la donna del
figliuol del re gli pose gli occhi addosso e con grandissima affezione la persona
di lui e i suoi costumi considerando, d'occulto amore ferventemente di lui
s'accese; e sé giovane e fresca sentendo e lui senza alcuna donna, si
pensò leggiermente doverle il suo disidero venir fatto, e pensando niuna
cosa a ciò contrastare, se non vergogna, di manifestargliele si dispose
del tutto e quella cacciar via. Ed, essendo un giorno sola e parendole tempo,
quasi d'altre cose con lui ragionar volesse, per lui mandò.
Il conte, il cui pensiero
era molto lontano da quel della donna, senza alcuno indugio a lei andò;
e postosi, come ella volle, con lei sopra un letto in una camera tutti soli a
sedere, avendola il conte già due volte domandata della cagione per che
fatto l'avesse venire ed ella taciuto, ultimamente da amor sospinta, tutta di
vergogna divenuta vermiglia, quasi piagnendo e tutta tremante, con parole rotte
così cominciò a dire:
- Carissimo e dolce amico e
signor mio, voi potete, come savio uomo, agevolmente conoscere quanta sia la
fragilità e degli uomini e delle donne, e per diverse cagioni più
in una che in altra; per che debitamente dinanzi a giusto giudice un medesimo
peccato in diverse qualità di persone non dee una medesima pena
ricevere. E chi sarebbe colui che dicesse che non dovesse molto più
essere da riprendere un povero uomo o una povera femina, a'quali colla loro
fatica convenisse guadagnare quello che per la vita loro lor bisognasse, se da
amore stimolati fossero e quello seguissero, che una donna la quale fosse ricca
e oziosa, e a cui niuna cosa che a'suoi disideri piacesse mancasse? Certo io
non credo niuno.
Per la quale ragione io
estimo che grandissima parte di scusa debbian fare le dette cose in servigio di
colei che le possiede, se ella per avventura si lascia trascorrere ad amare; e
il rimanente debbia fare l'avere eletto savio e valoroso amadore, se quella
l'ha fatto che ama. Le quali cose con ciò sia cosa che amendune, secondo
il mio parere, sieno in me, e, oltre a queste, più altre le quali ad
amare mi debbono inducere, sì come a la mia giovanezza e la lontananza
del mio marito, ora convien che surgano in servigio di me alla difesa del mio
focoso amore nel vostro cospetto; le quali, se quel vi potranno che nella
presenza de'savi debbon potere, io vi priego che consiglio e aiuto in quello
che io vi dimanderò mi porgiate.
Egli è il vero che,
per la lontananza di mio marito, non potend'io agli stimoli della carne né alla
forza d'amore contrastare, le quali sono di tanta potenzia che i fortissimi
uomini, non che le tenere donne, hanno già molte volte vinti e vincono
tutto il giorno, essendo io negli agi e negli ozi né quali voi mi vedete, a
secondare li piaceri d'amore e a divenire innamorata mi sono lasciata
trascorrere; e come che tal cosa, se saputa fosse, io conosca non essere
onesta, nondimeno, essendo e stando nascosa, quasi di niuna cosa esser
disonesta la giudichi, pur m'è di tanto Amore stato grazioso, che egli
non solamente non m'ha il debito conoscimento tolto nello eleggere l'amante, ma
me n'ha molto in ciò prestato, voi degno mostrandomi da dovere da una
donna, fatta come sono io, essere amato; il quale, se 'l mio avviso non
m'inganna, io reputo il più bello, il più piacevole e 'l
più leggiadro e 'l più savio cavaliere, che nel reame di Francia
trovar si possa; e sì come io senza marito posso dire che io mi veggia,
così voi ancora senza mogliere. Per che io vi priego, per cotanto amore
quanto è quello che io vi porto, che voi non neghiate il vostro verso di
me e che della mia giovanezza v'incresca, la qual veramente come il ghiaccio al
fuoco si consuma per voi.
A queste parole
sopravennero in tanta abbondanza le lagrime, che essa, che ancora più
prieghi intendeva di porgere, più avanti non ebbe poter di parlare; ma,
bassato il viso e quasi vinta, piagnendo, sopra il seno del conte si
lasciò colla testa cadere.
Il conte, il quale
lealissimo cavaliere era, con gravissime riprensioni cominciò a mordere
così folle amore e a sospignerla indietro, che già al collo gli
si voleva gittare; e con saramenti ad affermare che egli prima sofferrebbe
d'essere squartato, che tal cosa contro allo onore del suo signore né in sé né
in altrui consentisse.
Il che la donna udendo,
subitamente dimenticato l'amore e in fiero furore accesa, disse:
- Dunque sarò io,
villan cavaliere, in questa guisa da voi del mio disidero schernita? Unque a Dio
non piaccia, poi che voi volete me far morire, che io voi o morire o cacciar
del mondo non faccia.
E così detto, ad una
ora messesi le mani né capelli e rabbuffatigli stracciatigli tutti, e appresso
nel petto squarciandosi i vestimenti, cominciò a gridar forte:
- Aiuto aiuto, ché 'l conte
d'Anguersa mi vuol far forza.
Il conte, veggendo questo e
dubitando forte più della invidia cortigiana che della sua coscienza e,
temendo per quella non fosse più fede data alla malvagità della
donna che alla sua innocenzia, levatosi come più tosto potè della
camera e del palagio s'uscì e fuggissi a casa sua, dove, senza altro
consiglio prendere, pose i suoi figliuoli a cavallo, ed egli montatovi
altressì , quanto più potè, n'andò verso Calese.
Al romor della donna corsero
molti, li quali, vedutola e udita la cagione del suo gridare, non solamente per
quello dieder fede alle sue parole, ma aggiunsero la leggiadria e la ornata
maniera del conte, per potere a quel venire, essere stata da lui lungamente
usata. Corsesi adunque a furore alle case del conte per arrestarlo; ma non
trovando lui, prima le rubar tutte e appresso infino a'fondamenti le mandar
giuso.
La novella, secondo che
sconcia si diceva, pervenne nell'oste al re e al figliuolo; li quali turbati
molto a perpetuo essilio lui e i suoi discendenti dannarono, grandissimi doni
promettendo a chi o vivo o morto loro il presentasse.
Il conte, dolente che
d'innocente fuggendo s'era fatto nocente, pervenuto senza farsi conoscere o
esser conosciuto co'suoi figliuoli a Calese, prestamente trapassò in
Inghilterra, e in povero abito n'andò verso Londra, nella quale prima
che entrasse, con molte parole ammaestrò i due piccioli figliuoli, e
massimamente in due cose: prima, che essi pazientemente comportassero lo stato
povero nel quale senza lor colpa la fortuna con lui insieme gli aveva recati; e
appresso, che con ogni sagacità si guardassero di mai non manifestare ad
alcuno onde si fossero né di cui figliuoli, se cara avevan la vita.
Era il figliuolo, chiamato
Luigi, di forse nove anni, e la figliuola, che nome avea Violante, n'avea forse
sette; li quali, secondo che comportava la lor tenera età, assai ben
compresero l'ammaestramento del padre loro, e per opera il mostrarono appresso.
Il che, acciò che meglio far si potesse, gli parve di dover loro i nomi
mutare, e così fece; e nominò il maschio Perotto, e Giannetta la
femina; e pervenuti poveramente vestiti in Londra, a guisa che far veggiamo a
questi paltoni franceschi, si diedono ad andar la limosina addomandando.
Ed essendo per ventura in
tal servigio una mattina ad una chiesa, avvenne che una gran dama, la quale era
moglie dell'uno de'maliscalchi del re d'lnghilterra, uscendo della chiesa, vide
questo conte e i due suoi figlioletti, che limosina addomandavano; il quale
ella domandò donde fosse e se suoi erano quegli figliuoli. Alla quale
egli rispose che era di Piccardia e che, per misfatto d'un suo maggior
figliuolo, ribaldo, con quegli due che suoi erano, gli era convenuto partire.
La dama, che pietosa era,
pose gli occhi sopra la fanciulla, e piacquele molto, per ciò che bella
e gentilesca e avvenente era, e disse:
- Valente uomo, se tu ti
contenti di lasciare appresso di me questa tua
figlioletta, per ciò
che buono aspetto ha, io la prenderò volentieri; e se valente femina
sarà, io la mariterò a quel tempo che convenevole sarà in
maniera che starà bene.
Al conte piacque molto
questa domanda e prestamente rispose del sì , e con lagrime gliele diede
e raccomandò molto. E così avendo la figliuola allogata e
sappiendo bene a cui, diliberò di più non dimorar quivi; e
limosinando traversò l'isola e con Perotto pervenne in Gales non senza
gran fatica, sì come colui che d'andare a piè non era uso.
Quivi era un altro
de'maliscalchi del re, il quale grande stato e molta famiglia tenea, nella
corte del quale il conte alcuna volta, ed egli è l figliuolo, per aver
da mangiare, molto si riparavano.
Ed essendo in essa alcun
figliuolo del detto maliscalco, e altri fanciulli di gentili uomini, e faccendo
cotali pruove fanciullesche sì come di correre e di saltare, Perotto
s'incominciò con loro a mescolare e a fare così destramente, o
più , come alcuno degli altri facesse, ciascuna pruova che tra lor si
faceva. Il che il maliscalco alcuna volta veggendo, e piacendogli molto la maniera
è modi del fanciullo, domandò chi egli fosse.
Fugli detto che egli era
figliuolo d'un povero uomo, il quale alcuna volta per limosina là entro
veniva. A cui il maliscalco il fece addimandare; e il conte, sì come
colui che d'altro Iddio non pregava, liberamente gliel concedette, quantunque
noioso gli fosse il da lui dipartirsi.
Avendo adunque il conte il
figliuolo e la figliuola acconci, pensò di più non voler dimorare
in Inghilterra; ma, come il meglio potè, se ne passò in Irlanda,
e pervenuto a Stanforda, con un cavaliere d'un conte paesano per fante si pose,
tutte quelle cose faccendo che a fante o a ragazzo possono appartenere; e
quivi, senza esser mai da alcuno conosciuto, con assai disagio e fatica,
dimorò lungo tempo.
Violante, chiamata
Giannetta, colla gentil donna in Londra venne crescendo e in anni e in persona
e in bellezza e in tanta grazia e della donna e del marito di lei e di ciascuno
altro della casa e di chiunque la conoscea, che era a veder maravigliosa cosa;
né alcuno era che a'suoi costumi e alle sue maniere riguardasse, che lei non
dicesse dovere essere degna d'ogni grandissimo bene e onore. Per la qual cosa
la gentil donna che lei dal padre ricevuta avea, senza aver mai potuto sapere
chi egli si fosse altramenti che da lui udito avesse, s'era proposta di doverla
onorevolmente, secondo la condizione della quale estimava che fosse, maritare.
Ma Iddio, giusto
riguardatore degli altrui meriti, lei nobile femina conoscendo e senza colpa
penitenzia portar dello altrui peccato, altramente dispose; e acciò che
a mano di vile uomo la gentil giovane non venisse, si dee credere che quello
che avvenne egli per sua benignità permettesse.
Aveva la gentil donna,
colla quale la Giannetta dimorava, un solo figliuolo del suo marito, il quale
ed essa e 'l padre sommamente amavano, sì perché figliuolo era e
sì ancora perché per virtù e per meriti il valeva, come colui che
più che altro e costumato e valoroso e pro' e bello della persona era.
Il quale, avendo forse sei anni più che la Giannetta, e lei veggendo
bellissima e graziosa, sì forte di lei s'innamorò, che più
avanti di lei non vedeva. E per ciò che egli imaginava lei di bassa
condizion dovere essere, non solamente non ardiva addomandarla al padre e alla
madre per moglie; ma temendo non fosse ripreso che bassamente si fosse ad amar
messo, quanto poteva il suo amore teneva nascoso: per la qual cosa troppo
più che se palesato l'avesse lo stimolava.
Laonde avvenne che, per
soverchio di noia, egli infermò, e gravemente. Alla cura del quale
essendo più medici richiesti, e avendo un segno e altro guardato di lui
e non potendo la sua infermità tanto conoscere, tutti comunemente si disperavano
della sua salute. Di che il padre e la madre del giovane portavano sì
gran dolore e malinconia, che maggiore non si saria potuta portare: e
più volte con pietosi prieghi il domandavano della cagione del suo male,
a'quali o sospiri per risposta dava, o che tutto si sentia consumare.
Avvenne un giorno che,
sedendosi appresso di lui un medico assai giovane, ma in scienzia profondo
molto, e lui per lo braccio tenendo in quella parte dove essi cercano il polso,
la Giannetta, la quale, per rispetto della madre di lui, lui sollicitamente
serviva, per alcuna cagione entrò nella camera nella quale il giovane
giacea. La quale come il giovane vide, senza alcuna parola o atto fare,
sentì con più forza nel cuore l'amoroso ardore, per che il polso
più forte cominciò a battergli che l'usato; il che il medico
sentì incontanente e maravigliossi, e stette cheto per vedere quanto
questo battimento dovesse durare.
Come la Giannetta
uscì dalla camera, e il battimento ristette; per che parte parve al
medico avere della cagione della infermità del giovane; e stato
alquanto, quasi d'alcuna cosa volesse la Giannetta addomandare, sempre tenendo
per lo braccio lo 'nfermo, la si fè chiamare. Al quale ella venne
incontanente; né prima nella camera entrò, che 'l battimento del polso
ritornò al giovane; e lei partita, cessò. Laonde, parendo al
medico avere assai piena certezza, levatosi e tratti da parte il padre e la
madre del giovane, disse loro:
- La sanità del
vostro figliuolo non è nello aiuto de'medici, ma nelle mani della
Giannetta dimora, la quale, sì come io ho manifestamente per certi segni
conosciuto, il giovane focosamente ama, come che ella non se ne accorge, per
quello che io vegga. Sapete omai che a fare v'avete, se la sua vita v'è
cara.
Il gentile uomo e la sua
donna, questo udendo, furon contenti, in quanto pure alcun modo si trovava al
suo scampo, quantunque loro molto gravasse che quello, di che dubitavano, fosse
desso, cioè di dover dare la Giannetta al loro figliuolo per isposa.
Essi adunque, partito il
medico, se n'andarono allo infermo, e dissegli la donna così :
- Figliuol mio, io non
avrei mai creduto che da me d'alcuno tuo disidero ti fossi guardato, e
spezialmente veggendoti tu, per non aver quello, venir meno; per ciò che
tu dovevi esser certo e dei che niuna cosa è che per contentamento di te
far potessi, quantunque meno che onesta fosse, che io come per me medesima non
la facessi; ma poi che pur fatta l'hai, è avvenuto che Domeneddio
è stato misericordioso di te più che tu medesimo, e a ciò
che tu di questa infermità non muoia, m'ha dimostrata la cagione del tuo
male, la quale niuna altra cosa è che soverchio amore, il quale tu porti
ad alcuna giovane, qual che ella si sia. E nel vero di manifestar questo non ti
dovevi tu vergognare, per ciò che la tua età il richiede, e se tu
innamorato non fossi, io ti riputerei da assai poco. Adunque, figliuol mio, non
ti guardare da me, ma sicuramente ogni tuo disidero mi scuopri; e la malinconia
e il pensiero il quale hai e dal quale questa infermità procede, gitta
via e confortati e renditi certo che niuna cosa sarà per sodisfacimento
di te che tu m'imponghi, che io a mio potere non faccia, sì come colei
che te più amo che la mia vita. Caccia via la vergogna e la paura, e
dimmi se io posso intorno al tuo amore adoperare alcuna cosa; e se tu non
truovi che io a ciò sia sollicita e ad effetto tel rechi, abbimi per la
più crudel madre che mai partorisse figliuolo.
Il giovane, udendo le
parole della madre, prima si vergognò, poi, seco pensando che niuna
persona meglio di lei potrebbe al suo piacere sodisfare, cacciata via la
vergogna, così le disse:
- Madonna, niuna altra cosa
mi v'ha fatto tenere il mio amor nascoso quanto l'essermi nelle più
delle persone avveduto che, poi che attempati sono, d'essere stati giovani
ricordar non si vogliono. Ma, poi che in ciò discreta vi veggio, non
solamente quello di che dite vi siete accorta non negherò esser vero, ma
ancora di cui vi farò manifesto, con cotal patto che effetto
seguirà alla vostra promessa a vostro potere, e così mi potrete
aver sano.
Al quale la donna (troppo
fidandosi di ciò che non le doveva venir fatto nella forma nella qual
già seco pensava) liberamente rispose che sicuramente ogni suo disidero
l'aprisse; ché ella senza alcuno indugio darebbe opera a fare che egli il suo
piacere avrebbe.
- Madama,- disse allora il
giovane - l'alta bellezza e le laudevoli maniere della nostra Giannetta, e il
non poterla fare accorgere, non che pietosa, del mio amore, e il non avere
ardito mai di manifestarlo ad alcuno, m'hanno condotto dove voi mi vedete; e se
quello che promesso m'avete o in un modo o in un altro non segue, state sicura
che la mia vita fia brieve.
La donna, a cui più
tempo da conforto che da riprensioni parea, sorridendo disse:
- Ahi, figliuol mio, dunque
per questo t'hai tu lasciato aver male? Confortati e lascia fare a me, poi che
guarito sarai.
Il giovane, pieno di buona
speranza, in brevissimo tempo di grandissimo miglioramento mostrò segni,
di che la donna contenta molto si dispose a voler tentare come quello potesse
osservare che promesso avea. E, chiamata un dì la Giannetta per via di
motti assai cortesemente la domandò se ella avesse alcuno amadore.
La Giannetta, divenuta
tutta rossa, rispose:
- Madama, a povera
damigella e di casa sua cacciata, come io sono, e che all'altrui servigio
dimori, come io fo, non si richiede né sta bene l'attendere ad amore.
A cui la donna disse:
- E se voi non l'avete, noi
ve ne vogliamo donare uno, di che voi tutta giuliva viverete e più della
vostra biltà vi diletterete; per ciò che non a'convenevole che
così bella damigella, come voi siete, senza amante dimori.
A cui la Giannetta rispose:
- Madama, voi dalla
povertà di mio padre togliendomi, come figliuola cresciuta m'avete, e
per questo ogni vostro piacer far dovrei; ma in questo io non vi piacerò
già, credendomi far bene. Se a voi piacerà di donarmi marito,
colui intendo io d'amare, ma altro no; per ciò che della eredità
de'miei passati avoli niuna cosa rimasa m'è se non l'onestà,
quella intendo io di guardare e di servare quanto la vita mi durerà.
Questa parola parve forte
contraria alla donna a quello a che di venire intendea per dovere al figliuolo
la promessa servare, quantunque, sì come savia donna, molto seco
medesima ne commendasse la damigella, e disse:
- Come, Giannetta? Se
monsignore lo re, il quale è giovane cavaliere, e tu sé bellissima
damigella, volesse del tuo amore alcun piacere, negherestigliele tu?
Alla quale essa subitamente
rispose:
- Forza mi potrebbe fare il
re, ma di mio consentimento mai da me, se non quanto onesto fosse, aver non
potrebbe.
La donna, comprendendo qual
fosse l'animo di lei, lasciò stare le parole e pensossi di metterla alla
pruova; e così al figliuol disse di fare, come guarito fosse, di
metterla con lui in una camera e ch'egli s'ingegnasse d'avere di lei il suo
piacere, dicendo che disonesto le pareva che essa, a guisa d'una ruffiana,
predicasse per lo figliuolo e pregasse la sua damigella.
Alla qual cosa il giovane
non fu contento in alcuna guisa, e di subito fieramente peggiorò: il che
la donna veggendo, aperse la sua intenzione alla Giannetta. Ma più
costante che mai trovandola, raccontato ciò che fatto avea al marito,
ancora che grave loro paresse, di pari consentimento diliberarono di dargliele
per isposa, amando meglio il figliuol vivo con moglie non convenevole a lui che
morto senza alcuna; e così , dopo molte novelle, fecero.
Di che la Giannetta fu
contenta molto e con divoto cuore ringraziò Iddio che lei non avea
dimenticata; né per tutto questo mai altro che figliuola d'un piccardo si
disse.
Il giovane guerì , e
fece le nozze più lieto che altro uomo, e cominciossi a dare buon tempo
con lei.
Perotto, il quale in Gales
col maliscalco del re d'lnghilterra era rimaso, similmente crescendo venne in
grazia del signor suo, e divenne di persona bellissimo e pro' quanto alcuno
altro che nell'isola fosse, intanto che né in tornei né in giostre, né in qualunque
altro atto d'arme niuno era nel paese che quello valesse che egli; perché per
tutto, chiamato da loro Perotto il piccardo, era conosciuto e famoso.
E come Iddio la sua sorella
dimenticata non avea, così similmente d'aver lui a mente
dimostrò; per ciò che, venuta in quella contrada una
pestilenziosa mortalità, quasi la metà della gente di quella se
ne portò; senza che grandissima parte del rimaso per paura in altre
contrade se ne fuggirono; di che il paese tutto pareva abbandonato. Nella qual
mortalità il maliscalco suo signore e la donna di lui e un suo figliuolo
e molti altri e fratelli e nepoti e parenti tutti morirono, né altro che una
damigella già da marito di lui rimase e, con alcuni altri famigliari,
Perotto. Il quale, cessata al quanto la pestilenza, la damigella, per
ciò che prod'uomo e valente era, con piacere e consiglio d'alquanti
pochi paesani vivi rimasi, per marito prese e di tutto ciò che a lei per
eredità scaduto era il fece signore.
Nè guari di tempo
passò che, udendo il re d'lnghilterra il maliscalco esser morto e
conoscendo il valor di Perotto il piccardo, in luogo di quello che morto era il
sustituì e fecelo suo maliscalco. E così brievemente avvenne de'
due innocenti figliuoli del corte d'Anguersa da lui per perduti lasciati.
Era già il
deceottesimo anno passato poi che il conte d'Anguersa, fuggendo, di Parigi
s'era partito, quando a lui dimorante in Irlanda, avendo in assai misera vita
molte cose patite, già vecchio veggendosi, venne voglia di sentire, se
egli potesse, quello che de'figliuoli fosse addivenuto. Per che del tutto della
forma, della quale esser solea, veggendosi trasmutato e sentendosi per lo lungo
esercizio più della persona atante che quando giovane in ozio dimorando
non era, partitosi assai povero e male in arnese da colui col quale lungamente
era stato, se ne venne in Inghilterra e là se ne andò dove
Perotto avea lasciato, e trovò lui esser maliscalco e gran signore, e
videlo sano e atante e bello della persona; il che gli aggradì forte, ma
farglisi conoscere non volle infino a tanto che saputo non avesse della
Giannetta.
Per che, messosi in cammino, prima non
ristette che in Londra pervenne; e quivi, cautamente domandato della donna alla
quale la figliuola lasciata avea e del suo stato, trovò la Giannetta
moglie del figliuolo; il che forte gli piacque, e ogni sua avversità
preterita reputò piccola, poiché vivi aveva ritrovati i figliuoli e in
buono stato. E disideroso di poterla vedere, cominciò come povero uomo a
ripararsi vicino alla casa di lei. Dove un giorno, veggendol Giachetto Lamiens,
che così era chiamato il marito della Giannetta, avendo di lui
compassione per ciò che povero e vecchio il vide, comandò ad uno
de'suoi famigliari che nella sua casa il menasse e gli facesse dare da mangiar
per Dio, il che il famigliare volentier fece.
Aveva la Giannetta avuti di
Giachetto già più figliuoli, de'quali il maggiore non avea oltre
ad otto anni, ed erano i più belli e i più vezzosi fanciulli del
mondo. Li quali, come videro il conte mangiare, così tutti quanti gli fur
dintorno e cominciarogli a far festa, quasi da occulta virtù mossi
avesser sentito costui loro avolo essere. Il quale, suoi nepoti cognoscendoli,
cominciò loro a mostrare amore e a far carezze; per la qual cosa i
fanciulli da lui non si volean partire, quantunque colui che al governo di loro
attendea gli chiamasse. Per che la Giannetta, ciò sentendo, uscì
d'una camera e quivi venne laddove era il conte, e minacciogli forte di
battergli, se quello che il lor maestro volea non facessero. I fanciulli cominciarono
a piagnere e a dire ch'essi volevano stare appresso a quel prod'uomo, il quale
più che il lor maestro gli amava; di che e la donna e 'l conte si rise.
Erasi il conte levato, non
miga a guisa di padre ma di povero uomo, a fare onore alla figliuola sì
come a donna, e maraviglioso piacere veggendola avea sentito nell'animo. Ma
ella né allora né poi il conobbe punto, per ciò che oltre modo era
trasformato da quello che esser soleva, sì come colui che vecchio e
canuto e barbuto era, e magro e bruno divenuto, e più tosto un altro
uomo pareva che il conte. E veggendo la donna che i fanciulli da lui partir non
si
voleano, ma volendogli
partire piagnevano, disse al maestro che alquanto gli lasciasse stare.
Standosi adunque i
fanciulli col prod'uomo, avvenne che il padre di Giachetto tornò e dal
maestro loro sentì questo fatto; per che egli, il quale a schifo avea la
Giannetta, disse:
- Lasciagli stare colla
mala ventura che Iddio dea loro; ché essi fanno ritratto da quello onde nati
sono. Essi son per madre discesi di paltoniere, e per ciò non a'da
maravigliarsi se volentier dimoran con paltonieri.
Queste parole udì il
conte, e dolfergli forte; ma pure nelle spalle ristretto, così quella
ingiuria sofferse come molte altre sostenute avea.
Giachetto, che sentita aveva
la festa che i figliuoli al prod'uomo, cioè al conte, facevano,
quantunque gli dispiacesse, nondimeno tanto gli amava che, avanti che piagner
gli vedesse, comandò che, se 'l prod'uomo ad alcun servigio là
entro dimorar volesse, che egli vi fosse ricevuto. Il quale rispose che vi
rimanea volentieri, ma che altra cosa far non sapea che attendere a'cavalli, di
che tutto il tempo della sua vita era usato. Assegnatogli adunque un cavallo,
come quello governato avea, al trastullare i fanciulli intendea.
Mentre che la fortuna, in
questa guisa che divisata è, il conte d'Anguersa e i figliuoli menava,
avvenne che il re di Francia, molte triegue fatte con gli alamanni, morì
, e in suo luogo fu coronato il figliuolo, del quale colei era moglie per cui
il conte era stato cacciato. Costui, essendo l'ultima triegua finita,
co'tedeschi ricominciò asprissima guerra; in aiuto del quale, sì
come nuovo parente, il re d'lnghilterra mandò molta gente sotto il
governo di Perotto suo maliscalco e di Giachetto Lamiens figliuolo dell'altro
maliscalco; col quale il prod'uomo, cioè il conte, andò e, senza
essere da alcuno riconosciuto, dimorò nell'oste per buono spazio a guisa
di ragazzo; e quivi, come valente uomo, e con consigli e con fatti più
che a lui non si richiedea, assai di bene adoperò.
Avvenne durante la guerra
che la reina di Francia infermò gravemente; e conoscendo ella sé
medesima venire alla morte, contrita d'ogni suo peccato, divotamente si
confessò dallo arcivescovo di Ruem, il quale da tutti era tenuto uno
santissimo e buono uomo, e tra gli altri peccati gli narrò ciò
che per lei a gran torto il conte d'Anguersa ricevuto avea. Nè solamente
fu a lui contenta di dirlo, ma davanti a molti altri valenti uomini tutto come
era stato raccontò, pregandogli che col re operassono che 'l conte, se
vivo fosse, e se non, alcun de'suoi figliuoli nel loro stato restituiti
fossero; né guari poi dimorò che, di questa vita passata, onorevolmente
fu sepellita.
La qual confessione al re
raccontata, dopo alcun doloroso sospiro delle
ingiurie fatte al valente
uomo a torto, il mosse a fare andare per tutto l'essercito, e oltre a
ciò in molte altre parti, una grida, che chi il conte d'Anguersa o
alcuno de'figliuoli gli rinsegnasse, maravigliosamente da lui per ogn'uno
guiderdonato sarebbe; con ciò fosse cosa che egli lui per innocente di
ciò per che in essilio andato era l'avesse, per la confessione fatta
dalla reina, e nel primo stato e in maggiore intendeva di ritornarlo. Le quali
cose il conte in forma di ragazzo udendo, e sentendo che così era il
vero, subitamente fu a Giachetto e il pregò che con lui insieme fosse
con Perotto, per ciò che egli voleva lor mostrare ciò che il re
andava cercando.
Adunati adunque tutti e tre
insieme, disse il conte a Perotto, che già era in pensiero di palesarsi:
- Perotto, Giachetto, che
è qui, ha tua sorella per mogliere, né mai n'ebbe alcuna dota; e per
ciò, acciò che tua sorella senza dota non sia, io intendo che
egli e non altri abbia questo benificio che il re promette così grande
per te, e ti rinsegni sì come figliuolo del conte d'Anguersa, e per la
Violante tua sorella e sua mogliere, e per me che il conte d'Anguersa e vostro
padre sono.
Perotto, udendo questo e
fiso guardandolo, tantosto il riconobbe, e piagnendo gli si gittò
a'piedi e abbracciollo dicendo:
- Padre mio, voi siate il
molto ben venuto.
Giachetto, prima udendo
ciò che il conte detto avea e poi veggendo quello che Perotto faceva, fu
ad un'ora da tanta maraviglia e da tanta allegrezza soprappreso, che appena
sapeva che far si dovesse; ma pur, dando alle parole fede e vergognandosi forte
di parole ingiuriose già da lui verso il conte ragazzo usate, piagnendo
gli si lasciò cadere a'piedi e umilmente d'ogni oltraggio passato
domandò perdonanza, la quale il conte assai benignamente, in piè
rilevatolo, gli diede.
E poi che i vari casi di
ciascuno tutti e tre ragionati ebbero, e molto piantosi e molto rallegratosi
insieme, volendo Perotto e Giachetto rivestire il conte, per niuna maniera il
sofferse, ma volle che, avendo prima Giachetto certezza d'avere il guiderdon
promesso, così fatto e in quello abito di ragazzo, per farlo più
vergognare, gliele presentasse.
Giachetto adunque col conte
e con Perotto appresso venne davanti al re e offerse di presentargli il conte e
i figliuoli, dove, secondo la grida fatta, guiderdonare il dovesse. Il re
prestamente per tutti fece il guiderdon venire maraviglioso agli occhi di
Giachetto, e comandò che via il portasse dove con verità il conte
e i figliuoli dimostrasse come promettea. Giachetto allora, voltatosi indietro
e davanti messosi il conte suo ragazzo e Perotto, disse:
- Monsignore, ecco qui il
padre e 'l figliuolo; la figliuola, ch'è mia mogliere, e non è
qui, con l'aiuto di Dio tosto vedrete.
Il re, udendo questo,
guardò il conte e, quantunque molto da quello che esser solea trasmutato
fosse, pur, dopo l'averlo alquanto guardato, il riconobbe; e quasi con le
lagrime in su gli occhi, lui che ginocchione stava levò in piede, e il
baciò e abbracciò, e amichevolmente ricevette Perotto, e comandò
che incontanente il conte di vestimenti, di famiglia e di cavalli e d'arnesi
rimesso fosse in assetto, secondo che alla sua nobilità si richiedea; la
qual cosa tantosto fu fatta. Oltre a questo, onorò il re molto Perotto,
e volle ogni cosa sapere di tutti i suoi preteriti casi.
E quando Giachetto prese
gli alti guiderdoni per l'avere insegnati il conte è figliuoli, gli
disse il conte:
- Prendi cotesti doni dalla
magnificenza di monsignore lo re, e ricordera'ti di dire a tuo padre che i tuoi
figliuoli, suoi e miei nepoti, non sono per madre nati di paltoniere.
Giachetto prese i doni, e
fece a Parigi venir la moglie e la suocera, e vennevi la moglie di Perotto; e
quivi in grandissima festa furon col conte, il quale il re avea in ogni suo ben
rimesso e maggior fattolo che fosse giammai. Poi ciascuno colla sua licenzia
tornò a casa sua, ed esso infino alla morte visse in Parigi più
gloriosamente che mai.
Giornata seconda - Novella
nona
Bernabò da Genova,
da Ambrogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie innocente sia
uccisa. Ella scampa, e in abito d'uomo serve il soldano; ritrova lo
'ngannatore, e Bernabò conduce in Alessandria, dove lo ngannatore
punito, ripreso abito feminile, col marito ricchi si tornano a Genova
Avendo Elissa colla sua
compassionevole novella il suo dover fornito, Filomena reina, la quale bella e
grande era della persona, e nel viso più che altra piacevole e ridente,
sopra sé recatasi, disse:
- Servar si vogliono i
patti a Dioneo, e però, non restandoci altri che egli e io a novellare,
io dirò prima la mia, ed esso, che di grazia il chiese, l'ultimo fia che
dirà- ; e questo detto, così cominciò.
Suolsi tra'volgari spesse
volte dire un cotal proverbio, che lo 'ngannatore rimane a piè dello
'ngannato; il quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare esser
vero, se per gli accidenti che avvengono non si mostrasse. E per ciò
seguendo la proposta, questo insiememente, carissime donne, esser vero come si
dice m'è venuto in talento di dimostrarvi; né vi dovrà esser
discaro d'averlo udito, acciò che dagli 'ngannatori guardar vi sappiate.
Erano in Parigi in uno
albergo alquanti grandissimi mercatanti italiani, qual per una bisogna e qual
per un'altra, secondo la loro usanza; e avendo una sera fra l'altre tutti
lietamente cenato, cominciarono di diverse cose a ragionare; e d'un
ragionamento in altro travalicando, pervennero a dire delle lor donne, le quali
alle lor case avevan lasciate. E motteggiando cominciò alcuno a dire:
- Io non so come la mia si
fa, ma questo so io bene, che quando qui mi viene alle mani alcuna giovinetta
che mi piaccia, io lascio stare dall'un de'lati l'amore il quale io porto a mia
mogliere, e prendo di questa qua quel piacere che io posso.
L'altro rispose:
- E io fo il simigliante,
perciò che se io credo che la mia donna alcuna sua ventura procacci,
ella il fa, e se io nol credo, sì 'l fa; e per ciò a fare a far
sia; quale asino dà in parete, tal riceve.
Il terzo quasi in questa
medesima sentenzia parlando pervenne; e brievemente tutti pareva che a questo
s'accordassero, che le donne lasciate da loro non volessero perder tempo.
Un solamente, il quale avea
nome Bernabò Lomellin da Genova, disse il contrario, affermando sé di
spezial grazia da Dio avere una donna per moglie la più compiuta di
tutte quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte o donzello
dee avere, che forse in Italia ne fosse un'altra; per ciò che ella era
bella del corpo e giovine ancora assai e destra e atante della persona, né
alcuna cosa era che a donna appartenesse, sì come di lavorar lavorii di
seta e simili cose, che ella non facesse meglio che alcun'altra. Oltre a questo
niuno scudiere, o famigliar che dir vogliamo, diceva trovarsi, il quale meglio
né più accortamente servisse ad una tavola d'un signore, che serviva
ella, sì come colei che era costumatissima savia e discreta molto.
Appresso questo la commendò meglio sapere cavalcare un cavallo, tenere
uno uccello, leggere e scrivere e fare una ragione, che se un mercatante fosse;
e da questo, dopo molte altre lode, pervenne a quello di che quivi si
ragionava, affermando con saramento niun'altra più onesta né più
casta potersene trovar di lei; per la qual cosa egli credeva certamente che, se
egli diece anni o sempre mai fuor di casa dimorasse, che ella mai a così
fatte novelle non intenderebbe con altro uomo.
Era, tra questi mercatanti
che così ragionavano, un giovane mercatante, chiamato Ambrogiuolo da
Piagenza, il quale di questa ultima loda che Bernabò avea data alla sua
donna cominciò a far le maggior risa del mondo, e gabbando il
domandò se lo 'mperadore gli avea questo privilegio più che a
tutti gli altri uomini conceduto.
Bernabò, un poco
turbatetto, disse che non lo 'mperadore ma Iddio, il quale poteva un poco
più che lo 'mperadore, gli avea questa grazia conceduta.
Allora disse Ambrogiuolo:
- Bernabò, io non
dubito punto che tu non ti creda dir vero; ma, per quello che a me paia, tu hai
poco riguardato alla natura delle cose; per ciò che, se riguardato v'avessi,
non ti sento di sì grosso ingegno che tu non avessi in quella
cognosciuto cose che ti farebbono sopra questa materia più
temperatamente parlare. E per ciò che tu non creda che noi, che molto
largo abbiamo delle nostre mogli parlato, crediamo avere altra moglie o
altrimenti fatta che tu, ma da uno naturale avvedimento mossi così
abbiam detto, voglio un poco con teco sopra questa materia ragionare.
Io ho sempre inteso l'uomo
essere il più nobile animale che tra'mortali fosse creato da Dio, e
appresso la femina; ma l'uomo, sì come generalmente si crede e vede per
opere, è più perfetto; e avendo più di perfezione, senza
alcun fallo dee avere più di fermezza e così ha, per ciò
che universalmente le femine sono più mobili, e il perché si potrebbe
per molte ragioni naturali dimostrare, le quali al presente intendo di lasciare
stare. Se l'uomo adunque è di maggior fermezza e non si può
tenere che non condiscenda, lasciamo stare ad una che 'l prieghi, ma pure a non
disiderare una che gli piaccia, e oltre al disidero, di far ciò che
può acciò che con quella esser possa, e questo non una volta il
mese, ma mille il giorno avvenirgli; che speri tu che una donna naturalmente
mobile, possa fare a'prieghi, alle lusinghe, a'doni, a mille altri modi che
userà uno uomo savio che l'ami? Credi che ella si possa tenere? Certo,
quantunque tu te l'affermi, io non credo che tu 'l creda; e tu medesimo
dì che la moglie tua è femina e ch'ella è di carne e
d'ossa come sono l'altre. Per che, se così è, quegli medesimi
disideri deono essere i suoi e quelle medesime forze che nell'altre sono a
resistere a questi naturali appetiti; per che possibile è, quantunque
ella sia onestissima, che ella quello che l'altre faccia; e niuna cosa
possibile è così acerbamente da negare, o da affermare il
contrario a quella, come tu fai.
Al quale Bernabò
rispose e disse:
- Io son mercatante e non
fisofolo, e come mercatante risponderò. E dico che io conosco ciò
che tu dì potere avvenire alle stolte, nelle quali non è alcuna
vergogna; ma quelle che savie sono hanno tanta sollecitudine dello onor loro,
che elle diventan forti più che gli uomini, che di ciò non si
curano, a guardarlo; e di queste così fatte è la mia.
Disse Ambrogiuolo:
- Veramente, se per ogni
volta che elle a queste così fatte novelle attendono, nascesse loro un
corno nella fronte, il quale desse testimonianza di ciò che fatto
avessero, io mi credo che poche sarebber quelle che v'attendessero; ma, non che
il corno nasca, egli non se ne pare a quelle che savie sono né pedata né orma; e
la vergogna e 'l guastamento del l'onore non consiste se non nelle cose palesi;
per che, quando possono occultamente, il fanno, o per mattezza lasciano. E abbi
questo per certo che colei sola è casta, la quale o non fu mai da alcun
pregata, o se pregò, non fu esaudita. E quantunque io conosca per
naturali e vere ragioni così dovere essere, non ne parlerei io
così appieno come io fo, se io non ne fossi molte volte e con molte
stato alla pruova. E dicoti così , che se io fossi presso a questa tua
così santissima donna, io mi crederrei in brieve spazio di tempo recarla
a quello che io ho già dell'altre recate.
Bernabò turbato
rispose:
- Il quistionar con parole
potrebbe distendersi troppo; tu diresti e io direi, e alla fine niente
monterebbe. Ma poi che tu dì che tutte sono così pieghevoli e che
'l tuo ingegno è cotanto, acciò che io ti faccia certo della
onestà della mia donna, io son disposto che mi sia tagliata la testa se
tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere; e se tu non
puoi, io non voglio che tu perda altro che mille fiorin d'oro.
Ambrogiuolo, già in
su la novella riscaldato, rispose:
- Bernabò, io non so
quello ch'io mi facessi del tuo sangue se io vincessi; ma se tu hai voglia di
vedere pruova di ciò che io ho già ragionato, metti cinquemilia
fiorin d'oro de'tuoi, che meno ti deono esser cari che la testa, contro a mille
de'miei; e dove tu niuno termine poni, io mi voglio obbligare d'andare a Genova
e infra tre mesi dal dì che io mi partirò di qui aver della tua
donna fatta mia volontà, e in segno di ciò recarne meco delle sue
cose più care e sì fatti e tanti indizi che tu medesimo
confesserai esser vero; sì veramente che tu mi prometterai sopra la tua
fede infra questo termine non venire a Genova né scrivere a lei alcuna cosa di
questa materia.
Bernabò disse che
gli piacea molto; e quantunque gli altri mercatanti, che quivi erano,
s'ingegnassero di sturbar questo fatto, conoscendo che gran male ne potea
nascere, pure erano de'due mercatanti sì gli animi accesi, che, oltre al
voler degli altri, per belle scritte di lor mano s'obbligarono ]'uno all'altro.
E fatta la obbligagione,
Bernabò rimase e Ambrogiuolo quanto più tosto potè se ne
venne a Genova. E dimoratovi alcun giorno e con molta cautela informatosi del
nome della contrada e de'costumi della donna, quello e più ne 'ntese che
da Bernabò udito n'avea; per che gli parve matta impresa aver fatta. Ma
pure, accontatosi con una povera femina che molto nella casa usava e a cui la
donna voleva gran bene, non potendola ad altro inducere, con denari la corruppe
e a lei in una cassa artificiata a suo modo si fece portare, non solamente
nella casa, ma nella camera della gentil donna; e quivi, come se in alcuna
parte andar volesse, la buona femina, secondo l'ordine datole da Ambrogiuolo,
la raccomandò per alcun dì .
Rimasa adunque la cassa
nella camera e venuta la notte, all'ora che Ambrogiuolo avvisò che la
donna dormisse, con certi suoi ingegni apertala, chetamente nella camera
uscì , nella quale un lume acceso avea. Per la qual cosa egli il sito
della camera, le dipinture e ogni altra cosa notabile che in quella era
cominciò a ragguardare e a fermare nella sua memoria.
Quindi, avvicinatosi al
letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla, che con lei era,
dormivan forte, pianamente scopertola tutta, vide che così era bella
ignuda come vestita, ma niuno segnale da potere rapportare le vide, fuori che
uno ch'ella n'avea sotto la sinistra poppa, ciò era un neo d'intorno al
quale erano alquanti peluzzi biondi come oro; e, ciò veduto, chetamente
la ricoperse, come che, così bella vedendola, in disiderio avesse di
mettere in avventura la vita sua e coricarlesi allato. Ma pure, avendo udito
lei essere così cruda e alpestra intorno a quelle novelle, non
s'arrischiò; e statosi la maggior parte della notte per la camera a suo
agio, una borsa e una guarnacca d'un suo forziere trasse e alcuno anello e
alcuna cintura, e ogni cosa nella cassa sua messa, egli altressì vi si
ritornò, e così la serrò come prima stava; e in questa
maniera fece due notti, senza che la donna di niente s'accorgesse.
Vegnente il terzo dì
, secondo l'ordine dato, la buona femina tornò per la cassa sua e
colà la riportò onde levata l'avea; della quale Ambrogiuolo uscito,
e contentata secondo la promessa la femina, quanto più tosto potè
con quelle cose si tornò a Parigi avanti il termine preso. Quivi,
chiamati que'mercatanti che presenti erano stati alle parole e al metter
de'pegni, presente Bernabò, disse sé aver vinto il pegno tra lor messo,
perciò che fornito aveva quello di che vantato s'era; e che ciò
fosse vero, primieramente disegnò la forma della camera e le dipinture
di quella, e appresso mostrò le cose che di lei aveva seco recate, affermando
da lei averle avute.
Confessò
Bernabò così esser fatta la camera come diceva e oltre a
ciò sé riconoscere quelle cose veramente della sua donna essere state;
ma disse lui aver potuto da alcuno de'fanti della casa sapere la qualità
della camera e in simil maniera avere avute le cose; per che, se altro non
dicea, non gli parea che questo bastasse a dovere aver vinto.
Per che Ambrogiuolo disse:
- Nel vero questo doveva
bastare; ma, poi che tu vuogli che io più avanti ancora dica, e io il
dirò. Dicoti che madonna Zinevra tua mogliere ha sotto la sinistra poppa
un neo ben grandicello, dintorno al quale son forse sei peluzzi biondi come
oro.
Quando Bernabò
udì questo, parve che gli fosse dato d'un coltello al cuore, siffatto
dolore sentì ; e tutto nel viso cambiato, eziandio se parola non avesse
detta, diede assai manifesto segnale ciò esser vero che Ambrogiuolo
diceva, e dopo alquanto disse:
- Signori, ciò che
Ambrogiuolo dice è vero; e perciò, avendo egli vinto, venga
qualor gli piace e sì si paghi- ; e così fu il dì seguente
Ambrogiuolo interamente pagato.
E Bernabò, da Parigi
partitosi, con fellone animo contro alla donna verso Genova se ne venne. E
appressandosi a quella non volle in essa entrare, ma si rimase ben venti miglia
lontano ad essa ad una sua possessione; e un suo famigliare, in cui molto si
fidava, con due cavalli e con sue lettere mandò a Genova, scrivendo alla
donna come tornato era e che con lui a lui venisse; e al famiglio segretamente
impose che, come in parte fosse colla donna che migliore gli paresse, senza
niuna misericordia la dovesse uccidere e a lui tornarsene.
Giunto adunque il
famigliare a Genova e date le lettere e fatta l'ambasciata, fu dalla donna con
gran festa ricevuto, la quale la seguente mattina, montata col famigliare a
cavallo, verso la sua possessione prese il cammino. E camminando insieme e di
varie cose ragionando, pervennero in uno vallone molto profondo e solitario e
chiuso d'alte grotte e d'alberi, il quale parendo al famigliare luogo da dovere
sicuramente per sé fare il comandamento del suo signore, tratto fuori il
coltello e presa la donna per lo braccio, disse
- Madonna, raccomandate
l'anima vostra a Dio, ché a voi, senza passar più avanti, convien
morire.
La donna, vedendo il
coltello e udendo le parole, tutta spaventata disse:
- Mercè per Dio!
anzi che tu mi uccida, dimmi di che io t'ho offeso, che tu uccider mi debbi.
- Madonna,- disse il
famigliare- me non avete offeso d'alcuna cosa; ma di che voi offeso abbiate il
vostro marito io nol so, se non che egli mi comandò che, senza alcuna
misericordia aver di voi, io in questo cammin v'uccidessi; e se io nol facessi,
mi minacciò di farmi impiccar per la gola. Voi sapete bene quant'io gli
son tenuto, e come io di cosa che egli m'imponga possa dir di no; sallo Iddio
che di voi m'incresce, ma io non posso altro.
A cui la donna piagnendo
disse:
- Ahi mercé per Dio! non
volere divenire micidiale di chi mai non t'offese, per servire altrui. Iddio,
che tutto conosce, sa che io non feci mai cosa per la quale io dal mio marito
debbia così fatto merito ricevere. Ma lasciamo ora star questo; tu puoi,
quando tu vogli, ad una ora piacere a Dio e al tuo signore e a me in questa
maniera: che tu prenda questi miei panni, e solamente il tuo farsetto e un
cappuccio; e con essi torni al mio e tuo signore, e dichi che tu m'abbi uccisa;
e io ti giuro, per quella salute la quale tu donata m'avrai, che io mi
dileguerò e andronne in parte che mai né a lui né a te né in queste
contrade di me perverrà alcuna novella.
Il famigliare, che mal
volentieri l'uccidea, leggiermente divenne pietoso; per che, presi i drappi
suoi e datole un suo farsettaccio e un cappuccio, e lasciatile certi denari li
quali essa avea, pregandola che di quelle contrade si dileguasse, la
lasciò nel vallone e a piè, e andonne al signor suo, al qual disse
che il suo comandamento non solamente era fornito, ma che il corpo di lei morto
aveva tra parecchi lupi lasciato.
Bernabò dopo alcun
tempo se ne tornò a Genova e, saputosi il fatto, forte fu biasimato.
La donna, rimasa sola e
sconsolata, come la notte fu venuta, contraffatta il più che
potè, n'andò ad una villetta ivi vicina, e quivi da una vecchia
procacciato quello che le bisognava, racconciò il farsetto a suo dosso,
e fattol corto, e fattosi della sua camicia un paio di pannilini, e i capelli
tondutosi e trasformatasi tutta in forma d'un matinaro, verso il mare se ne
venne; dove per avventura trovò un gentile uomo catalano, il cui nome
era segner En Cararch, il quale d'una sua nave, la quale alquanto di quivi era
lontana, in Albegna disceso era a rinfrescarsi ad una fontana. Col quale
entrata in parole, con lui s'acconciò per servidore, e salissene sopra
la nave, faccendosi chiamar Sicuran da Finale. Quivi, di miglior panni rimesso
in arnese dal gentile uomo, lo 'ncominciò a servir sì bene e
sì acconciamente, che egli gli venne oltre modo a grado.
Avvenne, ivi a non gran
tempo, che questo catalano con un suo carico navicò in Alessandria e
portò certi falconi pellegrini al soldano, e presentogliele; al quale il
soldano avendo alcuna volta dato mangiare, e veduti i costumi di Sicurano, che
sempre a servir l'andava, e piaciutigli, al catalano il domandò; e
quegli, ancora che grave gli paresse, gliele lasciò.
Sicurano in poco di tempo
non meno la grazia e l'amor del soldano acquistò col suo bene adoperare,
che quella del catalano avesse fatto. Per che in processo di tempo avvenne che,
dovendosi in un certo tempo dell'anno, a guisa d'una fiera, fare una gran
ragunanza di mercatanti e cristiani e saracini in Acri, la quale sotto la
signoria del soldano era; acciò che i mercatanti e le mercatantie sicure
stessero, era il soldano sempre usato di mandarvi, oltre agli altri suoi
uficiali, alcuno de'suoi grandi uomini con gente che alla guardia attendesse.
Nella qual bisogna, sopravvegnendo il tempo, diliberò di mandare
Sicurano il quale già ottimamente la lingua sapeva; e così fece.
Venuto adunque Sicurano in
Acri signore e capitano della guardia de'mercatanti e della mercatantia, e
quivi bene e sollicitamente faccendo ciò che al suo uficio apparteneva,
e andando dattorno veggendo, e molti mercatanti e ciciliani e pisani e genovesi
e viniziani e altri italiani vedendovi, con loro volentieri si dimesticava per
rimembrarza della contrada sua.
Ora avvenne, tra l'altre
volte, che, essendo egli ad un fondaco di mercatanti viniziani smontato, gli
vennero vedute tra altre gioie una borsa e una cintura, le quali egli
prestamente riconobbe essere state sue, e maravigliossi; ma, senza altra vista
fare, piacevolmente domandò di cui fossero e se vendere si voleano.
Era quivi venuto
Ambrogiuolo da Piagenza con molta mercatantia in su una nave di viniziani, il
quale, udendo che il capitano della guardia domandava di cui fossero, si trasse
avanti e ridendo disse:
- Messere, le cose son mie
e non le vendo; ma s'elle vi piacciono, io le vi donerò volentieri.
Sicurano, vedendol ridere,
suspicò non costui in alcuno atto l'avesse raffigurato; ma pur, fermo
viso faccendo, disse:
- Tu ridi forse, perché
vedi me uom d'arme andar domandando di queste cose feminili?
Disse Ambrogiuolo:
- Messere, io non rido di
ciò, ma rido del modo ne quale io le guadagnai.
A cui Sicuran disse:
- Deh, se Iddio ti dea
buona ventura, se egli non è disdicevole, diccelo come tu le
guadagnasti.
- Messere,- disse
Ambrogiuolo- queste mi donò con alcuna altra cosa una gentil donna di
Genova chiamata madonna Zinevra, moglie di Bernabò Lomellin, una notte
che io giacqui con lei, e pregommi che per suo amore io le tenessi. Ora risi
io, per ciò che egli mi ricordò della sciocchezza di
Bernabò, il qual fu di tanta follia che mise cinquemilia fiorin d'oro
contro a mille che io la sua donna non recherei a'miei piaceri; il che io feci
e vinsi il pegno; ed egli, che più tosto sé della sua bestialità
punir dovea che lei d'aver fatto quello che tutte le femine fanno, da Parigi a
Genova tornandosene, per quello che io abbia poi sentito, la fece uccidere.
Sicurano, udendo questo,
prestamente comprese qual fosse la cagione dell'ira di Bernabò verso lei
e manifestamente conobbe costui di tutto il suo male esser cagione; e seco
pensò di non lasciargliele portare impunita.
Mostrò adunque
Sicurano d'aver molto cara questa novella, e artatamente prese con costui una
stretta dimestichezza, tanto che per gli suoi conforti Ambrogiuolo, finita la
fiera, con essolui e con ogni sua cosa se n'andò in Alessandria, dove
Sicurano gli fece fare un fondaco e misegli in mano de'suoi denari assai; per
che egli, util grande veggendosi, vi dimorava volentieri.
Sicurano, sollicito a
volere della sua innocenzia far chiaro Bernabò, mai non riposò
infino a tanto che con opera d'alcuni grandi mercatanti genovesi che in
Alessandria erano, nuove cagioni trovando, non l'ebbe fatto venire; il quale,
in assai povero stato essendo, ad alcun suo amico tacitamente fece ricevere,
infino che tempo gli paresse a quel fare che di
fare intendea.
Avea già Sicurano
fatta raccontare ad Ambrogiuolo la novella davanti al soldano, e fattone al
soldano prendere piacere; ma poi che vide quivi Bernabò, pensando che
alla bisogna non era da dare indugio, preso tempo convenevole, dal soldano
impetrò che davanti venir si facesse Ambrogiuolo e Bernabò, e in
presenzia di Bernabò, se agevolmente fare
non si potesse, con
severità da Ambrogiuolo si traesse il vero come stato fosse quello di
che egli della moglie di Bernabò si vantava.
Per la qual cosa,
Ambrogiuolo e Bernabò venuti, il soldano in presenzia di molti con
rigido viso ad Ambrogiuol comandò che il vero dicesse come a
Bernabò vinti avesse cinquemilia fiorin d'oro; e quivi era presente
Sicurano, in cui Ambrogiuolo più avea di fidanza, il quale con viso
troppo più turbato gli minacciava gravissimi tormenti se nol dicesse.
Per che Ambrogiuolo, da una parte e d'altra spaventato e ancora alquanto
costretto, in presenzia di Bernabò e di molti altri, niuna pena
più aspettandone che la restituzione di fiorini cinquemilia d'oro e
delle cose, chiaramente, come stato era il fatto, narrò ogni cosa.
E avendo Ambrogiuolo detto,
Sicurano, quasi esecutore del soldano, in quello rivolto a Bernabò
disse: - E tu che facesti per questa bugia alla tua donna? A cui Bernabò
rispose:
- Io, vinto dalla ira della
perdita de'miei denari e dall'onta della vergogna che mi parea avere ricevuta
dalla mia donna, la feci ad un mio famigliare uccidere; e, secondo che egli mi
rapportò, ella fu prestamente divorata da molti lupi.
Queste cose così
nella presenzia del soldan dette e da lui tutte udite e intese, non sappiendo
egli ancora a che Sicurano, che questo ordinato avea e domandato, volesse
riuscire, gli disse Sicurano:
- Signor mio assai chiaramente
potete conoscere quanto quella buona donna gloriar si possa d'amante e di
marito; ché l'amante ad una ora lei priva d'onore, con bugie guastando la fama
sua, e diserta il marito di lei; e il marito, più credulo alle altrui
falsità che alla verità da lui per lunga esperienza potuta
conoscere, la fa uccidere e mangiare a'lupi; e oltre a questo tanto il bene e
l'amore che l'amico e 'l marito le porta, che, con lei lungamente dimorati,
niuno la conosce. Ma per ciò che voi ottimamente conosciate quello che
ciascun di costoro ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di
punire lo 'ngannatore e perdonare allo 'ngannato, io la farò qui in
vostra e in loro presenzia venire.
Il soldano, disposto in
questa cosa di volere in tutto compiacere a Sicurano, disse che gli piacea e
che facesse la donna venire. Maravigliossi forte Bernabò, il quale lei
per fermo morta credea; e Ambrogiuolo, già del suo male indovino, di
peggio avea paura che di pagar denari, né sapea che si sperare o che più
temere, perché quivi la donna venisse, ma più con maraviglia la sua
venuta aspettava.
Fatta adunque la
concessione dal soldano a Sicurano, esso, piagnendo e in ginocchion dinanzi al
soldan gittatosi, quasi ad una ora la maschil voce e il più voler
maschio parere si partì , e disse:
- Signor mio, io sono la
misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando in forma d'uom per lo
mondo, da questo traditor d'Ambrogiuol falsamente e reamente vituperata, e da
questo crudele e iniquo uomo data ad uccidere ad un suo fante e a mangiare
a'lupi.
E stracciando i panni
dinanzi e mostrando il petto, sé esser femina e al soldano e a ciascuno altro
fece palese; rivolgendosi poi ad Ambrogiuolo, ingiuriosamente domandandolo
quando mai, secondo che egli avanti si vantava, con lei giaciuto fosse. Il
quale, già riconoscendola, e per vergogna quasi mutolo divenuto, niente
dicea.
Il soldano, il qual sempre
per uomo avuta l'avea, questo vedendo e udendo, venne in tanta maraviglia, che
più volte quello che egli vedeva e udiva credette più tosto esser
sogno che vero. Ma pur, poi che la maraviglia cessò, la verità
conoscendo, con somma laude la vita e la constanzia e i costumi e la
virtù della Zinevra, infino allora stata Sicuran chiamata,
commendò. E, fattili venire onorevolissimi vestimenti femminili e donne
che compagnia le tenessero, secondo la dimanda fatta da lei, a Bernabò
perdonò la meritata morte.
Il quale, riconosciutola,
a'piedi di lei si gittò piagnendo e domandando perdonanza, la quale
ella, quantunque egli maldegno ne fosse, benignamente gli diede, e in piede il
fece levare, teneramente sì come suo marito abbracciandolo.
Il soldano appresso
comandò che incontanente Ambrogiuolo in alcuno alto luogo della
città fosse al sole legato ad un palo e unto di mele, né quindi mai,
infino a tanto che per sé medesimo non cadesse, levato fosse; e così fu
fatto. Appresso questo, comandò che ciò che d'Ambrogiuolo stato
era fosse alla donna donato; che non era sì poco che oltre a diecimilia
dobbre non valesse; ed egli, fatta apprestare una
bellissima festa, in quella
Bernabò, come marito di madonna Zinevra, e madonna Zinevra sì
come valorosissima donna, onorò, e donolle che in gioie e che in
vasellamenti d'oro e d'ariento e che in denari, quello che valse meglio d'altre
diecemilia dobbre.
E, fatto loro apprestare un
legno, poi che finita fu la festa per loro fatta, gli licenziò di
potersi tornare a Genova al lor piacere; dove ricchissimi e con grande
allegrezza tornarono, e con sommo onore ricevuti furono, e spezialmente madonna
Zinevra, la quale da tutti si credeva che morta fosse; e sempre di gran
virtù e da molto, mentre visse, fu reputata.
Ambrogiuolo il dì
medesimo che legato fu al palo e unto di mele, con sua grandissima angoscia
dalle mosche e dalle vespe e da'tafani, de'quali quel paese è copioso molto,
fu non solamente ucciso, ma infino all'ossa divorato; le quali bianche rimase e
a'nervi appiccate, poi lungo tempo, senza esser mosse, della sua
malvagità fecero a chiunque le vide testimonianza. E così rimase
lo 'ngannatore a piè dello 'ngannato.
Giornata seconda - Novella
decima
Paganino da Monaco ruba la
moglie a messer Ricciardo da Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è,
va e diventa amico di Paganino. Raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia,
gliele concede. Ella non vuol con lui tornare, e, morto messer Ricciardo,
moglie di Paganin diviene.
Ciascuno della onesta
brigata sommamente commendò per bella la novella dalla loro reina
contata, e massimamente Dioneo, al quale solo per la presente giornata restava
il novellare. Il quale, dopo molte commendazioni di quella fatte, disse.
Belle donne, una parte
della novella della reina m'ha fatto mutare consiglio di dirne una che
all'animo m'era, a doverne un'altra dire; e questa è la
bestialità di Bernabò, come che bene ne gli avvenisse, e di tutti
gli altri che quello si danno a credere che esso di creder mostrava,
cioè che essi andando per lo mondo e con questa e con quella ora una
volta ora un'altra
sollazzandosi, s'imaginano che le donne a casa rimase si tengano le mani a
cintola, quasi noi non conosciamo, che tra esse nasciamo e cresciamo e stiamo,
di che elle sien vaghe. La qual dicendo, ad un'ora vi mosterrò chente
sia la sciocchezza di questi cotali, e quanto ancora sia maggiore quella di
coloro li quali, sé più che la natura possenti estimando, si credono
quello con dimostrazioni favolose potere che essi non possono, e sforzansi d'altrui
recare a quello che essi sono, non patendolo la natura di chi è tirato.
Fu dunque in Pisa un
giudice, più che di corporal forza dotato d'ingegno, il cui nome fu
messer Ricciardo di Chinzica, il qual, forse credendosi con quelle medesime
opere sodisfare alla moglie che egli faceva agli studi, essendo molto ricco,
con non piccola sollicitudine cercò d'avere bella e giovane donna per
moglie; dove e l'uno e l'altro, se così avesse saputo consigliar sé come
altrui faceva, doveva fuggire. E quello gli venne fatto, per ciò che
messer Lotto Gualandi per moglie gli diede una sua figliuola, il cui nome era
Bartolomea, una delle più belle e delle più vaghe giovani di
Pisa, come che poche ve n'abbiano che lucertole verminare non paiano. La quale
il giudice menata con grandissima festa a casa sua, e fatte le nozze belle e
magnifiche, pur per la prima notte incappò una volta per consumare il
matrimonio a toccarla, e di poco fallò che egli quella una non fece
tavola; il quale poi la mattina, sì come colui che era magro e secco e di
poco spirito, convenne che con vernaccia e con confetti ristorativi e con altri
argomenti nel mondo si ritornasse.
Or questo messer lo
giudice, migliore stimatore delle sue forze divenuto che stato non era avanti,
incominciò ad insegnare a costei un calendario buono da fanciulli che
stanno a leggere, e forse già stato fatto a Ravenna. Per ciò che,
secondo che egli le mostrava, niun dì era che non solamente una festa,
ma molte non ne fossero; a reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava
l'uomo e la donna doversi astenere da così fatti congiugnimenti, sopra
questi aggiugnendo digiuni e quattro tempora e vigilie d'apostoli e di mille
altri santi, e venerdì e sabati, e la domenica del Signore e la
quaresima tutta, e certi punti della luna e altre eccezioni molte, avvisandosi
forse che così feria far si convenisse con le donne nel letto, come egli
faceva talvolta piatendo alle civili. E questa maniera (non senza grave
malinconia della donna, a cui forse una volta ne toccava il mese e appena) lungamente
tenne, sempre guardandola bene, non forse alcuno altro le 'nsegnasse conoscere
li dì da lavorare, come egli l'aveva insegnate le feste.
Avvenne che, essendo il
caldo grande, a messer Ricciardo venne disidero d'andarsi a diportare ad un suo
luogo molto bello vicino a Montenero, e quivi per prendere aere, dimorarsi
alcun giorno, e con seco menò la sua bella donna. E quivi standosi, per
darle alcuna consolazione, fece un giorno pescare, e sopra due barchette, egli
in su una co'pescatori ed ella in su un'altra con altre donne, andarono a
vedere; e tirandogli il diletto, parecchi miglia, quasi senza accorgersene,
n'andarono infra mare.
E mentre che essi
più attenti stavano a riguardare, subito una galeotta di Paganin da
Mare, allora molto famoso corsale, sopravenne; e vedute le barche, si
dirizzò a loro; le quali non poteron sì tosto fuggire, che
Paganin non giugnesse quella ove eran le donne; nella quale veggendo la bella
donna, senza altro volerne, quella, veggente messer Ricciardo che già era
in terra, sopra la sua galeotta posta, andò via. La qual cosa veggendo
messer lo giudice, il quale era sì geloso che temeva dello aere stesso,
se esso fu dolente non è da domandare. Egli senza pro, e in Pisa e
altrove, si dolfe della malvagità de'corsari, senza sapere chi la moglie
tolta gli avesse o dove portatola.
A Paganino, veggendola
così bella, parve star bene; e, non avendo moglie, si pensò di
sempre tenersi costei, e lei, che forte piagnea, cominciò dolcemente a
confortare. E venuta la notte, essendo a lui il calendaro caduto da cintola e
ogni festa o feria uscita di mente, la cominciò a confortare co'fatti,
parendogli che poco fossero il dì giovate ]e parole; e per sì
fatta maniera la racconsolò, che, prima che a Monaco giugnessero, il giudice
e le sue leggi le furono uscite di mente, e cominciò a viver più
lietamente del mondo con Paganino. Il quale, a Monaco menatala, oltre alle
consolazioni che di dì e di notte le dava, onoratamente come sua moglie
la tenea.
Poi a certo tempo pervenuto
agli orecchi di messer Ricciardo dove la sua donna fosse, con ardentissimo
disidero, avvisandosi niun interamente saper far ciò che a ciò
bisognava, esso stesso dispose d'andar per lei, disposto a spendere per lo
riscatto di lei ogni quantità di denari; e, messosi in mare, se
n'andò a Monaco, e quivi la vide ed ella lui; la quale poi la sera a
Paganino il disse e lui della sua intenzione informò.
La seguente mattina messer
Ricciardo, veggendo Paganino, con lui s'accontò e fece in poca d'ora una
gran dimestichezza e amistà, infignendosi Paganino di conoscerlo e
aspettando a che riuscir volesse. Per che, quando tempo parve a messer
Ricciardo, come meglio seppe e il più piacevolmente, la cagione per la
quale venuto era gli discoperse, pregandolo che quello che gli piacesse
prendesse e la donnagli rendesse. Al quale Paganino con lieto viso rispose:
- Messere, voi siate il ben
venuto, e rispondendo in brieve, vi dico così : egli è vero che
io ho una giovane in casa, la qual non so se vostra moglie o d'altrui si sia,
per ciò che voi io non conosco, né lei altressì se non in tanto
quanto ella è meco alcun tempo dimorata. Se voi siete suo marito, come
voi dite, io, perciò che piacevol gentil uom mi parete, vi menerò
da lei, e son certo che ella vi conoscerà bene. Se essa dice che
così sia come voi dite e vogliasene con voi venire, per amor della
vostra piacevolezza quello che voi medesimo vorrete per riscatto di lei mi
darete; ove così non fosse, voi fareste villania a torre, per ciò
che io son giovane uomo e posso così come un altro tenere una femina, e
spezialmente lei che è la più piacevole che io vidi mai.
Disse allora messer
Ricciardo:
- Per certo ella è
mia moglie, e se tu mi meni dove ella sia, tu il vedrai tosto; ella mi si
gittarà incontanente al collo; e per ciò non domando che
altramenti sia se non come tu medesimo hai divisato.
- Adunque,- disse Paganino-
andiamo.
Andatisene adunque nella
casa di Paganino e stando in una sua sala, Paganino la fece chiamare, ed ella
vestita e acconcia uscì d'una camera e quivi venne dove messer Ricciardo
con Paganino era, né altramenti fece motto a messer Ricciardo che fatto
s'avrebbe ad un altro forestiere che con Paganino in casa sua venuto fosse. Il
che vedendo il giudice, che aspettava di dovere essere con grandissima festa
ricevuto da lei, si maravigliò forte, e seco stesso cominciò a
dire: - Forse che la malinconia e il lungo dolore che io ho avuto, poscia che
io la perdei m'ha si trasfigurato che ella non mi riconosce - Per che egli
disse:
- Donna, caro mi costa il
menarti a pescare, per ciò che simil dolore non si sentì mai a
quello che io ho poscia portato che io ti perdei, e tu non pare che mi
riconoschi, sì salvaticamente motto mi fai. Non vedi tu che io sono il
tuo messer Ricciardo, venuto qui per pagare ciò che volesse questo
gentile uomo, in casa cui noi siamo, per riaverti e per menartene; ed egli, la
sua mercè, per ciò che io voglio, mi ti rende?
La donna rivolta a lui, un
cotal pocolin sorridendo, disse:
- Messere, dite voi a me?
Guardate che voi non m'abbiate colta in iscambio, chè, quanto è io,
non mi ricordo che io vi vedessi giammai.
Disse messer Ricciardo:
- Guarda ciò. che tu
dì , guatami bene; se tu ti vorrai bene ricordare, tu vedrai bene che io
sono il tuo Ricciardo di Chinzica.
La donna disse:
- Messere, voi mi
perdonerete, forse non è egli così onesta cosa a me, come voi
v'imaginate, il molto guardarvi, ma io v'ho nondimeno tanto guardato, che io
conosco che io mai più non vi vidi.
Imaginossi messer Ricciardo
che ella questo facesse per tema di Paganino, di non volere in sua presenza confessare
di conoscerlo; per che, dopo alquanto, chiese di grazia a Paganino che in
camera solo con esso lei le potesse parlare. Paganin disse che gli piacea,
sì veramente che egli non la dovesse contra suo piacere baciare; e alla
donna comandò
che con lui in camera
andasse e udisse ciò che egli volesse dire, e come le piacesse gli
rispondesse.
Andatisene adunque in
camera la donna e messer Ricciardo soli, come a seder si furon posti,
incominciò messer Ricciardo a dire:
- Deh, cuor del corpo mio,
anima mia dolce, speranza mia, or non riconosci tu Ricciardo tuo che t'ama
più che sé medesimo? Come può questo essere? Son io così
trasfigurato? Deh, occhio mio bello, guatami pure un poco.
La donna incominciò
a ridere e, senza lasciarlo dir più , disse:
- Ben sapete che io non
sono sì smimorata, che io non conosca che voi siete messer Ricciardo di
Chinzica mio marito; ma voi, mentre che io fu'con voi, mostraste assai male di
conoscer me, per ciò che se voi eravate savio o sete, come volete esser
tenuto, dovavate bene aver tanto conoscimento, che voi dovavate vedere che io
era giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente conoscere quello che alle
giovani donne, oltre al vestire e al mangiar, bene che elle per vergogna nol
dicano, si richiede; il che come voi il faciavate? voi il vi sapete.
E s'egli v'era più a
grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovavate pigliarla; benché a
me non parve mai che voi giudice foste, anzi mi paravate un banditore di sagre
e di feste, sì ben le sapavate, e le digiune e le vigilie. E dicovi che
se voi aveste tante feste fatte fare a'lavoratori che le vostre possessioni
lavorano, quante faciavate fare a colui che il mio piccol campicello aveva a
lavorare, voi non avreste mai ricolto granello di grano. Sonmi abbattuta a
costui che ha voluto Iddio, sì come pietoso ragguardatore della mia
giovanezza, col quale io mi sto in questa camera, nella qual non si sa che cosa
festa sia (dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a'servigi
delle donne, cotante celebravate), né mai dentro a quello uscio entrò né
sabato né venerdì né vigilia né quattro tempora né quaresima,
ch'è così lunga, anzi di dì e di notte ci si lavora e
battecisi la lana; e poi che questa notte sonò mattutino, so bene come
il fatto andò da una volta in su. E però con lui intendo di
starmi e di lavorare mentre sarò giovane; e le feste e le perdonanze e i
digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi colla buona ventura
sì ve n'andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste
quante vi piace.
Messer Ricciardo, udendo
queste parole, sosteneva dolore incomportabile, e disse, poi che lei tacer
vide:
- Deh, anima mia dolce, che
parole son quelle che tu dì ? Or non hai tu riguardo all'onore
de'parenti tuoi e al tuo? Vuo'tu innanzi star qui per bagascia di costui e in
peccato mortale, che a Pisa mia moglie? Costui, quando tu gli sarai
rincresciuta, con gran vitupero di te medesima ti caccerà via; io
t'avrò sempre cara, e sempre, ancora che io non volessi, sarai donna
della casa mia. Dei tu per questo appetito disordinato e disonesto lasciar
l'onor tuo e me, che t'amo più che la vita mia? Deh, speranza mia cara,
non dir più così , voglitene venir con meco; io da quinci
innanzi, poscia che io conosco il tuo disidero, mi sforzerò; e però,
ben mio dolce, muta consiglio e vientene meco, ché mai ben non sentii poscia
che tu tolta mi fosti.
A cui la donna rispose:
- Del mio onore non intendo
io che persona, ora che non si può, sia più di me tenera;
fossonne stati i parenti miei quando mi diedero a voi! li quali se non furono
allora del mio, io non intendo d'essere al presente del loro; e se io ora sto
in peccato mortaio, io starò quando che sia in peccato pestello: non ne
siate più tenero di me. E dicovi così , che qui mi pare esser
moglie di Paganino, e a Pisa mi pareva esser vostra bagascia, pensando che per
punti di luna e per isquadri di geometria si convenivano tra voi e me
congiugnere i pianeti, dove qui Paganino tutta la notte mi tiene in braccio e
strignemi e mordemi, e come egli mi conci Iddio ve 'l dica per me. Anche dite
voi che vi sforzerete: e di che? di farla in tre pace, e rizzare a mazzata? Io
so che voi siete divenuto un prò cavaliere poscia che io non vi vidi.
Andate, e sforzatevi di vivere; ché mi pare anzi che no che voi ci stiate a
pigione, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete. E ancor vi dico
più , che quando costui mi lascerà (ché non mi pare a ciò
disposto, dove io voglia stare), io non intendo per ciò di mai tornare a
voi, di cui, tutto premendovi, non si farebbe uno scodellin di salsa; per
ciò che con mio grandissimo danno e interesse vi stetti una volta; per
che in altra parte cercherei mia civanza. Di che da capo vi dico che qui non ha
festa né vigilia; laonde io intendo di starmi; e per ciò, come più
tosto potete, v'andate con Dio, se non che io griderò che voi mi
vogliate sforzare.
Messer Ricciardo,
veggendosi a mal partito e pure allora conoscendo la sua follia d'aver moglie
giovane tolta essendo spossato, dolente e tristo s'uscì della camera e
disse parole assai a Paganino, le quali non montarono un frullo. E ultimamente,
senza alcuna cosa aver fatta, lasciata la donna, a Pisa si ritornò, e in
tanta mattezza per dolor cadde che, andando per Pisa, a chiunque il salutava o
d'alcuna cosa il domandava, niuna altra cosa rispondeva se non: - Il mal foro
non vuol festa- ; e dopo non molto tempo si morì . Il che Paganin
sentendo, e conoscendo l'amore che la donna gli portava, per sua legittima
moglie la sposò, e senza mai guardar festa o vigilia o fare quaresima,
quanto le gambe ne gli poteron portare, lavorarono e buon tempo si diedono. Per
la qual cosa, donne mie care, mi pare che ser Bernabò disputando con
Ambrogiuolo cavalcasse la capra in verso il chino.
Giornata seconda -
Conclusione
Questa novella diè
tanto che ridere a tutta la compagnia, che niun ve n'era a cui non dolessero le
mascelle, e di pari consentimento tutte le donne dissono che Dioneo diceva vero
e che Bernabò era stato una bestia. Ma, poi che la novella fu finita e
le risa ristate, avendo la reina riguardato che l'ora era omai tarda, e che
tutti avean novellato, e la fine della sua signoria era venuta, secondo il
cominciato ordine, trattasi la ghirlanda di capo, sopra la testa la pose di
Neifile con lieto viso dicendo:
- Omai, cara compagna, di
questo piccol popolo il governo sia tuo- ; e a seder si ripose.
Neifile del ricevuto onore
un poco arrossò e tal nel viso divenne qual fresca rosa d'aprile o di
maggio in su lo schiarir del giorno si mostra, con gli occhi vaghi e
scintillanti, non altramenti che mattutina stella, un poco bassi. Ma poi che
l'onesto romor de'circustanti, nel quale il favor loro verso la reina
lietamente mostravano, si fu riposato ed ella ebbe ripreso l'animo, alquanto
più alta che usata non era sedendo, disse:
- Poiché così
è che io vostra reina sono, non dilungandomi dalla maniera tenuta per
quelle che davanti a me sono state, il cui reggimento voi ubbidendo commendato
avete, il parer mio in poche parole vi farò manifesto, il quale, se dal
vostro consiglio sarà commendato, quel seguiremo.
Come voi sapete, domane
è venerdì e il seguente dì sabato, giorni, per le vivande
le quali s'usano in quegli, al quanto tediosi alle più genti; senza che
'l venerdì , avendo riguardo che in esso Colui che per la nostra vita
morì sostenne passione, è degno di reverenza; per che giusta cosa
e molto onesta reputerei, che, ad onor d'lddio, più tosto ad orazioni
che a novelle vacassimo. E il sabato appresso usanza è delle donne di
lavarsi la testa e di tor via ogni polvere, ogni sucidume che per la fatica di
tutta la passata settimana sopravenuta fosse; e sogliono similmente assai, a
reverenza del la Vergine Madre del Figliuol di Dio, digiunare, e da indi in
avanti per onor della sopravvegnente domenica da ciascuna opera riposarsi; per
che, non potendo così a pieno in quel dì l'ordine da noi preso
nel vivere seguitare, similmente stimo sia ben fatto, quel dì del
novellare ci posiamo.
Appresso, per ciò
che noi qui quattro dì dimorate saremo, se noi vogliam tor via che gente
nuova non ci sopravvenga, reputo opportuno di mutarci di qui e andarne altrove,
e il dove io ho già pensato e proveduto. Quivi quando noi saremo
domenica appresso dormire adunati, avendo noi oggi avuto assai largo spazio da
discorrere ragionando, sì perché più tempo da pensare avrete, e
sì perché sarà ancora più bello che un poco si ristringa
del novellare la licenzia e che sopra uno de'molti fatti della Fortuna si dica,
ì ho pensato che questo sarà, di chi alcuna cosa molto da lui
disiderata con industria acquistasse o la perduta recuperasse. Sopra che
ciascun pensi di dire alcuna cosa che alla brigata esser possa utile o almeno
dilettevole, salvo sempre il privilegio di Dioneo.
Ciascun commendò il
parlare e il diviso della reina, e così statuiron che fosse. La quale
appresso questo, fattosi chiamare il suo siniscalco, dove metter dovesse la
sera le tavole, e quello appresso che far dovesse in tutto il tempo delta sua
signoria pienamente gli divisò, e cosi fatto, in piè dirizzata
colla sua brigata, a far quello che più piacesse a ciascuno gli
licenziò.
Presero adunque le donne e
gli uomini inverso un giardinetto la via, e quivi, poi che alquanto diportati
si furono, l'ora della cena venuta, con festa e con piacer cenarono e da quella
levati, come alla reina piacque, menando Emilia la carola, la seguente canzone
da Pampinea, rispondendo l'altre, fu cantanta:
Qual donna canterà,
s'i'non cant'io,
che son contenta d'ogni mio
disio?
Vien dunque, Amor, cagion
d'ogni mio bene,
d'ogni speranza e d'ogni
lieto effetto;
cantiamo insieme un poco,
non de'sospir né delle
amare pene
ch'or più dolce mi
fanno il tuo diletto,
ma sol del chiaro foco,
nel quale ardendo in festa
vivo e 'n gioco,
te adorando, come un mio
iddio.
Tu mi ponesti innanzi agli
occhi, Amore,
il primo dì ch'io
nel tuo foco entrai,
un giovinetto tale,
che di biltà,
d'ardir, né di valore
non se ne troverebbe un
maggior mai,
né pure a lui eguale:
di lui m'accesi tanto, che
aguale
lieta ne canto teco, signor
mio.
E quel che 'n questo
m'è sommo piacere,
è ch'io gli piaccio
quanto egli a me piace,
Amor, la tua merzede;
perché in questo mondo il
mio volere
posseggo, e spero
nell'altro aver pace
per quella intera fede
che io gli porto. Iddio che
questo vede,
del regno suo ancor ne
sarà pio.
Appresso questa, più
altre se ne cantarono e più danze si fecero e sonarono diversi suoni.
Ma, estimando la reina tempo esser di doversi andare a posare, co'torchi avanti
ciascuno alla sua camera se n'andò; e li due dì seguenti a quelle
cose vacando che prima la reina aveva ragionate, con disiderio aspettarono la
domenica.
Finisce la seconda giornata
del Decameron
Incomincia la terza
giornata nella quale si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna
cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta
ricoverasse.
Giornata terza -
Introduzione
L'aurora già di
vermiglia cominciava, appressandosi il sole, a divenir rancia, quando la
domenica la reina levata e fatta tutta la sua compagnia levare, e avendo
già il siniscalco gran pezzo davanti mandato al luogo dove andar doveano
assai delle cose opportune e chi quivi preparasse quello che bisognava,
veggendo già la reina in cammino, prestamente fatta ogn'altra cosa
caricare, quasi quindi il campo levato, colla salmeria n'andò e colla
famiglia rimasa appresso delle donne e de'signori.
La reina adunque con lento
passo, accompagnata e seguita dalle sue donne e dai tre giovani, alla guida del
canto di forse venti usignuoli e altri uccelli, per una vietta non troppo
usata, ma piena di verdi erbette e di fiori, li quali per lo sopravvegnente
sole tutti s'incominciavano ad aprire, prese il cammino verso l'occidente, e
cianciando e motteggiando e ridendo colla sua brigata, senza essere andata
oltre a dumilia passi, assai avanti che mezza terza fosse ad un bellissimo e
ricco palagio, il quale alquanto rilevato dal piano sopra un poggetto era
posto, gli ebbe condotti. Nel quale entrati e per tutto andati, e avendo le
gran sale, le pulite e ornate camere compiutamente ripiene di ciò che a
camera s'appartiene, sommamente il commendarono e magnifico reputarono il
signor di quello. Poi, a basso discesi, e veduta l'ampissima e lieta corte di
quello, le volte piene d'ottimi vini e la freddissima acqua e in gran copia che
quivi surgea, più ancora il lodarono. Quindi, quasi di riposo vaghi, sopra
una loggia che la corte tutta signoreggiava, essendo ogni cosa piena di quei
fiori che concedeva il tempo e di frondi, postisi a sedere, venne il discreto
siniscalco, e loro con preziosissimi confetti e ottimi vini ricevette e
riconfortò.
Appresso la qual cosa,
fattosi aprire un giardino che di costa era al palagio, in quello, che tutto
era dattorno murato, se n'entrarono; e parendo loro nella prima entrata di
maravigliosa bellezza tutto insieme, più attentamente le parti di quello
cominciarono a riguardare. Esso avea dintorno da sé e per lo mezzo in assai
parti vie ampissime; tutte diritte come strale e coperte di pergolati di viti,
le quali facevan gran vista di dovere quello anno assai uve fare; e tutte
allora fiorite sì grande odore per lo giardin rendevano, che, mescolato
insieme con quello di molte altre cose che per lo giardino olivano, pareva loro
essere tra tutta la spezieria che mai nacque in oriente; le latora delle quali
vie tutte di rosai bianchi e vermigli e di gelsomini erano quasi chiuse; per le
quali cose, non che la mattina, ma qualora il sole era più alto, sotto
odorifera e dilettevole ombra, senza esser tocco da quello, vi si poteva per
tutto andare. Quante e quali e come ordinate poste fossero le piante che erano
in quel luogo, lungo sarebbe a raccontare; ma niuna n'è laudevole, la
quale il nostro aere patisca, di che quivi non sia abondevolmente. Nel mezzo
del quale (quello che è non men commendabile che altra cosa che vi
fosse, ma molto più), era un prato di minutissima erba e verde tanto che
quasi nera parea, dipinto tutto forse di mille varietà di fiori, chiuso
dintorno di verdissimi e vivi aranci e di cedri, li quali, avendo i vecchi
frutti e i nuovi e i fiori ancora, non solamente piacevole ombra agli occhi, ma
ancora all'odorato facevan piacere. Nel mezzo del qual prato era una fonte di
marmo bianchissimo e con maravigliosi intagli. Iv'entro, non so se da natural
vena o da artificiosa, per una figura la quale sopra una colonna che nel mezzo
di quella diritta era, gittava tanta acqua e sì alta verso il cielo, che
poi non senza dilettevol suono nella fonte chiarissima ricadea, che di meno
avria macinato un mulino. La qual poi (quella dico che soprabbondava al pieno
della fonte) per occulta via del pratello usciva e, per canaletti assai belli e
artificiosamente fatti, fuori di quello divenuta palese, tutto lo 'ntorniava; e
quindi per canaletti simili quasi per ogni parte del giardin discorrea,
raccogliendosi ultimamente in una parte dalla quale del bel giardino avea
l'uscita, e quindi verso il pian discendendo chiarissima, avanti che a quel
divenisse, con grandissima forza e con non piccola utilità del signore,
due mulina volgea.
Il veder questo giardino,
il suo bello ordine, le piante la e la fontana co'ruscelletti procedenti da
quella, tanto piacque a ciascuna donna e a'tre giovani che tutti cominciarono
ad affermare che, se Paradiso si potesse in terra fare, non sapevano conoscere
che altra forma che quella di quel giardino gli si potesse dare, né pensare,
oltre a questo, qual bellezza gli si potesse aggiugnere. Andando adunque
contentissimi dintorno per quello, faccendosi di vari rami d'albori ghirlande
bellissime, tuttavia udendo forse venti maniere di canti d'uccelli quasi a
pruova l'un dell'altro cantare, s'accorsero d'una dilettevol bellezza, della
quale, dall'altre soprappresi, non s'erano ancora accorti; ché essi videro il
giardin pieno forse di cento varietà di belli animali, e l'uno all'altro
mostrandolo, d'una parte uscir conigli, d'altra parte correr lepri, e dove giacer
cavriuoli, e in alcuna cerbiatti giovani andar pascendo, e, oltre a questi,
altre più maniere di non nocivi animali, ciascuno a suo diletto, quasi
dimestichi, andarsi a sollazzo; le quali cose, oltre agli altri piaceri, un vie
maggior piacere aggiunsero.
Ma poi che assai, or questa
cosa or quella veggendo, andati furono, fatto dintorno alla bella fonte metter
le tavole, e quivi prima sei canzonette cantate e alquanti balli fatti, come
alla reina piacque, andarono a mangiare, e con grandissimo e bello e riposato
ordine serviti, e di buone e dilicate vivande, divenuti più lieti su si
levarono, e a'suoni e a'canti e a'balli da capo si dierono, infino che alla
reina, per lo caldo sopravvegnente, parve ora che, a cui piacesse, s'andasse a
dormire. De'quali chi vi andò e chi, vinto dalla bellezza del luogo,
andar non vi volle, ma, quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a
scacchi e chi a tavole, mentre gli altri dormiron, si diede.
Ma, poi che, passata la
nona, ciascuno levato si fu, e il viso colla fresca acqua rinfrescato s'ebbero,
nel prato, sì come alla reina piacque, vicini alla fontana venutine, e
in quello secondo il modo usato postisi a sedere, ad aspettar cominciarono di
dover novellare sopra la materia dalla reina proposta. De'quali il primo a cui
la reina tal carico impose fu Filostrato, il quale cominciò in questa
guisa.
Giornata terza - Novella
prima
Masetto da Lamporecchio si
fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte
concorrono a giacersi con lui.
Bellissime donne, assai
sono di quegli uomini e di quelle femine che sì sono stolti, che credono
troppo bene che, come ad una giovane è sopra il capo posta la benda
bianca e in dosso messale la nera cocolla, che ella più non sia femina
né più senta de'feminili appetiti se non come se di pietra l'avesse
fatta divenire il farla monaca; e se forse alcuna cosa contra questa lor
credenza n'odono, così si turbano come se contra natura un grandissimo e
scelerato male fosse stato commesso, non pensando né volendo aver rispetto a sé
medesimi, li quali la piena licenzia di poter far quel che vogliono non
può saziare, né ancora alle gran forze dell'ozio e della solitudine. E
similmente sono ancora di quegli assai che credono troppo bene che la zappa e
la vanga e le grosse vivande e i disagi tolgano del tutto a'lavoratori della
terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d'intelletto e d'avvedimento
grossissimi. Ma quanto tutti coloro che così credono sieno ingannati, mi
piace, poi che la reina comandato me l'ha, non uscendo della proposta fatta da
lei, di farvene più chiare con una piccola novelletta.
In queste nostre contrade
fu, ed è ancora, un monistero di donne assai famoso di santità
(il quale io non nomerò per non diminuire in parte alcuna la fama sua),
nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora più che otto donne
con una badessa, e tutte giovani, era un buono omicciuolo d'un loro bellissimo
giardino ortolano, il quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion sua
col castaldo delle donne, a Lamporecchio, là ond'egli era, se ne
tornò.
Quivi, tra gli altri che
lietamente il raccolsono, fu un giovane lavoratore forte e robusto e, secondo
uom di villa, con bella persona e con viso assai piacevole, il cui nome era
Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse. Il buono uomo, che Nuto
avea nome, gliele disse. Il quale Masetto domandò, di che egli il
monistero servisse. A cui Nuto rispose:
- Io lavorava un loro
giardino bello e grande e, oltre a questo, andava alcuna volta al bosco per le
legne, attigneva acqua e faceva cotali altri servigetti; ma le donne mi davano
sì poco salaro, che io non ne potevo appena pure pagare i calzari. E,
oltre a questo, elle son tutte giovani e parmi ch'elle abbiano il diavolo in
corpo, ché non si può far cosa niuna al lor modo; anzi, quand'io
lavorava alcuna volta l'orto, l'una diceva: - Pon qui questo -; e l'altra: -
Pon qui quello -; e l'altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: - Questo non
sta bene -; e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio e
uscivami dell'orto; sì che, tra per l'una cosa e per l'altra, io non vi
volli star più e sonmene venuto. Anzi mi pregò il castaldo loro,
quando io me ne venni, che, se io n'avessi alcuno alle mani che fosse da
ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi; ma tanto il faccia Dio
san delle reni, quanto io o ne procaccerò o ne gli manderò niuno.
A Masetto, udendo egli le
parole di Nuto, venne nell'animo un disidero sì grande d'esser con
queste monache, che tutto se ne struggea, comprendendo per le parole di Nuto
che a lui dovrebbe poter venir fatto di quello che egli disiderava. E
avvisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse:
- Deh come ben facesti a
venirtene! Che è un uomo a star con femine? Egli sarebbe meglio a star
con diavoli: elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si
vogliono elleno stesse.
Ma poi, partito il lor
ragionare, cominciò Masetto a pensare che via dovesse tenere a dovere
potere esser con loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che
Nuto diceva, non dubitò di perder per quello, ma temette di non dovervi
esser ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente. Per che,
molte cose divisate seco, imaginò: - Il luogo è assai lontano di
qui e niuno mi vi conosce; se io so far vista d'esser mutolo, per certo io vi
sarò ricevuto -. E in questa imaginazione fermatosi, con una sua scure
in collo, senza dire ad alcuno dove s'andasse, in guisa d'un povero uomo se
n'andò al monistero; dove pervenuto, entrò dentro e trovò
per ventura il castaldo nella corte; al quale faccendo suoi atti come i mutoli
fanno, mostrò di domandargli mangiare per l'amor di Dio e che egli, se
bisognasse, gli spezzerebbe delle legne.
Il castaldo gli diè
da mangiar volentieri, e appresso questo gli mise innanzi certi ceppi che Nuto
non avea potuto spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca d'ora
ebbe tutti spezzati. Il castaldo, che bisogno avea d'andare al bosco, il
menò seco, e quivi gli fece tagliate delle legne; poscia, messogli
l'asino innanzi, con suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse.
Costui il fece molto bene,
per che il castaldo a far fare certe bisogne che gli eran luogo più
giorni vel tenne. De quali avvenne che uno dì la badessa il vide, e
domandò il castaldo chi egli fosse. Il quale le disse:
- Madonna, questi è
un povero uomo mutolo e sordo, il quale un di questi dì ci venne per
limosina, sì che io gli ho fatto bene, e hogli fatte fare assai cose che
bisogno c'erano. Se egli sapesse lavorar l'orto e volesseci rimanere, io mi
credo che noi n'avremmo buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, ed
egli è forte e potrebbene l'uom fare ciò che volesse; e, oltre a
questo, non vi bisognerebbe d'aver pensiero che egli motteggiasse queste vostre
giovani.
A cui la badessa disse:
- In fè di Dio tu di'il
vero. Sappi se egli sa lavorare e ingegnati di ritenercelo; dagli qualche paio
di scarpette qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da
mangiare.
Il castaldo disse di farlo.
Masetto non era guari
lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste parole udiva, e
seco lieto diceva: - Se voi mi mettete costà entro, io vi lavorrò
sì l'orto che mai non vi fu così lavorato -.
Ora, avendo il castaldo
veduto che egli ottimamente sapea lavorare e con cenni domandatolo se egli
voleva star quivi, e costui con cenni rispostogli che far voleva ciò che
egli volesse, avendolo ricevuto, gl'impose che egli l'orto lavorasse e mostrogli
quello che a fare avesse; poi andò per altre bisogne del monistero, e
lui lasciò. Il quale lavorando l'un dì appresso l'altro, le
monache incominciarono a dargli noia e a metterlo in novelle, come spesse volte
avviene che altri fa de'mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del
mondo, non credendo da lui essere intese; e la badessa, che forse estimava che
egli così senza coda come senza favella fosse, di ciò poco o
niente si curava.
Or pure avvenne che costui
un dì avendo lavorato molto e riposandosi, due giovinette monache, che
per lo giardino andavano, s'appressarono là dove egli era, e lui che
sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l'una, che
alquanto era più baldanzosa, disse all'altra:
- Se io credessi che tu mi
tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il
quale forse anche a te potrebbe giovare.
L'altra rispose:
- Di'sicuramente, ché per
certo io nol dirò mai a persona.
Allora la baldanzosa
incominciò:
- Io non so se tu t'hai
posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa
entrare, se non il castaldo ch'è vecchio e questo mutolo; e io ho
più volte a più donne, che a noi son venute, udito dire che tutte
l'altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di quella quando la femina
usa con l'uomo. Per che io m'ho più volte messo in animo, poiché con
altrui non posso, di volere con questo mutolo provare se così è.
Ed egli è il miglior del mondo da ciò costui; ché, perché egli
pur volesse, egli nol potrebbe né saprebbe ridire. Tu vedi ch'egli è un
cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno; volentieri udirei quello
che a te ne pare.
- Ohimè,—disse
l'altra—che è quello che tu di'? Non sai tu che noi abbiam promesso la
virginità nostra a Dio?
- O,—disse colei—quante cose
gli si promettono tutto '1 dì, che non se ne gli attiene niuna! se noi
gliele abbiam promessa, truovisi un'altra o dell'altre che gliele attengano.
A cui la compagna disse:
- O se noi ingravidassimo,
come andrebbe il fatto?
Quella allora disse:
- Tu cominci ad aver
pensiero del mal prima che egli ti venga; quando cotesto avvenisse, allora si
vorrà pensare; egli ci avrà mille modi da fare sì che mai
non si saprà, pur che noi medesime nol diciamo.
Costei, udendo ciò,
avendo già maggior voglia che l'altra di provare che bestia fosse
l'uomo, disse:
- Or bene, come faremo?
A cui colei rispose:
- Tu vedi ch'egli è
in su la nona; io mi credo che le suore sien tutte a dormire, se non noi;
guatiam per l'orto se persona ci è, e s'egli non ci è persona,
che abbiam noi a fare se non a pigliarlo per mano e menarlo in questo
capannetto, là dove egli fugge l'acqua; e quivi l'una si stea dentro con
lui e l'altra faccia la guardia? Egli è sì sciocco, che egli
s'acconcerà comunque noi vorremo.
Masetto udiva tutto questo
ragionamento, e disposto ad ubidire, niuna cosa aspettava se non l'esser preso
dall'una di loro.
Queste, guardato ben per
tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella
che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, ed egli incontanente si
levò in piè. Per che costei con atti lusinghevoli presolo per la
mano, ed egli faccendo cotali risa sciocche, il menò nel capannetto,
dove Masetto senza farsi troppo invitare quel fe ce che ella volle. La quale, sì
come leale compagna, avuto quel che volea, diede all'altra luogo, e Masetto,
pur mostrandosi semplice, faceva il lor volere. Per che avanti che quindi si
dipartissono, da una volta in su ciascuna provar volle come il mutolo sapea
cavalcare; e poi, seco spesse volte ragionando, dicevano che bene era
così dolce cosa, e più, come udito aveano; e prendendo a
convenevoli ore tempo, col mutolo s'andavano a trastullare.
Avvenne un giorno che una
lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto avvedutasi, a
due altre il mostrò. E prima tennero ragionamento insieme di doverle
accusare alla badessa; poi, mutato consiglio e con loro accordatesi, partefici
divennero del podere di Masetto. Alle quali l'altre tre per diversi accidenti
divenner compagne in vari tempi.
Ultimamente la badessa, che
ancora di queste cose non s'accorgea, andando un dì tutta sola per lo
giardino, essendo il caldo grande, trovò Masetto (il qual di poca fatica
il dì, per lo troppo cavalcar della notte, aveva assai) tutto disteso al
l'ombra d'un mandorlo dormirsi, e avendogli il vento i panni dinanzi levati
indietro, tutto stava scoperto.
La qual cosa riguardando la
donna, e sola vedendosi, in quel medesimo appetito cadde che cadute erano le
sue monacelle; e, destato Masetto, seco nella sua camera nel menò, dove
parecchi giorni, con gran querimonia dalle monache fatta che l'ortolano non
venia a lavorar l'orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la qual
essa prima all'altre solea biasimare.
Ultimamente della sua
camera alla stanza di lui rimandatolne, e molto spesso rivolendolo, e oltre a
ciò più che parte volendo da lui, non potendo Masetto sodisfare a
tante, s'avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se più
stesse, in troppo gran danno resultare. E perciò una notte colla badessa
essendo, rotto lo scilinguagnolo, cominciò a dire:
- Madonna, io ho inteso che
un gallo basta assai bene a dieci galline, ma che dieci uomini possono male o
con fatica una femina sodisfare, dove a me ne conviene servir nove, al che per
cosa del mondo io non potrei durare; anzi son io, per quello che infino a qui
ho fatto, a tal venuto che io non posso far né poco né molto; e perciò o
voi mi lasciate andar con Dio, o voi a questa cosa trovate modo.
La donna udendo costui
parlare, il quale ella teneva mutolo, tutta stordì, e disse:
- Che è questo? Io
credeva che tu fossi mutolo.
- Madonna, - disse Masetto
- io era ben così, ma non per natura, anzi per una infermità che
la favella mi tolse, e solamente da prima questa notte la mi sento essere
restituita, di che io lodo Iddio quant'io posso.
La donna sel credette, e
domandollo che volesse dir ciò che egli a nove aveva a servire. Masetto
le disse il fatto. Il che la badessa udendo, s'accorse che monaca non avea che
molto più savia non fosse di lei; per che, come discreta, senza lasciar
Masetto partire, dispose di voler colle sue monache trovar modo a questi fatti,
acciò che da Masetto non fosse il monistero vituperato.
Ed essendo di que'dì
morto il lor castaldo, di pari consenatimento, apertosi tra tutte ciò
che per addietro da tutte era stato fatto, con piacer di Masetto ordinarono che
le genti circustanti credettero che, per le loro orazioni e per gli meriti del
santo in cui intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo,
la favella fosse restituita, e lui castaldo fecero; e per sì fatta
maniera le sue fatiche partirono, che egli le poté comportare. Nelle quali,
come che esso assai monachin generasse, pur sì discretamente procedette
la cosa che niente se ne sentì se non dopo la morte della badessa,
essendo già Masetto presso che vecchio e disideroso di tornarsi ricco a
casa; la qual cosa saputa, di leggier gli fece venir fatto.
Così adunque Masetto
vecchio, padre e ricco, senza aver fatica di nutricar figliuoli o spesa di
quegli, per lo suo avvedimento avendo saputo la sua giovanezza bene adoperare,
donde con una scure in collo partito s'era se ne tornò, affermando che
così trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra '1 cappello.
Giornata terza - Novella
seconda
Un pallafrenier giace con
la moglie d'Agilulf re, di che Agilulf tacitamente s'accorge; truovalo e
tondelo; il tonduto tutti gli altri tonde, e così campa della mala ventura.
Essendo la fine venuta
della novella di Filostrato, della quale erano alcuna volta un poco le donne
arrossate e alcun'altra se ne avevan riso, piacque alla reina che Pampinea
novellando seguisse. La quale, con ridente viso incominciando, disse.
Sono alcuni sì poco
discreti nel voler pur mostrare di conoscere e di sentire quello che per lor
non fa di sapere, che alcuna volta per questo riprendendo i disavveduti difetti
in altrui, si credono la loro vergogna scemare, dove essi l'accrescono in infinito;
e che ciò sia vero, nel suo contrario mostrandovi l'astuzia d'un forse
di minor valore tenuto che Masetto, nel senno d'un valoroso re, vaghe donne,
intendo che per me vi sia dimostrato.
Agilulf re de'longobardi,
sì come i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia città di
Lombardia fermò il solio del suo regno, avendo presa per moglie
Teudelinga, rimasa vedova d'Autari re stato similmente de'longobardi, la quale
fu bellissima donna, savia e onesta molto, ma male avventurata in amadore. Ed
essendo alquanto per la virtù e per lo senno di questo re Agilulf le
cose de'longobardi prospere e in quiete, avvenne che un pallafreniere della
detta reina, uomo quanto a nazione di vilissima condizione, ma per altro da
troppo più che da così vil mestiere, e della persona bello e
grande così come il re fosse, senza misura della reina s'innamorò
.
E per ciò che il suo
basso stato non gli avea tolto che egli non conoscesse questo suo amore esser
fuor d'ogni convenienza, sì come savio, a niuna persona il palesava, né
eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo. E quantunque senza alcuna
speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco si gloriava che in alta
parte avesse allogati i suoi pensieri; e, come colui che tutto ardeva in
amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre ad ogn'altro de'suoi compagni, ogni
cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per che interveniva che la
reina, dovendo cavalcare, più volentieri il palla freno da costui
guardato cavalcava che alcuno altro; il che quando avveniva, costui in
grandissima grazia sel reputava; e mai dalla staffa non le si partiva, beato
tenendosi qualora pure i panni toccar le poteva.
Ma, come noi veggiamo assai
sovente avvenire, quanto la speranza diventa minore tanto l'amor maggior farsi,
così in questo povero pallafreniere avvenia, in tanto che gravissimo gli
era il poter comportare il gran disio così nascoso come facea, non
essendo da alcuna speranza atato; e più volte seco, da questo amor non
potendo disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo,
prese per partito di voler questa
morte per cosa per la quale
apparisse lui morire per lo amore che alla reina aveva portato e portava; e
questa cosa propose di voler che tal fosse, che egli in essa tentasse la sua
fortuna in potere o tutto o parte aver del suo disidero. Né si fece a voler dir
parole alla reina o a voler per lettere far sentire il suo amore, ché sapeva
che in vano o direbbe o scriverrebbe; ma a voler provare se per ingegno colla
reina giacer potesse.
Né altro ingegno né via
c'era se non trovar modo come egli in persona del re, il quale sapea che del
continuo con lei non giacea, potesse a lei pervenire e nella sua camera
entrare.
Per che, acciò che
vedesse in che maniera e in che abito il re, quando a lei andava, andasse,
più volte di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in
mezzo era tra la camera del re e quella della reina, si nascose; e in tra
l'altre una notte vide il re uscire della sua camera inviluppato in un gran
mantello e aver dall'una mano un torchietto acceso e dall'altra una bacchetta,
e andare alla camera della reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta
o due l'uscio della camera con quella bacchetta, e incontanente essergli aperto
e toltogli di mano il torchietto. La qual cosa venuta, e similmente vedutolo
ritornare, pensò di così dover fare egli altressì; e
trovato modo d'avere un mantello simile a quello che al re veduto avea e un
torchietto e una mazzuola, e prima in una stufa lavatosi bene, acciò che
non forse l'odore del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello
inganno, con queste cose, come usato era, nella gran sala si nascose.
E sentendo che già
per tutto si dormia, e tempo parendogli o di dovere al suo disiderio dare
effetto o di far via con alta cagione alla bramata morte, fatto colla pietra e
collo acciaio che seco portato avea un poco di fuoco, il suo torchietto accese,
e chiuso e avviluppato nel mantello se n'andò all'uscio della camera e
due volte il percosse colla bacchetta. La camera da una cameriera tutta
sonnochiosa fu aperta, e il lume preso e occultato; laonde egli, senza alcuna
cosa dire, dentro alla cortina trapassato e posato il mantello, se
n'entrò nel letto nel quale la reina dormiva. Egli disiderosamente in
braccio recatalasi, mostrandosi turbato (per ciò che costume del re
esser sapea che quando turbato era niuna cosa voleva udire), senza dire alcuna
cosa o senza essere a lui detta, più volte carnalmente la reina
cognobbe. E come che grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppa
stanza gli fosse cagione di volgere l'avuto diletto in tristizia, si
levò , e ripreso il suo mantello e il lume, senza alcuna cosa dire se
n'andò , e come più tosto potè si tornò al letto
suo.
Nel quale appena ancora
esser poteva, quando il re, levatosi, alla camera andò della reina, di
che ella si maravigliò forte; ed essendo egli nel letto entrato e
lietamente salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse:
- O signor mio, questa che
novità è stanotte? Voi vi partite pur testé da me; e oltre
l'usato modo di me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate?
Guardate ciò che voi fate.
Il re, udendo queste
parole, subitamente presunse la reina da similitudine di costumi e di persona
essere stata ingannata; ma, come savio, subitamente pensò , poi vide la
reina accorta non se n'era né alcuno altro, di non volernela fare accorgere. Il
che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: - Io non ci fu'io,
chi fu colui che ci fu? come andò ? chi ci venne? - Di che molte cose
nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datole
materia di disiderare altra volta quello che già sentito avea; e quello
che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando s'arebbe vitupero
recato.
Risposele adunque il re,
più nella mente che nel viso o che nelle parole turbato:
- Donna, non vi sembro io
uomo da poterci altra volta essere stato e ancora appresso questa tornarci?
A cui la donna rispose:
- Signor mio, sì; ma
tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute.
Allora il re disse:
- Ed egli mi piace di
seguire il vostro consiglio; e questa volta senza darvi più impaccio me
ne vo'tornare.
E avendo l'animo già
pieno d'ira e di mal talento, per quello che vedeva gli era stato fatto,
ripreso il suo mantello, s'uscì della camera e pensò di voler
chetamente trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere
essere, e qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire.
Preso adunque un
picciolissimo lume in una lanternetta, se n'andò in una lunghissima casa
che nel suo palagio era sopra le stalle de'cavalli, nella quale quasi tutta la
sua famiglia in diversi letti dormiva; ed estimando che, qualunque fosse colui
che ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse ancora il polso
e '1 battimento del cuore per lo durato affanno potuto riposare, tacitamente,
cominciato dall'uno de'capi della casa, a tutti cominciò ad andare
toccando il petto per sapere se gli battesse.
Come che ciascuno altro
dormisse forte, colui che colla reina stato era non dormiva ancora; per la qual
cosa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso cercando andava,
forte cominciò a temere tanto che sopra il battimento della fatica avuta
la paura n'aggiunse un maggiore; e avvisossi fermamente che, se il re di
ciò s'avvedesse, senza indugio il facesse morire. E come che varie cose
gli andasser per lo pensiero di doversi fare, pur vedendo il re senza alcuna
arme, diliberò di far vista di dormire e d'attender quello che il re far
dovesse.
Avendone adunque il re
molti cerchi né alcuno trovandone il quale giudicasse essere stato desso,
pervenne a costui, e trovandogli batter forte il cuore, seco disse:- Questi
è desso -. Ma, sì come colui che di ciò che fare intendeva
niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che con un
paio di forficette, le quali portate avea, gli tondè alquanto dal l'una
delle parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavano lunghissimi,
acciò che a quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo
fatto, si dipartì, e tornossi alla camera sua.
Costui, che tutto
ciò sentito avea, sì come colui che malizioso era, chiaramente
s'avvisò per che così segnato era stato; là onde egli
senza alcuno aspettar si levò , e trovato un paio di forficette, delle
quali per avventura v'erano alcun paio per la stalla per lo servigio de'cavalli,
pianamente andando a quanti in quella casa ne giacevano, a tutti in simil
maniera sopra l'orecchie tagliò i capelli; e ciò fatto, senza
essere stato sentito, se ne tornò a dormire.
Il re levato la mattina,
comandò che avanti che le porti del palagio s'aprissono tutta la sua
famiglia gli venisse davanti; e così fu fatto. Li quali tutti, senza
alcuna cosa in capo davanti standogli, esso cominciò a guardare per
riconoscere il tonduto da lui; e veggendo la maggior parte di loro co' capelli
ad un medesimo modo tagliati, si maravigliò , e disse seco stesso: -
Costui, il quale io vo cercando, quantunque di bassa condizion sia, assai ben
mostra d'essere d'alto senno -. Poi, veggendo che senza romore non poteva avere
quel ch'egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta acquistar gran
vergogna, con una sola parola d'ammonirlo e dimostrargli che avveduto se ne
fosse gli piacque; e a tutti rivolto disse:
- Chi '1 fece nol faccia
mai più, e andatevi con Dio.
Un altro gli averebbe
voluti far collare, martoriare, esaminare, e domandare; e ciò facendo,
avrebbe scoperto quello che ciascun dee andar cercando di ricoprire; ed
essendosi scoperto, ancora che intera vendetta n'avesse presa, non scemata ma
molto cresciuta n'avrebbe la sua vergogna, e contaminata l'onestà della
donna sua.
Coloro che quella parola
udirono si maravigliarono e lungamente fra sé esaminarono che avesse il re
voluto per quella dire; ma niuno ve ne fu che la 'ntendesse se non colui solo a
cui toccava. Il quale, sì come savio, mai, vivente il re, non la
scoperse, né più la sua vita in sì fatto atto commise alla
fortuna.
Giornata terza - Novella
terza
Sotto spezie di confessione
e di purissima conscienza una donna innamorata d'un giovane induce un solenne
frate, senza avvedersene egli, a dar modo che 'l piacer di lei avesse intero
effetto.
Taceva già Pampinea,
e l'ardire e la cautela del pallafreniere era dà più di loro
stata lodata, e similmente il senno del re, quando la reina, a Filomena
voltatasi, le 'mpose il seguitare; per la qual cosa Filomena vezzosamente
così incominciò a parlare.
Io intendo di raccontarvi
una beffe che fu da dovero fatta da una bella donna ad uno solenne religioso,
tanto più ad ogni secolar da piacere, quanto essi, il più
stoltissimi e uomini di nuove maniere e costumi, si credono più che gli
altri in ogni cosa valere e sapere, dove essi di gran lunga sono da molto meno,
sì come quegli che per viltà d'animo non avendo argomento, come
gli altri uomini, di civanzarsi, si rifuggono dove aver possano da mangiar come
il porco. La quale, o piacevoli donne, io racconterò non solamente per
seguire l'ordine imposto, ma ancora per farvi accorte che eziandio i religiosi,
à quali noi, oltre modo credule, troppa fede prestiamo, possono essere e
sono alcuna volta, non che dagli uomini, ma da alcuna di noi cautamente
beffati.
Nella nostra città ,
più d'inganni piena che d'amore o di fede, non sono ancora molti anni
passati, fu una gentil donna di bellezze ornata e di costumi, d'altezza d'animo
e di sottili avvedimenti quanto alcun'altra dalla natura dotata, il cui nome,
né ancora alcuno altro che alla presente novella appartenga, come che io gli
sappia, non intendo di palesare, per ciò che ancora vivono di quegli che
per questo si caricherebber di sdegno, dove di ciò sarebbe con risa da
trapassare.
Costei adunque, d'alto
legnaggio veggendosi nata e maritata ad uno artefice lanaiuolo, per ciò
che ricchissimo era, non potendo lo sdegno dell'animo porre in terra, per lo
quale estimava niuno uomo di bassa condizione, quantunque ricchissimo fosse,
esser di gentil donna degno; e veggendo lui ancora con tutte le sue ricchezze
da niuna altra cosa essere più avanti che da saper divisare un mescolato
o fare ordire una tela o con una filatrice disputare del filato, propose di non
volere de'suoi abbracciamenti in alcuna maniera se non in quanto negare non gli
potesse; ma di volere a soddisfazione di sé medesima trovare alcuno, il quale
più di ciò che il lanaiuolo le paresse che fosse degno, e
innamorossi d'uno assai valoroso uomo e di mezza età , tanto che qual
dì nol vedeva, non poteva la seguente notte senza noia passare.
Ma il valente uomo, di
ciò non accorgendosi, niente ne curava; ed ella, che molto cauta era, né
per ambasciata di femina né per lettera ardiva di fargliele sentire, temendo de'pericoli
possibili ad avvenire. Ed essendosi accorta che costui usava molto con un
religioso, il quale, quantunque fosse tondo e grosso uomo, nondimeno, per
ciò che di santissima vita era, quasi da tutti avea di valentissimo
frate fama, estimò costui dovere essere ottimo mezzano tra lei e il suo
amante; e avendo seco pensato che modo tener dovesse, se n'andò a
convenevole ora alla chiesa dove egli dimorava, e fattosel chiamare, disse,
quando gli piacesse, da lui si volea confessare.
Il frate, vedendola, ed
estimandola gentil donna, l'ascoltò volentieri; ed essa dopo la
confessione disse:
- Padre mio, a me convien
ricorrere a voi per aiuto e per consiglio di ciò che voi udirete. Io so,
come colei che detto ve l'ho, che voi conoscete i miei parenti e '1 mio marito,
dal quale io sono più che la vita sua amata, né alcuna cosa disidero che
da lui, sì come da ricchissimo uomo e che 'l può ben fare, io non
l'abbia incontanente, per le quali cose io più che me stessa l'amo; e,
lasciamo stare che io facessi, ma se io pur pensassi cosa niuna che contro al
suo onore e piacer fosse, niuna rea femina fu mai del fuoco degna come sarei
io.
Ora uno, del quale nel vero
io non so il nome, ma per sona dabbene mi pare, e, se io non ne sono ingannata,
usa molto con voi, bello e grande della persona, vestito di panni bruni assai
onesti, forse non avvisandosi che io così fatta intenzione abbia come io
ho, pare che m'abbia posto l'assedio, né posso farmi né ad uscio né a finestra,
né uscir di casa, che egli incontanente non mi si pari innanzi; e
maravigliom'io come egli non è ora qui; di che io mi dolgo forte, per
ciò che questi così fatti modi fanno sovente senza colpa alle
oneste donne acquistar biasimo.
Hommi posto in cuore di
fargliele alcuna volta dire à miei fratelli; ma poscia m'ho pensato che
gli uomini fanno alcuna volta l'ambasciate per modo che le risposte seguitan
cattive, di che nascon parole e dalle parole si perviene à fatti; per
che, acciò che male e scandalo non ne nascesse, me ne son taciuta, e
diliberami di dirlo più tosto a voi che ad altrui, sì perché pare
che suo amico siate, sì ancora perché a voi sta bene di così
fatte cose, non che gli amici, ma gli strani ripigliare. Per che io vi priego
per solo Iddio che voi di ciò il dobbiate riprendere e pregare che
più questi modi non tenga. Egli ci sono dell'altre donne assai le quali
per avventura son disposte a queste cose, e piacerà loro d'esser guatate
e vagheggiate da lui, là dove a me è gravissima noia, sì
come a colei che in niuno atto ho l'animo disposto a tal materia.
E detto questo, quasi
lagrimar volesse, bassò la testa.
Il santo frate comprese
incontanente che di colui dicesse di cui veramente diceva, e commendata molto
la donna di questa sua disposizion buona, fermamente credendo quello esser vero
che ella diceva, le promise d'operar sì e per tal modo che più da
quel cotale non le sarebbe dato noia; e conoscendola ricca molto, le
lodò l'opera della carità e della limosina, il suo bisogno
raccontandole.
A cui la donna disse:
- Io ve ne priego per Dio;
e s'egli questo negasse, sicuramente gli dite che io sia stata quella che
questo v'abbia detto e siamevene doluta.
E quinci, fatta la
confessione e presa la penitenza, ricordandosi de'conforti datile dal frate
dell'opera della limosina, empiutagli nascosamente la man di denari, il
pregò che messe dicesse per l'anima dei morti suoi; e dai piè di
lui levatasi, a casa se ne tornò.
Al santo frate non dopo
molto, sì come usato era, venne il valente uomo, col quale poi che d'una
cosa e d'altra ebbero insieme alquanto ragionato, tiratol da parte, per assai
cortese modo il riprese dello intendere e del guardare che egli credeva che
esso facesse a quella donna, sì come ella gli aveva dato ad intendere.
Il valente uomo si
maravigliò, sì come colui che mai guatata non l'avea e radissime
volte era usato di passare davanti a casa sua, e cominciò a volersi
scusare; ma il frate non lo lasciò dire, ma disse egli:
- Or non far vista di
maravigliarti, né perder parole in negarlo, per ciò che tu non puoi; io
non ho queste cose sapute dà vicini; ella medesima, forte di te
dolendosi, me l'ha dette. E quantunque a te queste ciance omai non ti stean
bene, ti dico io di lei cotanto, che, se mai io ne trovai alcuna di queste
sciocchezze schifa, ella è dessa; e per ciò , per onor di te e
per consolazione di lei, ti priego te ne rimanghi e lascila stare in pace.
Il valente uomo, più
accorto che '1 santo frate, senza troppo indugio la sagacità della donna
comprese, e mostrando alquanto di vergognarsi, disse di più non
intramettersene per innanzi; e dal frate partitosi, dalla casa n'andò
della donna, la quale sempre attenta stava ad una picciola finestretta per
doverlo vedere, se vi passasse. E vedendol venire, tanto lieta e tanto graziosa
gli si mostrò , che egli assai bene potè comprendere sé avere il
vero compreso dalle parole del frate; e da quel dì innanzi assai
cautamente, con suo piacere e con grandissimo diletto e consolazion della
donna, faccendo sembianti che altra faccenda ne fosse cagione, continuò
di passar per quella contrada. Ma la donna, dopo alquanto già accortasi
che ella a costui così piacea come egli a lei, disiderosa di volerlo
più accendere e certificare dello amore che ella gli portava, preso
luogo e tempo, al santo frate se ne tornò , e postaglisi nella chiesa a
sedere à piedi, a piagnere incominciò .
Il frate, questo vedendo,
la domandò pietosamente che novella ella avesse.
La donna rispose:
- Padre mio, le novelle che
io ho non sono altre che di quel maledetto da Dio vostro amico, di cui io mi vi
ramaricai l'altr'ieri, per ciò che io credo che egli sia nato per mio
grandissimo stimolo e per farmi far cosa, che io non sarò mai lieta né
mai ardirò poi di più pormivi a'piedi.
- Come! - disse il frate -
non s'è egli rimaso di darti più noia?
- Certo no, - disse la
donna - anzi, poi che io mi vene dolfi, quasi come per un dispetto, avendo
forse avuto per male che io mi ve ne sia doluta, per ogni volta che passar vi
solea, credo che poscia vi sia passato sette. E or volesse Iddio che il
passarvi e il guatarmi gli fosse bastato, ma egli è stato sì
ardito e sì sfacciato, che pure ieri mi mandò una femina in casa
con sue novelle e con sue frasche, e quasi come se io non avessi delle borse e
delle cintole, mi mandò una borsa e una cintola; il che io ho avuto e ho
sì forte per male, che io credo, se io non avessi guardato al peccato, e
poscia per vostro amore, io avrei fatto il diavolo, ma pure mi son
rattemperata, né ho voluto fare né dire cosa alcuna che io non vel faccia prima
assapere.
E oltre a questo, avendo io
già renduta indietro la borsa e la cintola alla feminetta che recata
l'avea, che gliele riportasse, e brutto commiato datole, temendo che ella per
sé non la tenesse e a lui; dicesse che io l'avessi ricevuta, sì com'io
intendo che elle fanno alcuna volta, la richiamai indietro e piena di stizza
gliele tolsi di mano e holla recata a voi, acciò che voi gliele rendiate
e gli diciate che io non ho bisogno di sue cose per ciò che, la mercé di
Dio e del marito mio io ho tante borse e tante cintole che io ve l'affogherei
entro. E appresso questo, sì come a padre mi vi scuso che, se egli di
questo non si rimane, io il dirò al marito mio e a'fratei miei, e
avvegnane che può; ché io ho molto più caro che egli riceva
villania, se ricevere ne la dee, che io abbia biasimo per lui: frate, bene sta.
E detto questo, tuttavia
piagnendo forte, si trasse di sotto alla guarnacca una bellissima e ricca borsa
con una leggiadra e cara cinturetta, e gittolle in grembo al frate; il quale,
pienamente credendo ciò che la donna diceva, turbato oltre misura le
prese, e disse:
- Figliuola, se tu di
queste cose ti crucci, io non me ne maraviglio né te ne so ripigliare; ma lodo
molto che tu in questo seguiti il mio consiglio. Io il ripresi l'altr'ieri, ed
egli m'ha male attenuto quello che egli mi promise: per che, tra per quello e
per questo che nuovamente fatto ha, io gli credo per sì fatta maniera
riscaldare gli orecchi; che egli più briga non ti darà; e tu
colla benedizion d'Iddio non ti lasciassi vincer tanto all'ira, che tu ad alcuno
dei tuoi il dicessi, ché gli ne potrebbe troppo di mal seguire. Né dubitar che
mai di questo biasimo ti segua, ché io sarò sempre e dinanzi a Dio e
dinanzi agli uomini fermissimo testimonio della tua onestà.
La donna fece sembiante di
riconfortarsi alquanto, e lasciate queste parole, come colei che l'avarizia sua
e degli altri conoscea, disse:
- Messere, a queste notti
mi sono appariti più miei parenti, e parmi che egli sieno in grandissime
pene, e non domandino altro che limosine, e spezialmente la mamma mia, la quale
mi pare sì afflitta e cattivella, che è una pietà a
vedere. Credo che ella porti grandissime pene di vedermi in questa tribulazione
di questo nemico d'Iddio, e per ciò vorrei che voi mi diceste per
l'anime loro le quaranta messe di san Grigorio e delle vostre orazioni,
acciò che Iddio gli tragga di quel fuoco pennace -; e così detto,
gli pose in mano un fiorino.
Il santo frate lietamente
il prese, e con buone parole e con molti essempli confermò la divozion
di costei e, datale la sua benedizione, la lasciò andare.
E partita la donna, non
accorgendosi ch'egli era uccellato, mandò per l'amico suo; il qual
venuto, e vedendol turbato, in contanente s'avvisò che egli avrebbe
novelle dalla donna, e aspettò che dir volesse il frate. Il quale, ripetendogli
le parole altre volte dettegli e di nuovo ingiuriosamente e crucciato
parlandogli, il riprese molto di ciò che detto gli avea la donna che
egli doveva aver fatto.
Il valente uomo, che ancor
non vedea a che il frate riuscir volesse, assai tiepidamente negava sé aver
mandata la borsa e la cintura, acciò che al frate non togliesse fede di
ciò , se forse data gliele avesse la donna.
Ma il frate, acceso forte,
disse:
- Come il puo'tu negare,
malvagio uomo? Eccole, ché ella medesima piagnendo me l'ha recate; vedi se tu
le conosci! Il valente uomo, mostrando di vergognarsi forte, disse:
- Mai sì che io le
conosco, e confessovi che io feci male, e giurovi che, poi che io così
la veggio disposta, che mai di questo voi non sentirete più parola.
Ora le parole fur molte;
alla fine il frate montone diede la borsa e la cintura allo amico suo, e dopo
molto averlo ammaestrato e pregato che più a queste cose non attendesse,
ed egli avendogliele promesso, il licenziò.
Il valente uomo, lietissimo
e della certezza che aver gli parea dello amor della donna e del bel dono, come
dal frate partito fu, in parte n'andò dove cautamente fece alla sua
donna vedere che egli avea e l'una e l'altra cosa; di che la donna fu molto
contenta, e più ancora per ciò che le parea che '1 suo avviso
andasse di bene in meglio. E niuna altra cosa aspettando se non che il marito
andasse in alcuna parte per dare all'opera compimento, avvenne che per alcuna
cagione non molto dopo a questo convenne al marito andare infino a Genova.
E come egli fu la mattina
montato a cavallo e andato via, così la donna n'andò al santo
frate e dopo molte querimonie piagnendo gli disse:
- Padre mio, or vi dico io
bene che io non posso più sofferire; ma per ciò che l'altr'ieri
io vi promisi di niuna cosa farne che io prima nol vi dicessi, son venuta ad
iscusarmivi, e acciò che voi crediate che io abbia ragione e di piagnere
e di ramaricarmi, io vi voglio dire ciò che '1 vostro amico, anzi dia
volo del ninferno, mi fece stamane poco innanzi mattutino.
Io non so qual mala ventura
gli facesse assapere che il marito mio andasse iermattina a Genova, se non che
stamane, all'ora che io v'ho detta, egli entrò in un mio giardino e
venne sene su per uno albero alla finestra della camera mia, la quale è
sopra il giardino, e già aveva la finestra aperta e voleva nella camera
entrare, quando io destatami subito mi levai, e aveva cominciato a gridare e
per Dio e per voi, dicendomi chi egli era; laonde io, udendolo, per amor di voi
tacqui, e ignuda come io nacqui corsi e serragli la finestra nel viso, ed egli
nella sua mal'ora credo che se ne andasse, perciò che poi più nol
sentii. Ora, se questa è bella cosa ed è da sofferire, vedetel
voi; io per me non intendo di più comportargliene, anzi ne gli ho io
bene per amor di voi sofferte troppe.
Il frate, udendo questo, fu
il più turbato uomo del mondo, e non sapeva che dirsi, se non che
più volte la domandò se ella aveva ben conosciuto che egli non
fosse stato altri.
A cui la donna rispose:
- Lodato sia Iddio, se io
non conosco ancor lui da un altro! Io vi dico ch'e'fu egli, e perche'egli il
negasse, non gliel credete.
- Figliuola, qui non ha
altro da dire, se non che questo è stato troppo grande ardire e troppo
mal fatta cosa, e tu facesti quello che far dovevi di mandarnelo come facesti.
Ma io ti voglio pregare, poscia che Iddio ti guardò di vergogna, che,
come due volte seguito hai il mio consiglio, così ancora questa volta
facci, cioè che senza dolertene ad alcuno tuo parente lasci fare a me, a
vedere se io posso raffrenare questo diavolo scatenato, che io credeva che
fosse un santo; e se io posso tanto fare che io il tolga da questa
bestialità , bene sta; e se io non potrò , infino ad ora con la
mia benedizione ti do la parola che tu ne facci quello che l'animo ti giudica che
ben sia fatto.
- Ora ecco, - disse la
donna - per questa volta io non vi voglio turbare né disubidire; ma sì
adoperate che egli si guardi di più noiarmi, ché io vi prometto di non
tornar più per questa cagione a voi -; e senza più dire, quasi
turbata, dal frate si partì .
Né era appena ancor fuor
della chiesa la donna, che il valente uomo sopravenne e fu chiamato dal frate,
al quale, da parte tiratol, esso disse la maggior villania che mai ad uomo
fosse detta, disleale e spergiuro e traditor chiamandolo. Costui, che già
due altre volte conosciuto avea che montavano i mordimenti di questo frate,
stando attento, e con risposte perplesse ingegnandosi di farlo parlare,
primieramente disse:
- Perché questo cruccio,
messere? Ho io crocifisso Cristo?
A cui il frate rispose:
- Vedi svergognato! Odi
ciò ch'e'dice! Egli parla né più né meno come se uno anno o due
fosser passati e per la lunghezza del tempo avesse le sue tristizie e
disonestà dimenticate. Etti egli da stamane a mattutino in qua uscito di
mente l'avere altrui ingiuriato? Ove fostù stamane poco avanti al
giorno?
Rispose il valente uomo:
- Non so io ove io mi fui;
molto tosto ve n'è giunto il messo.
- Egli è il vero, -
disse il frate - che il messo me n'è giunto; io m'avviso che tu ti
credesti, per ciò che il marito non c'era, che la gentil donna ti
dovesse incontanente ricevere in braccio. Hi meccere: ecco onesto uomo!
è divenuto andator di notte, apritor di giardini e salitor d'alberi.
Credi tu per improntitudine vincere la santità di questa donna, che le
vai alle finestre su per gli alberi la notte? Niuna cosa è al mondo che
a lei dispiaccia, come fai tu; e tu pur ti vai riprovando. In verità,
lasciamo stare che ella te l'abbia in molte cose mostrato, ma tu ti se'molto
bene ammendato per li miei gastigamenti. Ma così ti vo' dire: ella ha
infino a qui, non per amore che ella ti porti ma ad instanzia de'prieghi miei,
taciuto di ciò che fatto hai; ma essa non tacerà più ;
conceduta l'ho la licenzia che, se tu più in cosa alcuna le spiaci,
ch'ella faccia il parer suo. Che farai tu, se ella il dice à fratelli?
Il valente uomo, avendo
assai compreso di quello che gli bisognava, come meglio seppe e potè con
molte ampie promesse racchetò il frate; e da lui partitosi, come il
mattutino della seguente notte fu, così egli nel giardino entrato e su
per lo albero salito e trovata la finestra aperta, se n'entrò nella
camera, e come più tosto potè nelle braccia della sua bella donna
si mise. La quale, con grandissimo disidero avendolo aspettato, lietamente il ricevette,
dicendo:
- Gran mercé a messer lo
frate, che così bene t'insegnò la via da venirci. E appresso,
prendendo l'un dell'altro piacere, ragionando e ridendo molto della
simplicità del frate bestia, biasimando i lucignoli e'pettini e gli
scardassi, insieme con gran diletto si sollazzarono. E dato ordine à lor
fatti, sì fecero, che senza aver più a tornare a messer lo frate,
molte altre notti con pari letizia insieme si ritrovarono; alle quali io priego
Iddio per la sua santa misericordia che tosto conduca me e tutte l'anime cristiane
che voglia ne hanno.
Giornata terza - Novella
quarta
Don Felice insegna a frate
Puccio come egli diverrà beato faccendo una sua penitenzia; la quale
frate Puccio fa, e don Felice in questo mezzo con la moglie del frate si
dà buon tempo.
Poi che Filomena, finita la
sua novella, si tacque, avendo Dioneo con dolci parole molto lo 'ngegno della
donna commendato e ancora la preghiera da Filomena ultimamente fatta, la reina
ridendo guardò verso Panfilo, e disse:
- Ora appresso, Panfilo,
continua con alcuna piacevol cosetta il nostro diletto.
Panfilo prestamente rispose
che volontieri, e cominciò .
Madonna, assai persone sono
che, mentre che essi si sforzano d'andarne in paradiso, senza avvedersene vi
mandano altrui; il che ad una nostra vicina, non ha ancor lungo tempo,
sì come voi potrete udire, intervenne.
Secondo che io udii
già dire, vicino di san Brancazio stette un buon uomo e ricco, il quale
fu chiamato Puccio di Rinieri, che poi, essendo tutto dato allo spirito, si
fece bizzoco di quegli di san Francesco, e fu chiamato frate Puccio, e seguendo
questa sua vita spirituale, per ciò che altra famiglia non avea che una
sua donna e una fante, né per questo ad alcuna arte attender gli bisognava,
usava molto la chiesa. E per ciò che uomo idiota era e di grossa pasta,
diceva suoi paternostri, andava alle prediche, stava alle messe, né mai falliva
che alle laude che cantavano i secolari esso non fosse, e digiunava e
disciplinavasi, e bucinavasi che egli era degli scopatori.
La moglie, che monna
Isabetta avea nome, giovane ancora di ventotto in trenta anni, fresca e bella e
ritondetta che pareva una mela casolana, per la santità del marito e
forse per la vecchiezza, faceva molto spesso troppo più lunghe diete che
voluto non avrebbe; e, quand'ella si sarebbe voluta dormire o forse scherzar
con lui, ed egli le raccontava la vita di Cristo e le prediche di frate
Nastagio o il lamento della Maddalena o così fatte cose.
Tornò in questi
tempi da Parigi un monaco chiamato don Felice, conventuale di san Brancazio, il
quale assai giovane e bello della persona era e d'aguto ingegno e di profonda
scienza, col qual frate Puccio prese una stretta dimestichezza. E per
ciò che costui ogni suo dubbio molto bene gli solvea, e oltre a
ciò , avendo la sua condizion conosciuta, gli si mostrava santissimo, se
lo incominciò frate Puccio a menare talvolta a casa e a dargli desinare
e cena, secondo che fatto gli venia; e la donna altressì per amor di fra
Puccio era sua dimestica divenuta e volentier gli faceva onore.
Continuando adunque il
monaco a casa di fra Puccio e veggendo la moglie così fresca e
ritondetta, s'avvisò qual dovesse essere quella cosa della quale ella
patisse maggior difetto; e pensossi, se egli potesse, per tor fatica a fra
Puccio, di volerla supplire. E, postole l'occhio addosso e una volta e altra
bene astutamente, tanto fece che egli l'accese nella mente quello medesimo
disidero che aveva egli; di che accortosi il monaco, come prima destro gli
venne, con lei ragionò il suo piacere. Ma, quantunque bene la trovasse disposta
a dover dare all'opera compimento, non si poteva trovar modo, per ciò
che costei in niun luogo del mondo si voleva fidare ad esser col monaco se non
in casa sua; e in casa sua non si potea, perché fra Puccio non andava mai fuor
della terra; di che il monaco avea gran malinconia.
E dopo molto gli venne
pensato un modo da dover potere essere colla donna in casa sua senza sospetto,
non ostante che fra Puccio in casa fosse. Ed essendosi un dì andato a
star con lui frate Puccio, gli disse così:
- Io ho già assai
volte compreso, fra Puccio, che tutto il tuo disidero è di divenir
santo, alla qual cosa mi par che tu vadi per una lunga via, là dove ce
n'è una che è molto corta, la quale il papa e gli altri suoi
maggior prelati, che la sanno e usano, non vogliono che ella si mostri; per
ciò che l'ordine chericato, che il più di limosine vive,
incontanente sarebbe disfatto, sì come quello al quale più i
secolari né con limosine né con altro attenderebbono. Ma, per ciò che tu
se'mio amico e ha' mi onorato molto, dove io credessi che tu a niuna persona
del mondo l'appalesassi, e volessila seguire, io la t'insegnerei.
Frate Puccio, divenuto
disideroso di questa cosa, prima cominciò 'a pregare con grandissima
instanzia che gliele insegnasse, e poi a giurare che mai, se non quanto gli
piacesse, ad alcuno nol direbbe, affermando che, se tal fosse che esso seguir
la potesse, di mettervisi.
- Poi che tu così mi
prometti, - disse il monaco - e io la ti mosterrò . Tu dei sapere che i
santi dottori tengono che a chi vuol divenir beato si convien fare la
penitenzia che tu udirai; ma intendi sanamente: io non dico, che dopo la
penitenzia tu non sii peccatore come tu ti se'; ma avverrà questo, che i
peccati che tu hai infino all'ora della penitenzia fatti, tutti si purgheranno e
sarannoti per quella perdonati; e quegli che tu farai poi non saranno scritti a
tua dannazione, anzi se n'andranno con l'acqua benedetta, come ora fanno i
veniali.
Conviensi adunque l'uomo
principalmente con gran diligenzia confessare de'suoi peccati quando viene a
cominciar la penitenzia; e appresso questo li convien cominciare un digiuno e
una astinenzia grandissima, la qual convien che duri quaranta dì,
ne'quali, non che da altra femina, ma da toccare la propria tua moglie ti
conviene astenere. E oltre a questo si conviene avere nella tua propria casa
alcun luogo donde tu possi la notte vedere il cielo, e in su l'ora della
compieta andare in questo luogo, e quivi avere una tavola molto larga ordinata
in guisa che, stando tu in pie', vi possi le reni appoggiare, e tenendo gli
piedi in terra distender le braccia a guisa di crucifisso; e se tu quelle
volessi appoggiare ad alcun cavigliuolo, puoil fare; e in questa maniera
guardando il cielo, star senza muoverti punto insino a matutino. E, se tu fossi
litterato, ti converrebbe in questo mezzo dire certe orazioni che io ti darei;
ma, perché non se', ti converrà dire trecento paternostri con trecento
avemarie a reverenzia della Trinità , e riguardando il cielo, sempre
aver nella memoria Iddio essere stato creatore del cielo e della terra, e la
passion di Cristo, stando in quella maniera che stette egli in su la croce.
Poi, come matutino suona,
te ne puoi, se tu vuogli, andare e così vestito gittarti sopra 'l letto
tuo e dormire: e la mattina appresso si vuole andare alla chiesa, e quivi udire
almeno tre messe e dir cinquanta paternostri con altrettante avemarie; e
appresso questo con simplicità fare alcuni tuoi fatti, se a far n'hai
alcuno, e poi desinare, ed essere appresso al vespro nella chiesa e quivi dire
certe orazioni che io ti darò scritte, senza le quali non si può
fare; e poi in su la compieta ritornare al modo detto. E faccendo questo,
sì come io feci già , spero che anzi che la fine della penitenzia
venga, tu sentirai maravigliosa cosa della beatitudine etterna, se con
divozione fatta l'avrai.
Frate Puccio disse allora:
- Questa non è
troppo grave cosa, né troppo lunga, e deesi assai ben poter fare; e per
ciò io voglio al nome di Dio cominciar domenica.
E da lui partitosene e
andatosene a casa, ordinatamente, con sua licenzia perciò , alla moglie
disse ogni cosa.
La donna intese troppo bene
per lo star fermo infino a matutino senza muoversi ciò che il monaco
voleva dire; per che, parendole assai buon modo, disse che di questo e
d'ogn'altro bene, che egli per l'anima sua faceva, ella era contenta, e che,
acciò che Iddio gli facesse la sua penitenzia profittevole, ella voleva
con esso lui digiunare, ma fare altro no.
Rimasi adunque in
concordia, venuta la domenica, frate Puccio cominciò la sua penitenzia,
e messer lo monaco, convenutosi colla donna, ad ora che veduto non poteva
essere, le più delle sere con lei se ne veniva a cenare, seco sempre
recando e ben da mangiare e ben da bere, poi con lei si giaceva infino all'ora
del matutino, al quale levandosi se n'andava, e frate Puccio tornava al letto.
Era il luogo, il quale
frate Puccio aveva alla sua penitenzia eletto, allato alla camera nella quale
giaceva la donna, né da altro era da quella diviso che da un sottilissimo muro;
per che, ruzzando messer lo monaco troppo colla donna alla scapestrata ed ella
con lui, parve a frate Puccio sentire alcuno dimenamento di palco della casa;
di che, avendo già detti cento de'suoi paternostri, fatto punto quivi, chiamò
la donna senza muoversi, e domandolla ciò che ella faceva.
La donna, che motteggevole
era molto, forse cavalcando allora senza sella la bestia di san Benedetto o
vero di san Giovanni Gualberto, rispose:
- Gnaffe, marito mio, io mi
dimeno quanto io posso.
Disse allora frate Puccio:
- Come ti dimeni? Che vuol
dir questo dimenare?
La donna ridendo, che e di
buona aria e valente donna era, e forse avendo cagion di ridere, rispose:
- Come non sapete voi
quello che questo vuol dire? Ora io ve l'ho udito dire mille volte: chi la sera
non cena, tutta notte si dimena.
Credettesi frate Puccio che
il digiunare, il quale ella a lui mostrava di fare, le fosse cagione di non
poter dormire, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che egli di
buona fede disse
- Donna, io t'ho ben detto,
non digiunare; ma, poiché pur l'hai voluto fare, non pensare a ciò,
pensa di riposarti; tu dai tali volte per lo letto, che tu fai dimenar
ciò che ci e'.
Disse allora la donna:
- Non ve ne caglia no; io
so ben ciò ch'i'mi fo; fate pur ben voi, ché io farò bene io, se
io potrò .
Stettesi adunque cheto
frate Puccio e rimise mano à suoi paternostri; e la donna e messer lo
monaco da questa notte innanzi, fatto in altra parte della casa ordinare un
letto, in quello, quanto durava il tempo della penitenzia di frate Puccio, con
grandissima festa si stavano, e ad una ora il monaco se n'andava e la donna al
suo letto tornava, e poco stante dalla penitenzia a quello se ne venia frate
Puccio.
Continuando adunque in
così fatta maniera il frate la penitenzia e la donna col monaco il suo
diletto, più volte motteggiando disse con lui:
- Tu fai fare la penitenzia
a frate Puccio, per la quale noi abbiam guadagnato il paradiso.
E parendo molto bene stare
alla donna, sì s'avvezzò à cibi del monaco che, essendo
dal marito lungamente stata tenuta in dieta, ancora che la penitenzia di frate
Puccio si consumasse, modo trovò di cibarsi in altra parte con lui, e
con discrezione lungamente ne prese il suo piacere.
Di che, acciò che
l'ultime parole non sieno discordanti alle prime, avvenne che, dove frate
Puccio, faccendo penitenzia sé credette mettere in paradiso, egli vi mise il
monaco, che da andarvi tosto gli avea mostrata la via, e la moglie, che con lui
in gran necessità vivea di ciò che messer lo monaco, come
misericordioso, gran divizia le fece.
Giornata terza - Novella
quinta
Il Zima dona a messer
Francesco Vergellesi un suo pallafreno, e per quello con licenzia di lui parla
alla sua donna ed, ella tacendo, egli in persona di lei si risponde, e secondo
la sua risposta poi l'effetto segue.
Aveva Panfilo, non senza
risa delle donne, finita la novella di frate Puccio, quando donnescamente la
reina ad Elissa impose che seguisse. La quale, anzi acerbetta che no, non per
malizia ma per antico costume, così cominciò a parlare.
Credonsi molti, molto
sappiendo, che altri non sappi nulla, li quali spesse volte, mentre altrui si
credono uccellare, dopo il fatto sé da altrui essere stati uccellati conoscono;
per la qual cosa io reputo gran follia quella di chi si mette senza bisogno a
tentar le forze dello altrui ingegno. Ma perché forse ogn'uomo della mia
oppinione non sarebbe, quello che ad un cavalier pistolese n'addivenisse,
l'ordine dato del ragionar seguitando, mi piace di raccontarvi.
Fu in Pistoia nella
famiglia dei Vergellesi un cavalier nominato messer Francesco, uomo molto ricco
e savio e avveduto per altro, ma avarissimo senza modo; il quale, dovendo andar
podestà di Melano, d'ogni cosa opportuna a dovere onorevolmente andare
fornito s'era, se non d'un pallafreno solamente che bello fosse per lui; né
trovandone alcuno che gli piacesse, ne stava in pensiero.
Era allora un giovane in
Pistoia, il cui nome era Ricciardo, di piccola nazione ma ricco molto, il quale
sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da
tutti era chiamato il Zima, e avea lungo tempo amata e vagheggiata
infelicemente la donna di messer Francesco, la quale era bellissima e onesta
molto. Ora aveva costui un de'più belli pallafreni di Toscana e avevalo
molto caro per la sua bellezza; ed essendo ad ogn'uom publico lui vagheggiare
la moglie di messer Francesco, fu chi gli disse che, se egli quello
addimandasse, che egli l'avrebbe per l'amore il quale il Zima alla sua donna
portava.
Messer Francesco, da
avarizia tirato, fattosi chiamare il Zima, in vendita gli domandò il suo
pallafreno, acciò che il Zima gliele profferesse in dono.
Il Zima, udendo ciò,
gli piacque, e rispose al cavaliere:
- Messere, se voi mi
donaste ciò che voi avete al mondo, voi non potreste per via di vendita
avere il mio pallafreno, ma in dono il potreste voi bene avere, quando vi
piacesse, con questa condizione che io, prima che voi il prendiate, possa con
la grazia vostra e in vostra presenzia parlare alquante parole alla donna
vostra, tanto da ogn'uom separato che io da altrui che da lei udito non sia.
Il cavaliere, da avarizia
tirato e sperando di dover beffar costui, rispose che gli piacea, e quantunque
egli volesse; e lui nella sala del suo palagio lasciato, andò nella camera
alla donna, e quando detto l'ebbe come agevolmente poteva il pallafreno
guadagnare, le impose che ad udire il Zima venisse; ma ben si guardasse che a
niuna cosa che egli dicesse rispondesse né poco né molto.
La donna biasimò
molto questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di
farlo; e appresso al marito andò nella sala ad udire ciò che il
Zima volesse dire. Il quale, avendo col cavaliere i patti rifermati, da una
parte della sala assai lontano da ogn'uomo colla donna si pose a sedere, e
così cominciò a dire:
- Valorosa donna, egli mi
pare esser certo che voi siete sì savia, che assai bene, già
è gran tempo, avete potuto comprendere a quanto amor portarvi m'abbia
condotto la vostra bellezza, la qual senza alcun fallo trapassa quella di
ciascun'altra che veder mi paresse giammai; lascio stare de'costumi laudevoli e
delle virtù singolari che in voi sono, le quali avrebbon forza di
pigliare ciascuno alto animo di qualunque uomo. E per ciò non bisogna
che io vi dimostri con parole quello essere stato il maggiore e il più
fervente che mai uomo ad alcuna donna portasse; e così senza fallo
sarà mentre la mia misera vita sosterrà questi membri, e ancor
più ; che', se di là come di qua s'ama, in perpetuo
v'amerò . E per questo vi potete render sicura che niuna cosa avete,
qual che ella si sia o cara o vile, che tanto vostra possiate tenere e
così in ogni atto farne conto come di me, da quanto che io mi sia, e il
simigliante delle mie cose. E acciò che voi di questo prendiate
certissimo argomento, vi dico che io mi reputerei maggior grazia che voi cosa
che io far potessi che vi piacesse mi comandaste, che io non terrei che,
comandando io, tutto il mondo prestissimo m'ubbidisse.
Adunque, se così son
vostro come udite che sono, non immeritamente ardirò di porgere i
prieghi miei alla vostra altezza, dalla qual sola ogni mia pace, ogni mio bene
e la mia salute venir mi puote, e non altronde; e sì come umilissimo
servidor vi priego, caro mio bene e sola speranza dell 'anima mia, che nello
amoroso fuoco sperando in voi si nutrica, che la vostra benignità sia
tanta e sì ammollita la vostra passata durezza verso di me dimostrata,
che vostro sono, che io, dalla vostra pietà riconfortato, possa dire
che, come per la vostra bellezza innamorato sono, così per quella aver
la vita, la quale, se à miei prieghi l'altiero vostro animo non
s'inchina, senza alcun fallo verrà meno, e morrommi, e potrete esser
detta di me micidiale. E lasciamo stare che la mia morte non vi fosse onore,
nondimeno credo che, rimordendovene alcuna volta la conscienza, ve ne dorrebbe
d'averlo fatto, e talvolta, meglio disposta, con voi medesima direste: « Deh
quanto mal feci a non aver misericordia del Zima mio! -; e questo pentere non
avendo luogo, vi sarebbe di maggior noia cagione.
Per che, acciò che
ciò non avvenga, ora che sovvenir mi potete, di ciò v'incresca, e
anzi che io muoia a misericordia di me vi movete, per ciò che in voi
sola il farmi il più lieto e il più dolente uomo che viva dimora.
Spero tanta essere la vostra cortesia che non sofferrete che io per tanto e
tale amore morte riceva per guiderdone, ma con lieta risposta e piena di grazia
riconforterete gli spiriti miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro
cospetto.
E quinci tacendo, alquante
lacrime dietro a profondissimi sospiri mandate per gli occhi fuori,
cominciò ad attender quello che la gentil donna gli rispondesse.
La donna, la quale il lungo
vagheggiare, l'armeggiare, le mattinate, e l'altre cose simili a queste per
amor di lei fatte dal Zima, muovere non avean potuto, mossero le affettuose
parole dette dal ferventissimo amante, e cominciò a sentire ciò
che prima mai non avea sentito, cioè che amor si fosse. E quantunque,
per seguire il comandamento fattole dal marito, tacesse, non potè per
ciò alcun sospiretto nascondere quello che volentieri, rispondendo al
Zima, avrebbe fatto manifesto.
Il Zima, avendo alquanto
atteso e veggendo che niuna risposta seguiva, si maravigliò , e poscia
s'incominciò ad accorgere dell'arte usata dal cavaliere; ma pur lei
riguardando nel viso e veggendo alcun lampeggiare d'occhi di lei verso di lui
alcuna volta, e oltre a ciò raccogliendo i sospiri li quali essa non con
tutta la forza loro del petto lasciava uscire, alcuna buona speranza prese, e
da quella aiutato prese nuovo consiglio, e cominciò in forma della
donna, udendolo ella, a rispondere a sé medesimo in cotal guisa:
- Zima mio, senza dubbio
gran tempo ha che io m'accorsi il tuo amore verso me esser grandissimo e
perfetto, e ora per le tue parole molto maggiormente il conosco, e sonne
contenta, sì come io debbo. Tutta fiata, se dura e crudele paruta ti
sono, non voglio che tu creda che io nello animo stata sia quello che nel viso
mi sono dimostrata: anzi t'ho sempre amato e avuto caro innanzi ad ogni altro
uomo, ma così m'è convenuto fare e per paura d'altrui e per
servare la fama della mia onestà . Ma ora ne viene quel tempo nel quale
io ti potrò chiaramente mostrare se io t'amo e renderti guiderdone dello
amore il qual portato m'hai e mi porti; e per ciò confortati e sta a buona
speranza, per ciò che messer Francesco è per andare in fra pochi
dì a Melano per podestà , sì come tu sai, che per mio
amore donato gli hai il bel pallafreno; il quale come andato sarà ,
senz'alcun fallo ti prometto sopra la mia fè e per lo buono amore il
quale io ti porto, che in fra pochi dì tu ti troverai meco e al nostro
amore daremo piacevole e intero compimento.
E acciò che io non
t'abbia altra volta a far parlar di questa materia, infino ad ora quel giorno
il qual tu vedrai due sciugatoi tesi alla finestra della camera mia, la quale
è sopra il nostro giardino, quella sera di notte, guardando ben che
veduto non sii, fa che per l'uscio del giardino a me te ne venghi; tu mi
troverai ivi che t'aspetterò , e insieme avrem tutta la notte festa e
piacere l'un dell'altro sì come disideriamo.
Come il Zima in persona
della donna ebbe così parlato, egli incominciò per sé a parlare e
così rispose:
- Carissima donna, egli
è per soverchia letizia della vostra buona risposta sì ogni mia
virtù occupata, che appena posso a rendervi debite grazie formar la
risposta; e se io pur potessi, come io disidero, favellare, niun termine
è sì lungo che mi bastasse a pienamente potervi ringraziare come
io vorrei e come a me di far si conviene; e per ciò nella vostra
discreta considerazion si rimanga a conoscer quello che io disiderando fornir
con parole non posso. Soltanto vi dico che, come imposto m'avete, così
penserò di far senza fallo; e allora forse più rassicurato di
tanto dono quanto conceduto m'avete, m'ingegnerò a mio potere di
rendervi grazie quali per me si potranno maggiori. Or qui non resta a dire al
presente altro; e però , carissima mia donna, Dio vi dea quella
allegrezza e quel bene che voi disiderate il maggiore, e a Dio v'accomando.
Per tutto questo non disse la
donna una sola parola; laonde il Zima si levò suso e verso il cavaliere
cominciò a tornare, il qual veggendolo levato, gli si fece incontro e
ridendo disse:
- Che ti pare? Hott'io bene
la promessa servata?
- Messer no, - rispose il
Zima - ché voi mi prometteste di farmi parlare colla donna vostra e voi m'avete
fatto parlar con una statua di marmo.
Questa parola piacque molto
al cavaliere, il quale, come che buona oppinione avesse della donna, ancora ne
la prese migliore, e disse:
- Omai è ben mio il
pallafreno che fu tuo.
A cui il Zima rispose:
- Messer sì; ma se
io avessi creduto trarre di questa grazia ricevuta da voi tal frutto chente
tratto n'ho, senza do mandarlavi ve l'avrei donato; e or volesse Iddio che io
fatto l'avessi, per ciò che voi avete comperato il pallafreno, e io non
l'ho venduto.
Il cavaliere di questo si
rise, ed essendo fornito di pallafreno, ivi a pochi dì entrò in
cammino e verso Melano se n'andò in podesteria.
La donna, rimasa libera
nella sua casa, ripensando alle parole del Zima e all'amore il qual le portava
e al pallafreno per amor di lei donato, e veggendol da casa sua molto spesso
passare, disse seco medesima: « Che fo io? Perché perdo io la mia giovanezza?
Questi se n'è andato a Melano e non tornerà di questi sei mesi; e
quando me gli ristorerà egli giammai? quando io sarò vecchia? e
oltre a questo, quando troverò io mai un così fatto amante come
è il Zima? Io son sola, né ho d'alcuna persona paura; io non so perché
io non mi prendo questo buon tempo mentre che io posso; io non avrò
sempre spazio come io ho al presente; questa cosa non saprà mai persona,
e se egli pur si dovesse risapere, si è egli meglio fare e pentere, che
starsi e pentersi. - E così seco medesima consigliata, un dì pose
due asciugatoi alla finestra del giardino, come il Zima aveva detto; li quali
il Zima vedendo, lietissimo, come la notte fu venuta, segretamente e solo se
n'andò all'uscio del giardino della donna, e quello trovò aperto,
e quindi n'andò ad un altro uscio che nella casa entrava, dove
trovò la gentil donna che l'aspettava.
La qual veggendol venire,
levataglisi incontro, con grandissima festa il ricevette; ed egli,
abbracciandola e baciandola centomilia volte, su per le scale la
seguitò; e senza alcuno indugio coricatisi, gli ultimi termini conobber
d'amore. Né questa volta, come che la prima fosse, fu però l'ultima, per
ciò che, mentre il cavalier fu a Melano, e ancor dopo la sua tornata, vi
tornò con grandissimo piacere di ciascuna delle parti il Zima molte
dell'altre volte.
Giornata terza - Novella
sesta
Ricciardo Minutolo ama la
moglie di Filippello Sighinolfo, la quale sentendo gelosa, col mostrare
Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un
bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che
con Ricciardo è dimorata
Niente restava più
avanti a dire ad Elissa, quando, commendata la sagacità del Zima, la
reina impose alla Fiammetta che procedesse con una. La qual tutta ridente
rispose:
- Madonna, volentieri - ; e
cominciò.
Alquanto è da uscire
della nostra città, la quale, come d'ogn'altra cosa è copiosa,
così è d'essempli ad ogni materia, e, come Elissa ha fatto, alquanto
delle cose che per l'altro mondo avvenute son, raccontare; e per ciò, a
Napoli trapassando, dirò come una di queste santesi, che così
d'amore schife si mostrano, fosse dallo ingegno d'un suo amante prima a sentir
d'amore il frutto condotta che i fiori avesse conosciuti; il che ad una ora a
voi presterà cautela nelle cose che possono avvenire, e daravvi diletto
delle avvenute.
In Napoli, città
antichissima e forse così dilettevole, o più, come ne sia alcuna
altra in Italia, fu già un giovane per nobiltà di sangue chiaro e
splendido per molte ricchezze, il cui nome fu Ricciardo Minutolo. Il quale, non
ostante che una bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s'innamorò
d'una, la quale, secondo l'oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezza
tutte l'altre donne napoletane, e fu chiamata Catella, moglie d'un giovane
similmente gentile uomo, chiamato Filippel Sighinolfo, il quale ella,
onestissima, più che altra cosa amava e aveva caro.
Amando adunque Ricciardo
Minutolo questa Catella e tutte quelle cose operando per le quali la grazia e
l'amor d'una donna si dee potere acquistare, e per tutto ciò a niuna
cosa potendo del suo disidero pervenire, quasi si disperava; e da amore o non
sappiendo o non potendo disciogliersi, né morir sapeva né gli giovava di
vivere. E in cotal disposizion dimorando, avvenne che da donne che sue parenti
erano fu un dì assai confortato che di tale amore si dovesse rimanere,
per ciò che in van si faticava, con ciò fosse cosa che Catella
niuno altro bene avesse che Filippello, del quale ella in tanta gelosia viveva,
che ogni uccel che per l'aere volava credeva gliele togliesse.
Ricciardo, udito della
gelosia di Catella, subitamente prese consiglio a'suoi piaceri e
cominciò a mostrarsi dello amor di Catella disperato, e per ciò in
un'altra gentil donna averlo posto; e per amor di lei cominciò a mostrar
d'armeggiare e di giostrare e di far tutte quelle cose le quali per Catella
solea fare. Nè guari di tempo ciò fece che quasi a tutti i
napoletani, e a Catella altressì, era nell'animo che non più
Catella, ma questa seconda donna sommamente amasse; e tanto in questo
perseverò, che sì per fermo da tutti si teneva che, non ch'altri,
ma Catella lasciò una salvatichezza che con lui aveva dell'amor che
portar le solea, e dimesticamente. come vicino, andando e vegnendo il salutava
come faceva gli altri.
Ora avvenne che, essendo il
tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l'usanza dei
napoletani, andassero a diportarsi a'liti del mare e a desinarvi e a cenarvi,
Ricciardo, sappiendo Catella con sua brigata esservi andata, similmente con sua
compagnia v'andò, e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto,
faccendosi prima molto invitare, quasi non fosse molto vago di rimanervi. Quivi
le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui a motteggiare del
suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso forte, più loro di
ragionare dava materia. A lungo andare essendo l'una donna andata in qua e
l'altra in là, come si fa in que'luoghi, essendo Catella con poche
rimasa quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un motto d'un
certo amore di Filippello suo marito, per lo quale ella entrò in subita
gelosia, e dentro cominciò ad arder tutta di disidero di saper
ciò che Ricciardo volesse dire. E poi che alquanto tenuta si fu, non
potendo più tenersi, pregò Ricciardo che, per amor di quella
donna la quale egli più amava, gli dovesse piacere di farla chiara di
ciò che detto aveva di Filippello.
Il quale le disse:
- Voi m'avete scongiurato
per persona, che io non oso negar cosa che voi mi domandiate; e per ciò
io son presto a dirlovi, sol che voi mi promettiate che niuna parola ne farete
mai né con lui né con altrui, se non quando per effetto vederete esser vero
quello che io vi conterò; ché, quando vogliate, v'insegnerò come
vedere il potrete.
Alla donna piacque questo
che egli addomandava, e più il credette esser vero, e giurogli di mai
non dirlo. Tirati adunque da una parte, che da altrui uditi non fossero,
Ricciardo cominciò così a dire:
- Madonna, se io v'amassi
come io già amai, io non avrei ardire di dirvi cosa che io credessi che
noiar vi dovesse; ma, per ciò che quello amore è passato, me ne
curerò meno d'aprirvi il vero d'ogni cosa. Io non so se Filippello si
prese giammai onta dello amore il quale io vi portai, o se avuto ha credenza
che io mai da voi amato fossi; ma, corne che questo sia stato o no, nella mia
persona niuna cosa ne mostrò mai. Ma ora, forse aspettando tempo quando
ha creduto che io abbia men di sospetto, mostra di volere fare a :me quello che
io dubito che egli non tema ch'io facessi a lui, cioè di volere al suo
piacere avere la donna mia; e per quello che io truovo egli l'ha da non troppo
tempo in qua segretissimamente con più ambasciate sollicitata, le quali
io ho tutte da lei risapute; ed ella ha fatte le risposte secondo che io l'ho
imposto.
Ma pure stamane, anzi che
io qui venissi, io trovai con la donna mia in casa una femina a stretto
consiglio, la quale io credetti incontanente che fosse ciò che ella era,
per che io chiamai la donna mia e la dimandai quello che colei di mandasse.
Ella mi disse: - Egli è lo stimol di Filippello, il qual tu, con fargli
risposte e dargli speranza, m'hai fatto recare addosso, e dice che del tutto
vuol sapere quello che io intendo di fare, e che egli, quando io volessi,
farebbe che io potrei essere segretamente ad un bagno in questa terra; e di
questo mi prega e grava; e se non fosse che tu m'ha'fatto, non so
perchè, tener questi mercati, io me l'avrei per maniera levato di dosso
che egli mai non avrebbe guatato là dove io fossi stata -. Allora mi
parve che questi procedesse troppo innanzi e che più non fosse da
sofferire, e di dirlovi, acciò che voi conosceste che merito riceve la
vostra intera fede, per la quale io fui già presso alla morte.
E acciò che voi non
credeste queste esser parole e favole, ma il poteste, quando voglia ve ne
venisse, apertamente e vedere e toccare, io feci fare alla donna mia, a colei
che l'aspettava, questa risposta, che ella era presta d'esser domani in su la
nona, quando la gente dorme, a questo bagno; di che la femina contentissima si
partì da lei. Ora non credo io che voi crediate che io la vi mandassi;
ma, se io fossi in vostro luogo, io farei che egli vi troverrebbe me in luogo
di colei cui trovarvi si crede; e quando alquanto con lui dimorata fossi, io il
farei avvedere con cui stato fosse, e quel lo onore che a lui se ne convenisse
ne gli farei; e questo faccendo, credo sì fatta vergogna gli fia, che ad
una ora la 'ngiuria che a voi e a me far vuole vendicata sarebbe.
Catella, udendo questo,
senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a'suoi
inganni, secondo il costume de'gelosi, subitamente diede fede alle parole, e
certe cose state davanti cominciò adattare a questo fatto; e di subita
ira accesa, rispose che questo farà ella certamente, non era egli
sì gran fatica a fare; e che fermamente, se egli vi venisse, ella gli
farebbe sì fatta vergogna, che sempre che egli alcuna donna vedesse gli
si girerebbe per lo capo.
Ricciardo, contento di
questo e parendogli che '1 suo consiglio fosse stato buono e procedesse, con
molte altre parole la vi confermò su e fece la fede maggiore, pregandola
non dimeno che dir non dovesse giammai d'averlo udito da lui, il che ella sopra
la sua fè gli promise.
La mattina seguente
Ricciardo se n'andò ad una buona femina, che quel bagno che egli aveva a
Catella detto teneva, e le disse ciò che egli intendeva di fare, e
pregolla che in ciò fosse favorevole quanto potesse. La buona femina,
che molto gli era tenuta, disse di farlo volentieri e con lui ordinò
quello che a fare o a dire avesse.
Aveva costei, nella casa
ove '1 bagno era, una camera oscura molto, sì come quella nella quale
niuna finestra che lume rendesse rispondea. Questa, secondo l'ammaestramento di
Ricciardo, acconciò la buona femina e fecevi entro un letto, secondo che
potè il migliore, nel quale Ricciardo, come desinato ebbe, si mise e
cominciò ad aspettare Catella.
La donna, udite le parole
di Ricciardo e a quelle data più fede che non le bisognava, piena di
sdegno tornò la sera a casa, dove per avventura Filippello pieno d'altro
pensiero similmente tornò, né le fece forse quella dimestichezza che era
usato di fare. Il che ella vedendo, entrò in troppo maggior sospetto che
ella non era, seco medesima dicendo: - Veramente costui ha l'animo a quella
donna con la qual domane si crede aver piacere e diletto, ma ferma mente questo
non avverrà -; e sopra cotal pensiero, e imaginando come dir gli dovesse
quando con lui stata fosse, quasi tutta la notte dimorò.
Ma che più? Venuta
la nona, Catella prese sua compagnia e senza mutare altramente consiglio se
n'andò a quel bagno il quale Ricciardo le aveva insegnato; e quivi
trovata la buona femina, la dimandò se Filippello stato vi fosse quel
dì. A cui la buona femina ammaestrata da Ricciardo disse:
- Sete voi quella donna che
gli dovete venire a parlare?
Catella rispose:
- Sì sono.
- Adunque, - disse la buona
femina - andatevene da lui.
Catella, che cercando
andava quello che ella non avrebbe voluto trovare, fattasi alla camera menare
dove Ricciardo era, col capo coperto in quella entrò e dentro serrossi.
Ricciardo, vedendola
venire, lieto si levò in piè e, in braccio ricevutala, disse
pianamente:
- Ben vegna l'anima mia.
Catella, per mostrarsi ben
d'essere altra che ella non era, abbracciò e baciò lui e fecegli
la festa grande senza dire alcuna parola, temendo, se parlasse, non fosse da
lui conosciuta.
La camera era oscurissima,
di che ciascuna delle parti era contenta; né per lungamente dimorarvi
riprendevan gli occhi più di potere. Ricciardo la condusse in su il
letto, e quivi, senza favellare in guisa che iscorger si potesse la voce, per
grandissimo spazio con maggior diletto e piacere dell'una parte che dell'altra
stettero.
Ma poi che a Catella parve
tempo di dovere il conceputo sdegno mandar fuori, così di fervente ira
accesa cominciò a parlare:
- Ahi quanto è
misera la fortuna delle donne e come è male impiegato l'amor di molte
ne'mariti! Io, misera me!, già sono otto anni, t'ho più che la
mia vita amato, e tu, come io sentito ho, tutto ardi e consumiti nello amore
d'una donna strana, reo e malvagio uom che tu se'. Or con cui ti credi tu
essere stato? Tu se'stato con colei la quale otto anni t'è giaciuta a
lato, tu se'stato con colei la qual con false lusinghe tu hai, già
è assai, ingannata mostrandole amore ed essendo altrove innamorato.
Io son Catella, non son la
moglie di Ricciardo, traditor disleale che tu se'; ascolta se tu riconosci la
voce mia, io son ben dessa; e parmi mille anni che noi siamo al lume, che io ti
possa svergognare come m se'degno, sozzo cane vituperato che tu se'.
Ohimè, misera me! a cui ho io cotanti anni portato cotanto amore? A
questo can disleale, che, credendosi in braccio avere una donna strana, m'ha più
di carezze e d'amorevolezze fatte in questo poco di tempo che qui stata son con
lui, che in tutto l'altro rimanente che stata son sua.
Tu se'bene oggi, can
rinnegato, stato gagliardo, che a casa ti suogli mostrare così debole e
vinto e senza possa. Ma, lodato sia Iddio, che il tuo campo, non l'altrui, hai
lavorato, come tu ti credevi. Non maraviglia che stanotte tu non mi ti
appressasti: tu aspettavi di scaricar le some altrove, e volevi giugnere molto
fresco cavaliere alla battaglia; ma, lodato sia Iddio e il mio avvedimento,
l'acqua è pur corsa all'in giù, come ella doveva. Ché non
rispondi, reo uomo? Ché non di'qualche cosa? Se'tu divenuto mutolo udendomi? In
fè di Dio io non so a che io mi tengo, che io non ti ficco le mani negli
occhi e traggogliti. Credesti molto celatamente saper fare questo tradimento;
per Dio! tanto sa altri quanto altri, non t'è venuto fatto; io t'ho
avuti miglior bracchi alla coda che tu non credevi.
Ricciardo in sé medesimo
godeva di queste parole, e senza rispondere alcuna cosa l'abbracciava e baciava
e più che mai le faceva le carezze grandi. Per che ella, seguendo il suo
parlar, diceva:
- Sì, tu mi credi
ora con tue carezze infinte lusingare, can fastidioso che tu se', e
rappacificare e racconsolare; tu se'errato; io non sarò mai di questa
cosa consolata, infino a tanto che io non te ne vitupero in presenzia di quanti
parenti e amici e vicini noi abbiamo. Or non sono io, malvagio uomo,
così bella come sia la moglie di Ricciardo Minutolo? Non son io
così gentil donna? Ché non rispondi, sozzo cane? Che ha colei più
di me? Fatti in costà, non mi toccare, che tu hai troppo fatto d'arme
per oggi. Io so bene che oggi mai, poscia che tu conosci chi io sono, che tu
ciò che tu fa cessi faresti a forza; ma, se Dio mi dea la grazia sua, io
te ne farò ancor patir voglia; e non so a che io mi tengo che io non
mando per Ricciardo, il qual più che sé m'ha amata e mai non potè
vantarsi che io il guatassi pure una volta; e non so che male si fosse a farlo.
Tu hai creduto avere la moglie qui, ed è come se avuta l'avessi, in
quanto per te non è rimaso; dunque, se io avessi lui, non mi potresti
con ragione biasimare.
Ora le parole furono assai
e il rammarichio della donna grande; pure alla fine Ricciardo, pensando che, se
andar ne la lasciasse con questa credenza, molto di male ne potrebbe seguire,
diliberò di palesarsi e di trarla dello inganno nel quale era; e
recatasela in braccio e presala bene sì che partire non si poteva,
disse:
- Anima mia dolce, non vi
turbate; quello che io semplicemente amando aver non potei, Amor con inganno
m'ha insegnato avere, e sono il vostro Ricciardo.
Il che Catella udendo e
conoscendolo alla voce, subita mente si volle gittare del letto, ma non
potè; ond'ella volle gridare; ma Ricciardo le chiuse con l'una delle
mani la bocca, e disse:
- Madonna, egli non
può oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato, se
voi gridaste tutto il tempo della vita vostra; e se voi griderete o in alcuna
maniera fa rete che questo si senta mai per alcuna persona, due cose ne avverranno.
L'una fia (di che non poco vi dee calere) che il vostro onore e la vostra buona
fama fia guasta, per ciò che, come che voi diciate che io qui ad inganno
v'abbia fatta venire, io dirò che non sia vero, anzi vi ci abbia fatta
venire per denari e per doni che io v'abbia promessi, li quali per ciò
che così compiutamente dati non v'ho come sperava te, vi siete turbata e
queste parole e questo romor ne fate; e voi sapete che la gente è
più acconcia a credere il male che il bene; e per ciò non fia men
tosto creduto a me che a voi. Appresso questo, ne seguirà tra vostro
marito e me mortal nimistà, e potrebbe sì andare la cosa che io
ucciderei altressì tosto lui, come egli me; di che mai voi non dovreste
esser poi né lieta né contenta. E per ciò, cuor del corpo mio, non
vogliate ad una ora vituperar voi e mettere in pericolo e in briga il vostro
marito e me. Voi non siete la prima, né sarete l'ultima, la quale è
ingannata, né io non v'ho ingannata per torvi il vostro, ma per soverchio amore
che io vi porto e son disposto sempre a portarvi, e ad essere vostro umilissimo
servidore. E come che sia gran tempo che io e le mie cose e ciò che io
posso e vaglio vostre state sieno e al vostro servigio, io intendo che da
quinci innanzi sien più che mai. Ora, voi siete savia nell'altre cose, e
così son certo che sarete in questa.
Catella, mentre che
Ricciardo diceva queste parole, piagneva forte, e come che molto turbata fosse
e molto si rammaricasse, nondimeno diede tanto luogo la ragione alle vere
parole di Ricciardo, che ella cognobbe esser possibile ad avvenire ciò
che Ricciardo diceva, e per ciò disse:
- Ricciardo, io non so come
Domeneddio mi si concederà che io possa comportare la 'ngiuria e lo
'nganno che fatto m'hai. Non voglio gridar qui, dove la mia simplicità e
soperchia gelosia mi condusse; ma di questo vivi sicuro che io non sarò
mai lieta se in un modo o in uno altro io non mi veggio vendica di ciò
che fatto m'hai; e per ciò lasciami, non mi tener più; tu hai
avuto ciò che disiderato hai, e ha'mi straziata quanto t'è
piaciuto; tempo è di lasciarmi; lasciami, io te ne priego.
Ricciardo, che conosceva
l'animo suo ancora troppo turbato, s'avea posto in cuore di non lasciarla mai
se la sua pace non riavesse; per che, cominciando con dolcissime parole a
raumiliarla, tanto disse e tanto pregò e tanto scongiurò, che
ella, vinta, con lui si paceficò; e di pari volontà di ciascuno
gran pezza appresso in grandissimo diletto dimorarono insieme.
E conoscendo allora la
donna quanto più saporiti fossero i baci dello amante che quegli del
marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo, tenerissimamente
da quel giorno innanzi l'amò, e savissimamente operando molte volte
goderono del loro amore. Iddio faccia noi goder del nostro.
Giornata terza - Novella
settima
Tedaldo, turbato con una
sua donna, si parte di Firenze; tornavi in forma di peregrino dopo alcun tempo;
parla con la donna e falla del suo error conoscente, e libera il ma ito di lei
da morte, che lui gli era provato che aveva ucciso, e co'fratelli il pacefica;
e poi saviamente colla sua donna si gode.
Già si taceva
Fiammetta lodata da tutti, quando la reina, per non perder tempo, prestamente
ad Emilia commise il ragionare; la qual cominciò.
A me piace nella nostra
città ritornare, donde alle due passate piacque di dipartirsi, e come
uno nostro cittadino la sua donna perduta racquistasse mostrarvi.
Fu adunque in Firenze un
nobile giovane, il cui nome fu Tedaldo degli Elisei, il quale d'una donna,
monna Ermellina chiamata e moglie d'uno Aldobrandino Palermini, innamorato
oltre misura per gli suoi laudevoli costumi, meritò di godere del suo
disiderio. Al qual piacere la Fortuna, nimica de'felici, s'oppose; per
ciò che, qual che la cagion si fosse, la donna, avendo di sé a Tedaldo
compiaciuto un tempo, del tutto si tolse dal volergli più compiacere, né
a non volere non solamente alcuna sua ambasciata ascoltare ma vedere in alcuna
maniera; di che egli entrò in fiera malinconia e ispiacevole; ma
sì era questo suo amor celato, che della sua malinconia niuno credeva ciò
essere la cagione.
E poiché egli in diverse
maniere si fu molto ingegnato di racquistare l'amore che senza sua colpa gli
pareva aver perduto, e ogni fatica trovando vana, a doversi dileguar del mondo,
per non far lieta colei che del suo male era cagione di vederlo consumare, si
dispose. E, presi quegli denari che aver potè, segretamente, senza far
motto ad amico o a parente, fuor che ad un suo compagno il quale ogni cosa
sapea, andò via e pervenne ad Ancona, Filippo di Sanlodeccio faccendosi
chiamare; e quivi con un ricco mercatante accontatosi, con lui si mise per
servidore e in su una sua nave con lui insieme n'andò in Cipri. I
costumi del quale e le maniere piacquero sì al mercatante, che non
solamente buon salario gli assegnò, ma il fece in parte suo compagno,
oltre a ciò gran parte de'suoi fatti mettendogli tra le mani; li quali
esso fece sì bene e con tanta sollicitudine, che esso in pochi anni
divenne buono e ricco mercatante e famoso. Nelle quali faccende, ancora che
spesso della sua crudel donna si ricordasse, e fieramente fosse da amor
trafitto e molto disiderasse di rivederla, fu di tanta constanzia che sette
anni vinse quella battaglia.
Ma avvenne che, udendo egli
un dì in Cipri cantare una canzone già da lui stata fatta, nella
quale l'amore che alla sua donna portava ed ella a lui e il piacer che di lei
aveva si raccontava, avvisando questo non dover potere essere, che ella
dimenticato l'avesse, in tanto disidero di rivederla s'accese, che, più
non potendo sofferir si dispose a tornar in Firenze. E, messa ogni sua cosa in
ordine, se ne venne con un suo fante solamente ad Ancona, dove essendo ogni sua
roba giunta, quella ne mandò a Firenze ad alcuno amico dell'ancontano
suo compagno, ed egli celatamente, in forma di peregrino che dal Sepolcro venisse,
col fante suo se ne venne appresso; e in Firenze giunti, se n'andò ad
uno alberghetto di due fratelli che vicino era alla casa della sua donna. Né
prima andò in altra parte che davanti alla casa di lei, per vederla se
potesse. Ma egli vide le finestre e le porti e ogni cosa serrata; di che egli
dubitò forte che morta non fosse o di quindi mutatasi.
Per che, forte pensoso,
verso la casa de'fratelli se n'andò, davanti la quale vide quattro suoi
fratelli tutti di nero vestiti, di che egli si maravigliò molto; e
conoscendosi in tanto trasfigurato e d'abito e di persona da quello che esser
soleva quando si partì, che di leggieri non potrebbe essere stato
riconosciuto, sicuramente s'accostò ad un calzolaio e domandollo perché
di nero fossero vestiti costoro.
Al quale il calzolaio
rispose:
- Coloro sono di nero
vestiti, per ciò che e'non sono ancora quindici dì che un lor
fratello, che di gran tempo non c'era stato, che avea nome Tedaldo fu ucciso; e
parmi intendere che egli abbiano provato alla corte che uno che ha nome
Aldobrandino Palermini, il quale è preso, l'uccidesse, per ciò
che egli voleva bene alla moglie ed eraci tornato sconosciuto per esser con
lei.
Maravigliossi forte Tedaldo
che alcuno in tanto il simigliasse, che fosse creduto lui; e della sciagura
d'Aldobrandino gli dolfe. E avendo sentito che la donna era viva e sana,
essendo già notte, pieno di vari pensieri se ne tornò
all'albergo, e poi che cenato ebbe insieme col fante suo, quasi nel più
alto della casa fu messo a dormire. E quivi, sì per li molti pensieri
che lo stimolavano e sì per la malvagità del letto e forse per la
cena ch'era stata magra, essendo già la metà della notte andata,
non s'era ancor potuto Tedaldo addormentare; per che, essendo desto, gli parve in
su la mezza notte sentire d'in su il tetto della casa scender nella casa
persone, e appresso per le fessure dell'uscio della camera vide là su
venire un lume.
Per che, chetamente alla
fessura accostatosi, cominciò a guardare che ciò volesse dire, e
vide una giovane assai bella tener questo lume, e verso lei venir tre uomini
che del tetto quivi eran discesi; e dopo alcuna festa insieme fattasi, disse
l'un di loro alla giovane:
- Noi possiamo, lodato sia
Iddio, oggimai star sicuri, per ciò che noi sappiamo fermamente che la
morte di Tedaldo Elisei è stata provata da'fratelli addosso ad
Aldobrandin Palermini, ed egli l'ha confessata e già è scritta la
sentenzia; ma ben si vuol nondimeno tacere, per ciò che, se mai si
risapesse che noi fossimo stati, noi saremmo a quel medesimo pericolo che
è Aldobrandino.
E questo detto con la
donna, che forte di ciò si mostrò lieta, se ne sciesono e andarsi
a dormire.
Tedaldo, udito questo,
cominciò a riguardare quanti e quali fossero gli errori che potevano
cadere nelle menti degli uomini, prima pensando a'fratelli che uno strano
avevano pianto e sepellito in luogo di lui, e appresso lo innocente per falsa
suspizione accusato, e con testimoni non veri averlo condotto a dover morire, e
oltre a ciò la cieca severità delle leggi e de'rettori, li quali
assai volte, quasi solliciti investigatori del vero, incrudelendo fanno il
falso provare, e sé ministri dicono della giustizia e di Dio, dove sono della
iniquità e del diavolo esecutori. Appresso questo alla salute
d'Aldobrandino il pensier volse, e seco ciò che a fare avesse compose.
E come levato fu la
mattina, lasciato il suo fante, quando tempo gli parve, solo se n'andò
verso la casa della sua donna; e per ventura trovata la porta aperta,
entrò dentro e vide la sua donna sedere in terra in una saletta terrena
che ivi era, ed era tutta piena di lagrime e d'amaritudine, e quasi per
compassione ne lagrimò, e avvicinatolesi disse:
- Madonna, non vi
tribolate: la vostra pace è vicina.
La donna, udendo costui,
levò alto il viso e piagnendo disse:
- Buono uomo, tu mi pari un
peregrin forestiere; che sai tu di pace o di mia afflizione?
Rispose allora il
peregrino:
- Madonna, io son di
Costantinopoli e giungo testé qui mandato da Dio a convertire le vostre lagrime
in riso e di liberare da morte il vostro marito.
- Come,- disse la donna -
se tu di Costantinopoli se'e giugni pur testé qui, sai tu chi mio marito o io
ci siamo?
Il peregrino, da capo
fattosi, tutta la istoria della angoscia d'Aldobrandino raccontò e a lei
disse chi ella era, quanto tempo stata maritata e altre cose assai, le quali
egli molto ben sapeva de'fatti suoi; di che la donna si maravigliò
forte, e avendolo per uno profeta, gli s'inginocchiò a'piedi, per Dio
pregandolo che, se per la salute d'Aldobrandino era venuto, che egli s'avacciasse,
per ciò che il tempo era brieve.
Il peregrino, mostrandosi
molto santo uomo, disse:
- Madonna, levate su e non
piagnete, e attendete bene a quello che io vi dirò, e guardatevi bene di
mai ad alcun non dirlo. Per quello che Iddio mi riveli, la tribulazione la qual
voi avete v'è per un peccato, il qual voi commetteste già,
avvenuta, il quale Domeneddio ha voluto in parte purgare con questa noia, e
vuole del tutto che per voi s'ammendi; se non, sì ricadereste in troppo
maggiore affanno.
Disse allora la donna:
- Messere, io ho peccati
assai, né so qual Domeneddio più un che un altro si voglia che io
m'ammendi; e per ciò, se voi il sapete, ditelmi, e io ne farò
ciò che io potrò per ammendarlo.
- Madonna, - disse allora
il peregrino - io so bene quale egli è, né ve ne domanderò per
saperlo meglio, ma per ciò che voi medesima dicendolo n'abbiate
più rimordimento. Ma vegnamo al fatto. Ditemi, ricordavi egli che voi
mai aveste alcuno amante ?
La donna, udendo questo,
gittò un gran sospiro e maravigliossi forte, non credendo che mai alcuna
persona saputo l'avesse, quantunque di que'dì, che ucciso era stato
colui che per Tedaldo fu sepellito, se ne bucinasse per certe parolette non ben
saviamente usate dal compagno di Tedaldo che ciò sapea, e rispose:
- Io veggio che Iddio vi
dimostra tutti i segreti degli uomini, e per ciò io son disposta a non
celarvi i miei. Egli il è vero che nella mia giovanezza io amai
sommamente lo sventurato giovane la cui morte è apposta al mio marito;
la qual morte io ho tanto pianta, quanto dolent'è a me; per ciò
che, quantunque io rigida e salvatica verso lui mi mostrassi anzi la sua
partita, né la sua partita, né la sua lunga dimora, né ancora la sventurata
morte me l'hanno potuto trarre del cuore.
A cui il peregrin disse:
- Lo sventurato giovane che
fu morto non amaste voi mai, ma Tedaldo Elisei sì. Ma ditemi: qual fu la
cagione per la quale voi con lui vi turbaste? Offesevi egli giammai ?
A cui la donna rispose:
- Certo no, che egli non mi
offese mai; ma la cagione del cruccio furono le parole d'un maladetto frate,
dal quale io una volta mi confessai; per ciò che, quando io gli dissi
l'amore il quale io a costui portava e la dimestichezza che io aveva seco, mi
fece un romore in capo che ancor mi spaventa, dicendomi che, se io non me ne
rimanessi, io n'andrei in bocca del diavolo nel profondo del ninferno e sarei
messa nel fuoco pennace. Di che sì fatta paura m'entrò, che io
del tutto mi disposi a non voler più la dimestichezza di lui; e per non
averne cagione, né sua lettera né sua ambasciata più volli ricevere;
come che io credo, se più fosse perseverato, come (per quello che io
presuma) egli se n'andò disperato, veggendolo io consumare come si fa la
neve al sole, il mio duro proponimento si sarebbe piegato, per ciò che
niun disidero al mondo maggiore avea.
Disse allora il peregrino:
- Madonna, questo è
sol quel peccato che ora vi tribola. Io so fermamente che Tedaldo non vi fece
forza alcuna; quando voi di lui v'innamoraste, di vostra propria volontà
il faceste, piacendovi egli; e, come voi medesima voleste, a voi venne e
usò la vostra dimestichezza, nella quale e con parole e con fatti tanta
di piacevolezza gli mostraste che, se egli prima v'amava, in ben mille doppi
faceste l'amor raddoppiare. E se così fu (che so che fu), qual cagion vi
dovea poter muovere a torglivi così rigidamente ? Queste cose si volean
pensare innanzi tratto, e se credevate dovervene, come di mal far, pentere, non
farle. Così, come egli divenne vostro, così diveniste voi sua.
Che egli non fosse vostro potavate voi fare ad ogni vostro piacere, sì
come del vostro, ma il voler tor voi a lui, che sua eravate, questa era ruberia
e sconvenevole cosa, dove sua volontà stata non fosse.
Or voi dovete sapere che io
son frate, e per ciò li loro costumi io conosco tutti; e se io ne parlo
alquanto largo ad utilità di voi, non mi si disdice come farebbe ad un
altro, ed egli mi piace di parlarne, acciò che per innanzi meglio li
conosciate che per addietro non pare che abbiate fatto.
Furon già i frati
santissimi e valenti uomini, ma quegli che oggi frati si chiamano e così
vogliono esser tenuti, niuna altra cosa hanno di frate se non la cappa, né
quella altressì è di frate, per ciò che, dove
dagl'inventori de'frati furono ordinate strette e misere e di grossi panni e
dimostratrici dello animo, il quale le temporali cose disprezzate avea quando
il corpo in così vile abito avviluppava, essi oggi le fanno larghe e
doppie e lucide e di finissimi panni, e quelle in forma hanno recate leggiadria
e pontificale, in tanto che paoneggiar con esse nelle chiese e nelle piazze,
come con le loro robe i secolari fanno, non si vergognano; e quale col giacchio
il pescatore d'occupare nel fiume molti pesci ad un tratto, così costoro
colle fimbrie ampissime avvolgendosi, molte pinzochere, molte vedove, molte
altre sciocche femine e uomini d'avvilupparvi sotto s'ingegnano, ed è
lor maggior sollicitudine che d'altro esercizio. E per ciò, acciò
ch'io più vero parli, non le cappe de'frati hanno costoro, ma solamente
i colori delle cappe. E dove gli antichi la salute disideravan degli uomini,
quegli d'oggi disiderano le femine e le ricchezze; e tutto il loro studio hanno
posto e pongono in ispaventare con romori e con dipinture le menti delli
sciocchi e in mostrare che con limosine i peccati si purghino e colle messe,
acciò che a loro, che per viltà, non per divozione, sono
rifuggiti a farsi frati, e per non durar fatica, porti questi il pane, colui
mandi il vino, quello altro faccia la pietanza per l'anima de'lor passati.
E certo egli è il
vero che le elimosine e le orazion purgano i peccati; ma se coloro che le fanno
vedessero a cui le fanno o il conoscessero, più tosto o a sé il
guarderieno o dinanzi ad altrettanti porci il gitterieno. E per ciò che
essi conoscono, quanti meno sono i possessori d'una gran ricchezza, tanto
più stanno ad agio, ogn'uno con romori e con ispaventamenti s'ingegna di
rimuovere altrui da quello a che esso di rimaner solo disidera. Essi sgridano
contra gli uomini la lussuria, acciò che, rimovendosene gli sgridati,
agli sgridatori rimangano le femine; essi dannan l'usura e i malvagi guadagni,
acciò che, fatti restitutori di quegli, si possano fare le cappe
più larghe, procacciare i vescovadi e l'altre prelature maggiori, di ciò
che mostrato hanno dover menare a perdizione chi l'avesse.
E quando di queste cose e
di molte altre che sconce fanno ripresi sono, l'avere risposto: - Fate quello
che noi diciamo e non quello che noi facciamo -, estimano che sia degno
scaricamento d'ogni grave peso, quasi più alle pecore sia possibile
l'esser costanti e di ferro che a'pastori. E quanti sien quegli a'quali essi
fanno cotal risposta, che non la intendono per lo modo che essi la dicono, gran
parte di loro il sanno.
Vogliono gli odierni frati
che voi facciate quello che dicono, cioè che voi empiate loro le borse
di denari, fidiate loro i vostri segreti, serviate castità, siate
pazienti, perdoniate le 'ngiurie, guardiatevi del maldire, cose tutte buone,
tutte oneste, tutte sante; ma questo perché ? Perché essi possano fare quello
che, se i secolari faranno, essi fare non potranno. Chi non sa che senza denari
la poltroneria non può durare ? Se tu ne'tuoi diletti spenderai i
denari, il frate non potrà poltroneggiare nell'ordine; se tu andrai alle
femine dattorno, i frati non avranno lor luogo; se tu non sarai paziente o
perdonator d'ingiurie, il frate non ardirà di venirti a casa a
contaminare la tua famiglia. Perché vo io dietro ad ogni cosa? Essi s'accusano
quante volte nel cospetto degl'intendenti fanno quella scusa. Perché non si
stanno eglino innanzi a casa, se astinenti e santi non si credono potere essere
? O se pure a questo dar si vogliono, perché non seguitano quella altra santa
parola dello Evangelio: - In cominciò Cristo a fare e ad insegnare - ?
Facciano in prima essi, poi ammaestrin gli altri. Io n'ho de'miei dì
mille veduti vagheggiatori, amatori, visitatori, non solamente delle donne
secolari, ma de'monisteri; e pur di quegli che maggior romor fanno in su i
pergami. A quegli adunque così fatti andrem dietro? Chi 'l fa, fa quel
ch'e'vuole, ma Iddio sa se egli fa saviamente.
Ma, posto pur che in questo
sia da concedere ciò che il frate che vi sgridò vi disse,
cioè che gravissima colpa sia rompere la matrimonial fede, non è
molto maggiore il rubare uno uomo ? Non è molto maggiore l'ucciderlo o
il mandarlo in essilio tapinando per lo mondo? Questo concederà
ciascuno. L'usare la dimestichezza d'uno uomo una donna è peccato
naturale; il rubarlo o l'ucciderlo o il discacciarlo da malvagità di
mente procede.
Che voi rubaste Tedaldo
già di sopra v'è dimostrato, togliendoli voi, che sua di vostra
spontanea volontà eravate divenuta. Appresso dico che, in quanto in voi
fu, voi l'uccideste, per ciò che per voi non rimase, mostrandovi ogn'ora
più crudele, che egli non s'uccidesse colle sue mani; e la legge vuole
che colui che è cagione del male che si fa sia in quella medesima colpa
che colui che 'l fa. E che voi del suo essilio e dello essere andato tapin per
lo mondo sette anni non siate cagione, questo non si può negare. Sì
che molto maggiore peccato avete commesso in qualunque s'è l'una di
queste tre cose dette, che nella sua dimestichezza non commettavate. Ma
veggiamo: forse che Tedaldo meritò queste cose ? Certo non fece: voi
medesima già confessato l'avete; senza che io so che egli più che
sé v'ama.
Niuna cosa fu mai tanto
onorata, tanto esaltata, tanto magnificata quanto eravate voi sopra ogn'altra
donna da lui, se in parte si trovava dove onestamente e senza generar sospetto
di voi potea favellare. Ogni suo bene, ogni suo onore, ogni sua libertà,
tutta nelle vostre mani era da lui rimessa. Non era egli nobile giovane? Non
era egli tra gli altri suoi cittadin bello? Non era egli valoroso in quelle
cose che a'giovani s'appartengono? Non amato? Non avuto caro? Non volentier
veduto da ogn'uomo? Né di questo direte di no.
Adunque come, per detto
d'un fraticello pazzo bestiale e invidioso, poteste voi alcun proponimento
crudele pigliare contro a lui? Io non so che errore s'è quello delle
donne, le quali gli uomini schifano e prezzangli poco; dove esse, pensando a
quello che elle sono e quanta e qual sia la nobiltà da Dio oltre ad
ogn'altro animale data all'uomo, si dovrebbon gloriare quando da alcuno amate
sono, e colui aver sommamente caro e con ogni sollicitudine ingegnarsi di
compiacergli, acciò che da amarla non si rimovesse giammai. Il che come
voi faceste, mossa dalle parole d'un frate, il qual per certo doveva esser
alcun brodaiuolo manicator di torte, voi il vi sapete; e forse disiderava egli
di porre sé in quello luogo, onde egli s'ingegnava di cacciar altrui.
Questo peccato adunque
è quello, che la divina giustizia, la quale con giusta bilancia tutte le
sue operazion mena ad effetto, non ha voluto lasciare impunito; e così
come voi senza ragione v'ingegnaste di tor voi medesima a Tedaldo, così
il vostro marito senza ragione per Tedaldo è stato ed è ancora in
pericolo, e voi in tribulazione. Dalla quale se liberata esser volete, quello
che a voi conviene promettere e molto maggiormente fare, è questo: se
mai avviene che Tedaldo dal suo lungo sbandeggiamento qui torni, la vostra
grazia, il vostro amore, la vostra benivolenzia e dimestichezza gli rendiate e
in quello stato il ripognate nel quale era avanti che voi scioccamente credeste
al matto frate.
Aveva il peregrino le sue
parole finite, quando la donna, che attentissimamente le raccoglieva, per
ciò che verissime le parevan le sue ragoni, e sé per certo per quel
peccato, a lui udendol dire, estimava tribolata, disse:
- Amico di Dio, assai
conosco vere le cose le quali ragionate, e in gran parte per la vostra
dimostrazione conosco chi sieno i frati, infino ad ora da me tutti santi
tenuti; e senza dubbio conosco il mio difetto essere stato grande in ciò
che contro a Tedaldo adoperai, e se per me si potesse, volentieri l'amenderei
nella maniera che detta avete; ma questo come si può fare? Tedaldo non
ci potrà mai tornare; egli è morto; e per ciò quello che
non si dee poter fare non so perché bisogni che io il vi prometta.
A cui il peregrin disse:
- Madonna, Tedaldo non
è punto morto, per quello che Iddio mi dimostri, ma è vivo e sano
e in buono stato, se egli la vostra grazia avesse.
Disse allora la donna:
- Guardate che voi diciate;
io il vidi morto davanti alla mia porta di più punte di coltello, ed
ebbilo in queste braccia e di molte mie lagrime gli bagnai il morto viso, le
quali forse furon cagione di farne parlare quel cotanto che parlato se
n'è disonestamente.
Allora disse il peregrino:
- Madonna, che che voi vi
diciate, io v'accerto che Tedaldo è vivo; e, dove voi quello prometter
vogliate per doverlo attenere, io spero che voi il vedrete tosto.
La donna allora disse:
- Questo fo io e
farò volentieri; né cosa potrebbe avvenire che simile letizia mi fosse,
che sarebbe il vedere il mio marito libero senza danno e Tedaldo vivo.
Parve allora a Tedaldo
tempo di palesarsi e di confortare la donna con più certa speranza del
suo marito, e disse:
- Madonna, acciò che
io vi consoli del vostro marito, un gran segreto mi vi convien dimostrare, il
quale guarderete che per la vita vostra voi mai non manifestiate.
Essi erano in parte assai
remota e soli, somma confidenzia avendo la donna presa della santità che
nel peregrino le pareva che fosse; per che Tedaldo, tratto fuori uno anello
guardato da lui con somma diligenza, il quale la donna gli avea donato l'ultima
notte che con lei era stato, e mostrando gliele disse:
- Madonna, conoscete voi
questo?
Come la donna il vide,
così il riconobbe, e disse:
- Messer sì, io il
donai già a Tedaldo.
Il peregrino allora,
levatosi in piè e prestamente la schiavina gittatasi di dosso e di capo
il cappello, e fiorentino parlando disse:
- E me conoscete voi ?
Quando la donna il vide,
conoscendo lui esser Tedaldo, tutta stordì, così di lui temendo
come de'morti corpi, se poi veduti andare come vivi, si teme; e non come
Tedaldo venuto di Cipri a riceverlo gli si fece incontro, ma come Tedaldo dalla
sepoltura quivi tornato fosse, fuggir si volle temendo.
A cui Tedaldo disse:
- Madonna, non dubitate, io
sono il vostro Tedaldo vivo e sano, e mai né mori'né fu'morto? che che voi e i
miei fratelli si credano.
La donna, rassicurata
alquanto e tenendo la sua voce e alquanto più riguardatolo e seco
affermando che per certo egli era Tedaldo, piagnendo gli si gittò al
collo e baciollo, dicendo:
- Tedaldo mio dolce, tu sii
il ben tornato.
Tedaldo, baciata e
abbracciata lei, disse:
- Madonna, egli non
è or tempo da fare più strette accoglienze; io voglio andare a
fare che Aldobrandino vi sia sano e salvo renduto, della qual cosa spero che
avanti che doman sia sera voi udirete novelle che vi piaceranno; sì
veramente, se io l'ho buone, come io credo, della sua salute, io voglio
stanotte poter venir da voi e contarlevi per più agio che al presente
non posso.
E rimessasi la schiavina e
'l cappello, baciata un'altra volta la donna e con buona speranza
riconfortatala, da lei si partì e colà se n'andò dove
Aldobrandino in prigione era, più di paura della soprastante morte
pensoso che di speranza di futura salute; e quasi in guisa di confortatore col
piacere dei prigionieri a lui se n'entrò, e postosi con lui a sedere,
gli disse:
- Aldobrandino, io sono un
tuo amico a te mandato da Dio per la tua salute, al quale per la tua innocenzia
è di te venuta pietà; e per ciò, se a reverenza di lui un
picciol dono che io ti domanderò conceder mi vuoli, senza alcun fallo
avanti che doman sia sera, dove tu la sentenzia della morte attendi, quella
della tua assoluzione udirai.
A cui Aldobrandin rispose:
- Valente uomo, poi che tu
della mia salute se'sollicito, come che io non ti conosca né mi ricordi mai
più averti veduto, amico dei essere come tu di'. E nel vero il peccato
per lo quale uom dice che io debbo essere a morte giudicato, io nol commisi
giammai; assai degli altri ho già fatti, li quali forse a que sto
condotto m'hanno. Ma così ti dico a reverenza di Dio, se egli ha al
presente misericordia di me, ogni gran cosa, non che una picciola, farei
volentieri, non che io promettessi; e però quello che ti piace
addomanda, ché senza fallo, ov'egli avvenga che io scampi, io lo serverò
fermamente.
Il peregrino allora disse:
- Quello che io voglio
niun'altra cosa è se non che tu perdoni a'quattro fratelli di Tedaldo
l'averti a questo punto condotto, te credendo nella morte del lor fratello
esser colpevole, e abbigli per fratelli e per amici, dove essi di questo ti
dimandin perdono.
A cui Aldobrandin rispose:
- Non sa quanto dolce cosa
si sia la vendetta, né con quanto ardor si disideri, se non chi riceve
l'offese; ma tuttavia, acciò che Iddio alla mia salute intenda,
volentieri loro perdonerò e ora loro perdono; e se io quinci esco vivo e
scampo, in ciò fare quella maniera terrò che a grado ti fia.
Questo piacque al
peregrino, e senza volergli dire altro, sommamente il pregò che di buon
cuore stesse, ché per certo che, avanti che il seguente giorno finisse, egli
udirebbe novella certissima della sua salute.
E da lui partitosi, se
n'andò alla signoria, e in segreto ad un cavaliere che quella tenea
disse così:
- Signor mio, ciascun dee
volentieri faticarsi in far che la verità delle cose si conosca, e
massimamente coloro che tengono il luogo che voi tenete, acciò che
coloro non portino le pene che non hanno il peccato commesso e i peccatori sien
puniti. La qual cosa acciò che avvenga, in onor di voi e in male di chi
meritato l'ha, io son qui venuto a voi. Come voi sapete, voi avete rigidamente
contro Aldobrandin Palermini proceduto, e parvi aver trovato per vero lui
essere stato quello che Tedaldo Elisei uccise, e siete per condannarlo; il che
è certissimamente falso, sì come io credo avanti che mezza notte
sia, dandovi gli ucciditori di quel giovane nelle mani, avervi mostrato.
Il valoroso uomo, al quale
d'Aldobrandino increscea, volentier diede orecchi alle parole del peregrino; e
molte cose da lui sopra ciò ragionate, per sua introduzione in su 'l primo
sonno i due fratelli albergatori e il lor fante a man salva prese; e lor
volendo, per rinvenire come stata fosse la cosa, porre al martorio, nol
soffersero, ma ciascun per sé e poi tutti insieme apertamente confessarono sé
essere stati coloro che Tedaldo Elisei ucciso aveano, non conoscendolo.
Domandati della cagione, dissero per ciò che egli alla moglie dell'un di
loro, non essendovi essi nello albergo, aveva molta noia data e volutola
sforzare a fare il voler suo.
Il peregrino, questo avendo
saputo, con licenzia del gentile uomo si partì, e occultamente alla casa
di madonna Ermellina se ne venne, e lei sola, essendo ogn'altro della casa
andato a dormire, trovò che l'aspettava, parimente disiderosa d'udire
buone novelle del marito e di riconciliarsi pienamente col suo Tedaldo. Alla
qual venuto, con lieto viso disse:
- Carissima donna mia,
rallegrati, ché per certo tu riavrai domane qui sano e salvo il tuo
Aldobrandino - ; e per darle di ciò più intera credenza,
ciò che fatto avea pienamente le raccontò.
La donna di due così
fatti accidenti e così subiti, cioè di riaver Tedaldo vivo, il
quale veramente credeva aver pianto morto, e di veder libero dal pericolo
Aldobrandino, il quale fra pochi dì si credeva dover piagner morto, tanto
lieta quanto altra ne fosse mai, affettuosamente abbracciò e
baciò il suo Tedaldo; e andatisene insieme al letto, di buon volere
fecero graziosa e lieta pace, l'un dell'altro prendendo dilettosa gioia.
E come il giorno
s'appressò, Tedaldo levatosi, avendo già alla donna mostrato ciò
che fare intendeva e da capo pregatola che occultissimo fosse, pure in abito
peregrino si uscì del la casa della donna, per dovere, quando ora fosse,
attendere a'fatti d'Aldobrandino.
La signoria, venuto il
giorno, e parendole piena informazione avere dell'opera, prestamente
Aldobrandino liberò, e pochi dì appresso a'malfattori, dove
commesso avevan l'omicidio, fece tagliar la testa. Essendo adunque libero
Aldobrandino, con gran letizia di lui e della sua donna e di tutti i suoi amici
e parenti, e conoscendo manifestamente ciò essere per opera del
peregrino avvenuto, lui alla lor casa condussero per tanto quanto nella
città gli piacesse di stare; e quivi di fargli onore e festa non si
potevano veder sazi, e spezialmente la donna, che sapeva a cui farlosi. Ma
parendogli dopo alcun dì tempo di dovere i fratelli riducere a concordia
con Aldobrandino, li quali esso sentiva non solamente per lo suo scampo
scornati, ma armati per tema, domandò ad Aldobrandino la promessa.
Aldobrandino liberamente rispose sé essere apparecchiato. A cui il peregrino
fece per lo seguente dì apprestare un bel convito, nel quale gli disse
che voleva che egli co'suoi parenti e colle sue donne ricevesse i quattro
fratelli e le lor donne, aggiugnendo che esso medesimo andrebbe incontanente ad
invitargli alla sua pace e al suo convito da sua parte.
Ed essendo Aldobrandino di
quanto al peregrino piaceva contento il peregrino tantosto n'andò
a'quattro fratelli, e con loro assai delle parole che intorno a tal materia si
richiedeano usate, al fine con ragioni irrepugnabili assai agevolmente gli
condusse a dovere, domandando perdono, l'amistà d'Aldobrandino
racquistare; e questo fatto, loro e le lor donne a dover desinare la seguente
mattina con Aldobrandino gl'invitò; ed essi liberamente, della sua
fè sicurati, tennero lo 'nvito.
La mattina adunque
seguente, in su l'ora del mangiare, primieramente i quattro fratelli di
Tedaldo, così vestiti di nero come erano, con alquanti loro amici
vennero a casa Aldobrandino, che gli attendeva; e quivi, davanti a tutti coloro
che a fare lor compagnia erano stati da Aldobrandino invitati, gittate l'armi
in terra, nelle mani d'Aldobrandino si rimisero, perdonanza domandando di
ciò che contro a lui avevano adoperato.
Aldobrandino lagrimando
pietosamente gli ricevette; e tutti baciandogli in bocca, con poche parole
spacciandosi, ogni ingiuria ricevuta rimise. Appresso costoro le sirocchie e le
mogli loro, tutte di bruno vestite, vennero, e da madonna Ermellina e
dall'altre donne graziosamente ricevute furono. Ed essendo stati magnificamente
serviti nel convito gli uomini parimente e le donne, né avendo avuto in quello
cosa alcuna altro che laudevole, se non una, la taciturnità stata per lo
fresco dolore rappresentato ne'vestimenti oscuri de'parenti di Tedaldo (per la
qual cosa da alquanti il diviso e lo 'nvito del peregrino era stato biasimato
ed egli se n'era accorto), come seco disposto avea, venuto il tempo da torla
via, si levò in piè, mangiando ancora gli altri le frutte, e
disse:
- Niuna cosa è
mancata a questo convito a doverlo far lieto, se non Tedaldo; il quale, poi che
avendolo avuto continuamente con voi non lo avete conosciuto, io il vi voglio
mostrare.
E di dosso gittatasi la
schiavina e ogni abito peregrino, in una giubba di zendado verde rimase, e non
senza grandissima maraviglia di tutti guatato e riconosciuto fu lungamente,
avanti che alcun s'arrischiasse a credere ch'el fosse desso. Il che Tedaldo
vedendo, assai de'lor parentadi, delle cose tra loro avvenute, de'suoi
accidenti raccontò. Per che i frategli e gli altri uomini, tutti di
lagrime d'allegrezza pieni, ad abbracciare il corsero, e il simigliante
appresso fecer le donne, così le non parenti come le parenti, fuor che
monna Ermellina.
Il che Aldobrandino
veggendo disse:
- Che è questo,
Ermellina? Come non fai tu, come l'altre donne, festa a Tedaldo?
A cui, udenti tutti, la
donna rispose:
- Niuna ce n'è che
più volentieri gli abbia fatto festa e faccia, che farei io, sì
come colei che più gli è tenuta che al cuna altra, considerato
che per le sue opere io t'abbia riavuto; ma le disoneste parole dette
ne'dì che noi piagnemmo colui che noi credevam Tedaldo, me ne fanno
stare.
A cui Aldobrandin disse:
- Va via, credi tu che io
creda agli abbaiatori? Esso, procacciando la mia salute, assai bene dimostrato
ha quello essere stato falso, senza che io mai nol credetti; tosto leva su, va
abbraccialo.
La donna, che altro non
desiderava, non fu lenta in questo ad ubbidire il marito; per che, levatasi,
come l'altre avevan fatto, così ella abbracciandolo gli fece lieta
festa. Questa liberalità d'Aldobrandino piacque molto ai fratelli di
Tedaldo, e a ciascuno uomo e donna che quivi era; e ogni rugginuzza, che fosse
nata nelle menti d'alcuni dalle parole state, per que sto si tolse via.
Fatta adunque da ciascun
festa a Tedaldo, esso medesimo stracciò li vestimenti neri in dosso
a'fratelli e i bruni alle sirocchie e alle cognate; e volle che quivi altri
vestimenti si facessero venire. Li quali poi che rivestiti furono, canti e
balli e altri sollazzi vi si fecero assai; per la qual cosa il convito, che
tacito principio avuto avea, ebbe sonoro fine. E con grandissima allegrezza,
così come eran, tutti a casa di Tedaldo n'andarono, e quivi la sera
cenarono; e più giorni appresso, questa maniera tegnendo, la festa continuarono.
Li fiorentini più
giorni quasi come un uomo risuscitato e maravigliosa cosa riguardaron Tedaldo;
e a molti, e a'fratelli ancora, n'era un cotal dubbio debole nell'animo se
fosse desso o no, e nol credevano ancor fermamente, né forse avrebber fatto a
pezza, se un caso avvenuto non fosse che fe'lor chiaro chi fosse stato
l'ucciso; il quale fu questo.
Passavano un giorno fanti
di Lunigiana davanti a casa loro, e vedendo Tedaldo gli si fecero sirocchie
dicendo:
- Ben possa stare Faziuolo.
A'quali Tedaldo in
presenzia de'fratelli rispose:
- Voi m'avete colto in
iscambio.
Costoro, udendol parlare,
si vergognarono, e chiesongli perdono dicendo:
- In verità che voi
risomigliate, più che uomo che noi vedessimo mai risomigliare un altro,
un nostro compagno, il quale si chiama Faziuolo da Pontremoli, che venne, forse
quindici dì o poco più fa, qua, né mai potemmo poi sapere che di
lui si fosse. Bene è vero che noi ci maravigliavamo dello abito, per
ciò che esso era, sì come noi siamo, masnadiere.
Il maggior fratel di
Tedaldo, udendo questo, si fece innanzi e domandò di che fosse stato
vestito quel Faziuolo. Costoro il dissero, e trovossi appunto così
essere stato come costor dicevano; di che, tra per questi e per gli altri
segni, riconosciuto fu colui che era stato ucciso essere stato Faziuolo e non
Tedaldo; laonde il sospetto di lui uscì a'fratelli e a ciascun altro.
Tedaldo adunque, tornato
ricchissimo, perseverò nel suo amare, e, senza più turbarsi la
donna, discretamente operando, lungamente goderon del loro amore. Iddio faccia
noi goder del nostro.
Giornata terza - Novella
ottava
Ferondo, mangiata certa
polvere, è sotterrato per morto; e dall'abate, che la moglie di lui si
gode, tratto della sepoltura, è messo in prigione e fattogli credere che
egli è in purgatoro; e poi risuscitato, per suo nutrica un figliuolo
dello abate nella moglie di lui generato
Venuta era la fine della
lunga novella d'Emilia, non per ciò dispiaciuta ad alcuno per la sua
lunghezza, ma da tutti tenuto che brievemente narrata fosse stata, avendo
rispetto alla quantità e alla varietà de'casi in essa raccontati;
per che la reina, alla Lauretta con un sol cenno mostrato il suo disio, le
diè cagione di così cominciare.
Carissime donne, a me si
para davanti a doversi far raccontare una verità che ha, troppo
più che di quello che ella fu, di menzogna sembianza, e quella nella
mente m'ha ritornata l'avere udito un per un altro essere stato pianto e
sepellito. Dico adunque come un vivo per morto sepellito fosse, e come poi per
risuscitato, e non per vivo, egli stesso e molti altri lui credessero essere
della sepoltura uscito, colui di ciò essendo per santo adorato che come
colpevole ne dovea più tosto essere condannato.
Fu adunque in Toscana una
badia, e ancora è, posta, sì come noi ne veggiam molte, in luogo
non troppo frequentato dagli uomini, nella quale fu fatto abate un monaco, il
quale in ogni cosa era santissimo fuor che nell'opera delle femine; e questo
sapeva sì cautamente fare che quasi niuno, non che il sapesse, ma né
suspicava, per che santissimo e giusto era tenuto in ogni cosa.
Ora avvenne che, essendosi
molto collo abate dimesticato un ricchissimo villano, il quale avea nome
Ferondo, uomo materiale e grosso senza modo (né per altro la sua dimestichezza
piaceva allo abate, se non per alcune recreazioni le quali talvolta pigliava
delle sue simplicità), e in questa dimestichezza s'accorse l'abate
Ferondo avere una bellissima donna per moglie, della quale esso sì
ferventemente s'innamorò che ad altro non pensava né dì né notte.
Ma udendo che, quantunque Ferondo fosse in ogni altra cosa semplice e
dissipito, in amare questa sua moglie e guardarla bene era savissimo, quasi se
ne disperava. Ma pure, come molto avveduto, recò a tanto Ferondo, che
egli insieme colla sua donna a prendere alcuno diporto nel giardino della badia
venivano alcuna volta; e quivi con loro della beatitudine di vita etterna e di
santissime opere di molti uomini e donne passate ragionava modestissimamente
loro, tanto che alla donna venne disidero di confessarsi da lui e chiesene la
licenzia da Ferondo ed ebbela.
Venuta adunque a
confessarsi la donna allo abate, con grandissimo piacer di lui e a piè
postaglisi a sedere, anzi che adire altro venisse, incominciò:
- Messere, se Iddio
m'avesse dato marito o non me lo avesse dato, forse mi sarebbe agevole
co'vostri ammaestramenti d'entrare nel cammino che ragionato n'avete che mena
altrui a vita etterna; ma io, considerato chi è Ferondo e la sua
stultizia, mi posso dir vedova, e pur maritata sono, in quanto, vivendo esso,
altro marito aver non posso; ed egli, così matto come egli è,
senza alcuna cagione è sì fuori d'ogni misura geloso di me, che
io, per questo, altro che in tribulazione e in mala ventura con lui viver non
posso. Per la qual cosa, prima che io ad altra confession venga, quanto
più posso umilmente vi priego che sopra questo vi piaccia darmi alcun
consiglio, per ciò che, se quinci non comincia la cagione del mio ben
potere adoperare, il confessarmi o altro bene fare poco mi gioverà.
Questo ragionamento con
gran piacere toccò l'animo dello abate, e parvegli che la fortuna gli
avesse al suo maggior disidero aperta la via, e disse:
- Figliuola mia, io credo
che gran noia sia ad una bella e dilicata donna, come voi siete, aver per
marito un mentecatto, ma molto maggiore la credo essere l'avere un geloso; per
che, avendo voi e l'uno e l'altro, agevolmente ciò che della vostra
tribolazione dite vi credo. Ma a questo, brievemente parlando, niuno né
consiglio né rimedio veggo fuor che uno, il quale è che Ferondo di
questa gelosia si guarisca. La medicina da guarirlo so io troppo ben fare,
purché a voi dea il cuore di segreto temere ciò che io vi
ragionerò.
La donna disse:
- Padre mio, di ciò
non dubitate, per ciò che io mi lascierei innanzi morire che io cosa
dicessi ad altrui che voi mi diceste che io non dicessi; ma come si
potrà far questo?
Rispose l'abate:
- Se noi vogliamo che egli
guarisca, di necessità convien che egli vada in purgatoro.
- E come, - disse la donna
- vi potrà egli andare vivendo?
Disse l'abate:
- Egli convien ch'e'muoia,
e così v'andrà; e quando tanta pena avrà sofferta che egli
di questa sua gelosia sarà gastigato, noi con certe orazioni pregheremo
Iddio che in questa vita il ritorni, ed egli il farà.
- Adunque, - disse la donna
- debbo io rimaner vedova?
- Sì, - rispose
l'abate - per un certo tempo, nel quale vi converrà molto ben guardare
che voi ad altrui non vi lasciate rimaritare, per ciò che Iddio
l'avrebbe per male, e, tornandoci Ferondo, vi converrebbe a lui tornare, e
sarebbe più geloso che mai.
La donna disse:
- Purché egli di questa
mala ventura guarisca, che egli non mi convenga sempre stare in prigione, io
son contenta; fate come vi piace.
Disse allora l'abate:
- E io il farò; ma che
guiderdon debbo io aver da voi di così fatto servigio?
- Padre mio, - disse la
donna - ciò che vi piace, purché io possa; ma che puote una mia pari,
che ad un così fatto uomo, come voi siete, sia convenevole?
A cui l'abate disse:
- Madonna, voi potete non
meno adoperar per me che sia quello che io mi metto a far per voi; per
ciò che, sì come io mi dispongo a far quello che vostro bene e
vostra consolazion dee essere, così voi potete far quello che fia salute
e scampo della vita mia.
Disse allora la donna:
- Se così è,
io sono apparecchiata.
- Adunque, - disse l'abate
- mi donerete voi il vostro amore e faretemi contento di voi, per la quale io
ardo tutto e mi consumo.
La donna, udendo questo,
tutta sbigottita rispose:
- Ohimè, padre mio,
che è ciò che voi domandate? Io mi credeva che voi foste un
santo; or conviensi egli a'santi uomini di richieder le donne, che a lor vanno
per consiglio, di così fatte cose?
A cui l'abate disse:
- Anima mia bella, non vi
maravigliate, ché per questo la santità non diventa minore, per
ciò che ella dimora nell'anima e quello che io vi domando è
peccato del corpo. Ma, che che si sia, tanta forza ha avuta la vostra vaga
bellezza, che amore mi costrigne a così fare. E dicovi che voi della
vostra bellezza più che altra donna gloriar vi potete, pensando che ella
piaccia a'santi, che sono usi di vedere quelle del cielo. E oltre a questo,
come che io sia abate, io sono uomo come gli altri, e, come voi vedete, io non
sono ancor vecchio. E non vi dee questo esser grave a dover fare, anzi il
dovete disiderare, per ciò che, mentre che Ferondo starà in
purgatoro, io vi darò, faccendovi la notte compagnia, quella consolazion
che vi dovrebbe dare egli; né mai di questo persona niuna s'accorgerà,
credendo ciascun di me quello, e più, che voi poco avante ne credevate.
Non rifiutate la grazia che Iddio vi manda, ché assai sono di quelle che quello
disiderano che voi potete avere, e avrete, se savia crederete al mio consiglio.
Oltre a questo, io ho di belli gioielli e di cari, li quali io non intendo che
d'altra persona sieno che vostri. Fate adunque, dolce speranza mia, per me
quello che io fo per voi volentieri.
La donna teneva il viso
basso, né sapeva come negarlo, e il concedergliele non le pareva far bene; per
che l'abate, veggendola averlo ascoltato e dare indugio alla risposta, parendo
gliele avere già mezza convertita, con molte altre parole alle prime
continuandosi, avanti che egli ristesse l'ebbe nel capo messo che questo fosse
ben fatto; per che essa vergognosamente disse sé essere apparecchiata ad ogni
suo comando, ma prima non potere che Ferondo andato fosse in purgatoro.
A cui l'abate contentissimo
disse:
- E noi faremo che egli
v'andrà incontanente; farete pure che domane o l'altro dì egli
qua con meco se ne venga a dimorare - ; e detto questo, postole celatamente in
mano un bellissimo anello, la licenziò. La donna lieta del dono e
attendendo d'aver degli altri, alle compagne tornata, maravigliose cose
cominciò a raccontare della santità dello abate e con loro a casa
se ne tornò.
Ivi a pochi dì
Ferondo se n'andò alla badia, il quale come l'abate vide, così
s'avvisò di mandarlo in purgatoro. E ritrovata una polvere di
maravigliosa virtù, la quale nelle parti di Levante avuta avea da un
gran principe, il quale affermava quella solersi usare per lo Veglio della
Montagna, quando alcun voleva dormendo mandare nel suo paradiso o trarlone, e
che ella, più e men data, senza alcuna lesione faceva per sì
fatta maniera più e men dormire colui che la prendeva, che, mentre la sua
virtù durava, alcuno non avrebbe mai detto colui in sé aver vita; e di
questa tanta presane che a fare dormir tre giorni sufficiente fosse, e in un
bicchier di vino non ben chiaro, ancora nella sua cella, senza avvedersene
Ferondo, gliele diè bere, e lui appresso menò nel chiostro, e con
più altri de'suoi monaci di lui cominciarono e delle sue sciocchezze a
pigliar diletto. Il quale non durò guari che, lavorando la polvere, a
costui venne un sonno subito e fiero nella testa, tale che stando ancora in piè
s'addormentò e addormentato cadde.
L'abate, mostrando di
turbarsi dello accidente, fattolo scignere e fatta recare acqua fredda e
gittargliele nel viso, e molti suoi altri argomenti fatti fare, quasi da alcuna
fumosità di stomaco o d'altro che occupato l'avesse gli volesse la smarrita
vita e '1 sentimento rivocare; veggendo l'abate e'monaci che per tutto questo
egli non si risentiva, toccandogli il polso e niun sentimento trovandogli,
tutti per constante ebbero ch'e'fosse morto; per che, mandatolo a dire alla
moglie e a'parenti di lui, tutti quivi prestamente vennero, e avendolo la
moglie colle sue parenti alquanto pianto, così vestito come era il fece
l'abate mettere in uno avello.
La donna si tornò a
casa, e da un piccol fanciullin che di lui aveva disse che non intendeva partirsi
giammai; e così, rimasasi nella casa, il figliuolo e la ricchezza, che
stata era di Ferondo, cominciò a governare.
L'abate con un monaco
bolognese, di cui egli molto si confidava e che quel dì quivi da Bologna
era venuto, levatosi la notte tacitamente, Ferondo trassero della sepoltura, e
lui in una tomba, nella quale alcun lume non si vedea e che per prigione
de'monaci che fallissero era stata fatta, nel portarono; e trattigli i suoi
vestimenti e a guisa di monaco vestitolo, sopra un fascio di paglia il posero e
lasciaronlo stare tanto ch'egli si risentisse. In questo mezzo il monaco
bolognese, dallo abate informato di quello che avesse a fare, senza saperne
alcuna altra persona niuna cosa, cominciò ad attender che Ferondo si
risentisse.
L'abate il dì
seguente con alcun de'suoi monaci per modo di visitazion se n'andò a
casa della donna, la quale di nero vestita e tribolata trovò, e
confortatala alquanto, pianamente la richiese della promessa. La donna,
veggendosi libera e senza lo 'mpaccio di Ferondo o d'altrui, avendogli veduto
in dito un altro bello anello, disse che era apparecchiata; e con lui compose
che la seguente notte v'andasse.
Per che, venuta la notte,
l'abate, travestito de'panni di Ferondo e dal suo monaco accompagnato,
v'andò e con lei infino al matutino con grandissimo diletto e piacere si
giacque, e poi si ritornò alla badia, quel camino per così fatto
servigio faccendo assai sovente; e da alcuni e nello andare e nel tornare
alcuna volta essendo scontrato, fu creduto che fosse Ferondo che andasse per
quella contrada penitenza faccendo; e poi molte novelle tra la gente grossa
della villa contatone, e alla moglie ancora, che ben sapeva ciò che era,
più volte fu detto.
Il monaco bolognese,
risentito Ferondo e quivi trovandosi senza saper dove si fosse, entrato dentro
con una voce orribile, con certe verghe in mano, presolo, gli diede una gran
battitura.
Ferondo, piangendo e
gridando, non faceva altro che domandare:
- Dove sono io?
A cui il monaco rispose:
- Tu se'in purgatoro.
- Come! - disse Ferondo -
dunque sono io morto?
Disse il monaco:
- Mai sì - ; per che
Ferondo sé stesso e la sua donna e '1 suo figliuolo cominciò a piagnere,
le più nuove cose del mondo dicendo.
Al quale il monaco portò
alquanto da mangiare e da bere. Il che veggendo Ferondo, disse:
- O mangiano i morti?
Disse il monaco:
- Sì; e questo che
io ti reco è ciò che la donna, che fu tua, mandò stamane
alla chiesa a far dir messe per l'anima tua, il che Domeneddio vuole che qui
rappresentato ti sia.
Disse allora Ferondo:
- Domine, dalle il buono
anno. Io le voleva ben gran bene anzi che io morissi, tanto che io me la teneva
tutta notte in braccio e non faceva altro che baciarla e anche faceva altro
quando voglia me ne veniva.
E poi, gran voglia
avendone, cominciò a mangiare e a bere; e non parendogli il vino troppo
buono, disse:
- Domine, falla trista, ché
ella non diede al prete del vino della botte di lungo il muro.
Ma poi che mangiato ebbe,
il monaco da capo il riprese e con quelle medesime verghe gli diede una gran
battitura. A cui Ferondo, avendo gridato assai, disse:
- Deh. questo perché mi fai
tu?
Disse il monaco:
- Per ciò che
così ha comandato Domeneddio che ogni dì due volte ti sia fatto.
- E per che cagione? - disse
Ferondo.
Disse il monaco:
- Perché tu fosti geloso,
avendo la miglior donna che fosse nelle tue contrade per moglie.
- Ohimè, - disse
Ferondo - tu di'vero, e la più dolce; ella era più melata che '1
confetto, ma io non sapeva che Domeneddio avesse per male che l'uomo fosse
geloso, ché io non sarei stato.
Disse il monaco:
- Di questo ti dovevi tu
avvedere mentre eri di là, e ammendartene; e se egli avviene che tu mai
vi torni, fa che tu abbi sì a mente quello che io fo ora, che tu non sii
mai più geloso.
Disse Ferondo:
- O ritornavi mai chi
muore?
Disse il monaco:
- Sì, chi Dio vuole.
- Oh, - disse Ferondo - se
io vi torno mai, io sarò il miglior marito del mondo; mai non la
batterò, mai non le dirò villania, se non del vino che ella ci ha
mandato stamane, e anche non ci ha mandato candela niuna, ed emmi convenuto
mangiare al buio.
Disse il monaco:
- Sì fece bene, ma
elle arsero alle messe.
- Oh, - disse Ferondo - tu
dirai vero; e per certo se io vi torno, io la lascerò fare ciò
che ella vorrà. Ma dimmi chi se'tu che questo mi fai?
Disse il monaco:
- Io sono anche morto, e
fui di Sardigna, e perché io lodai già molto ad un mio signore l'esser
geloso, sono stato dannato da Dio a questa pena, che io ti debba dare mangiare
e bere e queste battiture, infino a tanto che Iddio di libererà altro di
te e di me.
Disse Ferondo:
- Non c'è egli
più persona che noi due?
Disse il monaco:
- Sì, a migliaia, ma
tu non gli puoi né vedere né udire, se non come essi te.
Disse allora Ferondo:
- O quanto siam noi di
lungi dalle nostre contrade?
- Ohioh! - disse il monaco
- sevvi di lungi delle miglia più di ben la cacheremo.
- Gnaffe! cotesto è
bene assai; - disse Ferondo - e per quel che mi paia, noi dovremmo essere fuor
del mondo, tanta ci ha.
Ora in così fatti
ragionamenti e in simili, con mangiare e con battiture, fu tenuto Ferondo da
dieci mesi in fra li quali assai sovente l'abate bene avventurosamente
visitò la bella donna e con lei si diede il più bel tempo del
mondo.
Ma, come avvengono le
sventure, la donna ingravidò, e prestamente accortasene, il disse
all'abate; per che ad amenduni parve che senza indugio Ferondo fosse da dovere
essere di purgatoro rivocato a vita e che a lei si tornasse, ed ella di lui
dicesse che gravida fosse.
L'abate adunque la seguente
notte fece con una voce contraffatta chiamar Ferondo nella prigione, e dirgli:
- Ferondo, confortati, ché
a Dio piace che tu torni al mondo; dove tornato, tu avrai un figliuolo della
tua donna, il quale farai che tu nomini Benedetto, per ciò che per gli
prieghi del tuo santo abate e della tua donna e per amor di san Benedetto ti fa
questa grazia.
Ferondo, udendo questo, fu
forte lieto e disse:
- Ben mi piace. Dio gli dea
il buono anno a messer Domeneddio e allo abate e a san Benedetto e alla moglie
mia caciata, melata, dolciata.
L'abate, fattogli dare nel
vino che egli gli mandava di quella polvere tanta che forse quattro ora il
facesse dormire, rimessigli i panni suoi, insieme col monaco suo tacitamente il
tornarono nello avello nel quale era stato sepellito.
La mattina in sul far del
giorno Ferondo si risentì e vide per alcuno pertugio dello avello lume,
il quale egli veduto non avea ben dieci mesi: per che, parendogli esser vivo,
cominciò a gridare: - Apritemi, apritemi - ed egli stesso a pontar col
capo nel coperchio dello avello sì forte, che ismossolo, per ciò
che poca ismovitura avea, lo 'ncominciava a mandar via; quando i monaci, che
detto avean matutino, corson colà e conobbero la voce di Ferondo e
viderlo già del monimento uscir fuori; di che, spaventati tutti per la
novità del fatto, cominciarono a fuggire e allo abate n'andarono.
Il quale, sembianti
faccendo di levarsi d'orazione, disse:
- Figliuoli, non abbiate
paura, prendete la croce e l'acqua santa e appresso di me venite, e veggiamo
ciò che la potenzia di Dio ne vuol mostrare - ; e così fece.
Era Ferondo tutto pallido,
come colui che tanto tempo era stato senza vedere il cielo, fuor dello avello
uscito. Il quale, come vide l'abate, così gli corse a'piedi e disse:
- Padre mio, le vostre
orazioni, secondo che revelato mi fu, e quelle di san Benedetto e della mia
donna, m'hanno delle pene del purgatoro tratto e tornato in vita, di che io
priego Iddio che vi dea il buono anno e le buone calendi, oggi e tuttavia.
L'abate disse:
- Lodata sia la potenza di
Dio. Va dunque, figliuolo, poscia che Iddio t'ha qui rimandato, e consola la
tua donna, la qual sempre, poi che tu di questa vita passasti, è stata
in lagrime, e sii da quinci innanzi amico e servidore di Dio.
Disse Ferondo:
- Messere, egli m'è
ben detto così; lasciate far pur me, ché come io la troverò,
così la bacerò, tanto bene le voglio.
L'abate rimaso co'monaci
suoi, mostrò d'avere di questa cosa una grande ammirazione, e fecene
divotamente cantare il Miserere.
Ferondo tornò nella
sua villa, dove chiunque il vedeva fuggiva, come far si suole delle orribili
cose, ma egli, richiamandogli, affermava sé essere risuscitato. La moglie
similmente aveva di lui paura.
Ma poi che la gente
alquanto si fu rassicurata con lui e videro che egli era vivo, domandandolo di
molte cose, quasi savio ritornato, a tutti rispondeva e diceva loro novelle
dell'anime de'parenti loro, e faceva da sé medesimo le più belle favole
del mondo de'fatti purgatoro, e in pien popolo raccontò la revelazione
statagli fatta per la bocca del Ragnolo Braghiello avanti che risuscitasse. Per
la qual cosa in casa colla moglie tornatosi e in possessione rientrato de'suoi
beni, la 'ngravidò al suo parere, e per ventura venne che a convenevole
tempo, secondo l'oppinione degli sciocchi che credono la femina nove mesi
appunto portare i figliuoli, la donna partorì un figliuol maschio, il
qual fu chiamato Benedetto Ferondi.
La tornata di Ferondo e le
sue parole, credendo quasi ogn'uomo che risuscitato fosse, acrebbero senza fine
la fama della santità dello abate. E Ferondo, che per la sua gelosia
molte battiture ricevute avea, sì come di quella guerito, secondo la
promessa dello abate fatta alla donna, più geloso non fu per innanzi; di
che la donna contenta, onestamente, come soleva, con lui si visse, sì
veramente che, quando acconciamente poteva, volentieri col santo abate si
ritrovava, il quale bene e diligentemente ne'suoi maggior bisogni servita
l'avea.
Giornata terza - Novella
nona
Giletta di Nerbona guerisce
il re di Francia d'una fistola; domanda per marito Beltramo di Rossiglione, il
quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per isdegno, dove
vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con lui ed ebbene
due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la tenne.
Restava, non volendo il suo
privilegio rompere a Dioneo, solamente a dire alla reina, con ciò fosse
cosa che già finita fosse la novella di Lauretta. Per la qual cosa essa,
senza aspettar d'essere sollicitata da'suoi, così tutta vaga
cominciò a parlare.
Chi dirà novella
omai che bella paia, avendo quella di Lauretta udita? Certo vantaggio ne fu che
ella non fu la primiera, ché poche poi dell'altre ne sarebbon piaciute, e
così spero che avverrà di quelle che per questa giornata sono a
raccontare. Ma pure, chente che ella si sia, quella che alla proposta materia
m'occorre vi conterò.
Nel reame di Francia fu un
gentile uomo, il quale chiamato fu Isnardo, conte di Rossiglione, il quale, per
ciò che poco sano era, sempre appresso di sé teneva un medico, chiamato
maestro Gerardo di Nerbona. Aveva il detto conte un suo figliuol piccolo senza
più, chiamato Beltramo, il quale era bellissimo e piacevole, e con lui
altri fanciulli della sua età s'allevavano, tra'quali era una fanciulla
del detto medico, chiamata Giletta; la quale infinito amore e oltre al
convenevole della tenera età fervente pose a questo Beltramo. Al quale,
morto il conte e lui nelle mani del re lasciato, ne convenne andare a Parigi;
di che la giovinetta fieramente rimase sconsolata; e non guari appresso,
essendosi il padre di lei morto, se onesta cagione avesse potuta avere,
volentieri a Parigi per veder Beltramo sarebbe andata; ma essendo molto
guardata, per ciò che ricca e sola era rimasa, onesta via non vedea.
Ed essendo ella già
d'età da marito, non avendo mai potuto Beltramo dimenticare, molti,
a'quali i suoi parenti l'avevan voluta maritare, rifiutati n'avea senza la
cagion dimostrare.
Ora avvenne che, ardendo
ella dello amor di Beltramo più che mai, per ciò che bellissimo
giovane udiva ch'era divenuto, le venne sentita una novella, come al re di
Francia, per una nascenza che avuta avea nel petto ed era male stata curata,
gli era rimasa una fistola, la quale di grandissima noia e di grandissima
angoscia gli era, né s'era ancor potuto trovar medico, come che molti se ne
fossero esperimentati, che di ciò l'avesse potuto guerire, ma tutti
l'avean peggiorato, per la qual cosa il re, disperatosene, più d'alcun
non voleva né consiglio né aiuto. Di che la giovane fu oltremodo contenta, e
pensossi non solamente per questo aver ligittima cagione d'andar a Parigi, ma,
se quella infermità fosse che ella credeva, leggiermente poterle venir
fatto d'aver Beltram per marito. Laonde, sì come colei che già dal
padre aveva assai cose apprese, fatta sua polvere di certe erbe utili a quella
infermità che avvisava che fosse, montò a cavallo e a Parigi
n'andò. Né prima altro fece che ella s'ingegnò di veder Beltramo;
e appresso nel cospetto del re venuta, di grazia chiese che la sua infermità
gli mostrasse. Il re veggendola bella giovane e avvenente, non gliele seppe
disdire, e mostrogliele. Come costei l'ebbe veduta, così incontanente si
confortò di doverlo guerire, e disse:
- Monsignore, quando vi
piaccia, senza alcuna noia o fatica di voi, io ho speranza in Dio d'avervi in
otto giorni di questa infermità renduto sano.
Il re si fece in sé
medesimo beffe delle parole di costei dicendo: - Quello che i maggiori medici
del mondo non hanno potuto né saputo, una giovane femina come il potrebbe
sapere? - Ringraziolla adunque della sua buona volontà e rispose che
proposto avea seco di più consiglio di medico non seguire.
A cui la giovane disse:
- Monsignore, voi schifate
la mia arte, perché giovane e femina sono; ma io vi ricordo che io non medico
colla mia scienzia, anzi collo aiuto d'lddio e colla scienzia del maestro
Gerardo nerbonese, il quale mio padre fu e famoso medico mentre visse.
Il re allora disse seco: -
Forse m'è costei mandata da Dio; perché non pruovo io ciò che
ella sa fare, poi dice senza noia di me in picciol tempo guerirmi? - E
accordatosi di provarlo, disse:
- Damigella, e se voi non
ci guerite, faccendoci rompere il nostro proponimento, che volete voi che ve ne
segua?
- Monsignore, - rispose la
giovane - fatemi guardare; e se io infra otto giorni non vi guerisco, fatemi
bruciare; ma se io vi guerisco, che merito me ne seguirà?
A cui il re rispose:
- Voi ne parete ancor senza
marito; se ciò farete, noi vi mariteremo bene e altamente.
Al quale la giovane disse:
- Monsignore, veramente mi
piace che voi mi maritiate, ma io voglio un marito tale quale io vi
domanderò, senza dovervi domandare alcun de'vostri figliuoli o della
casa reale.
Il re tantosto le promise
di farlo.
La giovane cominciò
la sua medicina, e in brieve anzi il termine l'ebbe condotto a sanità.
Di che il re, guerito sentendosi, disse:
- Damigella, voi avete ben
guadagnato il marito.
A cui ella rispose:
- Adunque, monsignore, ho
io guadagnato Beltramo di Rossiglione, il quale infino nella mia puerizia io
cominciai ad amare e ho poi sempre sommamente amato.
Gran cosa parve al re
dovergliele dare; ma, poi che promesso l'avea, non volendo della sua fè
mancare, se '1 fece chiamare e sì gli disse:
- Beltramo, voi siete omai
grande e fornito. Noi vogliamo che voi torniate a governare il vostro contado e
con voi ne meniate una damigella, la qual noi v'abbiamo per moglie data.
Disse Beltramo:
- E chi è la
damigella, monsignore?
A cui il re rispose:
- Ella è colei la
qual n'ha con le sue medicine sanità renduta.
Beltramo, il quale la
conosceva e veduta l'avea, quantunque molto bella gli paresse, conoscendo lei
non esser di legnaggio che alla sua nobiltà bene stesse, tutto sdegnoso
disse:
- Monsignore, dunque mi
volete voi dar medica per mogliere? Già a Dio non piaccia che io
sì fatta femina prenda giammai.
A cui il re disse:
- Dunque volete voi che noi
vegniamo meno di nostra fede, la qual noi per riaver sanità donammo alla
damigella, che voi in guiderdon di ciò domandò per marito?
- Monsignore, - disse
Beltramo - voi mi potete torre quant'io tengo, e donarmi, sì come vostro
uomo, a chi vi piace; ma di questo vi rendo sicuro che mai io non sarò
di tal maritaggio contento.
- Sì sarete, - disse
il re - per ciò che la damigella è bella e savia e amavi molto;
per che speriamo che molto più lieta vita con lei avrete che con una
donna di più alto legnaggio non avreste.
Beltramo si tacque, e il re
fece fare l'apparecchio grande per la festa delle nozze. E venuto il giorno a
ciò determinato, quantunque Beltramo mal volentieri il facesse, nella
presenzia del re la damigella sposò, che più che sé l'amava. E
questo fatto, come colui che seco già pensato avea quello che far
dovesse, dicendo che al suo contado tornar si voleva e quivi consumare il
matrimonio, chiese commiato al re; e montato a cavallo, non nel suo contado se
n'andò, ma se ne venne in Toscana. E saputo che i fiorentini
guerreggiavano co'sanesi, ad essere in lor favore si dispose; dove, lietamente
ricevuto e con onore, fatto di certa quantità di gente capitano e da loro
avendo buona provisione, al loro servigio si rimase e fu buon tempo.
La novella sposa, poco
contenta di tal ventura, sperando di doverlo, per suo bene operare, rivocare al
suo contado, se ne venne a Rossiglione, dove da tutti come lor donna fu ricevuta.
Quivi trovando ella, per lo lungo tempo che senza conte stato v'era, ogni cosa
guasta e scapestrata, sì come savia donna, con gran diligenzia e
sollicitudine ogni cosa rimise in ordine; di che i suggetti si contentaron
molto e lei ebbero molto cara e poserle grande amore, forte biasimando il conte
di ciò ch'egli di lei non si contentava.
Avendo la donna tutto
racconcio il paese, per due cavalieri al conte il significò, pregandolo
che, se per lei stesse di non venire al suo contado, gliele significasse, ed
ella per compiacergli si partirebbe. Alli quali esso durissimo disse:
- Di questo faccia ella il
piacer suo; io per me vi tornerò allora ad esser con lei che ella questo
anello avrà in dito, e in braccio figliuol di me acquistato.
Egli aveva l'anello assai
caro, né mai da sé il partiva, per alcuna virtù che stato gli era dato
ad intendere ch'egli avea.
I cavalieri intesero la
dura condizione posta nelle due quasi impossibili cose; e veggendo che per loro
parole dal suo proponimento nol potevan rimovere, si tornarono alla donna e la
sua risposta le raccontarono. La quale, dolorosa molto, dopo lungo pensiero
diliberò di voler sapere se quelle due cose potesser venir fatt'e dove,
acciò che per conseguente il marito suo riavesse. E avendo quello che
far dovesse avvisato, ragunati una parte de'maggiori e de'migliori uomini del
suo contado, loro assai ordinatamente e con pietose parole raccontò
ciò che già fatto avea per amor del conte, e mostrò quello
che di ciò seguiva; e ultimamente disse che sua intenzion non era che
per la sua dimora quivi il conte stesse in perpetuo essilio, anzi intendeva di
consumare il rimanente della sua vita in peregrinaggi e in servigi
misericordiosi per la salute dell'anima sua; e pregogli che la guardia e il
governo del contado prendessero e al conte significassero lei avergli vacua ed
espedita lasciata la possessione, e dileguatasi con intenzione di mai in
Rossiglione non tornare.
Quivi, mentre ella parlava,
furon lagrime sparte assai dai buoni uomini e a lei porti molti prieghi che le
piacesse di mutar consiglio e di rimanere; ma niente montarono. Essa,
accomandati loro a Dio, con un suo cugino e con una sua cameriera in abito di
peregrini, ben forniti a denari e care gioie, senza sapere alcuno ove ella
s'andasse, entrò in cammino, né mai ristette sì fu in Firenze; e
quivi per avventura arrivata in uno alberghetto, il quale una buona donna
vedova teneva, pianamente a guisa di povera peregrina si stava, disiderosa di
sentire novelle del suo signore.
Avvenne adunque che il
seguente dì ella vide davanti allo albergo passare Beltramo a cavallo
con sua compagnia, il quale quantunque ella molto ben conoscesse, nondimeno
domandò la buona donna dello albergo chi egli fosse. A cui
l'albergatrice rispose:
- Questi è un
gentile uom forestiere, il quale si chiama il conte Beltramo, piacevole e
cortese e molto amato in questa città; ed è il più
innamorato uom del mondo d'una nostra vicina, la quale è gentil femina,
ma è povera. Vero è che onestissima giovane è, e per
povertà non si marita ancora, ma con una sua madre, savissima e buona
donna, si sta; e forse, se questa sua madre non fosse, avrebbe ella già
fatto di quello che a questo conte fosse piaciuto.
La contessa, queste parole
intendendo, raccolse bene; e più tritamente essaminando vegnendo ogni
particularità, e bene ogni cosa compresa fermò il suo consiglio;
e apparata la casa e '1 nome della donna e della sua figliuola dal conte amata,
un giorno tacitamente in abito peregrino là se n'andò; e la donna
e la sua figliuola trovate assai poveramente, salutatele, disse alla donna,
quando le piacesse, le volea parlare.
La gentil donna, levatasi,
disse che apparecchiata era d'udirla; ed entratesene sole in una sua camera e
postesi a sedere, cominciò la contessa:
- Madonna, e'mi pare che
voi siate delle nimiche della fortuna, come sono io; ma, dove voi voleste, per
avventura voi potreste voi e me consolare.
La donna rispose che niuna
cosa disiderava quanto di consolarsi onestamente.
Seguì la contessa:
- A me bisogna la vostra
fede, nella quale se io mi rimetto e voi m'ingannaste, voi guastereste i vostri
fatti e i miei.
- Sicuramente, - disse la
gentil donna - ogni cosa che vi piace mi dite, ché mai da me non vi troverete
ingannata.
Allora la contessa,
cominciatasi dar suo primo innamoramento, chi ell'era e ciò che
intervenuto l'era infino a quel giorno le raccontò per sì fatta
maniera, che la gentil donna, dando fede alle sue parole, sì come quella
che già in parte udite l'aveva da altrui, cominciò di lei ad aver
compassione. E la contessa, i suoi casi raccontati, seguì:
- Udite adunque avete tra
l'altre mie noie quali sieno quelle due cose che aver mi convien, se io voglio
avere il mio marito, le quali niuna altra persona conosco che far me le possa
aver, se non voi, se quello è vero che io intendo, cioè che '1
conte mio marito sommamente ami vostra figliuola.
A cui la gentil donna
disse:
- Madonna, se il conte ama
mia figliuola io nol so, ma egli ne fa gran sembianti; ma che poss'io per
ciò in questo adoperare che voi disiderate?
- Madonna, - rispose la
contessa - io il vi dirò; ma primieramente vi voglio mostrar quello che
io voglio che ve ne segua, dove voi mi serviate. Io veggio vostra figliuola
bella e grande da marito, e per quello che io abbia inteso e comprender mi
paia, il non aver ben da maritarla ve la fa guardare in casa. Io intendo che,
in merito del servigio che mi farete, di darle prestamente de'miei denari
quella dote che voi medesima a maritarla onorevolmente stimerete che sia
convenevole.
Alla donna, sì come
bisognosa, piacque la profferta, ma tuttavia, avendo l'animo gentil, disse:
- Madonna, ditemi quello
che io posso per voi operare, e, se egli sarà onesto a me, io il
farò volentieri, e voi appresso farete quello che vi piacerà.
Disse allora la contessa:
- A me bisogna che voi, per
alcuna persona di cui voi vi fidiate, facciate al conte mio marito dire che
vostra figliuola sia presta a fare ogni suo piacere, dove ella possa esser
certa che egli così l'ami come dimostra; il che ella non crederà
mai, se egli non le manda l'anello il quale egli porta in mano e che ella ha
udito ch'egli ama cotanto; il quale se egli '1 vi manda, voi '
Gran cosa parve questa alla
gentil donna, temendo non forse biasimo ne seguisse alla figliuola; ma pur
pensando che onesta cosa era il dare opera che la buona donna riavesse il suo
marito e che essa ad onesto fine a far ciò si mettea, nella sua buona e
onesta affezion confidandosi, non solamente di farlo promise alla contessa, ma
infra pochi giorni con segreta cautela, secondo l'ordine dato da lei, ed ebbe
l'anello (quantunque gravetto paresse al conte) e lei in iscambio della
figliuola a giacer col conte maestrevolmente mise.
Ne'quali primi
congiugnimenti affettuosissimamente dal conte cercati, come fu piacer di Dio,
la donna ingravidò in due figliuoli maschi, come il parto al suo tempo venuto
fece manifesto. Né solamente d'una volta contentò la gentil donna la
contessa degli abbracciamenti del marito, ma molte, sì segretamente
operando, che mai parola non se ne seppe; credendosi sempre il conte non con la
moglie, ma con colei la quale egli amava essere stato. A cui, quando a partir
si venia la mattina, avea parecchi belle e care gioie donate, le quali tutte
diligentemente la contessa guardava.
La quale, sentendosi
gravida, non volle più la gentil donna gravare di tal servigio, ma le
disse:
- Madonna, la Dio mercé e
la vostra, io ho ciò che io disiderava, e per ciò tempo è
che per me si faccia quello che v'aggraderà, acciò che io poi me
ne vada.
La gentil donna le disse
che, se ella aveva cosa che l'aggradisse, che le piaceva; ma che ciò ella
non avea fatto per alcuna speranza di guiderdone, ma perché le pareva doverlo
fare a voler ben fare. A cui la contessa disse:
- Madonna, questo mi piace
bene, e così d'altra parte io non intendo di donarvi quello che voi mi
domanderete per guiderdone, ma per far bene, ché mi pare che si debba
così fare.
La gentil donna allora, da
necessità costretta, con grandissima vergogna cento lire le
domandò per maritar la figliuola. La contessa, cognoscendo la sua
vergogna e udendo la sua cortese domanda, le ne donò cinquecento e tanti
belli e cari gioielli, che valevano per avventura altrettanto; di che la gentil
donna vie più che contenta, quelle grazie che maggiori potè alla
contessa rendè, la quale da lei partitasi se ne tornò allo
albergo.
La gentil donna, per torre
materia a Beltramo di più né mandare né venire a casa sua, insieme con
la figliuola se n'andò in contado a casa di suoi parenti; e Beltramo ivi
a poco tempo da'suoi uomini richiamato, a casa sua, udendo che la contessa
s'era dileguata, se ne tornò.
La contessa, sentendo lui
di Firenze partito e tornato nel suo contado, fu contenta assai, e tanto in
Firenze dimorò che '1 tempo del parto venne, e partorì due
figliuoli maschi simigliantissimi al padre loro, e quegli fe'dilingentemente
nudrire. E quando tempo le parve, in cammino messasi, senza essere da alcuna
persona conosciuta con essi a Monpolier se ne venne; e quivi più giorni
riposata, e del conte e dove fosse avendo spiato, e sentendo lui il dì
d'Ognissanti in Rossiglione dover fare una gran festa di donne e di cavalieri,
pure in forma di peregrina, come usata n'era, là se n'andò.
E sentendo le donne
e'cavaleri nel palagio del conte adunati per dovere andare a tavola, senza
mutare abito, con questi suoi figlioletti in braccio salita in su la sala, tra
uomo e uomo là se n'andò dove il conte vide, e gittataglisi
a'piedi disse piagnendo:
- Signor mio, io sono la
tua sventurata sposa, la quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua,
lungamente andata son tapinando. Io ti richieggo per Dio che le condizioni
postemi per li due cavalieri che io ti mandai, tu le mi osservi; ed ecco nelle
mie braccia non un sol figliuol di te, ma due, ed ecco qui il tuo anello. Tempo
è adunque che io debba da te, sì come moglie esser ricevuta
secondo la tua promessa.
Il conte, udendo questo,
tutto misvenne, e riconobbe l'anello e i figliuoli ancora, sì simili
erano a lui; ma pur disse:
- Come può questo
essere intervenuto?
La contessa, con gran
meraviglia del conte e di tutti gli altri che presenti erano, ordinatamente
ciò che stato era, e come, raccontò. Per la qual cosa il conte,
conoscendo lei dire il vero e veggendo la sua perseveranza e il suo senno e
appresso due così be'figlioletti; e per servar quello che promesso avea
e per compiacere a tutti i suoi uomini e alle donne, che tutti pregavano che
lei come sua ligittima sposa dovesse omai raccogliere e onorare, pose
giù la sua ostinata gravezza e in piè fece levar la contessa, e
lei abbracciò e baciò e per sua ligittima moglie riconobbe, e quegli
per suoi figliuoli. E fattala di vestimenti a lei convenevoli rivestire, con
grandissimo piacere di quanti ve n'erano e di tutti gli altri suoi vassalli che
ciò sentirono, fece, non solamente tutto quel dì ma più
altri grandissima festa; e da quel dì innanzi, lei sempre come sua sposa
e moglie onorando, l'amò e sommamente ebbe cara.
Giornata terza - Novella
decima
Alibech diviene romita, a
cui Rustico monaco insegna rimettere il diavolo in inferno; poi, quindi tolta,
diventa moglie di Neerbale.
Dioneo, che diligentemente
la novella della reina ascoltata avea, sentendo che finita era e che a lui solo
restava il dire, senza comandamento aspettare, sorridendo cominciò a
dire.
Graziose donne, voi non
udiste forse mai dire come il diavolo si rimetta in inferno; e per ciò,
senza partirmi guari dallo effetto che voi tutto questo dì ragionato
avete, io il vi vo'dire; forse ancora ne potrete guadagnare l'anima avendolo
apparato, e potrete anche conoscere che, quantunque Amore i lieti palagi e le
morbide camere più volentieri che le povere capanne abiti, non è
egli per ciò che alcuna volta esso fra'folti boschi e fra le rigide alpi
e nelle diserte spelunche non faccia le sue forze sentire; il perché comprender
si può alla sua potenza essere ogni cosa suggetta.
Adunque, venendo al fatto,
dico che nella città di Capsa in Barberia fu già un ricchissimo
uomo, il quale tra alcuni altri suoi figliuoli aveva una figlioletta bella e
gentilesca, il cui nome fu Alibech. La quale, non essendo cristiana e udendo a
molti cristiani che nella città erano molto commendare la cristiana fede
e il servire a Dio, un dì ne domandò alcuno in che maniera e con
meno impedimento a Dio si potesse servire. Il quale le rispose che coloro
meglio a Dio servivano che più delle cose del mondo fuggivano, come
coloro facevano che nelle solitudini de'diserti di Tebaida andati se n'erano.
La giovane, che
semplicissima era e d'età forse di quattordici anni, non da ordinato
disidero ma da un cotal fanciullesco appetito mossa, senza altro farne ad alcuna
persona sentire, la seguente mattina ad andar verso il diserto di Tebaida
nascosamente tutta sola si mise; e con gran fatica di lei, durando l'appetito,
dopo alcun dì a quelle solitudini pervenne; e veduta di lontano una
casetta, a quella n'andò, dove un santo uomo trovò sopra l'uscio,
il quale, maravigliandosi di quivi vederla, la domandò quello che ella
andasse cercando. La quale rispose, che, spirata da Dio andava cercando
d'essere al suo servigio, e ancora chi le 'nsegnasse come servire gli si conveniva.
Il valente uomo, veggendola
giovane e assai bella, temendo non il demonio, se egli la ritenesse, lo
'ngannasse, le commendò la sua buona disposizione; e dandole alquanto da
mangiare radici d'erbe e pomi salvatichi e datteri e bere acqua, le disse:
- Figliuola mia, non guari
lontan di qui è un santo uomo, il quale di ciò che tu vai
cercando è molto migliore maestro che io non sono; a lui te n'andrai - ;
e misela nella via.
Ed ella, pervenuta a lui e
avute da lui queste medesime parole, andata più avanti, pervenne alla
cella d'uno romito giovane, assai divota persona e buona, il cui nome era
Rustico, e quella dimanda gli fece che agli altri aveva fatta. Il quale, per
volere fare della sua fermezza una gran pruova, non come gli altri la
mandò via o più avanti, ma seco la ritenne nella sua cella; e
venuta la notte, un lettuccio di frondi di palma le fece da una parte e sopra
quello le disse si riposasse.
Questo fatto, non preser
guari d'indugio le tentazioni a dar battaglia alle forze di costui; il quale,
trovandosi di gran lunga ingannato da quelle, senza troppi assalti voltò
le spalle e rendessi per vinto; e lasciati stare dall'una delle parti i pensier
santi e l'orazioni e le discipline, a recarsi per la memoria la giovinezza e la
bellezza di costei 'ncominciò, e oltre a questo a pensar che via e che
modo egli dovesse con lei tenere, acciò che essa non s'accorgesse lui
come uomo dissoluto pervenire a quello che egli di lei disiderava. E tentato
primieramente con certe domande, lei non aver mai uomo conosciuto conobbe e
così essere semplice come parea; per che s'avvisò come, sotto
spezie di servire a Dio, lei dovesse recare a'suoi piaceri. E primieramente con
molte parole le mostrò quanto il diavolo fosse nemico di Domeneddio; e
appresso le diede ad intendere che quello servigio che più si poteva far
grato a Dio si era rimettere il diavolo in inferno, nel quale Domeneddio
l'aveva dannato.
La giovinetta il
domandò, come questo si facesse. Alla quale Rustico disse:
- Tu il saprai tosto, e
perciò farai quello che a me far vedrai - ; e cominciossi a spogliare
quegli pochi vestimenti che aveva, e rimase tutto ignudo, e così ancora
fece la fanciulla, e posesi ginocchione a guisa che adorar volesse e dirimpetto
a sé fece star lei.
E così stando,
essendo Rustico più che mai nel suo disidero acceso per lo vederla
così bella, venne la resurrezion della carne, la quale riguardando
Alibech e maravigliatasi, disse:
- Rustico, quella che cosa
è che io ti veggio che così si pigne in fuori, e non l'ho io?
- O figliuola mia, - disse
Rustico - questo è il diavolo di che io t'ho parlato. E vedi tu? ora
egli mi dà grandissima molestia, tanta che io appena la posso sofferire.
Allora disse la giovane:
- Oh lodato sia Iddio, ché
io veggio che io sto meglio che non stai tu, ché io non ho cotesto diavolo io.
Disse Rustico:
- Tu di'vero, ma tu hai
un'altra cosa che non la ho io, e haila in iscambio di questo.
Disse Alibech: - O che?
A cui Rustico disse:
- Hai il ninferno; e dicoti
che io mi credo che Iddio t'abbia qui mandata per la salute della anima mia,
per ciò che se questo diavolo pur mi darà questa noia, ove tu
vogli aver di me tanta pietà e sofferire che io in inferno il rimetta,
tu mi darai grandissima consolazione e a Dio farai grandissimo piacere e servigio,
se tu per quello fare in queste parti venuta se', che tu di'.
La giovane di buona fede
rispose:
- O padre mio, poscia che
io ho il ninferno, sia pure quando vi piacerà.
Disse allora Rustico:
- Figliuola mia, benedetta
sia tu; andiamo dunque, e rimettiamlovi sì che egli poscia mi lasci
stare.
E così detto, menata
la giovane sopra uno de'loro letticelli, le 'nsegnò come star si dovesse
a dovere incarcerare quel maladetto da Dio.
La giovane, che mai
più non aveva in inferno messo diavolo alcuno, per la prima volta
sentì un poco di noia, per che ella disse a Rustico:
- Per certo, padre mio,
mala cosa dee essere questo diavolo, e veramente nimico di Dio, ché ancora al
ninferno, non che altrui, duole quando egli v'è dentro rimesso.
Disse Rustico:
- Figliuola, egli non
avverrà sempre così.
E per fare che questo non
avvenisse, da sei volte, anzi che di su il letticel si movessero, ve '1
rimisero, tanto che per quella volta gli trasser sì la superbia del
capo, che egli si stette volentieri in pace.
Ma, ritornatagli poi nel
seguente tempo più volte, e la giovane ubbidiente sempre a trargliele si
disponesse, avvenne che il giuoco le cominciò a piacere, e
cominciò a dire a Rustico:
- Ben veggio che il ver
dicevano que'valentuomini in Capsa, che il servire a Dio era così dolce
cosa; e per certo io non mi ricordo che mai alcuna altra ne facessi che di
tanto diletto e piacer mi fosse, quanto è il rimetter il diavolo in
inferno; e per ciò io giudico ogn'altra persona, che ad altro che a
servire a Dio attende, essere una bestia.
Per la qual cosa essa
spesse volte andava a Rustico, e gli dicea:
- Padre mio, io son qui
venuta per servire a Dio e non per istare oziosa; andiamo a rimettere il
diavolo in inferno.
La qual cosa faccendo,
diceva ella alcuna volta:
- Rustico, io non so perché
il diavolo si fugga del ninferno; ché, s'egli vi stesse così volentieri
come il ninferno il riceve e tiene, egli non se ne uscirebbe mai.
Così adunque
invitando spesso la giovane Rustico e al servigio di Dio confortandolo,
sì la bambagia del farsetto tratta gli avea, che egli a tal ora sentiva
freddo che un altro sarebbe sudato; e per ciò egli incominciò a
dire alla giovane che il diavolo non era da gastigare né da rimettere in
inferno se non quando egli per superbia levasse il capo: - E noi per la grazia
di Dio l'abbiamo sì sgannato, che egli priega Iddio di starsi in pace -
; e così alquanto impose di silenzio alla giovane.
La qual, poi che vide che
Rustico più non la richiedeva a dovere il diavolo rimettere in inferno,
gli disse un giorno:
- Rustico, se il diavolo
tuo è gastigato e più non ti dà noia, me il mio ninferno
non lascia stare; per che tu farai bene che tu col tuo diavolo aiuti attutare
la rabbia al mio ninferno, com'io col mio ninferno ho aiutato a trarre la
superbia al tuo diavolo.
Rustico, che di radici
d'erba e d'acqua vivea, poteva male rispondere alle poste; e dissele che troppi
diavoli vorrebbono essere a potere il ninferno attutare, ma che egli ne farebbe
ciò che per lui si potesse; e così alcuna volta le sodisfaceva,
ma sì era di rado, che altro non era che gittare una fava in bocca al
leone; di che la giovane, non parendole tanto servire a Dio quanto voleva,
mormorava anzi che no.
Ma, mentre che tra il
diavolo di Rustico e il ninferno d'Alibech era, per troppo disiderio e per men
potere, questa quistione, avvenne che un fuoco s'apprese in Capsa, il quale
nella propria casa arse il padre d'Alibech con quanti figliuoli e altra
famiglia avea; per la qual cosa Alibech d'ogni suo bene rimase erede. Laonde un
giovane chiamato Neerbale, avendo in cortesia tutte le sue facultà
spese, sentendo costei esser viva, messosi a cercarla e ritrovatala avanti che
la corte i beni stati del padre, sì come d'uomo senza erede morto,
occupasse, con gran piacere di Rustico e contra al volere di lei la
rimenò in Capsa e per moglie la prese, e con lei insieme del gran
patrimonio divenne erede. Ma, essendo ella domandata dalle donne di che nel
diserto servisse a Dio, non essendo ancor Neerbale giaciuto con lei, rispose
che il serviva di rimettere il diavolo in inferno, e che Neerbale aveva fatto
gran peccato d'averla tolta da così fatto servigio.
Le donne domandarono: -
Come si rimette il diavolo in inferno?
La giovane, tra con parole
e con atti, il mostrò loro. Di che esse fecero sì gran risa che
ancor ridono, e dissono:
- Non ti dar malinconia,
figliuola, no, ché egli si fa bene anche qua; Neerbale ne servirà bene
con esso teco Domeneddio.
Poi l'una all'altra per la
città ridicendolo, vi ridussono in volgar motto che il più
piacevol servigio che a Dio si facesse era il rimettere il diavolo in inferno;
il qual motto passato di qua da mare ancora dura.
E per ciò voi,
giovani donne, alle quali la grazia di Dio bisogna, apparate a rimettere il
diavolo in inferno, per ciò che egli è forte a grado a Dio e
piacer delle parti, e molto bene ne può nascere e seguire.
Giornata terza -
Conclusione
Mille fiate o più
aveva la novella di Dioneo a rider mosse l'oneste donne, tali e sì fatte
loro parevan le sue parole. Per che, venuto egli al conchiuder di quella,
conoscendo la reina che il termine della sua signoria era venuto, levatasi la
laurea di capo, quella assai piacevolmente pose sopra la testa a Filostrato, e
disse:
- Tosto ci avvedremo se il
lupo saprà meglio guidare le pecore, che le pecore abbiano i lupi
guidati.
Filostrato, udendo questo,
disse ridendo:
- Se mi fosse stato
creduto, i lupi avrebbono alle pecore insegnato rimettere il diavolo in
inferno, non peggio che Rustico facesse ad Alibech, e perciò non ne
chiamate lupi, dove voi state pecore non siete; tuttavia, secondo che conceduto
mi fia, io reggerò il regno commesso.
A cui Neifile rispose:
- Odi, Filostrato, voi
avreste, volendo a noi insegnare, potuto apparar senno, come apparò
Masetto da Lamporecchio dalle monache e riavere la favella a tale ora che
l'ossa senza maestro avrebbono apparato a sufolare.
Filostrato, conoscendo che
falci si trovavano non meno che egli avesse strali, lasciato stare il
motteggiare, a darsi al governo del regno commesso cominciò. E, fattosi
il siniscalco chiamare, a che punto le cose fossero tutte volle sentire; e
oltre a questo, secondo che avviso che bene stesse e che dovesse sodisfare alla
compagnia, per quanto la sua signoria dovea durare, discretamente ordinò;
e quindi alle donne rivolto, disse:
- Amorose donne, per la mia
disavventura, poscia che io ben da mal conobbi, sempre per la bellezza d'alcuna
di voi stato sono ad Amor suggetto, né l'essere umile né l'essere ubbidiente né
il seguirlo in ciò che per me s'è conosciuto alla seconda in
tutti i suoi costumi, m'è valuto, ch'io prima per altro abbandonato e
poi non sia sempre di male in peggio andato, e così credo che io
andrò di qui alla morte; e per ciò non d'altra materia domane mi
piace che si ragioni se non di quella che a'miei fatti è più
conforme, cioè di coloro li cui amori ebbero infelice fine, per
ciò che io a lungo andar l'aspetto infelicissimo, né per altro il nome,
per lo quale voi mi chiamate, da tale che seppe ben che si dire mi fu imposto -
e così detto, in piè levatosi, per infino all'ora della cena
licenziò ciascuno.
Era sì bello il
giardino e sì dilettevole, che alcuno non vi fu che eleggesse di quello
uscire per più piacere altrove dover sentire. Anzi, non faccendo il sol
già tiepido alcuna noia a seguire, i cavriuoli e i conigli e gli altri
animali che erano per quello e che a lor sedenti forse cento volte per mezzo
lor saltando eran venuti a dar noia, si dierono alcune a seguitare. Dioneo e la
Fiammetta cominciarono a cantare di Messer Guiglielmo e della Dama del
Vergiù; Filomena e Panfilo si diedono a giucare a scacchi; e così
chi una cosa e chi altra faccendo, fuggendosi il tempo, l'ora della cena appena
aspettata sopravvenne; per che, messe le tavole d'intorno alla bella fonte, quivi
con grandissimo diletto cenaron la sera.
Filostrato, per non uscir
del camin tenuto da quelle che reine avanti a lui erano state, come levate
furono le tavole, così comandò che la Lauretta una danza
prendesse e dicesse una canzone. La qual disse:
- Signor mio, delle altrui
canzoni io non so, né delle mie alcuna n'ho alla mente che sia assai
convenevole a così lieta brigata; se voi di quelle che io ho volete, io
ne dirò volentieri.
Alla quale il re disse:
- Niuna tua cosa potrebbe
essere altro che bella e piacevole; e per ciò tale qual tu l'hai, cotale
la di'.
Lauretta allora con voce
assai soave, ma con maniera alquanto pietosa, rispondendo l'altre,
cominciò così :
Niuna sconsolata
da dolersi ha quant'io,
che 'nvan sospiro, lassa!,
innamorata
Colui che muove il cielo e
ogni stella,
mi fece a suo diletto
vaga, leggiadra, graziosa e
bella,
per dar qua giù ad
ogn'alto intelletto
alcun segno di quella
biltà, che sempre a
lui sta nel cospetto:
e il mortal difetto,
come mal conosciuta,
non m'aggradisce, anzi m'ha
dispregiata.
Già fu chi m'ebbe
cara, e volentieri
giovinetta mi prese
nelle sue braccia e dentro
a'suoi pensieri
e de'miei occhi tututto
s'accese;
e '1 tempo, che leggieri
sen vola, tutto in
vagheggiarmi spese;
e io, come cortese,
di me il feci degno;
ma or ne son, dolente a
me!, privata.
Femmisi innanzi poi
presuntuoso
un giovinetto fiero,
sé nobil reputando e
valoroso,
e presa tienmi, e con falso
pensiero
divenuto è geloso;
laond'io, lassa!, quasi mi
dispero,
cognoscendo per vero,
per ben di molti al mondo
venuta, da uno essere
occupata.
Io maladico la mia
isventura,
quando, per mutar vesta,
sì dissi mai;
sì bella nella oscura
mi vidi già e lieta,
dove in questa
io meno vita dura,
vie men che prima reputata
onesta
O dolorosa festa,
morta foss'io avanti
che io t'avessi in tal caso
provata!
O caro amante, del qual
prima fui
più che altra
contenta,
che or nel ciel se'davanti
a Colui
che ne creò, deh
pietoso diventa
di me, che per altrui
te obliar non posso; fa
ch'io senta
che quella fiamma spenta
non sia, che per me t'arse,
e costà su m'impetra
la tornata.
Qui fece fine la Lauretta
alla sua canzone, la quale notata da tutti, diversamente da diversi fu intesa;
ed ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse meglio un
buon porco che una bella tosa. Altri furono di più sublime e migliore e
più vero intelletto, del quale al presente recitare non accade.
Il re, dopo questa, su
l'erba e 'n su'fiori avendo fatti molti doppieri accendere, ne fece più
altre cantare infin che già ogni stella a cader cominciò che
salia. Per che, ora parendogli da dormire, comandò che con la buona
notte ciascuno alla sua camera si tornasse.
Finisce la terza giornata
del Decameron
Incomincia la quarta
giornata nella quale, sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro
li cui amori ebbero infelice fine.
Giornata quarta -
Introduzione
Carissime donne, sì
per le parole de'savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e
vedute e lette, estimava io che lo 'mpetuoso vento e ardente della invidia non
dovesse percuotere se non l'alte torri o le più levate cime degli
alberi; ma io mi truovo dalla mia estimazione ingannato. Per ciò che,
fuggendo io e sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo
rabbioso spirito, non solamente pe'piani, ma ancora per le profondissime valli
tacito e nascoso mi sono ingegnato d'andare. Il che assai manifesto può
apparire a chi le presenti novellette riguarda, le quali, non solamente in
fiorentin volgare e in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in
istilo umilissimo e rimesso quanto il più possono. Né per tutto
ciò l'essere da cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che
diradicato e tutto da'morsi della invidia esser lacerato, non ho potuto
cessare. Per che assai manifestamente posso comprendere quel lo esser vero che
sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose
presenti.
Sono adunque, discrete
donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi
piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di
piacervi e di consolarvi, e alcuni han detto peggio, di commendarvi, come io
fo. Altri, più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla
mia età non sta bene l'andare omai dietro a queste cose, cioè a
ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama
mostrandosi, dicono che io farei più saviamente a starmi con le Muse in
Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi.
E son di quegli ancora che,
più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei
più discretamente a pensare dond'io dovessi aver del pane che dietro a
queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri in altra guisa essere
state le cose da me raccontate che come io le vi porgo, s'ingegnano, in
detrimento della mia fatica, di dimostrare.
Adunque da cotanti e da
così fatti soffiamenti, da così atroci denti, da così
aguti, valorose donne, mentre io ne'vostri servigi milito, sono sospinto,
molestato e infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con piacevole animo,
sallo Iddio, ascolto e intendo; e quantunque a voi in ciò tutta
appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze;
anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggiera risposta
tormegli dagli orecchi, e questo far senza indugio. Per ciò che, se
già, non essendo io ancora al terzo della lo mia fatica venuto, essi
sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine
essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna
repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in fondo, né a
ciò, quantunque elle sien grandi, resistere varrebbero le forze vostre.
Ma avanti che io venga a
far la risposta ad alcuno, mi piace in favor di me raccontare non una novella
intera (acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di
così laudevole compagnia, qual fu quella che dimostrata v'ho,
mescolare), ma parte d'una, acciò che il suo difetto stesso sè
mostri non esser di quelle; e a'miei assalitori favellando, dico che nella
nostra città, già è buon tempo passato, fu un cittadino,
il qual fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggiere, ma
ricco e bene inviato ed esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea; e
aveva una sua donna moglie, la quale egli sommamente amava, ed ella lui, e
insieme in riposata vita si stavano, a niun'altra cosa tanto studio ponendo
quanto in piacere interamente l'uno all'altro.
Ora avvenne, sì come
di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di
sè a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il
quale forse d'età di due anni era.
Costui per la morte della
sua donna tanto sconsolato rimase, quanto mai alcuno altro amata cosa perdendo
rimanesse. E veggendosi di quella compagnia la quale egli più amava
rimaso solo, del tutto si dispose di non volere più essere al mondo, ma
di darsi al servigio di Dio, e il simigliante fare del suo piccol figliuolo.
Per che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n'andò sopra Monte
Asinaio, e quivi in una piccola celletta si mise col suo figliuolo, col quale
di limosine in digiuni e in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non
ragionare là dove egli fosse d'alcuna temporal cosa né di lasciarnegli
alcuna vedere, acciò che esse da così fatto servigio nol
traessero, ma sempre della gloria di vita etterna e di Dio e de'santi gli
ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandoli; e in questa vita molti
anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire, né alcuna altra cosa che
sè dimostrandogli.
Era usato il valente uomo
di venire alcuna volta a Firenze, e quivi secondo le sue opportunità
dagli amici di Dio sovvenuto, alla sua cella tornava.
Ora avvenne che, essendo
già il garzone d'età di diciotto anni e Filippo vecchio, un
dì il domandò ov'egli andava. Filippo gliele disse. Al quale il
garzon disse:
- Padre mio, voi siete
oggimai vecchio e potete male durare fatica; perché non mi menate voi una volta
a Firenze, acciò che, faccendomi cognoscere gli amici e divoti di Dio e
vostri, io che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa poscia
pe'nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerà, e voi rimanervi
qui?
Il valente uomo, pensando
che già questo suo figliuolo era grande, ed era sì abituato al
servigio di Dio che malagevolmente le cose del mondo a sè il dovrebbono
omai poter trarre, seco stesso disse: - Costui dice bene - Per che, avendovi ad
andare, seco il menò.
Quivi il giovane veggendo i
palagi, le case, le chiese e tutte l'altre cose delle quali tutta la
città piena si vede, sì come colui che mai più per
ricordanza vedute non n'avea, si cominciò forte a maravigliare, e di
molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero.
Il padre gliele diceva; ed
egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava d'una altra. E così
domandando il figliuolo e il padre rispondendo, per avventura si scontrarono in
una brigata di belle giovani donne e ornate, che da un paio di nozze venieno;
le quali come il giovane vide, così domandò il padre che cosa
quelle fossero.
A cui il padre disse:
- Figliuol mio, bassa gli
occhi in terra, non le guatare, ch'elle son mala cosa.
Disse allora il figliuolo:
- O come si chiamano?
Il padre, per non destare
nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disiderio men che
utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè femine, ma disse:
- Elle si chiamano papere.
Maravigliosa cosa a udire!
Colui che mai più alcuna veduta non n'avea, non curatosi de'palagi, non
del bue, non del cavallo, non dell'asino, non de'danari né d'altra cosa che
veduta avesse, subitamente disse:
- Padre mio, io vi priego
che voi facciate che io abbia una di quelle papere.
- Ohimè, figliuol
mio,- disse il padre - taci: elle son mala cosa.
A cui il giovane domandando
disse:
- O son così fatte
le male cose?
- Sì - disse il
padre.
Ed egli allora disse:
- Io non so che voi vi
dite, né perché queste siano mala cosa; quanto è a me, non m'è
ancora paruta vedere alcuna così bella né così piacevole, come
queste sono. Elle son più belle che gli agnoli dipinti che voi m'avete
più volte mostrati. Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una
colà su di queste papere, e io le darò beccare.
Disse il padre:
- Io non voglio; tu non sai
donde elle s'imbeccano -: e sentì incontanente più aver di forza
la natura che il suo ingegno; e pentessi d'averlo menato a Firenze.
Ma avere infino a qui detto
della presente novella voglio che mi basti, e a coloro rivolgermi alli quali
l'ho raccontata.
Dicono adunque alquanti de'miei
riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e
che voi troppo piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso,
cioè che voi mi piacete e che io m'ingegno di piacere a voi; e
domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare
l'aver conosciuti gli amorosi baciari e i piacevoli abbracciari e i
congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime donne, sovente si prendono;
ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga
bellezza e l'ornata leggiadria e oltre a ciò la vostra donnesca
onestà, quando colui che nutrito, allevato, accresciuto sopra un monte
salvatico e solitario, infra li termini di una piccola cella, senza altra
compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole
addomandate, sole con l'affezion seguitate.
Riprenderannomi,
morderannomi, lacerrannomi costoro se io, il corpo del quale il ciel produsse
tutto atto ad amarvi, e io dalla mia puerizia l'anima vi disposi sentendo la
virtù della luce degli occhi vostri, la soavità delle parole
melliflue e la fiamma accesa da'pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di
piacervi m'ingegno, e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste
ad un romitello, ad un giovinetto senza sentimento, anzi ad uno animal
salvatico? Per certo chi non v'ama, e da voi non disidera d'essere amato,
sì come persona che i piaceri né la virtù della naturale
affezione né sente né conosce, così mi ripiglia, e io poco me ne curo.
E quegli che contro alla mia
età parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia
il capo bianco, che la coda sia verde. A'quali lasciando stare il motteggiare
dall'un de'lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino
nello estremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido
Cavalcanti e Dante Alighieri già vecchi, e messer Cino da Pistoia
vecchissimo, onor si tennono e fu lor caro il piacer loro. E se non fosse che
uscir sarebbe del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo,
e quelle tutte piene mosterrei d'antichi uomini e valorosi, ne'loro più
maturi anni sommamente avere studiato di compiacere alle donne: il che se essi
non sanno, vadino e sì l'apparino.
Che io con le Muse in
Parnaso mi debbia stare, affermo che è buon consiglio, ma tuttavia né
noi possiam dimorare con le Muse né esse con esso noi; se quando avviene che
l'uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non
è cosa da biasimare. Le Muse son donne, e benché le donne quello che le
Muse vagliono non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di
quelle; sì che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi
dovrebber piacere. Senza che le donne già mi fur cagione di comporre
mille versi, dove le Muse mai non mi furon di farne alcun cagione. Aiutaronmi
elle bene e mostraronmi comporre que'mille; e forse a queste cose scrivere,
quantunque sieno umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco,
in servigio forse e in onore della simiglianza che le donne hanno ad esse; per
che, queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano,
quanto molti per avventura s'avvisano.
Ma che direm noi a coloro
che della mia fame hanno tanta compassione che mi consigliano che io procuri
del pane? Certo io non so; se non che, volendo meco pensare qual sarebbe la
loro risposta se io per bisogno loro ne dimandassi, m'avviso che direbbono: -
Va cercane tra le favole - . E già più ne trovarono tra le lor
favole i poeti, che molti ricchi tra'lor tesori. E assai già, dietro
alle lor favole andando, fecero la loro età fiorire, dove in contrario
molti nel cercar d'aver più pane che bisogno non era loro, perirono
acerbi. Che più? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro; non
che, la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e, quando pur sopravenisse il
bisogno, io so, secondo l'Apostolo, abbondare e necessità sofferire; e
per ciò a niun caglia più di me che a me.
Quegli che queste cose
così non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli
originali, li quali, se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi
la loro riprensione e d'amendar me stesso m'ingegnerei; ma infino che altro che
parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando
la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono.
E volendo per questa volta
assai aver risposto, dico che dallo aiuto di Dio e dal vostro, gentilissime
donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso
procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiare;
per ciò che io non veggio che di me altro possa avvenire, che quello che
della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la
muove, o se la muove, la porta in alto, e spesse volte sopra le teste degli
uomini, sopra le corone dei re e degli imperadori, e talvolta sopra gli alti
palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, più
giù andar non può che il luogo onde levata fu.
E se mai con tutta la mia
forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora più che mai mi
vi disporrò; per ciò che io conosco che altra cosa dir non
potrà alcuna con ragione, se non che gli altri e io, che vi amiamo,
naturalmente operiamo. Alle cui leggi, cioè della natura, voler contastare,
troppe gran forze bisognano, e spesse volte non solamente in vano ma con
grandissimo danno del faticante s'adoperano.
Le quali forze io confesso
che io non l'ho né d'averle disidero in questo; e se io l'avessi, più
tosto ad altrui le presterrei che io per me l'adoperassi. Per che tacciansi i
morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano, e ne lori
diletti, anzi appetiti corrotti standosi, me nel mio, questa brieve vita che
posta n'è, lascino stare.
Ma da ritornare è,.
per ciò che assai vagati siamo, o belle donne, là onde ci
dipartimmo, e l'ordine cominciato seguire.
Cacciata aveva il sole del
cielo già ogni stella e della terra l'umida ombra della notte, quando
Filostrato, levatosi, tutta la sua brigata fece levare; e nel bel giardino
andatisene, quivi s'incominciarono a diportare; e l'ora del mangiar venuta,
quivi desinarono dove la passata sera cenato aveano. E da dormire, essendo il
sole nella sua maggior sommità, levati, nella maniera usata vicini alla
bella fonte si posero a sedere. Là dove Filostrato alla Fiammetta
comandò che principio desse alle novelle; la quale, senza più
aspettare che detto le fosse, donnescamente così cominciò.
Giornata quarta - Novella
prima
Tancredi prenze di Salerno
uccide l'amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d'oro; la
quale, messa sopr'esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore.
Fiera materia di ragionare
n'ha oggi il nostro re data, pensando che, dove per rallegrarci venuti siamo,
ci convenga raccontare l'altrui lagrime, le quali dir non si possono, che chi
le dice e chi l'ode non abbia compassione. Forse per temperare alquanto la
letizia avuta li giorni passati l'ha fatto; ma, che che se l'abbia mosso, poi
che a me non si conviene di mutare il suo piacere, un pietoso accidente, anzi
sventurato e degno delle nostre lagrime, racconterò.
Tancredi principe di
Salerno fu signore assai umano e di benigno ingegno; se egli nello amoroso
sangue nella sua vecchiezza non s'avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo
spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe
stato se quella avuta non avesse.
Costei fu dal padre tanto
teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai; e per
questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l'età del dovere
avere avuto marito, non sappiendola da sè partire, non la maritava; poi
alla fine ad un figliuolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con
lui, rimase vedova e al padre tornossi. Era costei bellissima del corpo e del
viso quanto alcun'altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia
più che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero
padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il
padre, per l'amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla,
né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere,
se esser potesse, occultamente un valoroso amante.
E veggendo molti uomini
nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle
corti, e considerate le maniere e i costumi di molti, tra gli altri un giovane
valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma
per virtù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di
lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s'accese, ogn'ora più
lodando i modi suoi. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto,
essendosi di lei accorto, l'aveva per sì fatta maniera nel cuore
ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa.
In cotal guisa adunque
amando l'un l'altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane
quanto di ritrovarsi con lui, né volendosi di questo amore in alcuna persona
fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia.
Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente
avesse per esser con lei gli mostrò; e poi quella messa in un bucciuol
di canna, sollazzando la diede a Guiscardo, dicendo:
- Fara'ne questa sera un
soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco.
Guiscardo il prese, e
avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato e così detto,
partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa, e guardando la canna e
quella veggendo fessa, l'aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala,
e ben compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che
fosse giammai, e diedesi a dare opera di dovere a lei andare, secondo il modo
da lei dimostratogli.
Era allato al palagio del
prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti fatta, nella
qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte, il
quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe
di sopra natevi era riturato; e in questa grotta per una segreta scala, la
quale era in una delle camere terrene del palagio, la quale la donna teneva, si
poteva andare, come che da un fortissimo uscio serrata fosse. Ed era sì
fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi
tempi davanti usata non s'era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava;
ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non
pervenga, l'aveva nella memoria tornata alla innamorata donna.
La quale, acciò che
niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni
penato avea, anzi che venir fatto le potesse d'aprir quell'uscio; il quale
aperto, e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a
Guiscardo mandato a dire che di venire s'ingegnasse, avendogli disegnata
l'altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire
Guiscardo, prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere
scendere e salire per essa, e sè vestito d'un cuoio che da'pruni il
difendesse, senza farne alcuna cosa sentire ad alcuno, la seguente notte allo
spiraglio n'andò, e accomandato ben l'uno de'capi della fune ad un forte
bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quello si collò
nella grotta ed attese la donna.
La quale il seguente
dì, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e
sola serratasi nella camera, aperto l'uscio, nella grotta discese, dove trovato
Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme
venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono; e,
dato discreto ordine alli loro amori acciò che segreti fossero,
tornatosi nella grotta Guiscardo ed ella serrato l'uscio, alle sue damigelle se
ne venne fuori.
Guiscardo poi, la notte
vegnente su per la sua fune salendo, per lo spiraglio donde era entrato se
n'uscì fuori e tornossi a casa. E avendo questo cammino appreso,
più volte poi in processo di tempo vi ritornò.
Ma la fortuna, invidiosa di
così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la
letizia dei due amanti rivolse in tristo pianto.
Era usato Tancredi di
venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi con lei
dimorarsi e ragionare alquanto, e poi partirsi. Il quale un giorno dietro
mangiare laggiù venutone essendo la donna, la quale Ghismonda aveva
nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella, senza essere
stato da alcuno veduto o sentito, entratosene, non volendo lei torre dal suo
diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto
abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a
sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sè la cortina quasi
come se studiosamente si fosse nascoso quivi, s'addormentò.
E così dormendo
egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo,
lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se n'entrò nella
camera, e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto
l'uscio a Guiscardo che l'attendeva e andatisene in su 'l letto, sì come
usati erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si
svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola
facevano; e dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi
prese partito di tacersi e di starsi nascoso, se egli potesse, per potere
più cautamente fare e con minore sua vergogna quello che già gli
era caduto nell'animo di dover fare.
I due amanti stettero per
lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi;
e quando tempo lor parve, discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella
grotta ed ella s'uscì della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio
fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino, e senza essere da
alcuno veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò.
E per ordine da lui dato,
all'uscir dello spiraglio la seguente notte in su 'l primo sonno, Guiscardo,
così come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due, e
segretamente a Tancredi menato. Il quale, come il vide, quasi piagnendo disse:
- Guiscardo, la mia
benignità verso te non avea meritato l'oltraggio e la vergogna la quale
nelle mie cose fatta m'hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei.
Al quale Guiscardo niuna
altra cosa disse se non questo:
- Amor può troppo
più che né voi né io possiamo.
Comandò adunque
Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato
fosse, e così fu fatto.
Venuto il dì
seguente, non sappiendo Ghismonda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi
varie e diverse novità pensate, appresso mangiare, secondo la sua
usanza, nella camera n'andò della figliuola, dove fattalasi chiamare e
serratosi dentro con lei, piagnendo le cominciò a dire:
- Ghismonda, parendomi
conoscere la tua virtù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto
cader nell'animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co'miei occhi non lo
avessi veduto, che tu di sottoporti ad alcuno uomo, se tuo marito stato non
fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io in questo poco di
rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba sempre sarò dolente, di
ciò ricordandomi.
E or volesse Iddio che, poi
che a tanta disonestà conducere ti dovevi avessi preso uomo che alla tua
nobiltà decevole fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n'usano,
eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi
come per Dio da picciol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu
in grandissimo affanno d'animo messo m'hai, non sappiendo io che partito di te
mi pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello
spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito che
farne; ma di te, sallo Iddio che io non so che farmi. Dall'una parte mi trae
l'amore, il quale io t'ho sempre più portato che alcun padre portasse a
figliuola, e d'altra mi trae giustissimo sdegno, preso per la tua gran follia;
quegli vuole che io ti perdoni, e questi vuole che contro a mia natura in te incrudelisca;
ma prima che io partito prenda, disidero d'udire quello che tu a questo dei
dire.- E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come
farebbe un fanciul ben battuto.
Ghismonda, udendo il padre
e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto, ma ancora
esser preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì, e a mostrarlo con
romore e con lagrime, come il più le femine fanno, fu assai volte
vicina; ma pur, questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo
con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego
per sè porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando
già esser morto il suo Guiscardo.
Per che, non come dolente
femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con asciutto
viso e aperto e da niuna parte turbato, così al padre disse:
- Tancredi, né a negare né
a pregare son disposta, per ciò che né l'un mi varrebbe né l'altro
voglio che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi
benivola la tua mansuetudine e 'l tuo amore; ma, il ver confessando, prima con
vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la
grandezza dello animo mio. Egli è il vero che io ho amato e amo
Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l'amerò; e
se appresso la morte s'ama, non mi rimarrò d'amarlo; ma a questo non mi
indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca
sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui.
Esser ti dovea, Tancredi,
manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di
pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sia vecchio,
chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza; e, come che
tu uomo in parte ne'tuoi migliori anni nell'armi esercitato ti sii, non dovevi
di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne'vecchi non che
ne'giovani.
Sono adunque, sì
come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane;
e per l'una cosa e per l'altra piena di concupiscibile disidero, al quale
maravigliosissime forze hanno date l'aver già, per essere stata
maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar
compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che
elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora'mi. E
certo in questo opposi ogni mia virtù di non volere né a te né a me di
quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare,
vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna Fortuna assai occulta
via m'avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a'miei
disideri perveniva; e questo, chi che ti se l'abbi mostrato o come che tu il
sappi, io nol nego.
Guiscardo non per accidente
tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi ad
ogn'altro, e con avveduto pensiero a me lo'ntrodussi, e con savia perseveranza
di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre
allo amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare oppinione che la
verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo
(quasi turbato esser non ti dovessi, se io nobile uomo avessi a questo eletto)
che io con uom di bassa condizione mi son posta. In che non ti accorgi che non
il mio peccato ma quello della Fortuna riprendi, la quale assai sovente li non
degni ad alto leva, a basso lasciando i dignissimi.
Ma lasciamo or questo, e
riguarda alquanto a'principii delle cose: tu vedrai noi d'una massa di carne
tutti la carne avere, e da uno medesimo creatore tutte l'anime con iguali
forze, con iguali potenzie, con iguali virtù create. La virtù
primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli
che di lei maggior parte avevano e adoperavano nobili furon detti, e il
rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza poi abbia questa legge
nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da'buon
costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera apertamente si mostra
gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui
che chiama, commette difetto.
Raguarda tra tutti i tuoi
nobili uomini ed esamina la lor virtù, i lor costumi e le loro maniere,
e d'altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza
animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti
esser villani. Delle virtù e del valore di Guiscardo io non credetti al
giudicio d'alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de'miei occhi.
Chi il commendò mai tanto, quanto tu 'l commendavi in tutte quelle cose
laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato? E certo non a torto; ché se
i miei occhi non m'ingannarono, niuna laude da te data gli fu, che io lui
operarla, e più mirabilmente che le tue parole non potevano esprimere,
non vedessi; e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei
stata ingannata.
Dirai dunque che io con
uomo di bassa condizione mi sia posta? Tu non dirai il vero; ma per avventura,
se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, che
così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma
la povertà non toglie gentilezza ad alcuno, ma sì avere. Molti
re, molti gran principi furon già poveri; e molti di quegli che la terra
zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne.
L'ultimo dubbio che tu
movevi, cioè che di me far ti dovessi, caccial del tutto via. Se tu
nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè
ad incrudelir, se'disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale ad alcun
priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo
peccato, se peccato è; per ciò che io t'accerto che quello che di
Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani
medesime il faranno.
Or via, va con le femine a
spander le tue lagrime, e incrudelendo con un medesimo colpo altrui e me, se
così ti par che meritato abbiamo, uccidi.
Conobbe il prenze la
grandezza dell'animo della sua figliuola; ma non credette per ciò in
tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano,
come diceva. Per che, da lei partitosi e da sè rimosso di volere in
alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni
raffreddare il suo fervente amore, e comandò a'due che Guiscardo
guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono, e,
trattogli il cuore, a lui il recassero; li quali, così come loro era
stato comandato, così operarono.
Laonde, venuto il dì
seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d'oro e messo in
quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò
alla figliuola e imposegli che, quando gliele desse, dicesse: - Il tuo padre ti
manda questo, per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai
lui consolato di ciò che egli più amava -.
Ghismonda, non smossa dal
suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito
fu il padre, quelle stillò e in acqua ridusse, per presta averla se
quello di che elle temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col
presente e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese, e quella scoperchiata,
come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello
essere il cuor di Guiscardo.
Per che, levato il viso
verso il famigliare, disse:
- Non si conveniva
sepoltura men degna che d'oro a così fatto cuore chente questo è;
discretamente in ciò ha il mio padre adoperato.
E così detto,
appressatoselo alla bocca, il baciò, e poi disse:
- In ogni cosa sempre e
infino a questo estremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio
padre l'amore, ma ora più che giammai; e per ciò l'ultime grazie,
le quali render gli debbo giammai, di così gran presente da mia parte
gli renderai.
Questo detto, rivolta sopra
la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse:
- Ahi! dolcissimo albergo
di tutti i miei piaceri, mala detta sia la crudeltà di colui che con gli
occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m'era con quegli della mente
riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la
fortuna tel concedette ti se'spacciato; venuto se'alla fine alla qual ciascun
corre; lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche, e dal tuo nemico
medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti
mancava ad aver compiute esequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo
cotanto amasti; le quali acciò che tu l'avessi, pose Iddio nel l'animo
al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che
di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto
avessi; e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà
con quella, adoperandol tu, che tu già cotanto cara guardasti. E con
qual compagnia ne potre'io andar più contenta o meglio si cura ai luoghi
non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro e
riguarda i luoghi de'suoi diletti e de'miei; e come colei che ancor son certa
che m'ama, aspetta la mia, dalla quale sommamente è amata.
E così detto, non
altramenti che se una fonte d'acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun
feminil romore, sopra la coppa chinatasi, piagnendo cominciò a versare
tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, baciando infinite volte
il morto cuore.
Le sue damigelle, che
dattorno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dire le parole di
lei non intendevano; ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente
della cagion del suo pianto domandavano invano, e molto più, come meglio
sapevano e potevano, s'ingegnavano di confortarla.
La qual, poi che quanto le
parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttosi gli occhi, disse:
- O molto amato cuore, ogni
mio uficio verso te è fornito; né più altro mi resta a fare se
non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia
E questo detto, si fe'dare
l'orcioletto nel quale era l'acqua che il dì avanti aveva fatta, la qual
mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato, e senza
alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve, e bevutala, con la coppa in mano
se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe
compose il corpo suo sopra quello, e al suo cuore accostò quello del
morto amante, e senza dire alcuna cosa aspettava la morte.
Le damigelle sue, avendo
queste cose e vedute e udite, come che esse non sapessero che acqua quella
fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandata a dire; il
quale, temendo di quello che sopravvenne, presto nella camera scese della
figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose;
e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo i termini ne'quali
era, cominciò dolorosamente a piagnere.
Al quale la donna disse:
- Tancredi, serbati coteste
lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le
disidero. Chi vide mai alcuno, altro che te, piagnere di quello che egli ha
voluto? Ma pure, se niente di quello amore che già mi portasti ancora in
te vive, per ultimo dono mi concedi che, poi che a grado non ti fu che io
tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che 'l mio corpo col suo, dove
che tu te l'abbi fatto gittar morto, palese stea.
L'angoscia del pianto non
lasciò rispondere al prenze. Laonde la giovane, al suo fine esser venuta
sentendosi strignendosi al petto il morto cuore, disse:
- Rimanete con Dio, ché io
mi parto.
E velati gli occhi, e ogni
senso perduto, di questa dolente vita si dipartì.
Così doloroso fine
ebbe l'amor di Guiscardo e di Ghismonda, come udito avete; li quali Tancredi
dopo molto pianto, e tardi pentuto della sua crudeltà, con general
dolore di tutti i salernetani, onorevolmente amenduni in un medesimo sepolcro
gli fe'sepellire.
Giornata quarta - Novella
seconda
Frate Alberto dà a
vedere ad una donna che l'Agnolo Gabriello è di lei innamorato, in forma
del quale più volte si giace con lei; poi, per paura de'parenti di lei
della casa gittatosi, in casa d'uno povero uomo ricovera, il quale in forma
d'uomo salvatico il dì seguente nella piazza il mena, dove,
riconosciuto, è da'suoi frati preso e incarcerato.
Aveva la novella dalla
Fiammetta raccontata le lagrime più volte tirate insino in su gli occhi
alle sue compagne, ma quella già essendo compiuta, il re con rigido viso
disse:
- Poco prezzo mi parrebbe
la vita mia a dover dare per la metà diletto di quello che con Guiscardo
ebbe Ghismonda, né se ne dee di voi maravigliare alcuna, con ciò sia
cosa che io, vivendo, ogni ora mille morti sento, né per tutte quelle una sola
particella di diletto m'è data. Ma, lasciando al presente li miei fatti
ne'loro termini stare, voglio che ne'fieri ragionamenti, e a'miei accidenti in
parte simili, Pampinea ragionando seguisca; la quale se, come Fiammetta ha
cominciato, andrà appresso, senza dubbio alcuna rugiada cadere sopra il
mio fuoco comincerò a sentire.
Pampinea, a sé sentendo il
comandamento venuto, più per la sua affezione cognobbe l'animo delle
compagne che quello del re per le sue parole, e per ciò, più
disposta a dovere al quanto recrear loro che a dovere, fuori che del comandamento
solo, il re contentare, a dire una novella, senza uscir del proposto, da ridere
si dispose, e cominciò.
Usano i volgari un
così fatto proverbio: - Chi è reo e buono è tenuto,
può fare il male e non è creduto -. Il quale ampia materia a
ciò che m'è stato proposto mi presta di favellare, e ancora a
dimostrare quanta e quale sia la ipocresia de'religiosi, li quali, co'panni
larghi e lunghi e co'visi artificialmente pallidi e con le voci umili e
mansuete nel domandar l'altrui, e altissime e rubeste in mordere negli altri li
loro medesimi vizi e nel mostrare sé per torre e altri per lor donare venire a
salvazione, e oltre a ciò, non come uomini che il paradiso abbiano a
procacciare come noi, ma quasi come possessori e signori di quello, danti a
ciaschedun che muore, secondo la quantità de'danari loro lasciata da
lui, più e meno eccellente luogo, con questo prima sé medesimi, se
così credono, e poscia coloro che in ciò alle loro parole dan
fede, sforzansi d'ingannare. De'quali, se quanto si convenisse fosse licito a
me di mostrare, tosto dichiarerei a molti semplici quello che nelle lor cappe
larghissime tengon nascoso. Ma ora fosse piacer di Dio che così delle
lor bugie a tutti intervenisse, come ad un frate minore, non miga giovane, ma
di quelli che de'maggior ch'ha Ascesi era tenuto a Vinegia; del quale
sommamente mi piace di raccontare, per alquanto gli animi vostri, pieni di
compassione per la morte di Ghismonda, forse con risa e con piacere rilevare.
Fu adunque, valorose donne,
in Imola uno uomo di scelerata vita e di corrotta, il qual fu chiamato Berto
della Massa; le cui vituperose opere molto dagli imolesi conosciute a tanto il
recarono che, non che la bugia, ma la verità non era in Imola chi gli
credesse; per che, accorgendosi quivi più le sue gherminelle non aver
luogo, come disperato, a Vinegia d'ogni bruttura ricevitrice si
trasmutò, e quivi pensò di trovare altra maniera al suo malvagio
adoperare che fatto non avea in altra parte. E, quasi da conscienzia rimorso
delle malvagie opere nel preterito fatte da lui, da somma umiltà
soprapreso mostrando si, e oltre ad ogni altro uomo divenuto catolico,
andò e sì si fece frate minore, e fecesi chiamare frate Alberto
da Imola; e in tale abito cominciò a far per sembianti una aspra vita e
a commendar molto la penitenzia e l'astinenzia, né mai carne mangiava né bevea
vino, quando non n'avea che gli piacesse.
Né se ne fu appena avveduto
alcuno, che di ladrone, di ruffiano, di falsario, d'omicida, subitamente fu un
gran predicatore divenuto, senza aver per ciò i predetti vizi
abbandonati, quando nascosamente gli avesse potuti mettere in opera. E oltre a
ciò fattosi prete, sempre all'altare, quando celebrava, se da molti
veduto era, piagneva la passione del Salvatore, sì come colui al quale
poco costavano le lagrime quando le volea.
E in brieve, tra colle sue
prediche e le sue lagrime, egli seppe in sì fatta guisa li viniziani
adescare, che egli quasi d'ogni testamento che vi si faceva era fedecommessario
e dipositario, e guardatore di denari di molti, confessore e consigliatore quasi
della maggior parte degli uomini e delle donne; e così faccendo, di lupo
era divenuto pastore, ed era la sua fama di santità in quelle parti
troppo maggior che mai non fu di san Francesco ad Ascesi.
Ora avvenne che una giovane
donna bamba e sciocca, che chiamata fu madonna Lisetta da ca'Quirino, moglie
d'un gran mercatante che era andato con le galee in Fiandra, s'andò con
altre donne a confessar da questo santo frate. La quale essendogli a'piedi,
sì come colei che viniziana era, ed essi son tutti bergoli, avendo parte
detta de'fatti suoi, fu da frate Alberto addomandata se alcuno amadore avesse.
Al quale ella con un mal
viso rispose:
- Deh, messere lo frate,
non avete voi occhi in capo? Paionvi le mie bellezze fatte come quelle di
queste altre? Troppi n'avrei degli amadori, se io ne volessi; ma non sono le
mie bellezze da lasciare amare né da tale né da quale. Quante ce ne vedete voi,
le cui bellezze sien fatte come le mie, che sarei bella nel paradiso?
E oltre a ciò, disse
tante cose di questa sua bellezza, che fu un fastidio ad udire.
Frate Alberto conobbe
incontanente che costei sentia dello scemo e, parendogli terreno da'ferri suoi,
di lei subitamente e oltre modo s'innamorò; ma, riserbandosi in
più comodo tempo le lusinghe, pur, per mostrarsi santo, quella volta
cominciò a volerla riprendere e a dirle che questa era vanagloria, e
altre sue novelle; per che la donna gli disse che egli era una bestia e che
egli non conosceva che si fosse più una bellezza che un'altra. Per che
frate Alberto, non volendola troppo turbare, fattale la confessione, la
lasciò andar via con l'altre.
E stato alquanti dì,
preso un suo fido compagno, n'andò a casa madonna Lisetta, e trattosi da
una parte in una sala con lei e non potendo da altri esser veduto, le si
gittò davanti ginocchione e disse:
- Madonna, io vi priego per
Dio che voi mi perdoniate di ciò che io domenica, ragionandomi voi della
vostra bellezza, vi dissi, per ciò che sì fieramente la notte
seguente gastigato ne fui, che mai poscia da giacere non mi son potuto levar se
non oggi.
Disse allora donna Mestola:
- E chi ve ne
gastigò così?
Disse frate Alberto:
- Io il vi dirò.
Standomi io la notte in orazione, sì come io soglio star sempre, io vidi
subitamente nella mia cella un grande splendore, né prima mi pote'volgere per
veder che ciò fosse, che io mi vidi sopra un giovane bellissimo con un
grosso bastone in mano, il quale, presomi per la cappa e tiratomisi
a'piè, tante mi diè che tutto mi ruppe. Il quale io appresso
domandai perché ciò fatto avesse, ed egli rispose: - Per ciò che
tu presummesti oggi di riprendere le celestiali bellezze di madonna Lisetta, la
quale io amo, da Dio in fuori, sopra ogni altra cosa -. E io allora domandai: -
Chi siete voi? - A cui egli rispose che era l'agnolo Gabriello. - O signor mio
-, dissi io - io vi priego che voi mi perdoniate -. E egli allora disse :- E io
ti perdono per tal convenente, che tu a lei vada come tu prima potrai, e
facciti perdonare; e dove ella non ti perdoni, io ci tornerò e darottene
tante che io ti farò tristo per tutto il tempo che tu ci viverai -.
Quello che egli poi mi dicesse, io non ve l'oso dire, se prima non mi
perdonate.
Donna Zucca al vento, la
quale era anzi che no un poco dolce di sale, godeva tutta udendo queste parole
e verissime tutte le credea, e dopo alquanto disse:
- Io vi diceva bene, frate
Alberto, che le mie bellezze eran celestiali; ma, se Dio m'aiuti, di voi
m'incresce, e in fino ad ora, acciò che più non vi sia fatto
male, io vi perdono, sì veramente che voi mi diciate ciò che
l'agnolo poi vi disse.
Frate Alberto disse:
- Madonna, poi che
perdonato m'avete, io il vi dirò volentieri; ma una cosa vi ricordo, che
cosa che io vi dica voi vi guardiate di non dire ad alcuna persona che sia nel
mondo, se voi non volete guastare i fatti vostri, che siete la più
avventurata donna che oggi sia al mondo.
Questo agnol Gabriello mi
disse che io vi dicessi che voi gli piacevate tanto, che più volte a
starsi con voi venuto la notte sarebbe, se non fosse per non spaventarvi. Ora
vi manda egli dicendo per me, che a voi vuol venire una notte e dimorarsi una
pezza con voi; e per ciò che egli è agnolo e venendo in forma
d'agnolo voi nol potreste toccare, dice che per diletto di voi vuol venire in
forma d'uomo, e per ciò dice che voi gli mandiate a dire quando volete
che egli venga, e in forma di cui ed egli ci verrà; di che voi,
più che altra donna che viva, tener vi potete beata.
Madonna Baderla allora
disse che molto le piaceva se l'agnolo Gabriello l'amava; per ciò che
ella amava ben lui, né era mai che una candela d'un mattapan non gli accendesse
davanti dove dipinto il vedeva; e che, quale ora egli volesse a lei venire,
egli fosse il ben venuto, ché egli la troverebbe tutta sola nella sua camera,
ma con questo patto, che egli non dovesse lasciar lei per la Vergine Maria, che
l'era detto che egli le voleva molto bene, e anche si pareva, ché in ogni luogo
che ella il vedeva, le stava ginocchione innanzi; e oltre a questo, che a lui
stesse di venire in qual forma volesse, purché ella non avesse paura.
Allora disse frate Alberto:
- Madonna, voi parlate
saviamente; e io ordinerò ben con lui quello che voi mi dite. Ma voi mi
potete fare una gran grazia, e a voi non costerà niente; e la grazia
è questa, che voi vogliate che egli venga con questo mio corpo. E udite
in che voi mi farete grazia: che egli mi trarrà l'anima mia di corpo e
metteralla in paradiso, ed egli enterrà in me, e quanto egli
starà con voi, tanto si starà l'anima mia in paradiso.
Disse allora donna
Pocofila:
- Ben mi piace; io voglio che,
in luogo delle busse le quali egli vi diede a mie cagioni, che voi abbiate
questa consolazione.
Allora disse frate Alberto:
- Or farete che questa
notte egli truovi la porta della vostra casa per modo che egli possa entrarci,
per ciò che vegnendo in corpo umano, come egli verrà, non
potrebbe entrare se non per l'uscio.
La donna rispose che fatto
sarebbe. Frate Alberto si partì, ed ella rimase faccendo sì gran
galloria che non le toccava il cul la camicia, mille anni parendole che
l'agnolo Gabriello a lei venisse.
Frate Alberto, pensando che
cavaliere, non agnolo, esser gli convenia la notte, con confetti e altre buone
cose s'incominciò a confortare, acciò che di leggier non fosse da
caval gittato. E avuta la licenzia, con uno compagno, come notte fu, se n'entrò
in casa d'una sua amica, dalla quale altra volta aveva prese le mosse quando
andava a correr le giumente; e di quindi, quando tempo gli parve, trasformato
se n'andò a casa la donna, e in quella entrato, con sue frasche che
portate avea, in agnolo si trasfigurò, e salitosene suso, se
n'entrò nella camera della donna.
La quale, come questa cosa
così bianca vide, gli s'inginocchiò innanzi, e l'agnolo la
benedisse e levolla in piè e fecele segno che a letto s'andasse. Il che
ella, volenterosa d'ubbidire, fece prestamente, e l'agnolo appresso colla sua
divota si coricò.
Era frate Alberto bello
uomo del corpo e robusto, e stavangli troppo bene le gambe in su la persona;
per la qual cosa con donna Lisetta trovandosi, che era fresca e morbida, altra
giacitura faccendole che il marito, molte volte la notte volò senza ali,
di che ella forte si chiamò per contenta; e oltre a ciò molte
cose le disse della gloria celestiale. Poi, appressandosi il dì, dato
ordine al ritornare, co'suoi arnesi fuor se n'uscì e tornossi al
compagno suo, al quale, acciò che paura non avesse dormendo solo, aveva
la buona femina della casa fatta amichevole compagnia.
La donna, come desinato
ebbe, presa sua compagnia, se n'andò a frate Alberto e novelle gli disse
dello agnolo Gabriello e ciò che da lui udito avea della gloria di vita
etterna, e come egli era fatto, aggiugnendo oltre a questo maravigliose favole.
A cui frate Alberto disse:
- Madonna, io non so come
voi vi steste con lui; so io bene che stanotte, vegnendo egli a me e io avendogli
fatta la vostra ambasciata, egli ne portò subitamente l'anima mia tra
tanti fiori e tra tante rose, che mai non se ne videro di qua tante, e stettimi
in uno de'più dilettevoli luoghi che fosse mai infino a stamane a
matutino; quello che il mio corpo si divenisse, io non so.
- Non ve 'l dich'io? -
disse la donna - il vostro corpo stette tutta notte in braccio mio con l'agnol
Gabriello; e se voi non mi credete, guateretevi sotto la poppa manca là
dove io diedi un grandissimo bacio all'agnolo, tale che egli vi si parrà
il segnale parecchi dì.
Disse allora frate Alberto:
- Ben farò oggi una
cosa che io non feci già è gran tempo più, che io mi
spoglierò per vedere se. voi dite il vero.
E dopo molto cianciare la
donna se ne tornò a casa; alla quale in forma d'agnolo frate Alberto
andò poi molte volte senza alcuno impedimento ricevere.
Pure avvenne un giorno che,
essendo madonna Lisetta con una sua comare e insieme di bellezze quistionando,
per porre la sua innanzi ad ogn'altra, sì come colei che poco sale aveva
in zucca, disse:
- Se voi sapeste a cui la
mia bellezza piace, in verità voi tacereste dell'altre.
La comare, vaga d'udire,
sì come colei che ben la conoscea, disse:
- Madonna, voi potreste dir
vero, ma tuttavia, non sappiendo chi questi si sia, altri non si rivolgerebbe
così di leggiero.
Allora la donna, che
piccola levatura avea, disse:
- Comare, egli non si vuol
dire, ma lo 'ntendimento mio è l'agnolo Gabriello, il quale più
che sé m'ama, sì come la più bella donna, per quello che egli mi
dica, che sia nel mondo o in maremma.
La comare ebbe allora
voglia di ridere, ma pur si tenne per farla più avanti parlare, e disse:
- In fè di Dio,
madonna, se l'agnolo Gabriello è vostro intendimento e dicevi questo, egli
dee bene esser così; ma io non credeva che gli agnoli facesson queste
cose.
Disse la donna:
- Comare, voi siete errata;
per le plaghe di Dio, egli il fa meglio che mio marido, e dicemi che egli si fa
anche colassù; ma, per ciò che io gli paio più bella che
niuna che ne sia in cielo, s'è egli innamorato di me e viensene a star
meco bene spesso; mo vedì vu?
La comare, partita da
madonna Lisetta, le parve mille anni che ella fosse in parte ove ella potesse
queste cose ridire; e ragunatasi ad una festa con una gran brigata di donne,
loro ordinatamente raccontò la novella. Queste donne il dissero a'mariti
e ad altre donne, e quelle a quell'altre, e così in meno di due
dì ne fu tutta ripiena Vinegia. Ma tra gli altri a'quali questa cosa
venne agli orecchi furono i cognati di lei, li quali, senza alcuna cosa dirle,
si posero in cuore di trovare questo agnolo e di sapere se egli sapesse volare;
e più notti stettero in posta.
Avvenne che di questo fatto
alcuna novelluzza ne venne a frate Alberto agli orecchi; il quale, per
riprender la donna, una notte andatovi, appena spogliato s'era, che i cognati
di lei, che veduto l'avevan venire, furono all'uscio della sua camera per
aprirlo. Il che frate Alberto sentendo, e avvisato ciò che era,
levatosi, non veggendo altro rifugio, aperse una finestra la qual sopra il
maggior canal rispondea, e quindi si gittò nell'acqua.
Il fondo v'era grande ed
egli sapeva ben notare, sì che male alcun non si fece; e, notato
dall'altra parte del canale, in una casa che aperta v'era prestamente se
n'entrò, pregando un buono uomo che dentro v'era che per l'amor di Dio
gli scampasse la vita, sue favole dicendo perché quivi a quella ora e ignudo
fosse.
Il buono uomo, mosso a
pietà, convenendogli andare a far sue bisogne, nel suo letto il mise, e
dissegli che quivi infino alla sua tornata si stesse; e dentro serratolo,
andò a fare i fatti suoi.
I cognati della donna
entrati nella camera trovarono che l'agnolo Gabriello, quivi avendo lasciate
l'ali, se n'era volato; di che quasi scornati grandissima villania dissero alla
donna, e lei ultimamente sconsolata lasciarono stare e a casa lor tornarsi con
gli arnesi dello agnolo.
In questo mezzo, fattosi il
dì chiaro, essendo il buono uomo in sul Rialto, udì dire come
l'agnolo Gabriello era la notte andato a giacere con madonna Lisetta e
da'cognati trovatovi, s'era per paura gittato nel canale, né si sapeva che
divenuto se ne fosse; per che prestamente s'avvisò colui che in casa
avea esser desso. E là venutosene e riconosciutolo, dopo molte novelle,
con lui trovò modo che, s'egli non volesse che a'cognati di lei il
desse, gli facesse venire cinquanta ducati; e così fu fatto.
E appresso questo,
disiderando frate Alberto d'uscir di quindi, gli disse il buono uomo:
- Qui non ha modo alcuno,
se già in uno non voleste. Noi facciamo oggi una festa, nella quale chi
mena uno uomo vestito a modo d'orso e chi a guisa d'uom salvatico, e chi d'una
cosa e chi d'un'altra, e in su la piazza di San Marco si fa una caccia, la qual
fornita, è finita la festa; e poi ciascun va, con quel che menato ha,
dove gli piace. Se voi volete, anzi che spiar si possa che voi siate qui, che
io in alcun di questi modi vi meni, io vi potrò menare dove voi vorrete;
altramenti non veggio come uscirci possiate che conosciuto non siate; e i cognati
della donna, avvisando che voi in alcun luogo quincentro siate, per tutto hanno
messe le guardie per avervi.
Come che duro paresse a
frate Alberto l'andare in cotal guisa, pur per la paura che aveva de'parenti
della donna vi si condusse, e disse a costui dove voleva esser menato, e come
il menasse era contento.
Costui, avendol già
tutto unto di mele ed empiuto di sopra di penna matta, e messagli una catena in
gola e una maschera in capo, e datogli dall'una mano un gran bastone e
dall'altra due gran cani, che dal macello avea menati, mandò uno al
Rialto, che bandisse che chi volesse veder l'agnolo Gabriello andasse in su la
piazza di San Marco: e fu lealtà viniziana questa.
E questo fatto, dopo
alquanto il menò fuori e miseselo innanzi, e andandol tenendo per la
catena di dietro, non senza gran romore di molti, che tutti diceano: - Che
xè quel? che xè quel? - il condusse in su la piazza, dove tra
quegli che venuti gli eran dietro e quegli ancora che, udito il bando, da
Rialto venuti v'erano, erano gente senza fine. Questi là pervenuto, in
luogo rilevato e alto legò il suo uomo salvatico ad una colonna,
sembianti faccendo d'attendere la caccia; al quale le mosche e'tafani, per
ciò che di mele era unto, davan grandissima noia.
Ma poi che costui vide
piazza ben piena, faccendo sembianti di volere scatenare il suo uom salvatico,
a frate Alberto trasse la maschera dicendo:
- Signori, poi che il porco
non viene alla caccia, e non si fa, acciò che voi non siate venuti in
vano, io voglio che voi veggiate l'agnolo Gabriello, il quale di cielo in terra
discende la notte a consolare le donne viniziane.
Come la maschera fu fuori,
così fu frate Alberto incontanente da tutti conosciuto; contro al quale
si levaron le grida di tutti, dicendogli le più vituperose parole e la maggior
villania che mai ad alcun ghiotton si dicesse, e oltre a questo per lo viso
gettandogli chi una lordura e chi un'altra; e così grandissimo spazio il
tennero, tanto che per ventura la novella a'suoi frati pervenuta, infino a sei
di loro mossisi quivi vennero, e gittatagli una cappa in dosso e scatenatolo,
non senza grandissimo romor dietro, infino a casa loro nel menarono, dove,
incarceratolo, dopo misera vita si crede che egli morisse.
Così costui, tenuto
buono e male adoperando non essendo creduto, ardì di farsi l'agnolo
Gabriello, e di questo in un uom salvatico convertito, a lungo andare, come
meritato avea, vituperato senza pro pianse i peccati commessi. Così
piaccia a Dio che a tutti gli altri possa intervenire.
Giornata quarta - Novella
terza
Tre giovani amano tre
sorelle e con loro si fuggono in Creti. La maggiore per gelosia il suo amante
uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima,
l'amante della quale l'uccide e con la prima si fugge: ènne incolpato il
terzo amante con la terza sirocchia; e presi il confessano e per tema di morire
con moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi e in povertà
quivi muoiono.
Filostrato, udita la fine
del novellar di Pampinea, sovra sé stesso alquanto stette e poi disse verso di
lei:
- Un poco di buono e che mi
piacque fu nella fine della vostra novella; ma troppo più vi fu innanzi
a quella da ridere, il che avrei voluto che stato non vi fosse.
Poi alla Lauretta voltato
disse:
- Donna, seguite appresso
con una migliore, se esser può.
La Lauretta ridendo disse:
- Troppo siete contro agli
amanti crudele, se pure malvagio fine disiderate di loro; e io, per ubidirvi,
ne racconterò una di tre li quali igualmente mal capitarono, poco del
loro amore essendo goduti - ; e così detto, incominciò.
Giovani donne, sì
come voi apertamente potete conoscere, ogni vizio può in gravissima noia
tornar di colui che l'usa e molte volte d'altrui; e tra gli altri che con
più abbandonate redine ne'nostri pericoli ne trasporta, mi pare che
l'ira sia quello; la quale niuna altra cosa è che un movimento subito e
inconsiderato, da sentita tristizia sospinto, il quale, ogni ragion cacciata e
gli occhi della mente avendo di tenebre offuscati, in ferventissimo furore accende
l'anima nostra. E come che questo sovente negli uomini avvenga, e più in
uno che in uno altro, nondimeno già con maggior danni s'è nelle
donne veduto, per ciò che più leggiermente in quelle s'accende e
ardevi con fiamma più chiara e con meno rattenimento le sospigne.
Né è di ciò
maraviglia, per ciò che, se ragguardar vorremo, vedremo che il fuoco di
sua natura più tosto nelle leggieri e morbide cose s'apprende che nelle
dure e più gravanti; e noi pur siamo (non l'abbiano gli uomini a male)
più delicate che essi non sono e molto più mobili.
Laonde, veggendoci
naturalmente a ciò inchinevoli, e appresso ragguardato come la nostra
mansuetudine e benignità sia di gran riposo e di piacere agli uomini
co'quali a costumare abbiamo, e così l'ira e il furore essere di gran
noia e di pericolo, acciò che da quella con più forte petto ci
guardiamo, l'amor di tre giovani e d'altrettante donne, come di sopra dissi,
per l'ira d'una di loro di felice essere divenuto infelicissimo, intendo con la
mia novella mostrarvi.
Marsilia, sì come
voi sapete, è in Provenza sopra la marina posta, antica e nobilissima
città, e già fu di ricchi uomini e di gran mercatanti più
copiosa che oggi non si vede. Tra'quali ne fu un chiamato N'Arnald Civada, uomo
di nazione infima, ma di chiara fede e leal mercatante, senza misura di
possessioni e di denari ricco, il quale d'una sua donna avea più
figliuoli, de'quali tre n'erano femine ed eran di tempo maggiori che gli altri
che maschi erano. Delle qua li le due, nate ad un corpo, erano d'età di
quindici anni, la terza aveva quattordici; né altro s'attendeva per li loro
parenti a maritarle, che la tornata di N'Arnald il quale con sua mercatantia
era andato in Ispagna. Erano i nomi delle due prime, dell'una Ninetta e
dell'altra Maddalena; la terza era chiamata Bertella.
Della Ninetta era un
giovane gentile uomo, avvegna che povero fosse, chiamato Restagnone, innamorato
quanto più potea, e la giovane di lui; e sì avevan saputo
adoperare, che, senza saperlo alcuna persona del mondo, essi godevano del loro
amore; e già buona pezza goduti n'erano, quando avvenne che due giovani
compagni, de'quali l'uno era chiamato Folco e l'altro Ughetto, morti i padri
loro ed essendo rimasi ricchissimi, l'un della Maddalena e l'altro della
Bertella s'innamorarono.
Della qual cosa avvedutosi
Restagnone, essendogli stato dalla Ninetta mostrato, pensò di potersi
ne'suoi difetti adagiare per lo costoro amore. E con lor presa dimestichezza,
or l'uno e or l'altro e talvolta amenduni gli accompagnava a vedere le lor
donne e la sua; e quando dimestico assai e amico di costoro esser gli parve, un
giorno in casa sua chiamatigli, disse loro:
- Carissimi giovani, la
nostra usanza vi può aver renduti certi quanto sia l'amore che io vi
porto, e che io per voi adopererei quello che io per me medesimo adoperassi; e
per ciò che io molto v'amo, quello che nello animo caduto mi sia intendo
di dimostrarvi, e voi appresso con meco insieme quel partito ne prenderemo che
vi parrà il migliore. Voi, se le vostre parole non mentono, e per quello
ancora che ne'vostri atti e di dì e di notte mi pare aver compreso, di
grandissimo amore delle due giovani amate da voi ardete, e io della terza loro
sorella; al quale ardore, ove voi vi vogliate accordare, mi dà il cuore
di trovare assai dolce e piacevole rimedio, il quale è questo. Voi siete
ricchissimi giovani, quello che non sono io. Dove voi vogliate recare le vostre
ricchezze in uno e me far terzo posseditore con voi insieme di quelle e
diliberare in che parte del mondo noi vogliamo andare a vivere in lieta vita
con quelle, senza alcun fallo mi dà il cuor di fare che le tre sorelle,
con gran parte di quello del padre loro, con esso noi, dove noi andar ne
vorremo ne verranno; e quivi ciascun con la sua, a guisa di tre fratelli, viver
potremo li più contenti uomini che altri che al mondo sieno. A voi omai
sta il prender partito in volervi di ciò consolare, o lasciarlo.
Li due giovani, che oltre
modo ardevano, udendo che le lor giovani avrebbono, non penar troppo a
diliberarsi, ma dissero, dove questo seguir dovesse, che essi erano
apparecchiati di così fare. Restagnone, avuta questa risposta
da'giovani, ivi a pochi giorni si trovò con la Ninetta, alla quale non
senza gran malagevolezza andar poteva; e poi che alquanto con lei fu dimorato,
ciò che co'giovani detto aveale ragionò, e con molte ragion
s'ingegnò di farle questa impresa piacere. Ma poco malagevole gli fu,
per ciò che essa molto più di lui disiderava di poter con lui
esser senza sospetto; per che essa liberamente rispostogli che le piaceva e che
le sorelle, e massimamente in questo, quel farebbono che ella volesse, gli
disse che ogni cosa opportuna intorno a ciò, quanto più tosto
potesse, ordinasse. Restagnone a'due giovani tornato, li quali molto ciò
che ragionato avea loro il sollicitavano, disse loro, che dalla parte delle lor
donne l'opera era messa in assetto. E fra sé diliberati di doverne in Creti
andar, vendute alcune possessioni le quali avevano, sotto titolo di voler con
denari andar mercatando, e d'ogn'altra lor cosa fatti denari, una saettia
comperarono e quella segretamente armarono di gran vantaggio, e aspettarono il
termine dato. D'altra parte la Ninetta, che del disiderio delle sorelle sapeva
assai, con dolci parole in tanta volontà di questo fatto l'accese che
esse non credevano tanto vivere che a ciò pervenissero. Per che, venuta
la notte che salire sopra la saettia dovevano, le tre sorelle, aperto un gran
cassone del padre loro, di quello grandissima quantità di denari e di
gioie trassono, e con esse di casa tutte e tre tacitamente uscite secondo
l'ordine dato, li lor tre amanti che l'aspettavano trovarono; con li quali
senza alcuno indugio sopra la saettia montate, dier de'remi in acqua e andar
via; e senza punto rattenersi in alcuno luogo, la seguente sera giunsero a
Genova, dove i novelli amanti gioia e piacere primieramente presero del loro
amore.
E rinfrescatisi di
ciò che avean bisogno, andaron via, e d'un porto in uno altro, anzi che
l'ottavo dì fosse senza alcuno impedimento pervennero in Creti, dove
grandissime e belle possessioni comperarono, alle quali assai vicini di Candia
fecero bellissimi abituri e dilettevoli e quivi con molta famiglia, con cani e
con uccelli e con cavalli, in conviti e in festa e in gioia colle lor donne i
più contenti uomini del mondo a guisa di baroni cominciarono a vivere.
E in tal maniera dimorando,
avvenne (sì come noi veggiamo tutto il giorno avvenire che, quantunque
le cose molto piacciano, avendone soperchia copia rincrescono) che a
Restagnone, il qual molto amata avea la Ninetta, potendola egli senza alcun
sospetto ad ogni suo piacere avere, gl'incominciò a rincrescere e per
conseguente a mancar verso lei l'amore. Ed essendogli ad una festa sommamente
piaciuta una giovane del paese, bella e gentil donna, e quella con ogni studio
seguitando, cominciò per lei a far maravigliose cortesie e feste; di che
la Ninetta accorgendosi, entrò di lui in tanta gelosia, che egli non
poteva andare un passo che ella nol risapesse, e appresso con parole e con
crucci lui e sé non ne tribolasse.
Ma così come la copia
delle cose genera fastidio, così l'esser le disiderate negate moltiplica
l'appetito, così i crucci della Ninetta le fiamme del nuovo amore di
Restagnone accrescevano; e come che in processo di tempo s'avvenisse, o che
Restagnone l'amistà della donna amata avesse o no, la Ninetta, chi che
gliele rapportasse, l'ebbe per fermo; di che ella in tanta tristizia cadde, e
di quella in tanta ira e per conseguente in tanto furor trascorse, che,
rivoltato l'amore il quale a Restagnon portava in acerbo odio, accecata dalla
sua ira, s'avvisò colla morte di Restagnone l'onta che ricever l'era
paruta vendicare. E avuta una vecchia greca gran maestra di compor veleni, con
promesse e con doni a fare un'acqua mortifera la condusse, la quale essa, senza
altramenti consigliarsi, una sera a Restagnon riscaldato e che di ciò
non si guardava diè bere. La potenzia di quella fu tale che, avanti che
il mattutin venisse, l'ebbe ucciso. La cui morte sentendo Folco e Ughetto e le
lor donne, senza saper che di veleno fosse morto, insieme con la Ninetta
amaramente piansero e onorevolmente il fecero sepellire.
Ma non dopo molti giorni
avvenne che per altra malvagia opera fu presa la vecchia che alla Ninetta
l'acqua avvelenata composta avea, la quale tra gli altri suoi mali, martoriata,
confessò questo, pienamente mostrando ciò che per quello avvenuto
ne fosse; di che il duca di Creti, senza alcuna cosa dirne, tacitamente una
notte fu d'intorno al palagio di Folco, e senza romore o contradizione alcuna,
presa ne menò la Ninetta. Dalla quale senza alcun martorio
prestissimamente ciò che udir volle ebbe della morte di Restagnone.
Folco e Ughetto
occultamente dal duca avean sentito, e da loro le lor donne, perché presa la
Ninetta fosse, il che forte dispiacque loro; e ogni studio ponevano in far che
dal fuoco la Ninetta dovesse campare, al quale avvisavano che giudicata
sarebbe, sì come colei che molto ben guadagnato l'avea; ma tutto pareva
niente, per ciò che il duca pur fermo a volerne fare giustizia stava.
La Maddalena, la quale
bella giovane era e lungamente stata vagheggiata dal duca senza mai aver voluta
far cosa che gli piacesse, imaginando che piacendogli potrebbe la sirocchia dal
fuoco sottrarre, per un cauto ambasciadore gli significò sé esser ad
ogni suo comandamento, dove due cose ne dovesser seguire: la prima, che ella la
sua sorella salva e libera dovesse riavere; l'altra che questa cosa fosse
segreta. Il duca, udita l'ambasciata e piaciutagli, lungamente seco
pensò se fare il volesse, e alla fine vi s'accordò e disse ch'era
presto. Fatto adunque di consentimento della donna, quasi da loro informar si
volesse del fatto, sostenere una notte Folco e Ughetto, ad albergare se
n'andò segretamente colla Maddalena. E fatto prima sembiante d'avere la
Ninetta messa in un sacco e doverla quella notte stessa farla in mare
mazzerare, seco la rimenò alla sua sorella e per prezzo di quella notte
gliele donò, la mattina nel dipartirsi pregandola che quella notte, la
qual prima era stata nel loro amore, non fosse l'ultima; e oltre a questo le
'mpose che via ne mandasse la colpevole donna, acciò che a lui non fosse
biasimo o non gli convenisse da capo contro di lei incrudelire.
La mattina seguente Folco e
Ughetto, avendo udito la Ninetta la notte essere stata mazzerata, e credendolo,
furon liberati; e alla lor casa, per consolar le lor donne della morte della
sorella, tornati, quantunque la Maddalena s'ingegnasse di nasconderla molto,
pur s'accorse Folco che ella v'era; di che egli si maravigliò molto, e
subitamente suspicò (già avendo sentito che il duca aveva la
Maddalena amata), e domandolla come questo esser potesse che la Ninetta quivi
fosse.
La Maddalena ordì
una lunga favola a volergliele mostrare, poco da lui, che malizioso era,
creduta, il quale, a doversi dire il vero la costrinse; la quale dopo molte
parole gliele disse. Folco, da dolor vinto e in furor montato, tirata fuori una
spada, lei invano mercé addomandante uccise; e temendo l'ira e la giustizia del
duca, lei lasciata nella camera morta, se n'andò colà ove la
Ninetta era, e con viso infintamente lieto le disse:
- Tosto andianne là
dove diterminato è da tua sorella che io ti meni, acciò che
più non venghi alle mani del duca.
La qual cosa la Ninetta
credendo e come paurosa disiderando di partirsi, con Folco, senza altro
commiato chiedere alla sorella, essendo già notte, si mise in via, e con
que' denari a'quali Folco potè por mani, che furon pochi; e alla marina
andatisene, sopra una barca montarono, né mai si seppe dove arrivati si
fossero.
Venuto il dì
seguente ed essendosi la Maddalena trovata uccisa, furono alcuni che per
invidia e odio che ad Ughetto portavano, subitamente al duca l'ebbero fatto
sentire; per la qual cosa il duca, che molto la Maddalena amava, focosamente
alla casa corso, Ughetto prese e la sua donna e loro, che di queste cose niente
ancor sapeano, cioè della partita di Folco e della Ninetta, costrinse a
confessar sé insieme con Folco esser della morte della Maddalena colpevoli.
Per la qual confessione
costoro meritamente della morte temendo, con grande ingegno coloro che gli
guardavano corruppono, dando loro una certa quantità di denari, li quali
nella lor casa nascosti per li casi opportuni guardavano e con le guardie
insieme, senza avere spazio di potere alcuna lor cosa torre, sopra una barca
montati, di notte se ne fuggirono a Rodi, dove in povertà e in miseria
vissero non gran tempo.
Adunque a così fatto
partito il folle amore di Restagnone e l'ira della Ninetta sé condussero e
altrui.
Giornata quarta - Novella
quarta
Gerbino, contra la fede
data dal re Guglielmo suo avolo, combatte una nave del re di Tunisi per torre
una sua figliuola, la quale uccisa da quegli che su v'erano, loro uccide, e a
lui è poi tagliata la testa.
La Lauretta, finita la sua
novella, taceva, e fra la brigata chi con un chi con un altro della sciagura
degli amanti si dolea; e chi l'ira della Ninetta biasimava, e chi una cosa e
chi altra diceva, quando il re, quasi da profondo pensier tolto, alzò il
viso e ad Elissa fe'segno che appresso dicesse, la quale umilmente
incominciò.
Piacevoli donne, assai son
coloro che credono Amor solamente dagli occhi acceso le sue saette mandare,
coloro schernendo che tener vogliono che alcuno per udita si possa innamorare;
li quali essere ingannati assai manifestamente apparirà in una novella
la qual dire intendo. Nella quale non solamente ciò la fama, senza
aversi veduto giammai, avere operato vedrete, ma ciascuno a misera morte aver
condotto vi fia manifesto.
Guiglielmo secondo re di
Cicilia, come i ciciliani vogliono, ebbe due figliuoli, l'uno maschio e
chiamato Ruggieri, e l'altro femina, chiamata Gostanza. Il quale Ruggieri, anzi
che il padre morendo, lasciò un figliuolo nominato Gerbino; il quale,
dal suo avolo con diligenza allevato, divenne bellissimo giovane e famoso in
prodezza e in cortesia.
Né solamente dentro
a'termini di Cicilia stette la sua fama racchiusa, ma in varie parti del mondo
sonando, in Barberia era chiarissima, la quale in que'tempi al re di Cicilia
tributaria era. E tra gli altri alli cui orecchi la magnifica fama delle
virtù e della cortesia del Gerbin venne, fu ad una figliuola del re di
Tunisi, la qual, secondo che ciascun che veduta l'avea ragionava, era una delle
più belle creature che mai dalla natura fosse stata formata, e la
più costumata e con nobile e grande animo. La quale, volentieri
de'valorosi uomini ragionare udendo, con tanta affezione le cose valorosamente
operate dal Gerbino da uno e da un altro raccontate raccolse, e sì le
piacevano, che essa, seco stessa imaginando come fatto esser dovesse,
ferventemente di lui s'innamorò, e più volentieri che d'altro di
lui ragionava e chi ne ragionava ascoltava.
D'altra parte era,
sì come altrove, in Cicilia pervenuta la grandissima fama della bellezza
parimente e del valor di lei, e non senza gran diletto né in vano gli orecchi
del Gerbino aveva tocchi; anzi, non meno che di lui la giovane infiammata
fosse, lui di lei aveva infiammato.
Per la qual cosa infino a
tanto che con onesta cagione dallo avolo d'andare a Tunisi la licenzia
impetrasse, disideroso oltre modo di vederla, ad ogni suo amico che là
andava imponeva che a suo potere il suo segreto e grande amor facesse, per quel
modo che miglior gli paresse, sentire e di lei novelle gli recasse. De'quali
alcuno sagacissimamente il fece, gioie da donne portandole, come i mercatanti
fanno, a vedere; e interamente l'ardore del Gerbino apertole, lui e le sue cose
a'suoi comandamenti offerse apparecchiate. La quale con lieto viso e
l'ambasciadore e l'ambasciata ricevette, e rispostogli che ella di pari amore
ardeva, una delle sue più care gioie in testimonianza di ciò gli
mandò. La quale il Gerbino con tanta allegrezza ricevette, con quanta
qualunque cara cosa ricever si possa, e a lei per costui medesimo più
volte scrisse e mandò carissimi doni, con lei certi trattati tenendo da
doversi, se la fortuna conceduto lo avesse, vedere e toccare.
Ma andando le cose in
questa guisa e un poco più lunghe che bisognato non sarebbe, ardendo
d'una parte la giovane e d'altra il Gerbino, avvenne che il re di Tunisi la
maritò al re di Granata; di che ella fu crucciosa oltre modo, pensando
che non solamente per lunga distanzia al suo amante s'allontanava, ma che quasi
del tutto tolta gli era; e se modo veduto avesse, volentieri, acciò che
questo avvenuto non fosse, fuggita si sarebbe dal padre e venutasene al
Gerbino.
Similmente il Gerbino,
questo maritaggio sentendo, senza misura ne viveva dolente, e seco spesso
pensava, se modo veder potesse, di volerla torre per forza, se avvenisse che
per mare a marito n'andasse.
Il re di Tunisi, sentendo
alcuna cosa di questo amore e del proponimento del Gerbino, e del suo valore e
della potenzia dubitando, venendo il tempo che mandar ne la dovea, al re
Guiglielmo mandò significando ciò che fare in tendeva, e che,
sicurato da lui che né dal Gerbino né da altri per lui in ciò impedito
sarebbe, lo 'ntendeva di fa re. Il re Guiglielmo, che vecchio signore era né
dello innamoramento del Gerbino aveva alcuna cosa sentita, non imaginandosi che
per questo addomandata fosse tal sicurtà, liberamente la concedette e in
segno di ciò mandò al re di Tunisi un suo guanto. Il quale, poi
che la sicurtà ricevuta ebbe, fece una grandissima e bella nave nel
porto di Cartagine apprestare, e fornirla di ciò che bisogno aveva a chi
su vi doveva andare, e ornarla e acconciarla per su mandarvi la figliuola in
Granata, né altro aspettava che tempo.
La giovane donna, che tutto
questo sapeva e vedeva, occultamente un suo servidore mandò a Palermo e
imposegli che il bel Gerbino da sua parte salutasse e gli dicesse come ella in
fra pochi dì era per andarne in Granata; per che ora si parrebbe se
così fosse valente uomo come si diceva e se cotanto l'amasse quanto
più volte significato l'avea.
Costui, a cui imposta fu, ottimamente
fe'l'ambasciata e a Tunisi ritornossi. Gerbino questo udendo e sappiendo che il
re Guiglielmo suo avolo data avea la sicurtà al re di Tunisi, non sapeva
che farsi; ma pur, da amor sospinto, avendo le parole della donna intese e per
non parer vile, andatosene a Messina, quivi prestamente fece due galee sottili
armare, e messivi su di valenti uomini, con esse sopra la Sardigna
n'andò, avvisando quindi dovere la nave della donna passare.
Né fu di lungi l'effetto al
suo avviso; per ciò che pochi dì quivi fu stato, che la nave con
poco vento non guari lontana al luogo dove aspettandola riposto s'era
sopravenne. La qual veggendo Gerbino, a'suoi compagni disse:
- Signori, se voi
così valorosi siete come io vi tegno, niun di voi senza aver sentito o
sentire amore credo che sia, senza il quale, sì come io meco medesimo
estimo, niun mortal può alcuna virtù o bene in sé avere; e se
innamorati stati siete o sete, leggier cosa vi fia comprendere il mio disio. Io
amo, e amor m'indusse a darvi la presente fatica; e ciò che io amo nella
nave che qui davanti ne vedete dimora, la quale, insieme con quella cosa che io
più disidero, è piena di grandissime ricchezze, le quali, se
valorosi uomini siete, con poca fatica, virilmente combattendo, acquistar
possiamo. Della qual vittoria io non cerco che in parte mi venga se non una
donna, per lo cui amore i'muovo l'arme; ogni altra cosa sia vostra libera mente
infin da ora. Andiamo adunque, e bene avventurosa mente assagliamo la nave;
Iddio, alla nostra impresa favorevole, senza vento prestarle la ci tien ferma.
Non erano al bel Gerbino
tante parole bisogno, per ciò che i messinesi che con lui erano, vaghi
della rapina, già con l'animo erano a far quello di che il Gerbino gli
confortava con le parole. Per che, fatto un grandissimo romore nella fine del
suo parlare che così fosse, le trombe sonarono; e prese l'armi, dierono
de'remi in acqua e alla nave pervennero.
Coloro che sopra la nave
erano, veggendo di lontan venir le galee, non potendosi partire, s'apprestarono
alla difesa.
Il bel Gerbino, a quella
pervenuto, fe'comandare che i padroni di quella sopra le galee mandati fossero,
se la battaglia non voleano.
I saracini, certificati chi
erano e che domandassero, dissero sé essere contro alla fede lor data dal re da
loro assaliti; e in segno di ciò mostrarono il guanto del re Guiglielmo
e del tutto negaron di mai, se non per battaglia vinti, arrendersi o cosa che
sopra la nave fosse lor dare. Gerbino, il qual sopra la poppa della nave veduta
aveva la donna troppo più bella assai che egli seco non estimava,
infiammato più che prima, al mostrar del guanto rispose che quivi non
avea falconi al presente perché guanto v'avesse luogo; e per ciò, ove
dar non volesser la donna, a ricever la battaglia s'apprestassero. La qual
senza più attendere, a saettare e a gittar pietre l'un verso l'altro
fieramente incominciarono, e lungamente con danno di ciascuna delle parti in
tal guisa combatterono. Ultimamente, veggendosi Gerbino poco util fare, preso
un legnetto che di Sardigna menato aveano, e in quel messo fuoco, con amendue
le galee quello accostò alla nave. Il che veggendo i saracini e
conoscendo sé di necessità o doversi arrendere o morire, fatto sopra
coverta la figliola del re venire, che sotto coverta piagnea, e quella menata
alla proda della nave e chiamato il Gerbino, presente agli occhi suoi lei
gridante mercé e aiuto svenarono, e in mar gittandola dissono:
- Togli, noi la ti diamo
qual noi possiamo e chente la tua fede l'ha meritata.
Gerbino, veggendo la
crudeltà di costoro, quasi di morir vago, non curando di saetta né di
pietra, alla nave si fece accostare; e quivi su, malgrado di quanti ve n'eran,
montato, non altramenti che un leon famelico nell'armento di giuvenchi venuto
or questo or quello svenando prima co'denti e con l'unghie la sua ira sazia che
la fame, con una spada in mano or questo or quel tagliando de'saracini
crudelmente molti n'uccise Gerbino; e, già crescente il fuoco nella
accesa nave, fattone a'marinari trarre quello che si potè per
appagamento di loro, giù se ne scese con poco lieta vittoria de'suoi
avversari avere acquistata.
Quindi, fatto il corpo
della bella donna ricoglier di mare, lungamente e con molte lagrime il pianse,
e in Cicilia tornandosi, in Ustica, piccioletta isola quasi a Trapani
dirimpetto, onorevolmente il fe'sepellire, e a casa più doloroso che
altro uomo si tornò.
Il re di Tunisi, saputa la
novella, suoi ambasciadori di nero vestiti al re Guiglielmo mandò,
dogliendosi della fede che gli era stata male osservata, e raccontarono il
come. Di che il re Guiglielmo turbato forte, né vedendo via da poter lor
giustizia negare (ché la dimandavano), fece prendere il Gerbino; ed egli
medesimo, non essendo alcun de'baron suoi che con prieghi da ciò si
sforzasse di rimuoverlo, il condannò nella testa e in sua presenzia
gliele fece tagliare, volendo avanti senza nepote rimanere che esser tenuto re
senza fede.
Adunque così
miseramente in pochi giorni i due amanti, senza alcun frutto del loro amore
aver sentito, di mala morte morirono, com'io v'ho detto.
Giornata quarta - Novella
quinta
I fratelli dell'Isabetta
uccidon l'amante di lei; egli l'apparisce in sogno e mostrale dove sia
sotterrato. Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di
bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli
gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso
Finita la novella d'Elissa,
e alquanto dal re commendata, a Filomena fu imposto che ragionasse; la quale,
tutta piena di compassione del misero Gerbino e della sua donna, dopo un
pietoso sospiro incominciò.
La mia novella, graziose
donne, non sarà di genti di sì alta condizione, come costoro
furono de'quali Elissa ha raccontato, ma ella per avventura non sarà men
pietosa; e a ricordarmi di quella mi tira Messina poco innanzi ricordata, dove
l'accidente avvenne.
Erano adunque in Messina
tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte
del padre loro, il qual fu da San Gimignano, e avevano una lor sorella chiamata
Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse
cagione, ancora maritata non aveano.
E avevano oltre a
ciò questi tre fratelli in uno lor fondaco un giovinetto pisano chiamato
Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva, il quale, essendo assai bello
della persona e leggiadro molto, avendolo più volte l'Isabetta guatato,
avvenne che egli le 'ncominciò stranamente a piacere. Di che Lorenzo
accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di
fuori, incominciò a porre l'animo a lei; e sì andò la
bisogna che, piacendo l'uno all'altro igualmente, non passò gran tempo
che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.
E in questo continuando e
avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì
segretamente fare che una notte, andando l'Isabetta là dove Lorenzo
dormiva, che il maggior de'fratelli, senza accorgersene ella, non se ne
accorgesse. Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto
noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio,
senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a
questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò.
Poi, venuto il giorno,
a'suoi fratelli ciò che veduto avea la passata notte dell'Isabetta e di
Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo lungo consiglio,
diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia
alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d'infignersi del tutto
d'averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel qua le
essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più
andasse innanzi, si potessero torre dal viso.
E in tal disposizion
dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano
avvenne che, sembianti faccendo d'andare fuori della città a diletto
tutti e tre, seco menarono Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e
rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia
prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se ne accorse. E
in Messina tornati dieder voce d'averlo per lor bisogne mandato in alcun luogo;
il che leggiermente creduto fu, per ciò che spesse volte eran di
mandarlo attorno usati.
Non tornando Lorenzo, e
l'Isabetta molto spesso e sollicitamente i fratei domandandone, sì come
colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella
molto instantemente, che l'uno de'fratelli le disse:
- Che vuol dir questo? Che
hai tu a fare di Lorenzo, ché tu ne domandi così spesso? Se tu ne
domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene.
Per che la giovane dolente
e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava, e
assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, e
alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e, senza punto
rallegrarsi, sempre aspettando si stava.
Avvenne una notte che,
avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava, ed essendosi alla fine
piagnendo addormentata, Lorenzo l'apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato
e con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e parvele che egli dicesse:
- O Lisabetta, tu non mi
fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t'attristi, e me con le tue
lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più
ritornarci, per ciò che l'ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi
fratelli m'uccisono.
E disegnatole il luogo dove
sotterrato l'aveano, le disse che più nol chiamasse né l'aspettasse, e
disparve.
La giovane destatasi, e
dando fede alla visione, amaramente pianse. Poi la mattina levata, non avendo
ardire di dire al cuna cosa a'fratelli, propose di volere andare al mostrato
luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l'era paruto. E avuta
la licenza d'andare alquanto fuor della terra a diporto, in compagnia d'una che
altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più
tosto potè là se n'andò; e tolte via foglie secche che nel
luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari
cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa
ancora guasto né corrotto; per che manifestamente conobbe essere stata vera la
sua visione. Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi
non era da piagnere, se avesse potuto volentieri tutto il corpo n'avrebbe
portato per dargli più convenevole sepoltura; ma, veggendo che
ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che potè gli
spiccò dallo 'mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata e
la terra sopra l'altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza
essere stata da alcun veduta, quindi si partì e tornossene a casa sua.
Quivi con questa testa
nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto
che tutta con le sue lagrime la lavò, mille baci dandole in ogni parte.
Poi prese un grande e un bel testo, di questi nei quali si pianta la persa o il
bassilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo, e poi messovi su la
terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano,
e quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d'aranci o delle sue lagrime
non inaffiava giammai; e per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo
vicina, e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello
che il suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto vagheggiato l'avea,
sopr'esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che
tutto il bassilico bagnava, piagnea.
Il bassilico, sì per
lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente
dalla testa corrotta che dentro v'era, divenne bellissimo e odorifero molto. E
servando la giovane questa maniera del continuo, più volte da'suoi
vicini fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta
bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il
disser loro:
- Noi ci siamo accorti, che
ella ogni dì tiene la cotal maniera.
Il che udendo i fratelli e
accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da
lei fecer portar via questo testo. Il quale, non ritrovandolo ella, con
grandissima instanzia molte volte richiese; e non essendole renduto, non
cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo
nella infermità domandava.
I giovani si maravigliavan
forte di questo addimandare e per ciò vollero vedere che dentro vi
fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancor
sì consumata che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei esser
quella di Lorenzo. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non questa
cosa si risapesse; e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina
uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono, se n'andarono a Napoli.
La giovane non restando di
piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì; e
così il suo disavventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo
divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcuno che compuose quel la canzone
la quale ancora oggi si canta, cioè:
Quale esso fu lo malo
cristiano,
che mi furò la
grasta, ecc.
Giornata quarta - Novella
sesta
L'Andreuola ama Gabriotto;
raccontagli un sogno veduto ed egli a lei un altro; muorsi di subito nelle sue
braccia; mentre che ella con una sua fante alla casa di lui nel portano, son
prese dalla signoria, ed ella dice come l'opera sta; il podestà la vuole
sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente trovata fa
liberare; la quale, del tutto rifiutando di star più al mondo, si fa
monaca.
Quella novella, che
Filomena aveva detta, fu alle donne carissima, per ciò che assai volte
avevano quella canzone udita cantare né mai avevan potuto, per domandarne,
sapere qual si fosse la cagione per che fosse stata fatta. Ma, avendo il re la
fine di quella udita, a Panfilo impose che allo ordine andasse dietro.
Panfilo allora disse:
Il sogno nella precedente
novella raccontato mi dà materia di dovervene raccontare una nella quale
di due si fa menzione, li quali di cosa che a venire era, come quello di cosa
intervenuta, furono, e appena furon finiti di dire da coloro che veduti gli
aveano, che l'effetto seguì d'amenduni. E però, amorose donne,
voi dovete sapere che general passione è di ciascuno che vive il veder
varie cose nel sonno, le quali, quantunque a colui che dorme, dormendo, tutte
paian verissime, e desto lui, alcune vere, alcune verisimili, e parte fuori
d'ogni verità iudichi, nondimeno molte esserne avvenute. si truovano
Per la qual cosa molti a
ciascun sogno tanta fede prestano quanta presterieno a quelle cose le quali
vegghiando vedessero; e per li lor sogni stessi s'attristano e s'allegrano
secondo che per quegli o temono o sperano. E in contrario son di quegli che
niuno ne credono se non poi che nel premostrato pericolo si veggono. De'quali
né l'uno né l'altro commendo, per ciò che né sempre son veri né ogni
volta falsi. Che essi non sien tutti veri, assai volte può ciascun di
noi aver conosciuto; e che essi tutti non sien falsi, già di sopra nella
novella di Filomena s'è dimostrato e nella mia, come davanti dissi,
intendo di dimostrarlo. Per che giudico che nel virtuosamente vivere e operare
di niuno contrario sogno a ciò si dee temere, né per quello lasciare i
buoni proponimenti; nelle cose perverse e malvagie, quantunque i sogni a quelle
paiano favorevoli e con seconde dimostrazioni chi gli vede confortino, niuno se
ne vuol credere; e così nel contrario a tutti dar piena fede. Ma
vegniamo alla novella.
Nella città di
Brescia fu già un gentile uomo chiamato messer Negro da Ponte Carraro,
il quale, tra più altri figliuoli, una figliuola avea nominata
Andreuola, giovane e bella assai e senza marito, la qual per ventura d'un suo
vicino, ch'avea nome Gabriotto, s'innamorò, uomo di bassa condizione ma
di laudevoli costumi pieno e della persona bello e piacevole; e coll'opera e
collo aiuto della fante della casa operò tanto la giovane, che Gabriotto
non solamente seppe sé esser dalla Andreuola amato, ma ancora in un bel
giardino del padre di lei più e più volte a diletto dell'una
parte e dell'altra fu menato. E acciò che niuna cagione mai, se non
morte, potesse questo lor dilettevole amor separare, marito e moglie
segretamente divennero. E così furtivamente gli lor congiugnimenti
continuando, avvenne che alla giovane una notte dormendo parve in sogno vedere
sé essere nel suo giardino con Gabriotto, e lui con grandissimo piacer di
ciascuno tener nelle sue braccia; e mentre che così dimoravan, le pareva
veder del corpo di lui uscire una cosa oscura e terribile, la forma della quale
essa non poteva conoscere, e parevale che questa cosa prendesse Gabriotto e mal
grado di lei con maravigliosa forza gliele strappasse di braccio e con esso
ricoverasse sotterra, né mai più riveder potesse né l'uno né l'altro. Di
che assai dolore e inestimabile sentiva, e per quello si destò; e desta,
come che lieta fosse veggendo che non così era come sognato avea,
nondimeno l'entrò del sogno veduto paura. E per questo, volendo poi
Gabriotto la seguente notte venir da lei, quanto potè s'ingegnò
di fare che la sera non vi venisse; ma pure, il suo voler vedendo, acciò
che egli d'altro non sospecciasse, la seguente notte nel suo giardino il
ricevette. E avendo molte rose bianche e vermiglie colte, per ciò che la
stagione era, con lui a piè d'una bellissima fontana e chiara, che nel
giardino era, a starsi se n'andò. E quivi, dopo grande e assai lunga
festa insieme avuta, Gabriotto la domandò qual fosse la cagione per che
la venuta gli avea il dì dinanzi vietata. La giovane, raccontandogli il
sogno da lei la notte davanti veduto e la suspezione presa di quello, gliele
contò.
Gabriotto udendo questo se
ne rise, e disse che grande sciocchezza era porre ne'sogni alcuna fede, per
ciò che o per soperchio di cibo o per mancamento di quello avvenieno, ed
esser tutti vani si vedeano ogni giorno; e appresso disse:
- Se io fossi voluto andar
dietro a'sogni, io non ci sarei venuto, non tanto per lo tuo quanto per uno che
io altressì questa notte passata ne feci, il qual fu, che a me pareva
essere in una bella e dilettevol selva e in quella andar cacciando e aver presa
una cavriuola tanto bella e tanto piacevole quanto alcuna altra se ne vedesse
giammai; e pareami che ella fosse più che la neve bianca, e in brieve
spazio divenisse sì mia dimestica, che punto da me non si partiva
tuttavia. A me pareva averla sì cara che, acciò che da me non si
partisse, le mi pareva nella gola aver messo un collar d'oro, e quella con una
catena d'oro tener colle mani.
E appresso questo mi pareva
che, riposandosi questa cavriuola una volta e tenendomi il capo in seno,
uscisse non so di che parte una veltra nera come carbone, affamata e
spaventevole molto nella apparenza, e verso me se ne venisse; alla quale niuna
resistenza mi parea fare; per che egli mi pareva che ella mi mettesse il muso
in seno nel sinistro lato, e quello tanto rodesse che al cuor perveniva, il
quale pareva che ella mi strappasse per portarsel via. Di che io sentiva
sì fatto dolore che il mio sonno si ruppe, e desto colla mano
subitamente corsi a cercarmi il lato se niente v'avessi; ma mal non trovandomi,
mi feci beffe di me stesso che cercato v'avea. Ma che vuol questo per
ciò dire? De'così fatti e de'più spaventevoli assai n'ho già
veduti, né per ciò cosa del mondo più né meno me n'è
intervenuto; e per ciò lasciagli andare e pensiamo di darci buon tempo.
La giovane, per lo suo
sogno assai spaventata, udendo questo divenne troppo più; ma, per non
esser cagione d'alcuno sconforto a Gabriotto, quanto più potè la
sua paura nascose. E come che con lui, abbracciandolo e baciandolo alcuna volta
e da lui essendo abbracciata e baciata, si sollazzasse, suspicando e non
sappiendo che, più che l'usato spesse volte il riguardava nel volto, e
talvolta per lo giardin riguardava se alcuna cosa nera vedesse venir d'alcuna
parte.
E in tal maniera dimorando,
Gabriotto, gittato un gran sospiro, l'abbracciò e disse:
- Ohimè, anima mia,
aiutami, ché io muoio - ; e così detto, ricadde in terra sopra l'erba
del pratello.
Il che veggendo la giovane
e lui caduto ritirandosi in grembio, quasi piagnendo disse:
- O signor mio dolce, o che
ti senti tu?
Gabriotto non rispose, ma
ansando forte e sudando tutto, dopo non guari spazio passò della
presente vita.
Quanto questo fosse grave e
noioso alla giovane, che più che sé l'amava, ciascuna sel dee poter
pensare. Ella il pianse assai e assai volte in vano il chiamò; ma poi
che pur s'accorse lui del tutto esser morto, avendolo per ogni parte del corpo
cercato e in ciascuna trovandol freddo, non sappiendo che far né che dirsi,
così lagrimosa come era e piena d'angoscia andò la sua fante a
chiamare, la quale di questo amor consapevole era, e la sua miseria e il suo
dolore le dimostrò.
E poi che miseramente
insieme alquanto ebber pianto sopra il morto viso di Gabriotto disse la giovane
alla fante:
- Poi che Iddio m'ha tolto
costui, io non intendo di più stare in vita; ma prima che io ad uccider
mi venga, vorre'io che noi prendessimo modo convenevole a servare il mio onore
e il segreto amor tra noi stato, e che il corpo, del quale la graziosa anima
s'è partita, fosse sepellito.
A cui la fante disse:
- Figliuola mia, non dir di
volerti uccidere, per ciò che, se tu l'hai qui perduto, uccidendoti,
anche nell'altro mondo il perderesti, per ciò che tu n'andresti in
inferno, là dove io son certa che la sua anima non è andata per
ciò che buon giovane fu; ma molto meglio è a confortarti e
pensare d'aiutare con orazioni e con altro bene l'anima sua, se forse per alcun
peccato commesso n'ha bisogno.
Del sepellirlo è il
modo presto qui in questo giardino, il che niuna persona saprà giammai,
per ciò che niun sa ch'egli mai ci venisse; e se così non vuogli,
mettianlo qui fuori del giardino e lascianlo stare; egli sarà domattina
trovato e portatone a casa sua e fatto sepellire da'suoi parenti.
La giovane, quantunque
piena fosse d'amaritudine e continuamente piagnesse, pure ascoltava i consigli
della sua fante; e alla prima parte non accordatasi, rispose alla seconda
dicendo:
- Già Dio non voglia
che così caro giovane e cotanto da me amato e mio marito, io sofferi che
a guisa d'un cane sia sepellito o nella strada in terra lasciato. Egli ha avute
le mie lagrime, e in quanto io potrò egli avrà quelle de'suoi
parenti; e già per l'animo mi va quello che noi abbiamo in ciò a
fare.
E prestamente per una pezza
di drappo di seta, la quale aveva in un suo forziere, la mandò; e venuta
quella, in terra distesala, su il corpo di Gabriotto vi posero, e postagli la
testa sopra uno origliere e con molte lagrime chiusigli gli occhi e la bocca, e
fattagli una ghirlanda di rose e tutto dattorno delle rose che colte avevano
empiutolo, disse alla fante:
- Di qui alla porta della
sua casa ha poca via; e per ciò tu e io, così come acconcio
l'abbiamo, quivi il porteremo e dinanzi ad essa il porremo. Egli non
andrà guari di tempo che giorno fia, e sarà ricolto; e come che
questo a'suoi niuna consolazion sia, pure a me, nelle cui braccia egli è
morto, sarà un piacere.
E così detto, da
capo con abbondantissime lagrime sopra il viso gli si gittò e per lungo
spazio pianse. La qual, molto dalla fante sollicitata, per ciò che il
giorno se ne veniva, dirizzatasi, quello anello medesimo col quale da Gabriotto
era stata sposata del dito suo trattosi, il mise nel dito di lui, con pianto
dicendo:
- Caro mio signore, se la
tua anima ora le mie lagrime vede, e niun conoscimento o sentimento dopo la
partita di quella rimane a'corpi, ricevi benignamente l'ultimo dono di colei la
qual tu vivendo cotanto amasti - ; e questo detto, tramortita addosso gli
ricadde. E dopo alquanto risentita e levatasi, colla fante insieme preso il
drappo sopra il quale il corpo giaceva, con quello del giardino uscirono e
verso la casa di lui si dirizzaro. E così andando, per caso avvenne che
dalla famiglia del podestà, che per caso andava a quella ora per alcuno
accidente, furon trovate e prese col morto corpo.
L'Andreuola, più di
morte che di vita disiderosa, conosciuta la famiglia della signoria,
francamente disse:
- Io conosco chi voi siete
e so che il volermi fuggire niente monterebbe; io son presta di venir con voi
davanti alla signoria e che ciò sia di raccontarle; ma niuno di voi sia
ardito di toccarmi, se io obbediente vi sono, né da questo corpo alcuna cosa
rimuovere, se da me non vuole essere accusato.
Per che, senza essere da
alcun tocca, con tutto il corpo di Gabriotto n'andò in palagio.
La qual cosa il
podestà sentendo, si levò, e lei nella camera avendo, di
ciò che intervenuto era s'informò; e fatto da certi medici
riguardare se con veleno o altramenti fosse stato il buono uomo ucciso, tutti
affermarono del no; ma che alcuna posta vicina al cuore gli s'era rotta, che
affogato l'avea. Il qual ciò udendo e sentendo costei in piccola cosa
esser nocente, s'ingegnò di mostrar di donarle quello che vender non le
poteva, e disse, dove ella a'suoi piaceri acconsentir si volesse, la
libererebbe. Ma non valendo quelle parole, oltre ad ogni convenevolezza, volle
usar la forza. Ma l'Andreuola, da sdegno accesa e divenuta fortissima,
virilmente si difese, lui con villane parole e altiere ributtando indietro.
Ma, venuto il dì
chiaro e queste cose essendo a messer Negro contate, dolente a morte, con molti
de'suoi amici a palagio n'andò, e quivi d'ogni cosa dal podestà
infornato, dolendosi domandò che la figliuola gli fosse renduta.
Il podestà,
volendosi prima accusare egli della forza che fare l'avea voluta che egli da
lei accusato fosse, lodando prima la giovane e la sua constanzia, per approvar
quella venne a dire ciò che fatto avea; per la qual cosa, vedendola di
tanta buona fermezza, sommo amore l'avea posto, e, dove a grado a lui, che suo
padre era, e a lei fosse, non ostante che marito avesse avuto di bassa
condizione, volentieri per sua donna la sposerebbe.
In questo tempo che costoro
così parlavano, l'Andreuola venne in cospetto del padre e piagnendo gli
si gittò innanzi e disse:
- Padre mio, io non credo
che bisogni che io la istoria del mio ardire e della mia sciagura vi racconti,
ché son certa che udita l'avete e sapetela; e per ciò, quanto più
posso, umilmente perdono vi domando del fallo mio, cioè d'avere senza
vostra saputa chi più mi piacque marito preso. E questo perdono non vi
domando perché la vita mi sia perdonata, ma per morire vostra figliuola e non
vostra nimica - ; e così piagnendo gli cadde a'piedi.
Messer Negro, che antico
era oramai e uomo di natura benigno e amorevole, queste parole udendo
cominciò a piagnere, e piagnendo levò la figliuola teneramente in
piè, e disse:
- Figliuola mia, io avrei
avuto molto caro che tu avessi avuto tal marito quale a te secondo il parer mio
si convenia; e se tu l'avevi tal preso quale egli ti piacea, questo doveva
anche a me piacere; ma l'averlo occultato della tua poca fidanza mi fa dolere,
e più ancora vedendotel prima aver perduto che io l'abbia saputo. Ma
pur, poi che così è, quello che io per contentarti, vivendo egli,
volentieri gli avrei fatto, cioè onore sì come a mio genero,
facciaglisi alla morte - ; e volto a'figliuoli e a'suo'parenti, comandò
loro che le esequie s'apparecchiassero a Gabriotto grandi e onorevoli.
Eranvi in questo mezzo
concorsi i parenti e le parenti del giovane, che saputa avevano la novella, e
quasi donne e uomini quanti nella città n'erano. Per che, posto nel
mezzo della corte il corpo sopra il drappo della Andreuola e con tutte le sue
rose, quivi non solamente da lei e dalle parenti di lui fu pianto, ma
pubblicamente quasi da tutte le donne della città e da assai uomini; e
non a guisa di plebeio ma di signore, tratto della corte pubblica, sopra gli
omeri de'più nobili cittadini con grandissimo onore fu portato alla
sepoltura.
Quindi dopo alquanti
dì, seguitando il podestà quello che addomandato avea,
ragionandolo messer Negro alla figliuola, niun cosa ne volle udire; ma, volendole
in ciò compiacere il padre, in un monistero assai famoso di
santità essa e la sua fante monache si renderono e onestamente poi in
quello per molto tempo vissero.
Giornata quarta - Novella
settima
La Simona ama Pasquino;
sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a'denti una foglia di salvia e
muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come
morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a'denti, similmente si muore.
Panfilo era della sua
novella diliberato, quando il re, nulla compassion mostrando all'Andreuola,
riguardando Emilia, sembianti le fe'che a grado li fosse che essa a coloro che
detto aveano, dicendo, si continuasse. La quale, senza al cuna dimora fare,
incominciò.
Care compagne, la novella
detta da Panfilo mi tira a doverne dire una in niuna altra cosa alla sua
simile, se non che, come l'Andreuola nel giardino perdè l'amante, e
così colei di cui dir debbo; e similmente presa, come l'Andreuola fu,
non con forza né con virtù, ma con morte inoppinata si diliberò
dalla corte. E come altra volta tra noi è stato detto, quantunque Amor
volentieri le case de'nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo
'mperio di quelle de'poveri, anzi in quelle sì alcuna volta le sue forze
dimostra, che come potentissimo signore da'più ricchi si fa temere. Il
che, ancora che non in tutto, in gran parte apparirà nella mia novella,
con la qual mi piace nella nostra città rientrare, della quale questo
dì, diverse cose diversamente parlando, per diverse parti del mondo avvolgendoci,
cotanto allontanati ci siamo.
Fu adunque, non è
gran tempo, in Firenze una giovane assai bella e leggiadra secondo la sua
condizione, e di povero padre figliuola, la quale ebbe nome Simona; e
quantunque le convenisse colle proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare
e filando lana sua vita reggesse, non fu per ciò di sì povero
animo che ella non ardisse a ricevere amore nella sua mente, il quale con gli
atti e colle parole piacevoli d'un giovinetto di non maggior peso di lei, che
dando andava per un suo maestro lanaiuolo lana a filare, buona pezza mostrato
aveva di volervi entrare.
Ricevutolo adunque in sé
col piacevole aspetto del giovane che l'amava, il cui nome era Pasquino, forte
disiderando e non attentando di far più avanti, filando, ad ogni passo
di lana filata che al fuso avvolgeva mille sospiri più cocenti che fuoco
gittava, di colui ricordandosi che a filar gliele aveva data. Quegli dall'altra
parte molto sollicito divenuto che ben si filasse la lana del suo maestro,
quasi quella sola che la Simona filava, e non alcuna altra, tutta la tela
dovesse compiere, più spesso che l'altra era sollicitata.
Per che, l'un sollicitando
e all'altra giovando d'esser sollicitata, avvenne che l'un più d'ardir
prendendo che aver non solea e l'altra molto della paura e della vergogna
cacciando che d'avere era usata, insieme a'piaceri comuni si congiunsono. Li
quali tanto all'una parte e all'altra aggradirono che, non che l'un dall'altro
aspettasse d'esser invitato a ciò, anzi a dovervi essere si faceva
incontro l'uno all'altro invitando.
E così questo lor
piacere continuando d'un giorno in uno altro e sempre più nel continuare
accendendosi, avvenne che Pasquino disse alla Simona che del tutto egli voleva
che ella trovasse modo di poter venire ad un giardino, là dove egli menar
la voleva, acciò che quivi più adagio e con men sospetto
potessero essere insieme.
La Simona disse che le
piaceva; e, dato a vedere al padre una domenica dopo mangiare che andar voleva
alla perdonanza a San Gallo, con una sua compagna chiamata la Lagina al
giardino statole da Pasquino insegnato se n'andò. Dove lui insieme con
un suo compagno, che Puccino avea nome, ma era chiamato lo Stramba,
trovò; e quivi fatto uno amorazzo nuovo tra lo Stramba e la Lagina, essi
a far de'lor piaceri in una parte del giardin si raccolsero, e lo Stramba e la
Lagina lasciarono in un'altra.
Era in quella parte del
giardino, dove Pasquino e la Simona andati se ne erano, un grandissimo e bel
cesto di salvia; a piè della quale postisi a sedere e gran pezza
sollazzatosi insieme, e molto avendo ragionato d'una merenda che in quello orto
ad animo riposato intendevan di fare, Pasquino, al gran cesto della salvia
rivolto, di quella colse una foglia e con essa s'incominciò a
stropicciare i denti e le gengie, dicendo che la salvia molto bene gli nettava
d'ogni cosa che sopr'essi rimasa fosse dopo l'aver mangiato.
E poi che così
alquanto fregati gli ebbe, ritornò in sul ragionamento della merenda,
della qual prima diceva. Né guari di spazio perseguì ragionando, che
egli s'incominciò tutto nel viso a cambiare, e appresso il cambiamento
non istette guari che egli perde la vista e la parola, e in brieve egli si
morì.
Le quali cose la Simona
veggendo, cominciò a piagnere e a gridare e a chiamar lo Stramba e la
Lagina. Li quali prestamente là corsi, e veggendo Pasquino non solamente
morto, ma già tutto enfiato e pieno d'oscure macchie per lo viso e per
lo corpo divenuto, subitamente gridò lo Stramba:
- Ahi malvagia femina, tu
l'hai avvelenato.
E fatto il romor grande, fu
da molti, che vicini al giardino abitavano, sentito. Li quali, corsi al romore
e trovando costui morto ed enfiato, e udendo lo Stramba dolersi e accusare la
Simona che con inganno avvelenato l'avesse, ed ella, per lo dolore del subito
accidente che il suo amante tolto avesse, quasi di sé uscita, non sappiendosi
scusare, fu reputato da tutti che così fosse come lo Stramba diceva.
Per la qual cosa presala,
piagnendo ella sempre forte, al palagio del podestà ne fu menata. Quivi,
prontando lo Stramba e l'Atticciato e 'l Malagevole, compagni di Pasquino che
sopravenuti erano, un giudice, senza dare indugio alla cosa, si mise ad
esaminarla del fatto; e non potendo comprendere costei in questa cosa avere
operata malizia né esser colpevole, volle, lei presente, vedere il morto corpo
e il luogo e 'l modo da lei raccontatogli, per ciò che per le parole di
lei nol comprendeva assai bene.
Fattola adunque senza
alcuno tumulto colà menare dove ancora il corpo di Pasquino giaceva
gonfiato come una botte, ed egli appresso andatovi, maravigliatosi del morto,
lei domandò come stato era. Costei, al cesto della salvia accostatasi e
ogni precedente istoria avendo raccontata, per pienamente darli ad intendere il
caso sopravenuto, così fece come Pasquino aveva fatto, una di quelle
foglie di salvia fregatasi a'denti.
Le quali cose mentre che
per lo Stramba e per lo Atticciato e per gli altri amici e compagni di Pasquino
sì come frivole e vane in presenzia del giudice erano schernite, e con
più istanzia la sua malvagità accusata, niuna altra cosa per lor
domandandosi se non che il fuoco fosse di così fatta malvagità
punitore, la cattivella, che dal dolore del perduto amante e dalla paura della
dimandata pena dallo Stramba ristretta stava, per l'aversi la salvia fregata a'denti
in quel medesimo accidente cadde che prima caduto era Pasquino, non senza gran
maraviglia di quanti eran presenti.
O felici anime, alle quali
in un medesimo dì addivenne il fervente amore e la mortal vita
terminare! E più felici, se insieme ad un medesimo luogo n'andaste! E
felicissime, se nell'altra vita s'ama, e voi v'amate come di qua faceste! Ma
molto più felice l'anima della Simona innanzi tratto, quanto è al
nostro giudicio, che vivi dietro a lei rimasi siamo, la cui innocenzia non
patì la fortuna che sotto la testimonianza cadesse dello Stramba e
dell'Atticciato e del Malagevole, forse scardassieri o più vili uomini,
più onesta via trovandole con pari sorte di morte al suo amante a
svilupparsi dalla loro infamia e a seguitar l'anima tanto da lei amata del suo
Pasquino.
Il giudice, quasi tutto
stupefatto dello accidente insieme con quanti ve n'erano, non sappiendo che
dirsi, lungamente soprastette; poi, in miglior senno rivenuto, disse:
- Mostra che questa salvia
sia velenosa, il che della salvia non suole avvenire. Ma acciò che ella
alcuno altro offender non possa in simil modo, taglisi infino alle radici e
mettasi nel fuoco.
La qual cosa colui che del
giardino era guardiano in presenza del giudice faccendo, non prima abbattuto
ebbe il gran cesto in terra, che la cagione della morte de'due miseri amanti
apparve.
Era sotto il cesto di
quella salvia una botta di maravigliosa grandezza, dal cui venenifero fiato
avvisarono quella salvia esser velenosa divenuta. Alla qual botta non avendo
alcuno ardire d'appressarsi, fattale d'intorno una stipa grandissima, quivi
insieme colla salvia l'arsero, e fu finito il processo di messer lo giudice
sopra la morte di Pasquino cattivello. Il quale insieme con la sua Simona,
così enfiati come erano, dallo Stramba e dallo Atticciato e da Guccio
Imbratta e dal Malagevole furono nella chiesa di San Paolo sepelliti, della
quale per avventura eran popolani.
Giornata quarta - Novella
ottava
Girolamo ama la Salvestra;
va, costretto da'prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala maritata;
entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa, nuore la
Salvestra allato a lui.
Aveva la novella d'Emilia
il fine suo, quando per comandamento del re Neifile così
cominciò.
Alcuni al mio giudicio,
valorose donne, sono, li quali più che l'altre genti si credon sapere, e
sanno meno; e per questo non solamente a'consigli degli uomini, ma ancora
contra la natura delle cose presummono d'opporre il senno loro; della quale
presunzione già grandissimi mali sono avvenuti e alcun bene non se ne
vide giammai. E per ciò che tra l'altre naturali cose quella che meno
riceve consiglio o operazione in contrario è amore, la cui natura
è tale che più tosto per sé medesimo consumar si può che
per avvedimento alcuno tor via, m'è venuto nello animo di narrarvi una
novella d'una donna la quale, mentre che ella cercò d'esser più
savia che a lei non si apparteneva e che non era e ancora che non sosteneva la
cosa in che studiava mostrare il senno suo, credendo dello innamorato cuore
trarre amore, il quale forse v'avevano messo le stelle, pervenne a cacciare ad
una ora amore e l'anima del corpo al figliuolo.
Fu adunque nella nostra
città, secondo che gli antichi raccontano, un grandissimo mercatante e
ricco, il cui nome fu Leonardo Sighieri, il quale d'una sua donna un figliuolo
ebbe chiamato Girolamo, appresso la natività del quale, acconci i suoi
fatti ordinatamente, passò di questa vita. I tutori del fanciullo,
insieme con la madre di lui, bene e lealmente le sue cose guidarono.
Il fanciullo crescendo
co'fanciulli degli altri suoi vicini, più che con alcuno altro della
contrada con una fanciulla del tempo suo, figliuola d'un sarto, si
dimesticò. E venendo più crescendo l'età, l'usanza si
convertì in amore tanto e sì fiero, che Girolamo non sentiva ben
se non tanto quanto costei vedeva; e certo ella non amava men lui che da lui
amata fosse.
La madre del fanciullo, di
ciò avvedutasi, molte volte ne gli disse male e nel gastigò. E
appresso co'tutori di lui, non potendosene Girolamo rimanere, se ne dolfe; e
come colei che si credeva per la gran ricchezza del figliuolo fare del pruno un
mel rancio, disse loro:
- Questo nostro fanciullo,
il quale appena ancora non ha quattordici anni, è sì innamorato
d'una figliuola d'un sarto nostro vicino, che ha nome la Salvestra, che, se noi
dinanzi non gliele leviamo, per avventura egli la si prenderà un giorno,
senza che alcuno il sappia, per moglie, e io non sarò mai poscia lieta;
o egli si consumerà per lei se ad altri la vedrà maritare; e per
ciò mi parrebbe che, per fuggir questo, voi il doveste in alcuna parte
mandare lontano di qui ne'servigi del fondaco; per ciò che, dilungandosi
da veder costei, ella gli uscirà dello animo e potrengli poscia dare
alcuna giovane ben nata per moglie.
I tutori dissero che la
donna parlava bene e che essi ciò farebbero al lor potere; e fattosi
chiamare il fanciullo nel fondaco, gl'incominciò l'uno a dire assai
amorevolmente:
- Figliuol mio, tu
se'oggimai grandicello; egli è ben fatto che tu incominci tu medesimo a
vedere de'fatti tuoi; per che noi ci contenteremmo molto che tu andassi a stare
a Parigi alquanto, dove gran parte della tua ricchezza vedrai come si traffica,
senza che tu diventerai molto migliore e più costumato e più da
bene là che qui non faresti, veggendo quei signori e quei baroni e
que'gentili uomini che vi sono assai e de'lor costumi apprendendo; poi te ne
potrai qui venire.
Il garzone ascoltò
diligentemente e in brieve rispose niente volerne fare, per ciò che egli
credeva così bene come un altro potersi stare a Firenze. I valenti
uomini, udendo questo, ancora con più parole il riprovarono; ma, non
potendo trarne altra risposta, alla madre il dissero. La quale fieramente di
ciò adirata, non del non volere egli andare a Parigi, ma del suo innamoramento,
gli disse una gran villania; e poi, con dolci parole raumiliandolo, lo
'ncominciò a lusingare e a pregare dolcemente che gli dovesse piacere di
far quello che volevano i suoi tutori; e tanto gli seppe dire che egli
acconsentì di dovervi andare a stare uno anno e non più; e
così fu fatto.
Andato adunque Girolamo a
Parigi fieramente innamorato, d'oggi in domane ne verrai, vi fu due anni
tenuto. Donde più innamorato che mai tornatosene, trovò la sua
Salvestra maritata ad un buon giovane che faceva le trabacche, di che egli fu
oltre misura dolente. Ma pur, veggendo che altro esser non poteva,
s'ingegnò di darsene pace; e spiato là dove ella stesse a casa,
secondo l'usanza de'giovani innamorati incominciò a passare davanti a
lei, credendo che ella non avesse lui dimenticato, se non come egli aveva lei.
Ma l'opera stava in altra guisa; ella non si ricordava di lui se non come se
mai non lo avesse veduto; e, se pure alcuna cosa se ne ricordava, sì
mostrava il contrario. Di che in assai piccolo spazio di tempo il giovane s'accorse,
e non senza suo grandissimo dolore. Ma nondimeno ogni cosa faceva che poteva,
per rientrarle nello animo; ma niente parendogli adoperare, si dispose, se
morir ne dovesse, di parlarle esso stesso.
E da alcuno vicino
informatosi come la casa di lei stesse, una sera che a vegghiare erano ella e
'l marito andati con lor vicini, nascosamente dentro v'entrò, e nella
camera di lei dietro a teli di trabacche che tesi v'erano si nascose, e tanto
aspettò che, tornati costoro e andatisene al letto, sentì il marito
di lei addormentato, e là se n'andò dove veduto aveva che la
Salvestra coricata s'era, e postale la sua mano sopra il petto, pianamente
disse:
- O anima mia, dormi tu
ancora?
La giovane, che non
dormiva, volle gridare, ma il giovane prestamente disse:
- Per Dio, non gridare, ché
io sono il tuo Girolamo.
Il che udendo costei, tutta
tremante disse:
- Deh, per Dio, Girolamo,
vattene; egli è passato quel tempo che alla nostra fanciullezza non si
disdisse l'essere innamorati; io sono, come tu vedi, maritata; per la qual cosa
più non sta bene a me d'attendere ad altro uomo che al mio marito; per
che io ti priego per solo Iddio che tu te ne vada; ché se mio marito ti
sentisse, pogniamo che altro male non ne seguisse, sì ne seguirebbe che
mai in pace né in riposo con lui viver potrei, dove ora amata da lui in bene e
in tranquillità con lui mi dimoro.
Il giovane, udendo queste
parole, sentì noioso dolore; e ricordatole il passato tempo e 'l suo
amore mai per distanzia non menomato, e molti prieghi e promesse grandissime
mescolate, niuna cosa ottenne.
Per che, disideroso di
morire, ultimamente la pregò che in merito di tanto amore ella
sofferisse che egli allato a lei si coricasse, tanto che alquanto riscaldar si
potesse, ché era agghiacciato aspettandola; promettendole che né le direbbe
alcuna cosa né la toccherebbe e, come un poco riscaldato fosse, se n'andrebbe.
La Salvestra, avendo un
poco compassion di lui, con le condizioni date da lui il concedette. Coricossi
adunque il giovine allato a lei senza toccarla; e raccolto in un pensiere il
lungo amor portatole e la presente durezza di lei e la perduta speranza,
diliberò di più non vivere; e ristretti in sé gli spiriti, senza
alcun motto fare, chiuse le pugna, allato a lei si morì. E dopo alquanto
spazio la giovane maravigliandosi della sua contenenza, temendo non il
maritò si svegliasse, cominciò a dire:
- Deh, Girolamo, ché non te
ne vai tu?
Ma non sentendosi
rispondere, pensò lui essere addormentato; per che, stesa oltre la mano
acciò che si svegliasse, il cominciò a tentare, e toccandolo il
trovò come ghiaccio freddo, di che ella si maravigliò forte; e
toccandolo con più forza e sentendo che egli non si movea, dopo
più ritoccarlo cognobbe che egli era morto; di che oltre modo dolente,
stette gran pezza senza saper che farsi. Alla fine prese consiglio di volere in
altrui persona tentar quello che il marito dicesse da farne; e destatolo,
quello che presenzialmente a lei avvenuto era, disse essere ad un'altra
intervenuto, e poi il domandò, se a lei avvenisse, che consiglio ne
prenderebbe.
Il buono uomo rispose che a
lui parrebbe che colui che morto fosse si dovesse chetamente riportare a casa
sua e quivi lasciarlo, senza alcuna malavoglienza alla donna portarne, la quale
fallato non gli pareva ch'avesse.
Allora la giovane disse:
- E così convien
fare a noi - ; e presagli la mano, gli fece toccare il morto giovane.
Di che egli tutto smarrito
si levò su e, acceso un lume, senza entrare colla moglie in altre
novelle, il morto corpo de'suoi panni medesimi rivestito e senza alcuno
indugio, aiutandolo la sua innocenzia, levatoselo in su le spalle, alla porta
della casa di lui nel portò e quivi il pose e lasciollo stare.
E venuto il giorno, e
veduto costui davanti all'uscio suo morto, fu fatto il romor grande, e
spezialmente dalla madre; e cerco per tutto e riguardato, e non trovatoglisi né
piaga né percossa alcuna, per li medici generalmente fu creduto lui di dolore
esser morto così come era. Fu adunque questo corpo portato in una
chiesa, e quivi venne la dolorosa madre con molte altre donne parenti e vicine,
e sopra lui cominciarono dirottamente, secondo l'usanza nostra, a piagnere e a
dolersi.
E mentre il corrotto
grandissimo si facea, il buono uomo, in casa cui morto era, disse alla Salvestra:
- Deh ponti alcun mantello
in capo e va a quella chiesa dove Girolamo è stato recato e mettiti tra
le donne, e ascolterai quello che di questo fatto si ragiona, e io farò
il simigliante tra gli uomini, acciò che noi sentiamo se alcuna cosa
contro a noi si dicesse.
Alla giovane, che tardi era
divenuta pietosa, piacque, sì come a colei che morto disiderava di veder
colui a cui vivo non avea voluto d'un sol bacio piacere, e andovvi.
Maravigliosa cosa è
a pensare quanto sieno difficili ad investigare le forze d'Amore! Quel cuore,
il quale la lieta fortuna di Girolamo non aveva potuto aprire, la miseria
l'aperse, e l'antiche fiamme risuscitatevi tutte subitamente mutò in
tanta pietà, come ella il viso morto vide, che sotto 'l mantel chiusa,
tra donna e donna mettendosi, non ristette prima che al corpo fu pervenuta; e
quivi, mandato fuori uno altissimo strido, sopra il morto giovane si
gittò col suo viso, il quale non bagnò di molte lagrime, per
ciò che prima nol toccò che, come al giovane il dolore la vita
aveva tolta, così a costei tolse.
Ma poi che, riconfortandola
le donne e dicendole che su si levasse alquanto, non conoscendola ancora, e poi
che ella non si levava, levar volendola e immobile trovandola, pur
sollevandola, ad una ora lei esser la Salvestra e morta conobbero. Di che tutte
le donne che quivi erano, vinte da doppia pietà, ricominciarono il
pianto assai maggiore.
Sparsesi fuor della chiesa
tra gli uomini la novella, la quale pervenuta agli orecchi del marito di lei,
che tra loro era, senza ascoltare consolazione o conforto da alcuno, per lungo
spazio pianse. E poi ad assai di quegli che v'erano raccontata la istoria stata
la notte di questo giovane e della moglie, manifestamente per tutti si seppe la
cagione della morte di ciascuno, il che a tutti dolfe.
Presa adunque la morta
giovane e lei così ornata come s'acconciano i corpi morti, sopra quel
medesimo letto allato al giovane la posero a giacere, e quivi lungamente
pianta, in una medesima sepoltura furono sepelliti amenduni; e loro, li quali Amor
vivi non aveva potuto congiugnere, la morte congiunse con inseparabile
compagnia.
Giornata quarta - Novella
nona
Messer Guiglielmo
Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo
Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta
da una alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita.
Essendo la novella di
Neifile finita, non senza aver gran compassion messa in tutte le sue compagne,
il re, il qual non intendeva di guastare il privilegio di Dioneo, non essendovi
altri a dire, incominciò.
Emmisi parata dinanzi,
pietose donne, una novella alla qual, poi che così degli infortunati
casi d'amore vi duole, vi converrà non meno di compassione avere che
alla passata, per ciò che da più furono coloro a'quali ciò
che io dirò avvenne, e con più fiero accidente che quegli
de'quali è parlato.
Dovete adunque sapere che,
secondo che raccontano i provenzali, in Provenza furon già due nobili
cavalieri, de'quali ciascuno e castella e vassalli aveva sotto di sé, e aveva
l'uno nome messer Guiglielmo Rossiglione e l'altro messer Guiglielmo
Gardastagno; e per ciò che l'uno e l'altro era prod'uomo molto
nell'arme, s'amavano assai e in costume avean d'andar sempre ad ogni
torniamento o giostra o altro fatto d'arme insieme e vestiti d'una assisa.
E come che ciascun
dimorasse in un suo castello e fosse l'un dall'altro lontano ben diece miglia,
pur avvenne che, avendo messer Guiglielmo Rossiglione una bellissima e vaga
donna per moglie, messer Guiglielmo Guardastagno fuor di misura, non ostante
l'amistà e la compagnia che era tra loro, s'innamorò di lei e
tanto, or con uno atto e or con uno altro fece, che la donna se n'accorse; e
conoscendolo per valorosissimo cavaliere, le piacque, e cominciò a porre
amore a lui, in tanto che niuna cosa più che lui disiderava o amava, né
altro attendeva che da lui esser richiesta; il che non guari stette che
avvenne, e insieme furono e una volta e altra, amandosi forte.
E men discretamente insieme
usando, avvenne che il marito se n'accorse e forte ne sdegnò, in tanto
che il grande amore che al Guardastagno portava in mortale odio
convertì; ma meglio il seppe tener nascoso che i due amanti non avevano
saputo tenere il loro amore, e seco diliberò del tutto d'ucciderlo.
Per che, essendo il
Rossiglione in questa disposizione, sopravenne che un gran torneamento si
bandì in Francia, il che il Rossiglione incontanente significò al
Guardastagno, e mandogli a dire che, se a lui piacesse, da lui venisse e
insieme diliberrebbono se andar vi volessono e come. Il Guardastagno lietissimo
rispose che senza fallo il dì seguente andrebbe a cenar con lui.
Il Rossiglione, udendo
questo, pensò il tempo esser venuto di poterlo uccidere; e armatosi il
dì seguente con alcuno suo famigliare montò a cavallo, e forse un
miglio fuori del suo castello in un bosco si ripose in agguato, donde doveva il
Guardastagno passare; e avendolo per un buono spazio atteso, venir lo vide
disarmato con due famigliari appresso disarmati, sì come colui che di
niente da lui si guardava; e come in quella parte il vide giunto dove voleva,
fellone e pieno di mal talento con una lancia sopra mano gli uscì
addosso gridando:
- Traditor, tu se'morto - ;
e il così dire e il dargli di questa lancia per lo petto fu una cosa.
Il Guardastagno, sena
potere alcuna difesa fare o pur dire una parola, passato di quella lancia,
cadde e poco appresso morì. I suoi famigliari, senza aver conosciuto chi
ciò fatto s'avesse, voltate le teste de'cavalli, quanto più
poterono si fuggirono verso il castello del lor signore.
Il Rossiglione, smontato,
con un coltello il petto del Guardastagno aprì e colle proprie mani il
cuor gli trasse, e quel fatto avviluppare in un pennoncello di lancia,
comandò ad un de'suoi famigliari che nel portasse; e avendo a ciascun
comandato che niun fosse tanto ardito che di questo facesse parola,
rimontò a cavallo, ed essendo già notte al suo castello se ne
tornò.
La donna, che udito aveva
il Guardastagno dovervi esser la sera a cena e con disidero grandissimo
l'aspettava, non vedendol venire si maravigliò forte e al marito disse:
- E come è
così, messere, che il Guardastagno non è venuto?
A cui il marito disse:
- Donna, io ho avuto da lui
che egli non ci può essere di qui domane - ; di che la donna un poco
turbatetta rimase.
Il Rossiglione, smontato,
si fece chiamare il cuoco e gli disse:
- Prenderai quel cuor di
cinghiare e fa'che tu ne facci una vivandetta la migliore e la più
dilettevole a mangiar che tu sai; e quando a tavola sarò, me la manda in
una scodella d'argento.
Il cuoco, presolo e postavi
tutta l'arte e tutta la sollicitudine sua, minuzzatolo e messevi di buone
spezie assai, ne fece uno manicaretto troppo buono.
Messer Guiglielmo, quando
tempo fu, con la sua donna si mise a tavola. La vivanda venne, ma egli per lo
malificio da lui commesso, nel pensiero impedito, poco mangiò.
Il cuoco gli mandò
il manicaretto, il quale egli fece porre davanti alla donna, sé mostrando
quella sera svogliato, e lodogliele molto.
La donna, che svogliata non
era, ne cominciò a mangiare e parvele buono; per la qual cosa ella il
mangiò tutto.
Come il cavaliere ebbe
veduto che la donna tutto l'ebbe mangiato, disse:
- Donna, chente v'è
paruta questa vivanda?
La donna rispose:
- Monsignore, in buona
fè ella m'è piaciuta molto.
- Se m'aiti Iddio, - disse
il cavaliere - io il vi credo, né me ne maraviglio se morto v'è piaciuto
ciò che vivo più che altra cosa vi piacque.
La donna, udito questo,
alquanto stette; poi disse:
- Come? Che cosa è
questa che voi m'avete fatta mangiare?
Il cavalier rispose:
- Quello che voi avete
mangiato è stato veramente il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno,
il qual voi come disleal femina tanto amavate; e sappiate di certo ch'egli
è stato desso, per ciò che io con queste mani gliele strappai, poco
avanti che io tornassi, del petto.
La donna, udendo questo di
colui cui ella più che altra cosa amava, se dolorosa fu non è da
domandare; e dopo al quanto disse:
- Voi faceste quello che
disleale e malvagio cavalier dee fare; ché se io, non sforzandomi egli, l'avea
del mio amor fatto signore e voi in questo oltraggiato, non egli ma io ne
doveva la pena portare. Ma unque a Dio non piaccia che sopra a così
nobil vivanda, come è stata quella del cuore d'un così valoroso e
così cortese cavaliere come messer Guiglielmo Guardastagno fu, mai altra
vivanda vada.
E levata in piè, per
una finestra la quale dietro a lei era, indietro senza altra diliberazione si
lasciò cadere.
La finestra era molto alta
da terra, per che, come la donna cadde, non solamente morì, ma quasi
tutta si disfece.
Messer Guiglielmo, vedendo
questo, stordì forte, e parvegli aver mal fatto; e temendo egli
de'paesani e del conte di Proenza, fatti sellare i cavalli, andò via.
La mattina seguente fu
saputo per tutta la contrada come questa cosa era stata: per che da quegli del
castello di messer Guiglielmo Guardastagno e da quegli ancora del castello
della donna con grandissimo dolore e pianto furono i due corpi ricolti e nella
chiesa del castello medesimo della donna in una medesima sepoltura fur posti, e
sopr'essa scritti versi significanti chi fosser quegli che dentro sepolti
v'erano e il modo e la cagione della lor morte.
Giornata quarta - Novella
decima
La moglie d'un medico per
morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due
usurai se ne portano in casa. Questi si sente, è preso per ladro; la
fante della donna racconta alla signoria sé averlo esso nell'arca dagli
usurieri imbolata, laond'egli scampa dalle forche e i prestatori d'avere l'arca
furata sono condannati in denari.
Solamente a Dioneo, avendo
già il re fatto fine al suo dire, restava la sua fatica, il quale,
ciò conoscendo, e già dal re essendogli imposto,
incominciò.
Le miserie degli infelici
amori raccontate, non che a voi, donne, ma a me hanno già contristati
gli occhi e 'l petto, per che io sommamente disiderato ho che a capo se ne
venisse. Ora, lodato sia Iddio, che finite sono (salvo se io non volessi a
questa malvagia derrata fare una mala giunta, di che Iddio mi guardi), senza
andar più dietro a così dolorosa materia, da alquanto più
lieta e migliore incomincerò, forse buono indizio dando a ciò che
nella seguente giornata si dee ragionare.
Dovete adunque sapere,
bellissime giovani, che ancora non è gran tempo che in Salerno fu un
grandissimo medico in cirugia, il cui nome fu maestro Mazzeo della Montagna, il
quale, già all'ultima vecchiezza vicino, avendo presa per moglie una
bella e gentil giovane della sua città, di nobili vestimenti e ricchi e
d'altre gioie e tutto ciò che ad una donna può piacere meglio che
altra della città teneva fornita; vero è che ella il più
del tempo stava infreddata, sì come colei che nel letto era mal dal
maestro tenuta coperta.
Il quale, come messer
Ricciardo di Chinzica, di cui dicemmo, alla sua insegnava le feste, così
costui a costei mostrava che il giacere con una donna una volta si penava a
ristorar non so quanti dì, e simili ciance; di che ella vivea
pessimamente contenta. E, sì come savia e di grande animo, per potere
quello da casa risparmiare, si dispose di gittarsi alla strada e voler logorar
dello altrui; e più e più giovani riguardati, nella fine uno ne
le fu all'animo, nel quale, ella pose tutta la sua speranza, tutto il suo animo
e tutto il ben suo. Di che il giovane accortosi, e piacendogli forte,
similmente in lei tutto il suo amor rivolse.
Era costui chiamato
Ruggieri d'Aieroli, di nazion nobile ma di cattiva vita e di biasimevole stato,
in tanto che parente né amico lasciato s'avea che ben gli volesse o che il
volesse vedere; e per tutto Salerno di ladronecci o d'altre vilissime
cattività era infamato, di che la donna poco curò, piacendole
esso per altro, e con una sua fante tanto ordinò che insieme furono. E
poi che alquanto diletto preso ebbero, la donna gli cominciò a biasimare
la sua passata vita e a pregarlo che, per amor di lei, di quelle cose si
rimanesse; e a dargli materia di farlo lo incominciò a sovvenire quando
d'una quantità di denari e quando d'un'altra.
E in questa maniera
perseverando insieme assai discretamente, avvenne che al medico fu messo tra le
mani uno in fermo, il quale aveva guasta l'una delle gambe; il cui difetto
avendo il maestro veduto, disse a'suoi parenti che, dove un osso fracido il
quale aveva nella gamba non gli si cavasse, a costui si convenia del tutto o
tagliare tutta la gamba o morire; e a trargli l'osso potrebbe guerire, ma che
egli altro che per morto nol prenderebbe; a che accordatisi co loro a'quali
apparteneva, per così gliele diedero.
Il medico, avvisando che
l'infermo senza essere adoppiato non sosterrebbe la pena né si lascerebbe
medicare, dovendo attendere in sul vespro a questo servigio, fe'la mattina
d'una sua certa composizione stillare una acqua la qua e l'avesse, bevendola,
tanto a far dormire quanto esso avvisava di doverlo poter penare a curare; e
quella fattasene venire a casa, in una finestra della sua camera la pose, senza
dire ad alcuno ciò che si fosse.
Venuta l'ora del vespro,
dovendo il maestro andare a costui, gli venne un messo da certi suoi grandissimi
amici d'Amalfi, che egli non dovesse lasciar per cosa alcuna che incontanente
là non andasse, per ciò che una gran zuffa stata v'era, di che
molti v'erano stati fediti.
Il medico, prolungata nella
seguente mattina la cura del la gamba, salito in su una barchetta,
n'andò a Amalfi; per la qual cosa la donna, sappiendo lui la notte non
dover tornare a casa, come usata era, occultamente si fece venire Ruggieri e
nella sua camera il mise, e dentro il vi serrò in fino a tanto che certe
altre persone della casa s'andassero a dormire.
Standosi adunque Ruggieri
nella camera e aspettando la donna, avendo o per fatica il dì durata o
per cibo salato che mangiato avesse o forse per usanza una grandissima sete,
gli venne nella finestra veduta questa guastadetta d'acqua la qua le il medico
per lo 'nfermo aveva fatta e, credendola acqua da bere, a bocca postalasi,
tutta la bevve; né stette guari che un gran sonno il prese e fussi
addormentato.
La donna, come prima
potè, nella camera se ne venne, e trovato Ruggieri dormendo lo
'ncominciò a tentare e a dire con sommessa voce che su si levasse; ma
questo era niente; egli non rispondea né si movea punto.
Per che la donna alquanto
turbata con più forza il sospinse dicendo:
- Leva su, dormiglione,
ché, se tu volevi dormire, tu te ne dovevi andare a casa tua e non venir qui.
Ruggieri, così
sospinto cadde a terra d'una cassa sopra la quale era, né altra vista d'alcun
sentimento fece che avrebbe fatto un corpo morto. Di che la donna, alquanto
spaventata, il cominciò a voler rilevare e a menarlo più forte e
a prenderlo per lo naso e a tirarlo per la barba; ma tutto era nulla: egli
aveva a buona caviglia legato l'asino.
Per che la donna
cominciò a temere non fosse morto; ma pure ancora gli 'ncominciò
a strignere agramente le carni e a cuocerlo con una candela accesa, ma niente
era; per che ella, che medica non era, come che medico fosse il marito, senza
alcun fallo lui credette morto. Per che, amandolo sopra ogni altra cosa come
facea, se fu dolorosa non è da domandare; e non osando fare romore,
tacitamente sopra di lui cominciò a piagnere e a dolersi di così
fatta disavventura.
Ma dopo alquanto, temendo
la donna di non aggiugnere al suo danno vergogna, pensò che senza alcun
indugio da trovare era modo come lui morto si traesse di casa; né a ciò
sappiendosi consigliare, tacitamente chiamò la sua fante, e la sua
disavventura mostratale, le chiese consiglio. La fante, maravigliandosi forte e
tirandolo ancora ella e strignendolo, e senza sentimento vedendolo, quel disse
che la donna dicea, cioè veramente lui esser morto, e consigliò
che da metterlo fuor di casa era.
A cui la donna disse:
- E dove il potrem noi
porre, che egli non si suspichi, domattina quando veduto sarà, che di
qua entro sia stato tratto?
A cui la fante rispose:
- Madonna, io vidi questa
sera al tardi dirimpetto al la bottega di questo legnaiuolo nostro vicino una
arca non troppo grande, la quale, se 'l maestro non l'ha riposta in casa,
verrà troppo in concio a'fatti nostri, per ciò che dentro ve 'l
potrem mettere e dargli due o tre colpi d'un coltello, e lasciarlo stare. Chi
in quella il troverà non so perché più di qua entro che
d'altronde vi sel creda messo; anzi si crederà, per ciò che
malvagio giovane è stato, che, andando a fare alcun male, da alcuno suo
nimico sia stato ucciso e poi messo nell'arca.
Piacque alla donna il
consiglio della fante, fuor che di dargli alcuna fedita, dicendo che non le
potrebbe per cosa del mondo sofferir l'animo di ciò fare; e mandolla a
vedere se quivi fosse l'arca dove veduta l'avea; la qual tornò e disse
di sì. La fante adunque, che giovane e gagliarda era, dalla donna
aiutata, sopra le spalle si pose Ruggieri, e andando la donna innanzi a guardar
se persona venisse, venute al l'arca, dentro vel misero, e richiusala, il lasciarono
stare.
Erano di quei dì
alquanto più oltre tornati in una casa due giovani, li quali prestavano
ad usura, e volenterosi di guadagnare assai e di spender poco, avendo bisogno
di masserizie, il dì davanti avean quella arca veduta, e insieme posto
che, se la notte vi rimanesse, di portarnela in casa loro.
E venuta la mezza notte, di
casa usciti, trovandola, senza entrare in altro ragguardamento, prestamente,
ancora che lor gravetta paresse, ne la portarono in casa loro e allogaronla
allato ad una camera dove lor femine dormivano senza curarsi di acconciarla
troppo appunto allora; e lasciatala stare, se n'andarono a dormire.
Ruggieri, il quale
grandissima pezza dormito avea, e già aveva digesto il beveraggio e la
virtù di quel consumata, essendo vicino a matutin, si destò; e,
come che rotto fosse il sonno, e'sensi avessero la loro virtù
recuperata, pur gli rimase nel cerebro una stupefazione, la quale non solamente
quella notte ma poi parecchi dì il tenne stordito; e aperti gli occhi e
non veggendo alcuna cosa e sparte le mani in qua e in là, in questa arca
trovandosi, cominciò a smemorare e a dir seco: - Che è questo?
Dove sono io? Dormo io, o son desto? Io pur mi ricordo che questa sera io venni
nella camera della mia donna, e ora mi pare essere in una arca. Questo che vuol
dire? Sarebbe il medico tornato o altro accidente sopravenuto, per lo quale la
donna dormendo io, qui m'avesse nascoso? Io il credo, e fermamente così
sarà -.
E per questo
cominciò a star cheto e ad ascoltare se alcuna cosa sentisse; e
così gran pezza dimorato, stando anzi a disagio che no nell'arca che era
piccola, e dogliendogli il lato in sul quale era, in su l'altro volger
vogliendosi, sì destramente il fece che, dato delle reni nell'un de'lati
della arca, la quale non era stata posta sopra luogo iguali, la fe'piegare e
appresso cadere, e cadendo fece un gran romore, per lo quale le femine che ivi
allato dormivano si destarono ed ebber paura, e per paura tacettono.
Ruggieri per lo cader
dell'arca dubitò forte, ma sentendola per lo cadere aperta, volle
avanti, se altro avvenisse, esserne fuori che starvi dentro. E tra che egli non
sapeva dove si fosse, e una cosa e un'altra, cominciò ad andar
brancolando per la casa, per sapere se scala o porta trovasse donde andar se ne
potesse.
Il qual brancolare sentendo
le femine che deste erano, cominciarono a dire: - Chi è là? -
Ruggieri, non conoscendo la voce non rispondea; per che le femine cominciarono
a chiamare i due giovani, li quali, per ciò che molto vegghiato aveano,
dormivan forte né sentivano d'alcuna di queste cose niente.
Laonde le femine,
più paurose divenute, levatesi e fattesi a certe finestre, cominciarono
a gridare: - Al ladro, al ladro. - Per la qual cosa per diversi luoghi
più de'vicini, chi su per lo tetto e chi per una parte e chi per
un'altra, corsono ed entrar nella casa; e i giovani similmente, desti a questo
romore, si levarono.
E Ruggieri (il qual quivi
vedendosi, quasi di sé per maraviglia uscito, né da qual parte fuggir si
dovesse o potesse vedea) preso dierono nelle mani della famiglia del rettore
della terra, la qual quivi già era al romor corsa; e davanti al rettore
menatolo, per ciò che malvagissimo era da tutti tenuto, senza indugio
messo al martorio, confessò nella casa de'prestatori essere per imbolare
entrato; per che il rettor pensò di doverlo senza troppo indugio fare
impiccar per la gola.
La novella fu la mattina
per tutto Salerno che Ruggieri era stato preso ad imbolare in casa
de'prestatori; il che la donna e la sua fante udendo, di tanta maraviglia e di
sì nuova fur piene, che quasi eran vicine di far credere a sé medesime
che quello che fatto avevan la notte passata non l'avesser fatto ma avesser
sognato di farlo; e oltre a questo del pericolo nel quale Ruggieri era la donna
sentiva sì fatto dolore, che quasi n'era per impazzare.
Non guari appresso la mezza
terza, il medico tornato da Amalfi domandò che la sua acqua gli fosse
recata, per ciò che medicare voleva il suo infermo; e trovandosi la
guasta detta vota, fece un gran romore che niuna cosa in casa sua durar poteva
in istato.
La donna, che da altro
dolore stimolata era, rispose adirata dicendo:
- Che direste voi, maestro,
d'una gran cosa, quando d'una guastadetta d'acqua versata fate sì gran
romore? Non se ne truova egli più al mondo?
A cui il maestro disse:
- Donna, tu avvisi che
quella fosse acqua chiara; non è così, anzi era una acqua
lavorata da far dormire - ; e contolle per che cagion fatta l'avea.
Come la donna ebbe questo
udito, così s'avvisò che Ruggieri quella avesse beuta e per
ciò loro fosse paruto morto, e disse:
- Maestro, noi nol
sapavamo, e per ciò rifatevi dell'altra.
Il maestro, veggendo che
altro esser non poteva, fece far della nuova.
Poco appresso la fante che
per comandamento della donna era andata a saper quello che di Ruggier si
dicesse, tornò e dissele:
- Madonna, di Ruggier dice
ogn'uom male, né, per quello che io abbia potuto sentire, amico né parente
alcuno è che per aiutarlo levato si sia o si voglia levare; e credesi
per fermo che domane lo straticò il farà impiccare. E oltre a
questo vi vo'dire una nuova cosa, che egli mi pare aver compreso come egli in
casa de'prestatori pervenisse, e udite come: voi sapete bene il legnaiuolo
dirimpetto al quale era l'arca dove noi il mettemmo; egli era testé con uno, di
cui mostra che quell'arca fosse, alla maggior quistion del mondo; ché colui
domandava i denari della arca sua, e il maestro rispondeva che egli non aveva
venduta l'arca, anzi gli era la notte stata imbolata. Al quale colui diceva: -
Non è così, anzi l'hai venduta alli due giovani prestatori,
sì come essi stanotte mi dissero, quando io in casa loro la vidi allora
che fu preso Ruggieri -. A cui il legnaiuolo disse: - Essi mentono, per
ciò che mai io non la vende'loro, ma essi que sta notte passata me
l'avranno imbolata; andiamo a loro -. E sì se ne andarono di concordia a
casa i prestatori, e io me ne son qui venuta. E, come voi potete vedere, io
comprendo che in cotal guisa Ruggieri, la dove trovato fu, trasportato fosse;
ma come quivi risuscitasse, non so vedere io.
La donna allora
comprendendo ottimamente come il fatto stava, disse alla fante ciò che
dal medico udito avea, e pregolla che allo scampo di Ruggieri dovesse dare
aiuto, sì co me colei che, volendo, ad una ora poteva Ruggieri scampare e
servar l'onor di lei.
La fante disse:
- Madonna, insegnatemi
come, e io farò volentieri ogni cosa.
La donna, sì come
colei alla quale istrignevano i cintolini, con subito consiglio avendo avvisato
ciò che da fare era, ordinatamente di quello la fante informò. La
quale primieramente se n'andò al medico, e piagnendo gli
'ncominciò a dire:
- Messere, a me conviene
domandarvi perdono d'un gran fallo, il quale verso di voi ho commesso.
Disse il maestro:
- E di che?
E la fante, non restando di
lagrimar, disse:
- Messere, voi sapete che
giovane Ruggieri d'Aieroli sia, al quale, piacendogli io, tra per paura e per
amore mi convenne uguanno divenire amica; e sappiendo egli iersera non ci
eravate, tanto mi lusingò che io in casa vostra nella mia camera a dormire
meco il menai, e avendo egli sete né io avendo ove più tosto ricorrere o
per acqua o per vino, non volendo che la vostra donna, la quale in sala era, mi
vedesse, ricordandomi che nella vostra camera una guastadetta d'acqua aveva
veduta, corsi per quella e sì gliele diedi bere e la guastada riposi
donde levata l'avea, di che io truovo che voi in casa un gran romor n'avete
fatto. E certo io confesso che io feci male; ma chi è colui che alcuna
volta mal non faccia? Io ne son molto dolente d'averlo fatto; non pertanto, per
questo, e per quello che poi ne seguì, Ruggieri n'è per perdere
la persona; per che io quanto più posso vi priego che voi mi perdoniate
e mi diate licenzia che io vada ad aiutare, in quello che per me si
potrà, Ruggieri.
Il medico udendo costei, con
tutto che ira avesse, motteggiando rispose:
- Tu te n'hai data la
perdonanza tu stessa, per ciò che, dove tu credesti questa notte un
giovane avere che molto bene il pelliccion ti scotesse, avesti un dormiglione;
e per ciò va procaccia la salute del tuo amante, e per innanzi ti guarda
di più in casa non menarlo, ché io ti pagherei di questa volta e di
quella.
Alla fante per la prima
broccata parendo aver ben procacciato, quanto più tosto potè se
n'andò alla prigione dove Ruggieri era, e tanto il prigionier
lusingò che egli la lasciò a Ruggieri favellare. La quale, poi
che informato l'ebbe di ciò che rispondere dovesse allo straticò,
se scampar volesse, tanto fece che allo straticò andò davanti.
Il quale, prima che
ascoltare la volesse, per ciò che fresca e gagliarda era, volle una
volta attaccare l'uncino alla cristianella di Dio, ed ella, per essere meglio
udita, non ne fu punto schifa; e dal macinio levatasi, disse:
- Messere, voi avete qui
Ruggieri d'Aieroli preso per ladro, e non è così il vero.
E cominciatosi dal capo,
gli contò la storia infino alla fine, come ella, sua amica, in casa il
medico menato l'avea e come gli avea data bere l'acqua adoppiata non
conoscendola, e come per morto l'avea nell'arca messo; e appresso que sto, ciò
che tra 'l maestro legnaiuolo e il signor della arca aveva udito gli disse, per
quella mostrandogli come in casa i prestatori fosse pervenuto Ruggieri.
Lo straticò,
veggendo che leggier cosa era a ritrovare se ciò fosse vero, prima il
medico domandò se vero fosse dell'acqua e trovò che così
era stato; e appresso fatti richiedere il legnaiuolo e colui di cui stata era
l'arca e'prestatori, dopo molte novelle trovò li prestatori la notte
passata aver l'arca imbolata e in casa messalasi.
Ultimamente mandò
per Ruggieri, e domandatolo dove la sera dinanzi albergato fosse, rispose che
dove albergato si fosse non sapeva, ma ben si ricordava che andato era ad
albergare con la fante del maestro Mazzeo, nella camera della quale aveva
bevuto acqua per gran sete ch'avea; ma che poi di lui stato si fosse, se non
quando in casa i prestatori destandosi s'era trovato in una arca, egli non
sapeva.
Lo straticò, queste
cose udendo e gran piacer pigliandone, e alla fante e a Ruggieri e al
legnaiuolo e a'prestatori più volte ridir le fece.
Alla fine, cognoscendo
Ruggieri essere innocente, condannati i prestatori che imbolata avevan l'arca
in diece once, liberò Ruggieri. Il che quanto a lui fosse caro, niun ne
domandi; e alla sua donna fu carissimo oltre misura. La qual poi con lui insieme
e colla cara fante, che dare gli aveva voluto delle coltella, più volte
rise ed ebbe festa, il loro amore e il loro sollazzo sempre continuando di bene
in meglio; il che vorrei che così a me avvenisse, ma non d'esser messo
nell'arca.
Giornata quarta - Conclusione
Se le prime novelle li
petti delle vaghe donne avevan contristati questa ultima di Dioneo le fece ben
tanto ridere, e spezialmente quando disse lo straticò aver l'uncino
attaccato che essi si poterono della compassione avuta dell'altre ristorare.
Ma veggendo il re che il
sole cominciava a farsi giallo e il termine della sua signoria era venuto, con
assai piacevoli parole alle belle donne si scusò di ciò che fatto
avea, cioè daver fatto ragionare di materia così fiera come
è quel la della infelicità degli amanti; e fatta la scusa, in
piè si levò e della testa si tolse la laurea, e aspettando le
donne a cui porre la dovesse piacevolmente sopra il capo biondissimo della
Fiammetta la pose, dicendo
- Io pongo a te questa
corona sì come a colei la quale meglio, dell'aspra giornata di oggi, che
alcuna altra, con quella di domane queste nostre compagne racconsolar saprai.
La Fiammetta li cui capelli
eran crespi, lunghi e d'oro e sopra li candidi e dilicati omeri ricadenti, e il
viso ritondetto con un colore vero di bianchi gigli e di vermiglie rose
mescolati tutto splendido, con due occhi in testa che parevano d'un falcon
pellegrino e con una boccuccia piccolina, li cui labbri parevan due rubinetti,
sorridendo rispose:
- Filostrato, e io la
prendo volentieri; e acciò che meglio t'avveggi di quello che fatto hai,
infino da ora voglio e comando che ciascun s'apparecchi di dovere domane
ragionare di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati
accidenti, felicemente avvenisse.
La qual proposizione a
tutti piacque. Ed essa, fattosi il siniscalco venire, e delle cose opportune
con lui insieme avendo disposto, tutta la brigata, da seder levandosi, per
infino all'ora della cena lietamente licenziò.
Costoro adunque, parte per
lo giardino, la cui bellezza non era da dover troppo tosto rincrescere, e parte
verso le mulina che fuor di quel macinavano, e chi qua e chi là, a
prender secondo i diversi appetiti diversi diletti si diedono infino all'ora
della cena.
La qual venuta, tutti
raccolti, come usati erano, appresso della bella fonte con grandissimo piacere
e ben serviti cenarono. E da quella levatisi, come usati erano, al danzare e al
cantar si diedono, e menando Filomena la danza, disse la reina:
- Filostrato, io non
intendo deviare da'miei passati, ma, sì come essi hanno fatto,
così intendo che per lo mio comandamento si canti una canzone; e per
ciò che io son certa che tali sono le tue canzoni chenti sono le tue
novelle, acciò che più giorni che questo non sieno turbati
da'tuoi infortuni, vogliamo che una ne dichi qual più ti piace.
Filostrato rispose che
volentieri; e senza indugio in cotal guisa cominciò a cantare:
Lagrimando dimostro
quanto si dolga con ragione
il core
d'esser tradito sotto fede
Amore.
Amore, allora che
primieramente
ponesti in lui colei per
cui sospiro,
senza sperar salute,
sì piena la
mostrasti di virtute,
che lieve reputava ogni
martiro,
che per te nella mente,
ch'è rimasa dolente,
fosse venuto; ma il mio
errore
ora conosco, e non senza
dolore.
Fatto m'ha conoscente dello
'nganno
vedermi abbandonato da
colei,
in cui sola sperava;
ch'allora ch'i'più
esser mi pensava
nella sua grazia e
servidore a lei,
senza mirare al danno
del mio futuro affanno,
m'accorsi lei aver l'altrui
valore
dentro raccolto, e me
cacciato fore.
Com'io conobbi me di fuor
cacciato,
nacque nel core un pianto
doloroso,
che ancor vi dimora,
e spesso maladico il giorno
e l'ora
che pria m'apparve il suo
viso amoroso
d'alta biltate ornato,
e più che mai
'nfiammato.
La fede mia, la speranza e
l'ardore
va bestemmiando l'anima che
more.
Quanto 'l mio duol senza
conforto sia,
signor, tu ' puoi sentir,
tanto ti chiamo
con dolorosa voce:
e dicoti che tanto e
sì mi cuoce,
che per minor martir la
morte bramo.
Venga dunque, e la mia
vita crudele e ria
termini col suo colpo, e 'l
mio furore;
ch'ove ch'io vada, il
sentirò minore.
Null'altra via, niuno altro
conforto
mi resta più che
morte alla mia doglia.
Dallami dunque omai;
pon fine, Amor, con essa
alli miei guai,
e 'l cor di vita sì
misera spoglia.
Deh fallo, poi ch'a torto
m'è gioi tolta e
diporto.
Fa'costei lieta, morend'io,
signore,
come l'hai fatta di nuovo
amadore.
Ballata mia, se alcun non
t'appara,
io non men curo, per
ciò che nessuno,
com'io, ti può
cantare.
Una fatica sola ti vo'dare,
che tu ritruovi Amore, e a
lui sol uno,
quanto mi sia discara
la trista vita amara
dimostri a pien, pregandol
che 'n migliore
porto ne ponga per lo suo
onore.
Dimostrarono le parole di
questa canzone assai chiaro qual fosse l'animo di Filostrato, e la cagione; e
forse più dichiarato l'avrebbe l'aspetto di tal donna nella danza era,
se le tenebre della sopravvenuta notte il rossore nel viso di lei venuto non
avesser nascoso.
Ma poi che egli ebbe a
quella posta fine, molte altre cantate ne furono infino a tanto che l'ora
dell'andare a dormire sopravenne; per che, comandandolo la reina, ciascuno alla
sua camera si raccolse.
Finisce la quarta giornata
del Decameron
Incomincia la quinta
giornata nella quale, sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di
ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti,
felicemente avvenisse.
Giornata quinta -
Introduzione
Era già l'oriente
tutto bianco e li surgenti raggi per tutto il nostro emisperio avevan fatto
chiaro, quando Fiammetta da'dolci canti degli uccelli, li quali la prima ora
del giorno su per gli albuscelli tutti lieti cantavano, incitata, su si
levò, e tutte l'altre e i tre giovani fece chiamare; e con soave passo
a'campi discesa, per l'ampia pianura su per le rugiadose erbe, infino a tanto
che alquanto il sol fu alzato, con la sua compagnia, d'una cosa e d'altra con
lor ragionando, diportando s'andò. Ma, sentendo che già i solar
raggi si riscaldavano, verso la loro stanza volse i passi; alla qual pervenuti,
con ottimi vini e con confetti il leggiere affanno avuto fè ristorare, e
per lo dilettevole giardino infino all'ora del mangiare si diportarono. La qual
venuta, essendo ogni cosa dal discretissimo siniscalco apparecchiata, poi che
alcuna stampita e una ballatetta o due furon cantate, lietamente, secondo che
alla reina piacque, si misero a mangiare. E quello ordinatamente e con letizia
fatto, non dimenticato il preso ordine del danzare, e con gli sturmenti e con
le canzoni alquante danzette fecero. Appresso alle quali, infino a passata
l'ora del dormire la reina licenziò ciascheduno; de'quali alcuni a
dormire andarono e altri al loro sollazzo per lo bel giardino si rimasero.
Ma tutti, un poco passata
la nona, quivi, come alla reina piacque, vicini alla fonte secondo l'usato modo
si ragunarono. Ed essendosi la reina a seder posta pro tribunali , verso
Panfilo riguardando, sorridendo a lui impose che principio desse alle felici
novelle. Il quale a ciò volentier si dispose, e così disse.
Giornata quinta - Novella
prima
Cimone amando divien savio,
ed Efigenia sua donna rapisce in mare; è messo in Rodi in prigione, onde
Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Efigenia e Cassandra nelle lor
nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a
casa loro son richiamati .
Molte novelle, dilettose
donne, a dover dar principio a così lieta giornata come questa
sarà, per dovere essere da me raccontate mi si paran davanti; delle
quali una più nell'animo me ne piace, per ciò che per quella
potrete comprendere non solamente il felice fine per lo quale a ragionare
incominciamo, ma quanto sien sante, quanto poderose e di quanto ben piene le
forze d'Amore, le quali molti, senza saper che si dicano, dannano e vituperano
a gran torto: il che, se io non erro, per ciò che innamorate credo che
siate, molto vi dovrà esser caro.
Adunque (sì come noi
nelle antiche istorie de'cipriani abbiam già letto) nell'isola di Cipri
fu uno nobilissimo uomo, il quale per nome fu chiamato Aristippo, oltre ad
ogn'altro paesano di tutte le temporali cose ricchissimo; e se d'una cosa sola
non lo avesse la fortuna fatto dolente, più che altro si potea
contentare. E questo era che egli, tra gli altri suoi figliuoli, n'aveva uno il
quale di grandezza e di bellezza di corpo tutti gli altri giovani trapassava,
ma quasi matto era e di perduta speranza, il cui vero nome era Galeso; ma, per
ciò che mai né per fatica di maestro né per lusinga o battitura del
padre, o ingegno d'alcuno altro, gli s'era potuto mettere nel capo né lettera
né costume alcuno, anzi con la voce grossa e deforme e con modi più
convenienti a bestia che ad uomo, quasi per ischerno da tutti era chiamato
Cimone, il che nella lor lingua sonava quanto nella nostra Bestione. La cui
perduta vita il padre con gravissima noia portava; e già essendosi ogni
speranza a lui di lui fuggita, per non aver sempre davanti la cagione del suo
dolore, gli comandò che alla villa n'andasse e quivi co'suoi lavoratori si
dimorasse; la qual cosa a Cimone fu carissima, per ciò che i costumi e
l'usanze degli uomini grossi gli eran più a grado che le cittadine.
Andatosene adunque Cimone
alla villa, e quivi nelle cose pertinenti a quella esercitandosi, avvenne che
un giorno, passato già il mezzo dì, passando egli da una
possessione ad un'altra con un suo bastone in collo, entrò in un
boschetto il quale era in quella contrada bellissimo, e, per ciò che del
mese di maggio era, tutto era fronzuto; per lo quale andando s'avvenne,
sì come la sua fortuna il vi guidò, in un pratello d'altissimi
alberi circuito, nell'un de'canti del quale era una bellissima fontana e
fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato dormire una bellissima
giovane con un vestimento in dosso tanto sottile, che quasi niente delle
candide carni nascondea, ed era solamente dalla cintura in giù coperta
d'una coltre bianchissima e sottile; e a'piè di lei similmente dormivano
due femine e uno uomo, servi di questa giovane.
La quale come Cimone vide,
non altramenti che se mai più forma di femina veduta non avesse,
fermatosi sopra il suo bastone, senza dire alcuna cosa, con ammirazione
grandissima la incominciò intentissimo a riguardare. E nel rozzo petto,
nel quale per mille ammaestramenti non era alcuna impressione di cittadinesco
piacere potuta entrare, sentì destarsi un pensiero il quale nella
materiale e grossa mente gli ragionava costei essere la più bella cosa
che giammai per alcuno vivente veduta fosse. E quinci cominciò a
distinguer le parti di lei, lodando i capelli, li quali d'oro estimava, la
fronte, il naso e la bocca, la gola e le braccia, e sommamente il petto, poco
ancora rilevato; e di lavoratore, di bellezza subitamente giudice divenuto,
seco sommamente disiderava di veder gli occhi, li quali essa, da alto sonno
gravati, teneva chiusi; e per vedergli, più volte ebbe volontà di
destarla. Ma, parendogli oltre modo più bella che l'altre femine per
addietro da lui vedute, dubitava non fosse alcuna dea; e pur tanto di
sentimento avea, che egli giudicava le divine cose esser di più
reverenza degne che le mondane, e per questo si riteneva, aspettando che da sé
medesima si svegliasse; e come che lo 'ndugio gli paresse troppo, pur, da non
usato piacer preso, non si sapeva partire.
Avvenne adunque che dopo
lungo spazio la giovane, il cui nome era Efigenia, prima che alcun de'suoi si
risentì, e levato il capo e aperti gli occhi, e veggendosi sopra il suo
bastone appoggiato star davanti Cimone, si maravigliò forte e disse:
- Cimone, che vai tu a
questa ora per questo bosco cercando?
Era Cimone, sì per
la sua forma e sì per la sua rozzezza e sì per la nobiltà
e ricchezza del padre, quasi noto a ciascun del paese.
Egli non rispose alle
parole d'Efigenia alcuna cosa; ma come gli occhi di lei vide aperti,
così in quegli fiso cominciò a guardare, seco stesso parendogli
che da quegli una soavità si movesse, la quale il riempisse di piacere
mai da lui non provato. Il che la giovane veggendo, cominciò a dubitare
non quel suo guardar così fiso movesse la sua rusticità ad alcuna
cosa che vergogna le potesse tornare; per che, chiamate le sue femine, si
levò su dicendo:
- Cimone, rimanti con Dio.
A cui allora Cimon rispose:
- Io ne verrò teco.
E quantunque la giovane sua
compagnia rifiutasse, sempre di lui temendo, mai da sé partir nol potè
infino a tanto che egli non l'ebbe infino alla casa di lei accompagnata; e di
quindi n'andò a casa il padre, affermando sé in niuna guisa più
in villa voler ritornare: il che quantunque grave fosse al padre e a'suoi, pure
il lasciarono stare, aspettando di veder qual cagion fosse quella che fatto gli
avesse mutar consiglio.
Essendo adunque a Cimone
nel cuore, nel quale niuna dottrina era potuta entrare, entrata la saetta
d'Amore per la bellezza d'Efigenia, in brevissimo tempo, d'uno in altro
pensiero pervenendo, fece maravigliare il padre e tutti i suoi e ciascuno altro
che il conoscea. Egli primieramente richiese il padre che il facesse andare di
vestimenti e d'ogni altra cosa ornato come i fratelli di lui andavano; il che
il padre contentissimo fece. Quindi usando co'giovani valorosi e udendo i modi
i quali a'gentili uomini si convenieno, e massimamente agli innamorati, prima,
con grandissima ammirazione d'ognuno, in assai brieve spazio di tempo non
solamente le prime lettere apparò, ma valorosissimo tra'filosofanti
divenne; e appresso questo (essendo di tutto ciò cagione l'amore il
quale ad Efigenia portava) non solamente la rozza voce e rustica in convenevole
e cittadina ridusse, ma di canto divenne maestro e di suono, e nel cavalcare e
nelle cose belliche, così marine come di terra, espertissimo e feroce
divenne.
E in brieve (acciò
che io non vada ogni particular cosa delle sue virtù raccontando) egli
non si compiè il quarto anno dal dì del suo primiero
innamoramento, che egli riuscì il più leggiadro e il meglio
costumato e con più particulari virtù che altro giovane alcuno
che nell'isola fosse di Cipri.
Che dunque, piacevoli
donne, diremo di Cimone? Certo niuna altra cosa se non che l'alte virtù
dal cielo infuse nella valorosa anima fossono da invidiosa Fortuna in
picciolissima parte del suo cuore con legami fortissimi legate e racchiuse, li
quali tutti Amor ruppe e spezzò, sì come molto più potente
di lei; e come eccitatore degli addormentati ingegni, quelle da crudele
obumbrazione offuscate con la sua forza sospinse in chiara luce, apertamente
mostrando di che luogo tragga gli spiriti a lui suggetti e in quale gli conduca
co'raggi suoi.
Cimone adunque, quantunque,
amando Efigenia, in alcune cose, sì come i giovani amanti molto spesso
fanno, trasandasse, nondimeno Aristippo considerando che Amor l'avesse di
montone fatto tornare uomo, non solo pazientemente il sostenea, ma in seguir
ciò in tutti i suoi piaceri il confortava. Ma Cimone, che d'esser
chiamato Galeso rifiutava, ricordandosi che così da Efigenia era stato
chiamato, volendo onesto fine porre al suo disio, più volte fece tentare
Cipseo padre d'Efigenia che lei per moglie gli dovesse dare; ma Cipseo rispose
sempre sé averla promessa a Pasimunda nobile giovane rodiano, al quale non
intendeva venirne meno.
Ed essendo delle pattovite
nozze d'Efigenia venuto il tempo, e il marito mandato per lei, disse seco
Cimone: - Ora è tempo di mostrare, o Efigenia, quanto tu sii da me
amata. Io son per te divenuto uomo, e se io ti posso avere, io non dubito di non
divenire più glorioso che alcuno iddio; e per certo io t'avrò o
io morrò -. E così detto, tacitamente alquanti nobili giovani
richiesti che suoi amici erano, e fatto segretamente un legno armare con ogni
cosa opportuna a battaglia navale, si mise in mare, attendendo il legno sopra
il quale Efigenia trasportata doveva essere in Rodi al suo marito. La quale,
dopo molto onor fatto dal padre di lei agli amici del marito, entrata in mare,
verso Rodi dirizzaron la proda e andar via.
Cimone, il qual non
dormiva, il dì seguente col suo legno gli sopraggiunse, e d'in su la
proda a quegli che sopra il legno d'Efigenia erano forte gridò:
- Arrestatevi, calate le
vele, o voi aspettate d'esser vinti e sommersi in mare.
Gli avversari di Cimone
avevano l'armi tratte sopra coverta e di difendersi s'apparecchiavano; per che
Cimone, dopo le parole preso un rampicone di ferro, quello sopra la poppa
de'rodiani, che via andavano forte, gittò, e quella alla proda del suo
legno per forza congiunse, e fiero come un leone, senza altro seguito d'alcuno
aspettare sopra la nave de'rodian saltò, quasi tutti per niente gli
avesse; e spronandolo Amore, con maravigliosa forza fra'nimici con un coltello
in mano si mise, e or questo e or quello ferendo, quasi pecore gli abbattea. Il
che, vedendo i rodiani, gittando in terra l'armi, quasi ad una voce tutti si
cofessarono prigioni.
Alli quali Cimon disse:
- Giovani uomini, né
vaghezza di preda né odio che io abbia contra di voi mi fece partir di Cipri a
dovervi in mezzo mare con armata mano assalire. Quello che mi mosse è a
me grandissima cosa ad avere acquistata, e a voi è assai
leggiere a concederlami con
pace; e ciò è Efigenia, da me sopra ogn'altra cosa amata, la
quale non potendo io avere dal padre di lei come amico e con pace, da voi come
nemico e con l'armi m'ha costretto Amore ad acquistarla; e per ciò
intendo io d'esserle quello che esser le dovea il vostro Pasimunda; datelami, e
andate con la grazia d'Iddio.
I giovani, li quali
più forza che liberalità costrignea, piagnendo Efigenia a Cimon
concedettono. Il quale vedendola piagnere disse:
- Nobile donna, non ti
sconfortare, io sono il tuo Cimone, il quale per lungo amore t'ho molto meglio
meritata d'avere, che Pasimunda per promessa fede.
Tornossi adunque Cimone
(lei già avendo sopra la sua nave fatta portare, senza alcuna altra cosa
toccare de'rodiani) a'suoi compagni, e loro lasciò andare.
Cimone adunque, più
che altro uomo contento dello acquisto di così cara preda, poi che
alquanto di tempo ebbe posto in dover lei piagnente racconsolare,
diliberò co'suoi compagni non essere da tornare in Cipri al presente;
per che, di pari diliberazion di tutti, verso Creti (dove quasi ciascuno e
massimamente Cimone, per antichi parentadi e novelli e per molta amistà
si credevano insieme con Efigenia esser si curi) dirizzaron la proda della lor
nave.
Ma la Fortuna, la quale
assai lietamente l'acquisto della donna aveva conceduto a Cimone, non stabile,
subitamente in tristo e amaro pianto mutò la inestimabile letizia dello
'nnamorato giovane.
Egli non erano ancora
quattro ore compiute poi che Cimone li rodiani aveva lasciati, quando,
sopravegnente la notte, la quale Cimone più piacevole che alcuna altra
sentita giammai aspettava, con essa insieme surse un tempo fierissimo e
tempestoso, il quale il cielo di nuvoli e 'l mare di pestilenziosi venti
riempiè; per la qual cosa né poteva alcun veder che si fare o dove
andarsi, né ancora sopra la nave tenersi a dovere fare alcun servigio.
Quanto Cimone di ciò
si dolesse, non è da domandare. Egli pareva che gl'iddii gli avessero
conceduto il suo disio, acciò che più noia gli fosse il morire,
del quale senza esso prima si sarebbe poco curato. Dolevansi similmente i suoi
compagni, ma sopra tutti si doleva Efigenia, forte piagnendo e ogni percossa
dell'onda temendo; e nel suo pianto aspramente maladiceva l'amor di Cimone e
biasimava il suo ardire, affermando per niuna altra cosa quella tempestosa
fortuna esser nata, se non perché gl'iddii non volevano che colui, il quale lei
contra li lor piaceri voleva aver per isposa, potesse del suo presuntuoso
disiderio godere, ma vedendo lei prima morire, egli appresso miseramente
morisse.
Con così fatti
lamenti e con maggiori, non sappiendo che farsi i marinari, divenendo ognora il
vento più forte, senza sapere o conoscere dove s'andassero, vicini
all'isola di Rodi pervennero; né conoscendo per ciò che Rodi si fosse
quella, con ogni ingegno, per campar le persone, si sforzarono di dovere in
essa pigliar terra, se si potesse.
Alla qual cosa la Fortuna
fu favorevole, e loro perdusse in un piccolo seno di mare, nel quale poco
avanti a loro li rodiani stati da Cimon lasciati erano colla lor nave
pervenuti. Né prima s'accorsero sé esser all'isola di Rodi pervenuti che,
surgendo l'aurora e alquanto rendendo il cielo più chiaro, si videro
forse per una tratta d'arco vicini alla nave il giorno davanti da lor lasciata.
Della qual cosa Cimone senza modo dolente, temendo non gli avvenisse quello che
gli avvenne, comandò che ogni forza si mettesse ad uscir quindi, e poi
dove alla Fortuna piacesse gli trasportasse; per ciò che in alcuna parte
peggio che quivi esser non poteano.
Le forze si misero grandi a
dovere di quindi uscire, ma invano: il vento potentissimo poggiava in
contrario, in tanto che, non che essi del piccolo seno uscir potessero, ma, o volessero
o no, gli sospinse alla terra.
Alla quale come pervennero,
dalli marinari rodiani della lor nave discesi furono riconosciuti. De'quali
prestamente alcun corse ad una villa ivi vicina dove i nobili giovani rodiani
n'erano andati, e loro narrò quivi Cimone con Efigenia sopra la lor nave
per fortuna, sì come loro, essere arrivati.
Costoro udendo questo,
lietissimi, presi molti degli uomini della villa, prestamente furono al mare; e
Cimone che, già co'suoi disceso, aveva preso consiglio di fuggire in alcuna
selva ivi vicina, e 'nsieme tutti con Efigenia furon presi e alla villa menati.
E di quindi, venuto dalla città Lisimaco, appo il quale quello anno era
il sommo maestrato de'rodiani, con grandissima compagnia d'uomini d'arme,
Cimone è suoi compagni tutti ne menò in prigione, sì come
Pasimunda, al quale le novelle eran venute, aveva, col senato di Rodi
dolendosi, ordinato.
In così fatta guisa
il misero e innamorato Cimone perdè la sua Efigenia poco davanti da lui
guadagnata, senza altro averle tolto che alcun bacio.
Efigenia da molte nobili
donne di Rodi fu ricevuta e riconfortata, sì del dolore avuto della sua
presura e sì della fatica sostenuta del turbato mare; e appo quelle
stette infino al giorno diterminato alle sue nozze.
A Cimone e a'suoi compagni,
per la libertà il dì davanti data a'giovani rodiani, fu donata la
vita, la qual Pasimunda a suo poter sollicitava di far lor torre, e a prigion
perpetua fur dannati; nella quale, sì come si può credere,
dolorosi stavano e senza speranza mai d'alcun piacere.
Pasimunda quanto poteva
l'apprestamento sollicitava delle future nozze; ma la Fortuna, quasi pentuta
della subita ingiuria fatta a Cimone, nuovo accidente produsse per la sua
salute. Aveva Pasimunda un fratello minor di tempo di lui, ma non di
virtù, il quale avea nome Ormisda, stato in lungo trattato di dover
torre per moglie una nobile giovane e bella della città, chiamata
Cassandra, la quale Lisimaco sommamente amava; ed erasi il matrimonio per
diversi accidenti più volte frastornato.
Ora, veggendosi Pasimunda
per dovere con grandissima festa celebrare le sue nozze, pensò
ottimamente esser fatto, se in questa medesima festa, per non tornar più
alle spese e al festeggiare, egli potesse far che Ormisda similmente menasse moglie;
per che co'parenti di Cassandra ricominciò le parole e perdussele ad
effetto; e insieme egli e 'l fratello con loro diliberarono che quello medesimo
dì che Pasimunda menasse Efigenia, quello Ormisda menasse Cassandra.
La qual cosa sentendo
Lisimaco, oltre modo gli dispiacque, per ciò che si vedeva della sua
speranza privare, la quale portava che, se Ormisda non la prendesse, fermamente
doverla avere egli. Ma, sì come savio, la noia sua dentro tenne nascosa;
e cominciò a pensare in che maniera potesse impedire che ciò non
avesse effetto; né alcuna via vide possibile, se non il rapirla.
Questo gli parve agevole
per lo uficio il quale aveva, ma troppo più disonesto il reputava che se
l'uficio non avesse avuto; ma in brieve, dopo lunga diliberazione,
l'onestà diè luogo ad amore, e prese per partito, che che avvenir
ne dovesse, di rapir Cassandra. E pensando della compagnia che a far questo
dovesse avere e dell'ordine che tener dovesse, si ricordò di Cimone, il
quale co'suoi compagni in prigione avea, e imaginò niun altro compagno
migliore né più fido dover potere avere che Cimone in questa cosa.
Per che la seguente notte
occultamente nella sua camera il fe'venire, e cominciogli in cotal guisa
favellare:
- Cimone, così come
gl'iddii sono ottimi e liberali donatori delle cose agli uomini, così
sono sagacissimi provatori delle lor virtù, e coloro li quali essi
truovano fermi e costanti a tutti i casi, sì come più valorosi,
di più alti meriti fanno degni. Essi hanno della tua virtù voluta
più certa esperienza che quella che per te si fosse potuta mostrare
dentro a'termini della casa del padre tuo, il quale io conosco abondantissimo
di ricchezze; e prima con le pugnenti sollicitudini d'amore, da insensato
animale, sì come io ho inteso, ti recarono ad essere uomo; poi con dura
fortuna e al presente con noiosa prigione voglion vedere se l'animo tuo si muta
da quello ch'era quando poco tempo lieto fosti della guadagnata preda. Il
quale, se quel medesimo è che già fu, niuna cosa tanto lieta ti
prestarono quanto è quella che al presente s'apparecchiano a donarti; la
quale, acciò che tu l'usate forze ripigli e divenghi animoso, io intendo
di dimostrarti.
Pasimunda, lieto della tua
disaventura e sollicito procuratore della tua morte, quanto può
s'affretta di celebrare le nozze della tua Efigenia, acciò che in quelle
goda della preda la qual prima lieta Fortuna t'avea conceduta e subitamente
turbata ti tolse. La qual cosa quanto ti debba dolere, se così ami come
io credo, per me medesimo il cognosco, al quale pari ingiuria alla tua in un
medesimo giorno Ormisda suo fratello s'apparecchia di fare a me di Cassandra,
la quale io sopra tutte l'altre cose amo. E a fuggire tanta ingiuria e tanta
noia della Fortuna, niuna via ci veggio da lei essere stata lasciata aperta, se
non la virtù de'nostri animi e delle nostre destre, nelle quali aver ci
convien le spade, e farci far via, a te alla seconda rapina e a me alla prima
delle due nostre donne; per che, se la tua, non vo' dir libertà, la qual
credo che poco senza la tua donna curi, ma la tua donna t'è cara di
riavere, nelle tue mani, volendo me alla mia impresa seguire, l'hanno posta
gl'iddii.
Queste parole tutto feciono
lo smarrito animo ritornare in Cimone e, senza troppo rispetto prendere alla
risposta, disse:
- Lisimaco, né più
forte né più fido compagno di me puoi avere a così fatta cosa, se
quello me ne dee seguire che tu ragioni; e per ciò quello che a te pare
che per me s'abbia a fare, impollomi, e vederati con maravigliosa forza
seguire.
Al quale Lisimaco disse:
- Oggi al terzo dì
le novelle spose entreranno primieramente nelle case de'lor mariti, nelle quali
tu co'tuoi compagni armato, e io con alquanti miei né quali io mi fido assai,
in sul far della sera entreremo, e quelle del mezzo de'conviti rapite, ad una
nave, la quale io ho fatta segretamente apprestare, ne meneremo, uccidendo
chiunque ciò contrastare presummesse.
Piacque l'ordine a Cimone,
e tacito infino al tempo posto si stette in prigione. Venuto il giorno delle
nozze, la pompa fu grande e magnifica, e ogni parte della casa de'due fratelli
fu di lieta festa ripiena.
Lisimaco, ogni cosa
opportuna avendo apprestata, Cimone e i suoi compagni e similmente i suoi
amici, tutti sotto i vestimenti armati, quando tempo gli parve, avendogli prima
con molte parole al suo proponimento accesi, in tre parti divise, delle quali
cautamente l'una mandò al porto, acciò che niun potesse impedire
il salire sopra la nave quando bisognasse, e con l'altre due alle case di
Pasimunda venuti, una ne lasciò alla porta, acciò che alcun
dentro non gli potesse rinchiudere o a loro l'uscita vietare, e col rimanente
insieme con Cimone montò su per le scale. E pervenuti nella sala dove le
nuove spose con molte altre donne già a tavola erano per mangiare
assettate, arditamente, fattisi innanzi e gittate le tavole in terra, ciascun
prese la sua, e nelle braccia de'compagni messala, comandarono che alla nave
apprestata le menassero di presente.
Le novelle spose
cominciarono a piagnere e a gridare, e il simigliante l'altre donne e i
servidori, e subitamente fu ogni cosa di romore e di pianto ripieno. Ma Cimone
e Lisimaco è lor compagni, tirate le spade fuori, senza alcun contasto,
data loro da tutti la via, verso le scale se ne vennero; e quelle scendendo,
occorse loro Pasimunda, il quale con un gran bastone in mano al romor traeva,
cui animosamente Cimone sopra la testa ferì, e ricisegliele ben mezza, e
morto sel fece cadere a'piedi. Allo aiuto del quale correndo il misero Ormisda,
similmente da un de'colpi di Cimone fu ucciso; e alcuni altri che appressar si
vollono, da'compagni di Lisimaco e di Cimone fediti e ributtati in dietro
furono.
Essi, lasciata piena la
casa di sangue e di romore e di pianto e di tristizia, senza alcuno
impedimento, stretti insieme con la lor rapina alla nave pervennero; sopra la
quale messe le donne e saliti essi tutti e i lor compagni, essendo già
il lito pien di gente armata che alla riscossa delle donne venia, dato de'remi
in acqua, lieti andaron pe' fatti loro. E pervenuti in Creti, quivi da molti e
amici e parenti lietamente ricevuti furono, e sposate le donne e fatta la festa
grande, lieti della loro rapina goderono.
In Cipri e in Rodi furono i
romori è turbamenti grandi e lungo tempo per le costoro opere.
Ultimamente, interponendosi e nell'un luogo e nell'altro gli amici e i parenti
di costoro, trovaron modo che, dopo alcuno essilio, Cimone con Efigenia lieto
si tornò in Cipri, e Lisimaco similmente con Cassandra ritornò in
Rodi, e ciascun lietamente con la sua visse lungamente contento nella sua
terra.
Giornata quinta - Novella
seconda
Gostanza ama Martuccio
Gomito, la quale, udendo che morto era, per disperata sola si mette in una
barca, la quale dal vento fu trasportata a Susa; ritruoval vivo in Tunisi,
palesaglisi, ed egli grande essendo col re per consigli dati, sposatala, ricco
con lei in Lipari se ne torna.
La reina, finita sentendo
la novella di Panfilo, poscia che molto commendata l'ebbe, ad Emilia impose che
una dicendone seguitasse; la quale così cominciò.
Ciascun si dee meritamente
dilettare di quelle cose alle quali egli vede i guiderdoni secondo le affezioni
seguitare; e per ciò che amare merita più tosto diletto che
afflizione a lungo andare, con molto mio maggior piacere, della presente
materia parlando, ubbidirò la reina, che della precedente non feci il
re.
Dovete adunque, dilicate
donne, sapere, che vicin di Cicilia è una isoletta chiamata Lipari,
nella quale, non è ancora gran tempo, fu una bellissima giovane chiamata
Gostanza, d'assai orrevoli genti dell'isola nata. Della quale un giovane che dell'isola
era, chiamato Martuccio Gomito, assai leggiadro e costumato e nel suo mestiere
valoroso, s'innamorò. La qual sì di lui similmente s'accese, che
mai bene non sentiva se non quanto il vedeva. E disiderando Martuccio d'averla
per moglie, al padre di lei la fece addimandare; il quale rispose lui esser
povero e per ciò non volergliele dare.
Martuccio, sdegnato di
vedersi per povertà rifiutare, con certi suoi amici e parenti armato un
legnetto, giurò di mai in Lipari non tornare se non ricco. E quindi
partitosi, corseggiando cominciò a costeggiare la Barberia, rubando
ciascuno che meno poteva di lui; nella qual cosa assai gli fu favorevole la
fortuna, se egli avesse saputo por modo alle felicità sue. Ma, non
bastandogli d'essere egli è suoi compagni in brieve tempo divenuti
ricchissimi, mentre che di trasricchire cercavano, avvenne che da certi di
legni saracini, dopo lunga difesa, co'suoi compagni fu preso e rubato, e di
loro la maggior parte dà saracini mazzerati e isfondolato il legno, esso
menato a Tunisi fu messo in prigione e in lunga miseria guardato.
In Lipari tornò, non
per uno o per due, ma per molte e diverse persone, la novella che tutti quelli
che con Martuccio erano sopra il legnetto erano stati annegati.
La giovane, la quale senza
misura della partita di Martuccio era stata dolente, udendo lui con gli altri
esser morto, lungamente pianse, e seco dispose di non voler più vivere;
e non sofferendole il cuore di sé medesima con alcuna violenza uccidere,
pensò nuova necessità dare alla sua morte; e uscita segretamente
una notte di casa il padre e al porto venutasene, trovò per ventura
alquanto separata dall'altre navi una navicella di pescatori, la quale (per
ciò che pure allora smontati n'erano i signori di quella) d'albero e di
vela e di remi la trovò fornita. Sopra la quale prestamente montata e
co'remi alquanto in mar tiratasi, ammaestrata alquanto dell'arte marinaresca,
sì come generalmente tutte le femine in quella isola sono, fece vela e
gittò via i remi e il timone, e al vento tutta si commise avvisando dover
di necessità avvenire o che il vento barca senza carico e senza
governator rivolgesse, o ad alcuno scoglio la percotesse e rompesse, di che
ella, eziandio se campar volesse, non potesse, ma di necessità
annegasse. E avviluppatasi la testa in un mantello, nel fondo della barca
piagnendo si mise a giacere.
Ma tutto altramenti
addivenne che ella avvisato non avea; per ciò che, essendo quel vento
che traeva tramontana, e questo assai soave, e non essendo quasi mare, e ben
reggente la barca, il seguente dì alla notte che su montata v'era, in
sul vespro ben cento miglia sopra Tunisi ad una piaggia vicina ad una
città chiamata Susa ne la portò.
La giovane d'essere
più in terra che in mare niente sentiva, sì come colei che mai
per alcuno accidente da giacere non avea il capo levato né di levare intendeva.
Era allora per avventura,
quando la barca ferì sopra il lito, una povera feminetta alla marina, la
quale levava dal sole reti di suoi pescatori; la quale, vedendo la barca, si
maravigliò come colla vela piena fosse lasciata percuotere in terra. E
pensando che in quella i pescatori dormissono, andò alla barca, e niuna
altra persona che questa giovane vi vide; la quale essalei che forte dormiva,
chiamò molte volte, e alla fine fattala risentire e allo abito conosciutala
che cristiana era, parlando latino la domandò come fosse che ella quivi
in quella barca così soletta fosse arrivata.
La giovane, udendo la
favella latina, dubitò non forse altro vento l'avesse a Lipari
ritornata; e subitamente levatasi in piè riguardò attorno, e non
conoscendo le contrade e veggendosi in terra, domandò la buona femina
dove ella fosse. A cui la buona femina rispose:
- Figliuola mia, tu
se'vicina a Susa in Barberia.
Il che udito la giovane,
dolente che Iddio non l'aveva voluto la morte mandare, dubitando di vergogna e
non sappiendo che farsi, a piè della sua barca a seder postasi,
cominciò a piagnere.
La buona femina, questo
vedendo, ne le prese pietà, e tanto la pregò, che in una sua
capannetta la menò, e quivi tanto la lusingò che ella le disse
come quivi arrivata fosse; per che, sentendola la buona femina essere ancor
digiuna, suo pan duro e alcun pesce e acqua l'apparecchiò, e tanto la
pregò ch'ella mangiò un poco.
La Gostanza appresso
domandò chi fosse la buona femina che così latin parlava; a cui
ella disse che da Trapani era e aveva nome Carapresa; e quivi serviva certi
pescatori cristiani.
La giovane, udendo dire
Carapresa, quantunque dolente fosse molto, e non sappiendo ella stessa che
cagione a ciò la si movesse, in sé stessa prese buono agurio d'aver
questo nome udito, e cominciò a sperar senza saper che e alquanto a
cessare il disiderio della morte; e, senza manifestar chi si fosse né donde,
pregò caramente la buona femina che per l'amor di Dio avesse misericordia
della sua giovanezza e che alcuno consiglio le desse per lo quale ella potesse
fuggire che villania fatta non le fosse.
Carapresa udendo costei, a
guisa di buona femina, lei nella capannetta lasciata, prestamente raccolte le
sue reti, a lei ritornò, e tutta nel suo mantello stesso chiusala, in
Susa con seco la menò, e quivi pervenuta le disse:
- Gostanza, io ti
menerò in casa d'una bonissima donna saracina, alla quale io fo molto
spesso servigio di sue bisogne, ed ella è donna antica e misericordiosa;
io le ti raccomanderò quanto io potrò il più, e certissima
sono che ella ti riceverà volentieri e come figliuola ti
tratterà, e tu, con lei stando, t'ingegnerai a tuo potere, servendola,
d'acquistar la grazia sua insino a tanto che Iddio ti mandi miglior ventura -;
e come ella disse così fece.
La donna, la qual vecchia
era oramai, udita costei, guardò la giovane nel viso e cominciò a
lagrimare, e presala le baciò la fronte, e poi per la mano nella sua
casa ne la menò, nella quale ella con alquante altre femine dimorava
senza alcuno uomo, e tutte di diverse cose lavoravano di lor mano, di seta, di
palma, di cuoio diversi lavorii faccendo. De'quali la giovane in pochi
dì apparò a fare alcuno, e con loro insieme cominciò a
lavorare; e in tanta grazia e buono amore venne della buona donna e dell'altre,
che fu maravigliosa cosa; e in poco spazio di tempo, mostrandogliele esse, il
lor linguaggio apparò.
Dimorando adunque la
giovane in Susa, essendo già stata a casa sua pianta per perduta e per
morta, avvenne che, essendo re di Tunisi uno che si chiamava Mariabdela, un
giovane di gran parentado e di molta potenza, il quale era in Granata, dicendo
che a lui il reame di Tunisi apparteneva, fatta grandissima moltitudine di
gente, sopra il re di Tunisi se ne venne per cacciarlo del regno.
Le quali cose venendo ad
orecchie a Martuccio Gomito in prigione, il qual molto bene sapeva il
barbaresco, e udendo che il re di Tunisi faceva grandissimo sforzo a sua
difesa, disse ad un di quegli li quali lui è suoi compagni guardavano:
- Se io potessi parlare al
re, e'mi dà il cuore che io gli darei un consiglio, per lo quale egli
vincerebbe la guerra sua.
La guardia disse queste
parole al suo signore, il quale al re il rapportò incontanente. Per la
qual cosa il re comandò che Martuccio gli fosse menato, e domandato da
lui che consiglio il suo fosse, gli rispose così:
- Signor mio, se io ho
bene, in altro tempo che io in queste vostre contrade usato sono, riguardato
alla maniera la qual tenete nelle vostre battaglie, mi pare che più con
arcieri che con altro quelle facciate; e per ciò, ove si trovasse modo
che agli arcieri del vostro avversario mancasse il saettamento è vostri
n'avessero abbondevolmente, io avviso che la vostra battaglia si vincerebbe.
A cui il re disse:
- Senza dubbio, se cotesto
si potesse fare, io mi crederrei esser vincitore.
Al quale Martuccio disse:
- Signor mio, dove voi
vogliate, egli si potrà ben fare, e udite come. A voi convien far fare
corde molto più sottili agli archi de'vostri arcieri, che quelle che per
tutti comunalmente s'usano; e appresso far fare saettamento, le cocche del
quale non sieno buone se non a queste corde sottili; e questo convien che sia
sì segretamente fatto, che il vostro avversario nol sappia, per
ciò che egli ci troverebbe modo. E la cagione per che io dico questo
è questa. Poi che gli arcieri del vostro nimico avranno il suo
saettamento saettato e i vostri il suo, sapete che di quello che i vostri
saettato avranno converrà, durando la battaglia, che i vostri nimici
ricolgano, e a'nostri converrà ricoglier del loro; ma gli avversari non
potranno il saettamento saettato dà vostri adoperare, per le picciole
cocche che non riceveranno le corde grosse, dove a'vostri avverrà il
contrario del saettamento de'nimici, per ciò che la sottil corda
riceverà ottimamente la saetta che avrà larga cocca; e
così i vostri saranno di saettamento copiosi, dove gli altri n'avranno
difetto.
Al re, il quale savio
signore era, piacque il consiglio di Martuccio; e interamente seguitolo, per
quello trovò la sua guerra aver vinta; laonde sommamente Martuccio venne
nella sua grazia, e per conseguente in grande e ricco stato.
Corse la fama di queste
cose per la contrada; e agli orecchi della Gostanza pervenne Martuccio Gomito
esser vivo, il quale lungamente morto aveva creduto; per che l'amor di lui,
già nel cuor di lei intiepidito, con subita fiamma si riaccese e divenne
maggiore, e la morta speranza suscitò. Per la qual cosa alla buona donna
con cui dimorava interamente ogni suo accidente aperse, e le disse sé disiderare
d'andare a Tunisi, acciò che gli occhi saziasse di ciò che gli
orecchi con le ricevute voci fatti gli avean disiderosi. La quale il suo
disiderio le lodò molto, e come sua madre stata fosse, entrata in una
barca, con lei insieme a Tunisi andò, dove con la Gostanza in casa d'una
sua parente fu ricevuta onorevolmente.
Ed essendo con lei andata
Carapresa, la mandò a sentire quello che di Martuccio trovar potesse; e
trovato lui esser vivo e in grande stato, e rapportogliele, piacque alla gentil
donna di volere essere colei che a Martuccio significasse quivi a lui esser
venuta la sua Gostanza. E andatasene un dì là dove Martuccio era,
gli disse:
- Martuccio, in casa mia
è capitato un tuo servidore che vien da Lipari, e quivi ti vorrebbe
segretamente parlare; e per ciò, per non fidarmene ad altri, sì
come egli ha voluto, io medesima tel sono venuta a significare.
Martuccio la
ringraziò, e appresso lei alla sua casa se n'andò.
Quando la giovane il vide,
presso fu che di letizia non morì, e non potendosene tenere, subitamente
con le braccia aperte gli corse al collo e abbracciollo, e per compassione
de'passati infortuni e per la presente letizia, senza potere alcuna cosa dire,
teneramente cominciò a lagrimare.
Martuccio, veggendo la
giovane, alquanto maravigliandosi soprastette, e poi sospirando disse:
- O Gostanza mia, or se'tu
viva? Egli è buon tempo che io intesi che tu perduta eri, né a casa
nostra di te alcuna cosa si sapeva -; e questo detto, teneramente lagrimando
l'abbracciò e baciò.
La Gostanza gli
raccontò ogni suo accidente, e l'onore che ricevuto avea dalla gentil
donna con la quale dimorata era. Martuccio, dopo molti ragionamenti da lei
partitosi, al re suo signore n'andò e tutto gli raccontò,
cioè i suoi casi e quegli della giovane, aggiugnendo che, con sua
licenzia, intendeva secondo la nostra legge di sposarla.
Il re si maravigliò
di queste cose; e fatta la giovane venire, e da lei udendo che così era
come Martuccio aveva detto, disse:
- Adunque l'hai tu per
marito molto ben guadagnato.
E fatti venire grandissimi
e nobili doni, parte a lei ne diede e parte a Martuccio, dando loro licenzia di
fare intra sé quello che più fosse a grado a ciascheduno.
Martuccio onorata molto la
gentil donna con la quale la Gostanza dimorata era e ringraziatala di
ciò che in servigio di lei aveva adoperato e donatile doni quali a lei
si confaceano e accomandatala a Dio, non senza molte lagrime dalla Gostanza si
partì. E appresso con licenzia del re sopra un legnetto montati, e con
loro Carapresa, con prospero vento a Lipari ritornarono, dove fu sì
grande la festa che dir non si potrebbe giammai.
Quivi Martuccio la
sposò e grandi e belle nozze fece, e poi appresso con lei insieme in
pace e in riposo lungamente goderono del loro amore.
Giornata quinta - Novella
terza
Pietro Boccamazza si fugge
con l'Agnolella; truova ladroni; la giovane fugge per una selva, ed è
condotta ad un castello; Pietro è preso e delle mani de'ladroni fugge, e
dopo alcuno accidente, capita a quel castello dove l'Agnolella era, e sposatala
con lei se ne torna a Roma.
Niuno ne fu tra tutti che
la novella d'Emilia non commendasse; la qual conoscendo la reina esser finita,
volta ad Elissa, che ella continuasse le 'mpose. La quale, d'ubbidire
disiderosa, incominciò.
A me, vezzose donne, si
para dinanzi una malvagia notte da due giovanetti poco discreti avuta; ma, per
ciò che ad essa seguitarono molti lieti giorni, sì come conforme
al nostro proposito, mi piace di raccontarla.
In Roma, la quale, come
è oggi coda, così già fu capo del mondo, fu un giovane,
poco tempo fa, chiamato Pietro Boccamazza, di famiglia tra le romane assai
onorevole, il quale s'innamorò d'una bellissima e vaga giovane chiamata
Agnolella, figliuola d'uno ch'ebbe nome Gigliuozzo Saullo, uomo plebeio ma
assai caro a'romani. E amandola, tanto seppe operare, che la giovane
cominciò non meno ad amar lui che egli amasse lei. Pietro, da fervente
amor costretto, e non parendogli più dover sofferire l'aspra pena che il
disiderio che avea di costei gli dava, la domandò per moglie. La qual
cosa come i suoi parenti seppero, tutti furono a lui e biasimarongli forte
ciò che egli voleva fare; e d'altra parte fecero dire a Gigliuozzo
Saullo che a niun partito attendesse alle parole di Pietro, per ciò che,
se 'l facesse, mai per amico né per parente l'avrebbero.
Pietro, veggendosi quella
via impedita per la qual sola si credeva potere al suo disio pervenire, volle
morir di dolore; e se Gigliuozzo l'avesse consentito, contro al piacere di
quanti parenti avea, per moglie la figliuola avrebbe presa; ma pur si mise in
cuore, se alla giovane piacesse, di far che questa cosa avrebbe effetto; e per
interposita persona sentito che a grado l'era, con lei si convenne di doversi
con lui di Roma fuggire. Alla qual cosa dato ordine, Pietro una mattina per
tempissimo levatosi, con lei insieme montò a cavallo, e presero il
cammin verso Alagna, là dove Pietro aveva certi amici de'quali esso
molto si confidava; e così cavalcando, non avendo spazio di far nozze,
per ciò che temevano d'esser seguitati, del loro amore andando insieme
ragionando, alcuna volta l'un l'altro baciava.
Ora avvenne che, non
essendo a Pietro troppo noto il cammino, come forse otto miglia da Roma
dilungati furono, dovendo a man destra tenere, si misero per una via a
sinistra. Né furono guari più di due miglia cavalcati, che essi si
videro vicini ad un castelletto, del quale, essendo stati veduti, subitamente
uscirono da dodici fanti. E già essendo loro assai vicini, la giovane
gli vide, per che gridando disse:
- Pietro, campiamo, ché noi
siamo assaliti -; e come seppe, verso una selva grandissima volse il suo
ronzino; e tenendogli gli sproni stretti al corpo, attenendosi all'arcione, il
ronzino, sentendosi pugnere, correndo per quella selva ne la portava.
Pietro, che più al
viso di lei andava guardando che al cammino, non essendosi tosto come lei de
fanti che venieno avveduto, mentre che egli senza vedergli ancora andava
guardando donde venissero, fu da loro sopraggiunto e preso e fatto del ronzino
smontare; e domandato chi egli era, e avendol detto, costor cominciaron fra
loro ad aver consiglio e a dire: - Questi è degli amici de'nimici
nostri; che ne dobbiam fare altro, se non torgli quei panni e quel ronzino e
impiccarlo per dispetto degli Orsini ad una di queste querce?- Ed essendosi
tutti a questo consiglio accordati, avevano a Pietro comandato che si
spogliasse.
Il quale spogliandosi,
già del suo male indovino, avvenne che un guato di ben venticinque fanti
subitamente uscì addosso a costoro gridando: - Alla morte, alla morte! -
Li quali soprappresi da questo, lasciato star Pietro, si volsero alla lor
difesa; ma, veggendosi molti meno che gli assalitori, cominciarono a fuggire, e
costoro a seguirgli. La qual cosa Pietro veggendo, subitamente prese le cose
sue e salì sopra il suo ronzino e cominciò quanto poteva a
fuggire per quella via donde aveva veduto che la giovane era fuggita. Ma, non
vedendo per la selva né via né sentiero, né pedata di caval conoscendovi,
poscia che a lui parve esser sicuro e fuor delle mani di coloro che preso
l'aveano e degli altri ancora da cui quegli erano stati assaliti, non
ritrovando la sua giovane, più doloroso che altro uomo, cominciò
a piagnere e ad andarla or qua or là per la selva chiamando; ma niuna
persona gli rispondeva, ed esso non ardiva a tornare addietro, e andando innanzi
non conosceva dove arrivar si dovesse; e d'altra parte delle fiere che nelle
selve sogliono abitare aveva ad una ora di sé stesso paura e della sua giovane,
la qual tuttavia gli pareva vedere o da orso o da lupo strangolare.
Andò adunque questo
Pietro sventurato tutto il giorno per questa selva gridando e chiamando, a tal
ora tornando indietro che egli si credeva innanzi andare; e già, tra per
lo gridare e per lo piagnere e per la paura e per lo lungo digiuno, era
sì vinto, che più avanti non poteva.
E vedendo la notte
sopravvenuta, non sappiendo che altro consiglio pigliarsi, trovata una
grandissima quercia, smontato del ronzino a quella il legò, e appresso,
per non essere dalle fiere divorato la notte, su vi montò; e poco
appresso levatasi la luna e 'l tempo essendo chiarissimo, non avendo Pietro
ardir d'addormentarsi per non cadere (come che, perché pure agio avuto
n'avesse, il dolore né i pensieri che della sua giovane avea non l'avrebbero
lasciato); per che egli, sospirando e piagnendo e seco la sua disaventura
maladicendo, vegghiava.
La giovane fuggendo, come
davanti dicemmo, non sappiendo dove andarsi, se non come il suo ronzino stesso
dove più gli pareva ne la portava, si mise tanto fra la selva, che ella
non poteva vedere il luogo donde in quella entrata era; per che, non altramenti
che avesse fatto Pietro, tutto 'l dì, ora aspettando e ora andando, e
piagnendo e chiamando e della sua sciagura dolendosi, per lo salvatico luogo
s'andò avvolgendo.
Alla fine, veggendo che
Pietro non venia, essendo già vespro, s'abbattè ad un
sentieruolo, per lo qual messasi e seguitandolo il ronzino, poi che più
di due miglia fu cavalcata, di lontano si vide davanti una casetta, alla quale
essa come più tosto potè se n'andò, e quivi trovò
un buono uomo attempato molto con una sua moglie che similmente era vecchia.
Li quali, quando la videro
sola, dissero:
- O figliuola, che vai tu a
questa ora così sola faccendo per questa contrada?
La giovane piagnendo
rispose che aveva la sua compagnia nella selva smarrita, e domandò come
presso fosse ad Alagna.
A cui il buono uomo
rispose:
- Figliuola mia, questa non
è la via d'andare ad Alagna, egli ci ha delle miglia più di
dodici.
Disse allora la giovane:
- E come ci sono abitanze
presso da potere albergare?
A cui il buono uomo
rispose:
- Non ci sono in niun luogo
sì presso, che tu di giorno vi potessi andare.
Disse la giovane allora:
- Piacerebbev'egli, poi che
altrove andar non posso, di qui ritenermi per l'amor di Dio istanotte?
Il buono uomo rispose:
- Giovane, che tu con noi
ti rimanga per questa sera n'è caro; ma tuttavia ti vogliam ricordare
che per queste contrade e di dì e di notte e d'amici e di nemici vanno
di male brigate assai, le quali molte volte ne fanno di gran dispiaceri e di gran
danni; e se per isciagura, essendoci tu, ce ne venisse alcuna, e veggendoti
bella e giovane come tu sé, è ti farebbono dispiacere e vergogna, e noi
non te ne potremmo aiutare. Vogliantelo aver detto, acciò che tu poi, a
se questo avvenisse, non ti possi di noi ramaricare.
La giovane, veggendo che
l'ora era tarda, ancora che le parole del vecchio la spaventassero, disse:
- Se a Dio piacerà,
egli ci guarderà e voi e me di questa noia, la quale, se pur
m'avvenisse, è molto men male essere dagli uomini straziata, che sbranata
per li boschi dalle fiere.
E così detto,
discesa del suo ronzino, se n'entrò nella casa del povero uomo, e quivi
con essoloro di quello che avevano poveramente cenò, e appresso tutta
vestita in su un lor letticello con loro insieme a giacer si gittò, né
in tutta la notte di sospirare né di piagnere la sua sventura e quella di
Pietro, del quale non sapea che si dovesse sperare altro che male, non
rifinò.
Ed essendo già
vicino al matutino, ella sentì un gran calpestio di gente andare; per la
qual cosa, levatasi, se n'andò in una gran corte, che la piccola casetta
di dietro a sé avea, e vedendo dall'una delle parti di quella molto fieno, in
quello s'andò a nascondere, acciò che, se quella gente quivi
venisse, non fosse così tosto trovata. E appena di nasconder compiuta
s'era, che coloro, che una gran brigata di malvagi uomini era, furono alla
porta della piccola casa, e fattosi aprire e dentro entrati e trovato il
ronzino della giovane ancora con tutta la sella domandarono chi vi fosse.
Il buono uomo, non vedendo
la giovane, rispose:
- Niuna persona ci è
altro che noi; ma questo ronzino, a cui che fuggito si sia, ci capitò
iersera, e noi cel mettemmo in casa, acciò che i lupi nol manicassero.
- Adunque, - disse il
maggior della brigata - sarà egli buon per noi, poi che altro signor non
ha.
Sparti adunque costoro
tutti per la piccola casa, parte n'andò nella corte, e poste giù
lor lance e lor tavolacci, avvenne che uno di loro, non sappiendo altro che
farsi, gittò la sua lancia nel fieno e assai vicin fu ad uccidere la
nascosa giovane ed ella a palesarsi, per ciò che la lancia le venne
allato alla sinistra poppa, tanto che col ferro le stracciò
de'vestimenti, laonde ella fu per mettere un grande strido temendo d'esser
fedita; ma ricordandosi là dove era, tutta riscossasi, stette cheta.
La brigata chi qua e chi
là, cotti lor cavretti e loro altra carne, e mangiato e bevuto,
s'andarono pe' fatti loro, e menaronsene il ronzino della giovane. Ed essendo
già dilungati alquanto, il buono uomo cominciò a domandar la moglie:
- Che fu della nostra
giovane che iersera ci capitò, che io veduta non la ci ho poi che noi ci
levammo?
La buona femina rispose che
non sapea, e andonne guatando.
La giovane, sentendo coloro
esser partiti, uscì del fieno; di che il buono uomo forte contento, poi
che vide che alle mani di coloro non era venuta, e faccendosi già
dì, le disse:
- Omai che il dì ne
viene, se ti piace, noi t'accompagneremo infino ad un castello che è
presso di qui cinque miglia, e sarai in luogo sicuro; ma converratti venire a
piè, per ciò che questa mala gente che ora di qui si parte, se
n'ha menato il ronzin tuo.
La giovane, datasi pace di
ciò, gli pregò per Dio che al castello la menassero; per che
entrati in via, in su la mezza terza vi giunsero.
Era il castello di uno degli
Orsini, lo quale si chiamava Liello di Campo di Fiore, e per ventura v'era una
sua donna, la qual bonissima e santa donna era; e veggendo la giovane,
prestamente la riconobbe e con festa la ricevette, e ordinatamente volle sapere
come quivi arrivata fosse. La giovane gliele contò tutto.
La donna, che cognoscea
similmente Pietro, sì come amico del marito di lei, dolente fu del caso
avvenuto; e udendo dove stato fosse preso, s'avvisò che morto fosse
stato.
Disse adunque alla giovane:
- Poi che così
è che di Pietro tu non sai, tu dimorerai qui meco infino a tanto che
fatto mi verrà di potertene sicuramente mandare a Roma.
Pietro, stando sopra la
quercia quanto più doloroso esser potea, vide in sul primo sonno venir
ben venti lupi, li quali tutti, come il ronzin videro, gli furon dintorno. Il
ronzino sentendogli, tirata la testa, ruppe le cavezzine e cominciò a
volersi fuggire; ma essendo intorniato e non potendo, gran pezza co'denti e
co'calci si difese; alla fine da loro atterrato e strozzato fu e subitamente
sventrato, e tutti pascendosi, senza altro lasciarvi che l'ossa, il divorarono
e andar via. Di che Pietro, al qual pareva del ronzino avere una compagnia e un
sostegno delle sue fatiche, forte sbigottì e imaginossi di non dover mai
di quella selva potere uscire.
Ed essendo già
vicino al dì, morendosi egli sopra la quercia di freddo, sì come
quegli che sempre dattorno guardava, si vide innanzi forse un miglio un
grandissimo fuoco; per che, come fatto fu il dì chiaro, non senza paura
della quercia disceso, verso là si dirizzò, e tanto andò
che a quello pervenne; dintorno al quale trovò pastori che mangiavano e
davansi buon tempo, dà quali esso per pietà fu raccolto. E poi
che egli mangiato ebbe e fu riscaldato, contata loro la sua disaventura e come
quivi solo arrivato fosse, gli domandò se in quelle parti fosse villa o
castello, dove egli andar potesse.
I pastori dissero che ivi
forse a tre miglia era un castello di Liello di Campo di Fiore, nel quale al
presente era la donna sua; di che Pietro contentissimo gli pregò che
alcuno di loro infino al castello l'accompagnasse, il che due di loro fecero
volentieri. Al quale pervenuto Pietro, e quivi avendo trovato alcun suo
conoscente, cercando di trovar modo che la giovane fosse per la selva cercata,
fu da parte della donna fatto chiamare; il quale incontanente andò a
lei, e vedendo con lei l'Agnolella, mai pari letizia non fu alla sua.
Egli si struggeva tutto
d'andarla ad abbracciare, ma per vergogna, la quale avea della donna, lasciava.
E se egli fu lieto assai, la letizia della giovane vedendolo non fu minore.
La gentil donna, raccoltolo
e fattogli festa, e avendo da lui ciò che intervenuto gli era udito, il
riprese molto di ciò che contro al piacer de'parenti suoi far voleva.
Ma, veggendo che egli era pure a questo disposto e che alla giovane aggradiva,
disse: - In che m'affatico io? Costor s'amano, costor si conoscono, ciascuno
è parimente amico del mio marito, e il lor desiderio è onesto; e
credo che egli piaccia a Dio, poi che l'uno dalle forche ha campato, e l'altro
dalla lancia, e amenduni dalle fiere selvatiche; e però facciasi -. E a
loro rivolta disse:
- Se pure questo v'è
all'animo di volere essere moglie e marito insieme, e a me; facciasi, e qui le
nozze s'ordinino alle spese di Liello; la pace poi tra voi è vostri
parenti farò io ben fare.
Pietro lietissimo, e
l'Agnolella più, quivi si sposarono; e come in montagna si potè,
la gentil donna fè loto onorevoli nozze, e quivi i primi frutti del loro
amore dolcissimamente sentirono.
Poi, ivi a parecchi
dì, la donna insieme con loro, montati a cavallo e bene accompagnati, se
ne tornarono a Roma; dove, trovati forte turbati i parenti di Pietro di
ciò che fatto aveva, con loro in buona pace il ritornò; ed esso
con molto riposo e piacere con la sua Agnolella infino alla lor vecchiezza si
visse.
Giornata quinta - Novella
quarta
Ricciardo Manardi è
trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola, la quale egli sposa, e col
padre di lei rimane in buona pace.
Tacendosi Elissa, le lode
ascoltando dalle sue compagne date alla sua novella, impose la reina a
Filostrato che alcuna ne dicesse egli; il quale ridendo incominciò.
Io sono stato da tante di
voi tante volte morso, perché io materia da crudeli ragionamenti e da farvi
piagner v'imposi, che a me pare, a volere alquanto questa noia ristorare, esser
tenuto di dover dire alcuna cosa per la quale io alquanto vi faccia ridere; e
per ciò uno amore, non da altra noia che di sospiri e d'una brieve paura
con vergogna mescolata, a lieto fin pervenuto, in una novelletta assai piccola
intendo di raccontarvi.
Non è adunque,
valorose donne, gran tempo passato che in Romagna fu un cavaliere assai da bene
e costumato, il qual fu chiamato messer Lizio da Valbona, a cui per ventura
vicino alla sua vecchiezza una figliuola nacque d'una sua donna chiamata
madonna Giacomina, la quale oltre ad ogn'altra della contrada, crescendo,
divenne bella e piacevole; e per ciò che sola era al padre e alla madre
rimasa, sommamente da loro era amata e avuta cara e con maravigliosa diligenza
guardata, aspettando essi di far di lei alcun gran parentado.
Ora usava molto nella casa
di messer Lizio, e molto con lui si riteneva, un giovane bello e fresco della
persona, il quale era de'Manardi da Brettinoro, chiamato Ricciardo, del quale
niun'altra guardia messer Lizio o la sua donna prendevano, che fatto avrebbon
d'un lor figliuolo. Il quale, una volta e altra veggendo la giovane bellissima
e leggiadra, e di laudevoli maniere e costumi e già da marito, di lei
fieramente s'innamorò, e con gran diligenza il suo amore teneva occulto.
Del quale avvedutasi la giovane, senza schifar punto il colpo, lui similmente
cominciò ad amare; di che Ricciardo fu forte contento.
E avendo molte volte avuta
voglia di doverle alcuna parola dire, e dubitando taciutosi, pure una, preso
tempo e ardire, le disse:
- Caterina, io ti priego
che tu non mi facci morire amando.
La giovane rispose subito:
- Volesse Iddio che tu non
facessi più morir me.
Questa risposta molto di
piacere e d'ardire aggiunse a Ricciardo, e dissele :
- Per me non istarà
mai cosa che a grado ti sia, ma a te sta il trovar modo allo scampo della tua
vita e della mia.
La giovane allora disse:
- Ricciardo, tu vedi quanto
io sia guardata, e per ciò da me non so veder come tu a me ti potessi
venire; ma, se tu sai veder cosa che io possa senza mia vergogna fare, dillami,
e io la farò.
Ricciardo, avendo
più cose pensato, subitamente disse:
- Caterina mia dolce, io
non so alcuna via veder, se già tu non dormissi o potessi venire in su
'1 verone che è presso al giardino di tuo padre, dove se io sapessi che
tu di notte fossi, senza fallo io m'ingegnere' di venirvi, quantunque molto
alto sia.
A cui la Caterina rispose:
- Se quivi ti dà il
cuore di venire, io mi credo ben far sì che fatto mi verrà di
dormirvi.
Ricciardo disse di sì. E questo detto,
una volta sola si baciarono alla sfuggita, e andar via.
Il dì seguente,
essendo già vicino alla fine di maggio, la giovane cominciò
davanti alla madre a ramaricarsi che la passata notte per lo soperchio caldo
non aveva potuto dormire.
Disse la madre:
- O figliuola, che caldo fu
egli? Anzi non fu egli caldo veruno
A cui la Caterina disse:
- Madre mia, voi dovreste
dire - a mio parere - , e forse vi direste il vero; ma voi dovreste pensare
quanto sieno più calde le fanciulle che le donne attempate.
La donna disse allora:
- Figliuola mia,
così è il vero; ma io non posso far caldo e freddo a mia posta,
come tu forse vorresti. I tempi si convengon pur sofferir fatti come le
stagioni gli danno; forse quest'altra notte sarà più fresco, e
dormirai meglio.
- Ora Iddio il voglia,-
disse la Caterina - ma non suole essere usanza che, andando verso la state, le
notti si vadan rinfrescando.
- Dunque,- disse la donna -
che vuoi tu che si faccia?
Rispose la Caterina:
- Quando a mio padre e a
voi piacesse, io farei volentieri fare un letticello in su '1 verone che
è allato alla sua camera e sopra il suo giardino, e quivi mi dormirei, e
udendo cantare l'usignuolo, e avendo il luogo più fresco, molto meglio
starei che nella vostra camera non fo.
La madre allora disse:
- Figliuola, confortati; io
il dirò a tuo padre, e come egli vorrà così faremo.
Le quali cose udendo messer
Lizio dalla sua donna, per ciò che vecchio era e da questo forse un poco
ritrosetto, disse:
- Che rusignuolo è
questo a che ella vuol dormire? Io la farò ancora addormentare al canto
delle cicale.
Il che la Caterina
sappiendo, più per isdegno che per caldo, non solamente la seguente
notte non dormì, ma ella non lasciò dormire la madre, pur del
gran caldo dolendosi.
Il che avendo la madre
sentito, fu la mattina a messer Lizio e gli disse:
- Messer, voi avete poco
cara questa giovane. Che vi fa egli perché ella sopra quel veron si dorma? Ella
non ha in tutta notte trovato luogo di caldo, e oltre a ciò
maravigliatevi voi perché egli le sia in piacere l'udir cantar l'usignuolo, che
è una fanciullina? I giovani son vaghi delle cose simiglianti a loro.
Messer Lizio udendo questo
disse:
- Via, faccialevisi un
letto tale quale egli vi cape, e fallo fasciar dattorno d'alcuna sargia, e
dormavi, e oda cantar l'usignuolo a suo senno.
La giovane, saputo questo,
prestamente vi fece fare un letto; e dovendovi la sera vegnente dormire, tanto
attese che ella vide Ricciardo, e fecegli un segno posto tra loro, per lo quale
egli intese ciò che far si dovea.
Messer Lizio, sentendo la
giovane essersi andata al letto, serrato uno uscio che della sua camera andava
sopra 'l verone, similmente s'andò a dormire.
Ricciardo, come d'ogni
parte sentì le cose chete, con lo aiuto d'una scala salì sopra un
muro, e poi d'in su quel muro appiccandosi a certe morse d'un altro muro, con
gran fatica e pericolo, se caduto fosse, pervenne in sul verone, dove chetamente
con grandissima festa dalla giovane fu ricevuto; e dopo molti baci si
coricarono insieme, e quasi per tutta la notte diletto e piacer presono l'un
dell'altro, molte volte faccendo cantar l'usignuolo.
Ed essendo le notti piccole
e il diletto grande, e già al giorno vicino (il che essi non credevano),
e sì ancora riscaldati e sì dal tempo e sì dallo
scherzare, senza alcuna cosa addosso s'addormentarono, avendo a Caterina col
destro braccio abbracciato sotto il collo Ricciardo, e con la sinistra mano presolo
per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nominare.
E in cotal guisa dormendo,
senza svegliarsi, sopravenne il giorno, e messer Lizio si levò; e
ricordandosi la figliuola dormire sopra '1 verone, chetamente l'uscio aprendo
disse:
- Lasciami vedere come
l'usignuolo ha fatto questa notte dormir la Caterina.
E andato oltre, pianamente
levò alta la sargia della quale il letto era fasciato e Ricciardo e lei
vide ignudi e scoperti dormire abbracciati nella guisa di sopra mostrata; e
avendo ben conosciuto Ricciardo, di quindi s'uscì, e andonne alla camera
della sua donna e chiamolla, dicendo:
- Su tosto, donna, lievati
e vieni a vedere, ché tua figliuola è stata sì vaga
dell'usignuolo che ella è stata tanto alla posta che ella l'ha preso e
tienlosi in mano.
Disse la donna:
- Come può questo
essere?
Disse messer Lizio:
- Tu il vedrai se tu vien
tosto.
La donna, affrettatasi di
vestire, chetamente seguitò messer Lizio, e giunti amenduni al letto e
levata la sargia, potè manifestamente vedere madonna Giacomina come la
figliuola avesse preso e tenesse l'usignuolo, il quale ella tanto disiderava
d'udir cantare.
Di che la donna, tenendosi
forte di Ricciardo ingannata, volle gridare e dirgli villania; ma messer Lizio
le disse:
- Donna, guarda che per
quanto tu hai caro il mio amore tu non facci motto, ché in verità,
poscia che ella l'ha preso, egli sì sarà suo. Ricciardo è
gentile uomo e ricco giovane; noi non possiamo aver di lui altro che buon parentado;
se egli si vorrà a buon concio da me partire, egli converra che
primieramente la sposi; sì ch'egli si troverrà aver messo
l'usignuolo nella gabbia sua e non nell'altrui.
Di che la donna
racconsolata, veggendo il marito non esser turbato di questo fatto, e
considerando che la figliuola aveva avuta la buona notte ed erasi ben riposata
e aveva l'usignuolo preso, si tacque.
Né guari dopo queste parole
stettero, che Ricciardo si svegliò, e veggendo che il giorno era chiaro,
si tenne morto, e chiamò la Caterina, dicendo:
- Ohimè, anima mia,
come faremo, ché il giorno è venuto e hammi qui colto?
Alle quali parole messer
Lizio, venuto oltre e levata la sargia, rispose:
- Farete bene
Quando Ricciardo li vide,
parve che gli fosse il cuor del corpo strappato e levatosi a sedere in sul letto
disse:
- Signor mio, io vi cheggio
mercé per Dio. Io conosco, sì come disleale e malvagio uomo, aver
meritato morte, e per ciò fate di me quello che più vi piace. Ben
vi priego io, se esser può, che voi abbiate della mia vita mercè,
e che io non muoia.
A cui messer Lizio disse:
- Ricciardo, questo non
meritò l'amore il quale io ti portava e la fede la quale io aveva in te;
ma pur, poi che così è e a tanto fallo t'ha trasportato la
giovanezza, acciò che tu tolga a te la morte e a me la vergogna, prima
che tu ti muova, sposa per tua legittima moglie la Caterina, acciò che,
come ella è stata questa notte tua, così sia mentre ella
viverà; e in questa guisa puoi e la mia pace e la tua salvezza
acquistare; e ove tu non vogli così fare, raccomanda a Dio l'anima tua.
Mentre queste parole si
dicevano, la Caterina lasciò l'usignuolo, e ricopertasi, cominciò
fortemente a piagnere e a pregare il padre che a Ricciardo perdonasse; e
d'altra parte pregava Ricciardo che quel facesse che messer Lizio volea, acciò
che con sicurtà e lungo tempo potessono insieme di così fatte
notti avere.
Ma a ciò non furono
troppi prieghi bisogno; per ciò che d'una parte la vergogna del fallo
commesso e la voglia dello emendare, e d'altra la paura del morire e il
disiderio dello scampare, e oltre a questo l'ardente amore e l'appetito del
possedere la cosa amata, liberamente e senza alcuno indugio gli fecer dire sé
esser apparecchiato a far ciò che a messer Lizio piaceva.
Per che messer Lizio,
fattosi prestare a madonna Giacomina uno de'suoi anelli, quivi, senza mutarsi,
in presenzia di loro Ricciardo per sua moglie sposò la Caterina.
La qual cosa fatta, messer
Lizio e la donna partendosi dissono:
- Riposatevi oramai, ché
forse maggior bisogno n'avete che di levarvi.
Partiti costoro, i giovani si
rabbracciarono insieme, e non essendo più che sei miglia camminati la
notte, altre due anzi che si levassero ne camminarono, e fecer fine alla prima
giornata.
Poi levati, e Ricciardo
avuto più ordinato ragionamento con messer Lizio, pochi dì
appresso, sì come si convenia, in presenzia degli amici e de'parenti da
capo sposò la giovane, e con gran festa se ne la menò a casa, e
fece onorevoli e belle nozze, e poi con lei lungamente in pace e in
consolazione uccellò agli usignuoli e di dì e di notte quanto gli
piacque.
Giornata quinta - Novella
quinta
Guidotto da Cremona lascia
a Giacomin da Pavia una fanciulla, e muorsi; la quale Giannol di Severino e
Minghino di Mingole amano in Faenza; azzuffansi insieme; riconoscesi la
fanciulla esser sirocchia di Giannole, e dassi per moglie a Minghino.
Aveva ciascuna donna, la
novella dell'usignolo ascoltando, tanto riso, che ancora, quantunque Filostrato
ristato fosse di novellare, non per ciò esse di ridere si potevan
tenere. Ma pur, poi che alquanto ebber riso, la reina disse :
- Sicuramente, se tu ieri
ci affliggesti, tu ci hai oggi tanto dileticate, che niuna meritamente
più di te si dee ramaricare.
E avendo a Neifile le
parole rivolte, le 'mpose che novellasse; la quale lietamente così
cominciò a parlare.
Poi che Filostrato
ragionando in Romagna è intrato, a me per quella similmente
gioverà d'andare alquanto spaziandomi col mio novellare.
Dico adunque che già
nella città di Fano due lombardi abitarono, de'quali l'un fu chiamato
Guidotto da Cremona e l'altro Giacomin da Pavia, uomini omai attempati e stati
nella lor gioventudine quasi sempre in fatti d'arme e soldati. Dove, venendo a
morte Guidotto, e niuno figliuolo avendo né altro amico o parente di cui
più si fidasse che di Giacomin facea, una sua fanciulla d'età
forse di dieci anni, e ciò che egli al mondo avea, molto de'suoi fatti
ragionatogli, gli lasciò, e morissi.
Avvenne in questi tempi che
la città di Faenza, lungamente in guerra e in mala ventura stata,
alquanto in miglior disposizion ritornò, e fu a ciascun che ritornar vi
volesse libarerete conceduto il potervi tornare; per la qual cosa Giacomino,
che altra volta dimorato v'era, e piacendogli la stanza, là con ogni sua
cosa si tornò, e seco ne menò la fanciulla lasciatagli da
Guidotto, la quale egli come propria figliuola amava e trattava.
La quale crescendo divenne
bellissima giovane quanto alcuna altra che allora fosse nella città; e
così come era bella, era costumata e onesta. Per la qual cosa da diversi
fu cominciata a vagheggiare, ma sopra tutti due giovani assai leggiadri e da
bene igualmente le posero grandissimo amore, in tanto che per gelosia insieme
si 'ncominciarono ad avere in odio fuor di modo: e chiamavasi l'un Giannole di
Severino, e l'altro Minghino di Mingole. Né era alcuno di loro, essendo ella
d'età di quindici anni, che volentieri non l'avesse per moglie presa, se
dà suoi parenti fosse stato sofferto; per che, veggendolasi per onesta
cagione vietare, ciascuno a doverla, in quella guisa che meglio potesse, avere,
si diede a procacciare.
Aveva Giacomino in casa una
fante attempata e un fante che Crivello aveva nome, persona sollazzevole e
amichevole assai; col quale Giannole dimesticatosi molto, quando tempo gli
parve, ogni suo amore discoperse, pregandolo che a dovere il suo disidero
ottenere gli fosse favorevole, gran cose se ciò facesse promettendogli.
Al quale Crivello disse:
- Vedi, in questo io non
potrei per te altro adoperare se non che quando Giacomino andasse in alcuna
parte a cenare, metterti là dove ella fosse, per ciò che,
volendole io dir parole per te, ella non mi starebbe mai ad ascoltare. Questo
s'el ti piace, io il ti prometto, e farollo; fa tu poi, se tu sai, quello che
tu creda che bene stea.
Giannole disse che
più non volea, e in questa concordia rimase.
Minghino d'altra parte
aveva dimesticata la fante, e con lei tanto adoperato che ella avea più
volte ambasciate portate alla fanciulla, e quasi del suo amore l'aveva accesa;
e oltre a questo gli aveva promesso di metterlo con lei, come avvenisse che
Giacomino per alcuna cagione da sera fuori di casa andasse.
Avvenne adunque, non molto
tempo appresso queste parole, che, per opera di Crivello, Giacomino andò
con un suo amico a cenare; e fattolo sentire a Giannole, compose con lui che,
quando un certo cenno facesse, egli venisse e troverrebbe l'uscio aperto. La
fante d'altra parte, niente di questo sappiendo, fece sentire a Minghino che
Giacomino non vi cenava, e gli disse che presso della casa dimorasse sì,
che quando vedesse un segno ch'ella farebbe, egli venisse ed entrassesene
dentro.
Venuta la sera, non
sappiendo i due amanti alcuna cosa l'un dell'altro, ciascun, sospettando
dell'altro, con certi compagni armati a dovere entrare in tenuta andò.
Minghino co'suoi, a dovere il segno aspettare, si ripose in casa d'un suo amico
vicino della giovine; Giannole co'suoi alquanto dalla casa stette lontano.
Crivello e la fante, non
essendovi Giacomino, s'ingegnavano di mandare l'un l'altro via. Crivello diceva
alla fante:
- Come non ti vai tu a
dormire oramai? Che ti vai tu pure avviluppando per casa?
E la fante diceva a lui:
- Ma tu perché non vai per
signorto? Che aspetti tu oramai qui, poi hai cenato?
E così l'uno non
poteva l'altro far mutare di luogo.
Ma Crivello, conoscendo
l'ora posta con Giannole esser venuta, disse seco: - Che curo io di costei? Se
ella non istarà cheta, ella potrà aver delle sue-; e fatto il
segno posto andò ad aprir l'uscio, e Giannole prestamente venuto con due
compagni andò dentro, e trovata la giovane nella sala la presono per
menarla via.
La giovane cominciò
a resistere e a gridar forte, e la fante similmente. Il che sentendo Minghino,
prestamente co'suoi compagni là corse; e veggendo la giovane già
fuori dell'uscio tirare, tratte le spade fuori, gridarono tutti:
- Ahi traditori, voi siete
morti; la cosa non andrà così: che forza è questa? -; e
questo detto, gl'incominciarono a ferire. E d'altra parte la vicinanza uscita
fuori al romore e con lumi e con arme, cominciarono questa cosa a biasimare e
ad aiutar Minghino. Per che, dopo lunga contesa, Minghino tolse la giovane a
Giannole, e rimisela in casa di Giacomino. Né prima si partì la mischia
che i sergenti del capitan della terra vi sopraggiunsero e molti di costoro
presero; e fra gli altri furono presi Minghino e Giannole e Crivello, e in prigione
menatine. Ma poi racquetata la cosa, e Giacomino essendo tornato; e, di questo
accidente molto malinconoso, essaminando come stato fosse e trovato che in
niuna cosa la giovane aveva colpa, alquanto si diè più pace,
proponendo seco, acciò che più simil caso non avvenisse, di
doverla come più tosto potesse maritare.
La mattina venuta, i
parenti dell'una parte e dell'altra avendo la verità del fatto sentita e
conoscendo il male che a'presi giovani ne poteva seguire, volendo Giacomino
quello adoperare che ragionevolmente avrebbe potuto, furono a lui, e con dolci
parole il pregarono che alla ingiuria ricevuta dal poco senno de'giovani non
guardasse tanto, quanto all'amore e alla benivolenza la quale credevano che
egli a loro che il pregavano portasse, offerendo appresso sé medesimi e i
giovani che il male avevan fatto ad ogni ammenda che a lui piacesse di
prendere.
Giacomino, il qual de'suoi
dì assai cose vedute avea ed era di buon sentimento, rispose
brievemente:
- Signori, se io fossi a
casa mia come io sono alla vostra, mi tengo io sì vostro amico, che né
di questo né d'altro io non farei se non quanto vi piacesse; e oltre a questo
più mi debbo a'vostri piaceri piegare in quanto voi a voi medesimi avete
offeso, per ciò che questa giovane, forse come molti stimano, non
è da Cremona né da Pavia, anzi è faentina, come che io né ella né
colui da cui io l'ebbi non sapessimo mai di cui si fosse figliuola; per che; di
quello che pregate tanto sarà per me fatto, quanto me ne imporrete.
I valenti uomini, udendo
costei esser di Faenza, si maravigliarono; e rendute grazie a Giacomino della
sua liberale risposta, il pregarono che gli piacesse di dover lor dire come
costei alle mani venuta gli fosse, e come sapesse lei esser faentina.
A'quali Giacomin disse:
- Guidotto da Cremona fu
mio compagno e amico, e venendo a morte mi disse che quando questa città
da Federigo Imperatore fu presa, andataci a ruba ogni cosa, egli entrò
co'suoi compagni in una casa, e quella trovò di roba piena esser dagli
abitanti abbandonata, fuor solamente da questa fanciulla, la quale d'età
di due anni o in quel torno, lui sagliente su per le scale chiamò padre;
per la qual cosa a lui venuta di lei compassione, insieme con tutte le cose
della casa seco ne la portò a Fano, e quivi morendo, con ciò che
egli avea costei mi lasciò, imponendomi che, quando tempo fosse, io la
maritassi e quello che stato fosse suo le dessi in dota; e venuta
nell'età da marito, non m'è venuto fatto di poterla dare a
persona che mi piaccia; fare' '1 volentieri, anzi che altro caso simile a quel
di ier sera me n'avvenisse.
Era quivi intra gli altri
un Guiglielmino da Medicina, che con Guidotto era stato a questo fatto, e molto
ben sapeva la cui casa stata fosse quella che Guidotto avea rubata; e vedendolo
ivi tra gli altri, gli s'accostò e disse:
- Bernabuccio, odi tu
ciò che Giacomin dice?
Disse Bernabuccio:
- Sì; e testé vi
pensava più, per ciò ch'io mi ricordo che in quegli
rimescolamenti io perdei una figlioletta di quella età che Giacomin
dice.
A cui Guiglielmino disse:
- Per certo questa è
dessa, per ciò ch'io mi trovai già in parte ove io udii a
Guidotto divisare dove la ruberia avesse. fatta, e conobbi che la tua casa era
stata; è per ciò rammemorati se ad alcun segnale riconoscer la
credessi, e fanne cercare, ché tu troverrai fermamente che ella è tua
figliuola.
Per che, pensando
Bernabuccio, si ricordò lei dovere avere una margine a guisa d'una
crocetta sopra l'orecchia sinistra, stata d'una nascenza che fatta gli avea
poco davanti a quello accidente tagliare; per che, senza alcuno indugio
pigliare, accostatosi a Giacomino che ancora era quivi, il pregò che in
casa sua il menasse e veder gli facesse questa giovane.
Giacomino il vi menò
volentieri, e lei fece venire dinanzi da lui. La quale come Bernabuccio vide,
così tutto il viso della madre di lei, che ancora bella donna era, gli
parve vedere; ma pur, non stando a questo, disse a Giacomino che di grazia
voleva da lui poterle un poco levare i capelli sopra la sinistra orecchia; di
che Giacomino fu contento.
Bernabuccio, accostatosi a
lei che vergognosamente stava, levati colla man dritta i capelli, la croce
vide; laonde, veramente conoscendo lei esser la sua figliuola, teneramente
cominciò a piagnere e ad abbracciarla, come che ella si contendesse; e
volto a Giacomin disse:
- Fratel mio, questa
è mia figliuola; la mia casa fu quella che fu da Guidotto rubata, e
costei nel furor subito vi fu dentro dalla mia donna e sua madre dimenticata, e
infino a qui creduto abbiamo che costei, nella casa che mi fu quel dì stesso
arsa, ardesse.
La giovane, udendo questo e
vedendolo uomo attempato e dando alle parole fede e da occulta virtù
mossa, sostenendo li suoi abbracciamenti, con lui teneramente cominciò a
piagnere.
Bernabuccio di presente
mandò per la madre di lei e per altre sue parenti e per le sorelle e per
li fratelli di lei, e a tutti mostratala e narrando il fatto, dopo mille
abbracciamenti fatta la festa grande, essendone Giacomino forte contento, seco
a casa sua ne la menò. Saputo questo il capitano della città, che
valoroso uomo era, e conoscendo che Giannole, cui preso tenea, figliuolo era di
Bernabuccio e fratel carnale di costei, avvisò di volersi del fallo
commesso da lui mansuetamente passare; e intromessosi in queste cose con
Bernabuccio e con Giacomino, insieme a Giannole e a Minghino fece far pace; e a
Minghino, con gran piacer di tutti i suoi parenti, diede per moglie la giovane,
il cui nome era Agnesa, e con loro insieme liberò Crivello e gli altri
che impacciati v'erano per questa cagione.
E Minghino appresso lietissimo
fece le nozze belle e grandi, e a casa menatalasi, con lei in pace e in bene
poscia più anni visse.
Giornata quinta - Novella
sesta
Gian di Procida trovato con
una giovane amata da lui, e stata data al re Federigo, per dovere essere arso
con lei è legato ad un palo; riconosciuto da Ruggieri de Loria, campa e
divien marito di lei.
Finita la novella di
Neifile, assai alle donne piaciuta, comandò la reina a Pampinea che a
doverne alcuna dire si disponesse. La qual prestamente, levato il chiaro viso,
incomincio.
Grandissime forze,
piacevoli donne, son quelle d'amore, e a gran fatiche e a strabocchevoli e non
pensati pericoli gli amanti dispongono, come per assai cose raccontate e oggi e
altre volte comprender si può; ma nondimeno ancora con l'ardire d'un
giovane innamorato m'aggrada di dimostrarlo .
Ischia è una isola
assai vicina di Napoli, nella quale fu già tra l'altre una giovinetta
bella e lieta molto, il cui nome fu Restituta, e figliuola d'un gentil uom
dell'isola, che Marin Bolgaro avea nome, la quale un giovanetto, che d'una
isoletta ad Ischia vicina, chiamata Procida, era, e nominato Gianni, amava
sopra la vita sua, ed ella lui. Il quale, non che il giorno da Procida ad usare
ad Ischia per vederla venisse, ma già molte volte di notte, non avendo
trovata barca, da Procida infino ad Ischia notando era andato, per poter
vedere, se altro non potesse, almeno le mura della sua casa.
E durante questo amore
così fervente, avvenne che, essendo la giovane un giorno di state tutta
soletta alla marina, di scoglio in iscoglio andando marine conche con un
coltellino dalle pietre spiccando, s'avvenne in un luogo fra gli scogli
riposto, dove sì per l'ombra e sì per lo destro d'una fontana
d'acqua freddissima che v'era, s'erano certi giovani ciciliani, che da Napoli
venivano, con una lor fregata raccolti.
Li quali, avendo la giovane
veduta bellissima e che ancor lor non vedea, e vedendola sola, fra sé
diliberarono di doverla pigliare e portarla via; e alla diliberazione
seguitò l'effetto. Essi, quantunque ella gridasse molto, presala, sopra
la lor barca la misero, e andar via; e in Calavria pervenuti, furono a
ragionamento di cui la giovane dovesse essere, e in brieve ciaschedun la volea;
per che, non trovandosi concordia fra loro, temendo essi di non venire a peggio
e per costei guastare i fatti loro, vennero a concordia di doverla donare a
Federigo re di Cicilia, il quale era allora giovane e di così fatte cose
si dilettava; e a Palermo venuti, così fecero.
Il re, veggendola bella,
l'ebbe cara; ma, per ciò che cagionevole era alquanto della persona,
infino a tanto che più forte fosse, comandò che ella fosse messa
in certe case bellissime d'un suo giardino, il quale chiamavan la Cuba, e quivi
servita, e così fu fatto.
Il romore della rapita
giovane fu in Ischia grande, e quello che più lor gravava, era che essi
non potevan sapere chi si fossero stati coloro che rapita l'avevano. Ma Gianni,
al quale più che ad alcuno altro ne calea, non aspettando di doverlo in
Ischia sentire, sappiendo verso che parte n'era la fregata andata, fattane
armare una, su vi montò, e quanto più tosto potè, discorsa
tutta la marina dalla Minerva infino alla Scalea in Calavria, e per tutto della
giovane investigando nella Scalea gli fu detto lei essere da marinari ciciliani
portata via a Palermo. Là dove Gianni, quanto più tosto
potè, si fece portare, e quivi, dopo molto cercare, trovato che la
giovane era stata donata al re e per lui era nella Cuba guardata, fu forte
turbato e quasi ogni speranza perde', non che di doverla mai riavere, ma pur
vedere.
Ma pur, da amore ritenuto,
mandatane la fregata, veggendo che da niun conosciuto v'era, si stette; e
sovente dalla Cuba passando, gliele venne per ventura veduta un dì ad
una finestra ed ella vide lui, di che ciascun fu contento assai. E veggendo
Gianni che il luogo era solingo, accostatosi come potè, le parlò,
e da lei informato della maniera che a tenere avesse se più dappresso le
volesse parlar, si partì, avendo prima per tutto considerata la
disposizione del luogo; e aspettata la notte, e di quella lasciata andar buona
parte, là se ne tornò, e aggrappatosi per parti che non vi si
sarebbono appiccati i picchi, nel giardin se n'entrò, e in quello
trovata una antennetta, alla finestra dalla giovane insegnatagli l'appoggiò,
e per quella assai leggiermente se ne salì.
La giovane, parendole il
suo onore avere omai perduto, per la guardia del quale ella gli era alquanto
nel passato stata salvatichetta, pensando a niuna persona più degnamente
che a costui potersi donare e avvisando di poterlo inducere a portarla via,
seco aveva preso di compiacergli in ogni suo disidero; e per ciò aveva
la finestra lasciata aperta, acciò che egli prestamente dentro potesse
passare.
Trovatala adunque Gianni
aperta, chetamente se n'entrò dentro, e alla giovane, che non dormiva,
allato si corico'. La quale, prima che ad altro venissero, tutta la sua
intenzion gli aperse, sommamente del trarla quindi e via portarnela pregandolo.
Alla qual Gianni disse niuna cosa quanto questa piacergli, e che senza alcun
fallo, come da lei si partisse, in sì fatta maniera in ordine il
metterebbe che, la prima volta ch'el vi tornasse, via la menerebbe.
E appresso questo, con
grandissimo piacere abbracciatisi, quello diletto presero, oltre al quale niuno
maggior ne puote Amor prestare; e poi che quello ebbero più volte
reiterato, senza accorgersene, nelle braccia l'un dell'altro s'addormentarono.
Il re, al quale costei era
molto nel primo aspetto piaciuta, di lei ricordandosi, sentendosi bene della
persona, ancora che fosse al dì vicino, diliberò d'andare a
starsi alquanto con lei; e con alcuno de'suoi servidori chetamente se
n'andò alla Cuba. E nelle case entrato, fatto pianamente aprir la camera
nella qual sapeva che dormiva la giovane, in quella con un gran doppiere acceso
innanzi se n'entrò; e sopra il letto guardando, lei insieme con Gianni
ignudi e abbracciati vide dormire. Di che egli di subito si turbò
fieramente e in tanta ira montò, senza dire alcuna cosa, che a poco si
tenne che quivi, con un coltello che allato avea, amenduni non gli uccise. Poi,
estimando vilissima cosa essere a qualunque uom si fosse, non che ad un re, due
ignudi uccidere dormendo, si ritenne, e pensò di volergli in publico e
di fuoco far morire; e volto ad un sol compagno che seco aveva, disse:
- Che ti par di questa rea
femina, in cui io già la mia speranza aveva posta? - e appresso il
domandò se il giovane conoscesse, che tanto d'ardire aveva avuto, che
venuto gli era in casa a far tanto d'oltraggio e di dispiacere.
Quegli che domandato era
rispose non ricordarsi d'averlo mai veduto.
Partissi adunque il re
turbato della camera, e comandò che i due amanti, così ignudi
come erano, fosser presi e legati, e come giorno chiaro fosse, fosser menati a
Palermo e in su la piazza legati ad un palo con le reni l'uno all'altro volte e
infino ad ora di terza tenuti, acciò che da tutti potessero esser
veduti, e appresso fossero arsi, sì come avean meritato; e così
detto, se ne tornò in Palermo nella sua camera assai cruccioso.
Partito il re, subitamente
furon molti sopra i due amanti, e loro non solamente svegliarono, ma
prestamente senza alcuna pietà presero e legarono. Il che veggendo i due
giovani, se essi furon dolenti e temettero della lor vita e piansero e
ramaricaronsi, assai può esser manifesto. Essi furono, secondo il
comandamento del re, menati in Palermo e legati ad un palo nella piazza, e
davanti agli occhi loro fu la stipa e '1 fuoco apparecchiata, per dovergli
ardere all'ora comandata dal re.
Quivi subitamente tutti i
palermitani e uomini e donne concorsero a vedere i due amanti: gli uomini tutti
a riguardare la giovane si traevano, e così come lei bella esser per
tutto e ben fatta lodavano, così le donne, che a riguardare il giovane
tutte correvano, lui d'altra parte esser bello e ben fatto sommamente
commendavano. Ma gli sventurati amanti amenduni vergognandosi forte, stavano
con le teste basse e il loro infortunio piagnevano, d'ora in ora la crudel
morte del fuoco aspettando.
E mentre così infino
all'ora determinata eran tenuti, gridandosi per tutto il fallo da lor commesso,
e pervenendo agli orecchi di Ruggier de Loria, uomo di valore inestimabile e
allora ammiraglio del re, per vedergli se n'andò verso il luogo dove
erano legati; e quivi venuto, prima riguardò la giovane e commendolla
assai di bellezza, e appresso venuto il giovane a riguardare, senza troppo
penare il riconobbe, e più verso lui fattosi il domandò se Gianni
di Procida fosse.
Gianni, alzato il viso e
riconoscendo l'ammiraglio, rispose:
- Signor mio, io fui ben
già colui di cui voi domandate, ma io sono per non esser più.
Domandollo allora
l'ammiraglio che cosa a quello l'avesse condotto; a cui Gianni rispose:
- Amore, e l'ira del re.
Fecesi l'ammiraglio
più la novella distendere; e avendo ogni cosa udita da lui come stata
era e partir volendosi, il richiamò Gianni e dissegli:
- Deh, signor mio, se esser
può, impetratemi una grazia da chi così mi fa stare.
Ruggieri domandò
quale; a cui Gianni disse:
- Io veggio che io debbo, e
tostamente, morire; voglio adunque di grazia che, come io sono con questa
giovane, la quale io ho più che la mia vita amata ed ella me, con le
reni a lei voltato ed ella a me, che noi siamo co'visi l'uno all'altro rivolti,
acciò che morendo io e vedendo il viso suo, io ne possa andar consolato.
Ruggieri ridendo disse:
- Volentieri io farò
sì che tu la vedrai ancor tanto che ti rincrescerà.
E partitosi da lui,
comandò a coloro a'quali imposto era di dovere questa cosa mandare ad
esecuzione, che senza altro comandamento del re non dovessero più avanti
fare che fatto fosse; e senza dimorare, al re se n'andò. Al quale,
quantunque turbato il vedesse, non lasciò di dire il parer suo, e
dissegli:
- Re, di che t'hanno offeso
i due giovani li quali laggiù nella piazza hai comandato che arsi sieno?
Il re gliele disse.
Seguitò Ruggieri:
- Il fallo commesso da loro
il merita bene, ma non da te; e come i falli meritan punizione, così i
benefici meritan guiderdone, oltre alla grazia e alla misericordia. Conosci tu
chi color sieno li quali tu vuogli che s'ardano?
Il re rispose di no. Disse
allora Ruggieri:
- E io voglio che tu gli
conosca, acciò che tu veggi quanto discretamente tu ti lasci agl'impeti
dell'ira transportare. Il giovane è figliuolo di Landolfo di Procida,
fratel carnale di messer Gian di Procida, per l'opera del quale tu sé re e
signor di questa isola. La giovane è figliuola di Marin Bolgaro, la cui
potenza fa oggi che la tua signoria non sia cacciata d'Ischia. Costoro, oltre a
questo, son giovani che lungamente si sono amati insieme, e da amor costretti,
e non da volere alla tua signoria far dispetto, questo peccato (se peccato dir
si dee quel che per amor fanno i giovani) hanno fatto. Perché dunque gli vuoi
tu far morire, dove con grandissimi piaceri e doni gli dovresti onorare?
Il re, udendo questo e
rendendosi certo che Ruggieri il ver dicesse, non solamente che egli a peggio
dovere operare procedesse, ma di ciò che fatto avea gl'increbbe; per che
incontanente mandò che i due giovani fossero dal palo sciolti e menati
davanti da lui; e così fu fatto. E avendo intera la lor condizion
conosciuta, pensò che con onore e con doni fosse la ingiuria fatta da
compensare; e fattigli onorevolmente rivestire, sentendo che di pari
consentimento era, a Gianni fece la giovinetta sposare, e fatti loro magnifichi
doni, contenti gli rimandò a casa loro, dove con festa grandissima
ricevuti, lungamente in piacere e in gioia poi vissero insieme.
Giornata quinta - Novella
settima
Teodoro, innamorato della
Violante figliuola di messere Amerigo suo signore, la 'ngravida ed è
alle forche condannato; alle quali frustandosi essendo menato, dal padre
riconosciuto e prosciolto, prende per moglie la Violante.
Le donne, le quali tutte
temendo stavan sospese ad udire se i due amanti fossero arsi, udendogli
scampati, lodando Iddio, tutte si rallegrarono; e la reina, udita la fine, alla
Lauretta lo 'ncarico impose della seguente, la quale lietamente prese a dire.
Bellissime donne, al tempo
che il buon re Guiglielmo la Cicilia reggeva, era nella isola un gentile uomo
chiamato messere Amerigo Abbate da Trapani, il quale, tra gli altri ben
temporali, era di figliuoli assai ben fornito. Per che, avendo di servidori bisogno
e venendo galee di corsari genovesi di Levante, li quali costeggiando l'Erminia
molti fanciulli avevan presi, di quegli, credendogli turchi, alcun
comperò; tra' quali, quantunque tutti gli altri paressero pastori, n'era
uno il quale gentilesco e di migliore aspetto che alcun altro pareva, ed era
chiamato Teodoro.
Il quale crescendo, come
che egli a guisa di servo trattato fosse, nella casa pur co'figliuoli di messer
Amerigo si crebbe; e traendo più alla natura di lui che all'accidente,
cominciò ad esser costumato e di bella maniera, intanto che egli piaceva
sì a messere Amerigo, che egli il fece franco; e credendo che turchio
fosse, il fè battezzare e chiamar Pietro, e sopra i suoi fatti il fece
il maggiore, molto di lui confidandosi.
Come gli altri figliuoli di
messer Amerigo, così similmente crebbe una sua figliuola chiamata
Violante, bella e dilicata giovane; la quale, soprattenendola il padre a
maritare, s'innamorò per avventura di Pietro; e amandolo e faccendo
de'suoi costumi e delle sue opere grande stima, pur si vergognava di
discovrirgliele. Ma Amore questa fatica le tolse, per ciò che, avendo
Pietro più volte cautamente guatatala, sì s'era di lei
innamorato, che bene alcun non sentiva se non quanto la vedea; ma forte temea non
di questo alcun s'accorgesse, parendogli far men che bene. Di che la giovane,
che volentier lui vedeva, s'avvide; e, per dargli più sicurtà,
contentissima, sì come era, se ne mostrava. E in questo dimorarono
assai, non attentandosi di dire l'uno all'altro alcuna cosa, quantunque molto
ciascuno il disiderasse.
Ma, mentre che essi
così parimente nell'amorose fiamme accesi ardevano, la fortuna, come se
diliberato avesse questo voler che fosse, loro trovò via da cacciare la
temorosa paura che gl'impediva.
Aveva messer Amerigo, fuor
di Trapani forse un miglio, un suo molto bel luogo, al quale la donna sua con
la figliuola e con altre femine e donne era usata sovente d'andare per via di
diporto: dove essendo, un giorno che era il caldo grande, andate, e avendo seco
menato Pietro e quivi dimorando, avvenne, sì come noi veggiamo talvolta
di state avvenire, che subitamente il cielo si chiuse d'oscuri nuvoli; per la
qual cosa la donna con la sua compagnia, acciò che il malvagio tempo non
le cogliesse quivi, si misero in via per tornare in Trapani, e andavanne ratti
quanto potevano. Ma Pietro che giovane era, e la fanciulla similmente,
avanzavano nello andare la madre di lei e l'altre compagne assai, forse non
meno da amor sospinti che da paura di tempo; ed essendo già tanto entrati
innanzi alla donna e agli altri che appena si vedevano, avvenne che dopo molti
tuoni subitamente una gragnuola grossissima e spessa cominciò a venire,
la quale la donna con la sua compagnia fuggì in casa d'un lavoratore.
Pietro e la giovane, non
avendo più presto rifugio, se n'entrarono in una casetta antica e quasi
tutta caduta, nella quale persona non dimorava, e in quella sotto un poco di
tetto, che ancora rimaso v'era, si ristrinsono amenduni, e costrinseli la
necessità del poco coperto a toccarsi insieme. Il qual toccamento fu
cagione di rassicurare un poco gli animi ad aprire gli amorosi disii. E prima
cominciò Pietro a dire:
- Or volesse Iddio che mai,
dovendo io stare come io sto, questa grandine non ristesse.
E la giovane disse:
- Ben mi sarebbe caro.
E da queste parole vennero
a pigliarsi per mano e strignersi, e da questo ad abbracciarsi e poi a
baciarsi, grandinando tuttavia.
E acciò che io ogni
particella non racconti, il tempo non si racconciò prima che essi,
l'ultime dilettazioni d'amor conosciute, a dover segretamente l'un dell'altro
aver piacere ebbero ordine dato.
Il tempo malvagio
cessò, e all'entrar della città, che vicina era, aspettata la
donna, con lei a casa se ne tornarono. Quivi alcuna volta, con assai discreto
ordine e segreto, con gran consolazione insieme si ritrovarono; e sì
andò la bisogna che la giovane ingravidò, il che molto fu e
all'uno e all'altro discaro; per che ella molte arti usò per dovere,
contro al corso della natura, disgravidare, né mai le poté venir fatto.
Per la qual cosa Pietro,
della vita di sé medesimo temendo, diliberato di fuggirsi, gliele disse; la
quale udendolo disse:
- Se tu ti parti, senza
alcun fallo io m'ucciderò.
A cui Pietro, che molto
l'amava, disse:
- Come vuoi tu, donna mia,
che io qui dimori? La tua gravidezza scoprirà il fallo nostro; a te fia
perdonato leggiermente, ma io misero sarò colui a cui del tuo peccato e
del mio converrà portare la pena.
Al quale la giovane disse:
- Pietro, il mio peccato si
saprà bene; ma sii certo che il tuo, se tu nol dirai, non si
saprà mai.
Pietro allora disse:
- Poi che tu così mi
prometti, io starò, ma pensa d'osservarlomi.
La giovane, che, quanto
più potuto avea, la sua pregnezza tenuta aveva nascosa, veggendo, per lo
crescer che '1 corpo facea, più non poterla nascondere, con grandissimo
pianto un dì il manifestò alla madre, lei per la sua salute
pregando.
La donna, dolente senza
misura, le disse una gran villania, e da lei volle sapere come andata fosse la
cosa. La giovane, acciò che a Pietro non fosse fatto male, compose una
sua favola, in altre forme la verità rivolgendo. La donna la si
credette, e per celare il difetto della figliuola, ad una lor possessione la ne
mandò. Quivi, sopravvenuto il tempo del partorire, gridando la giovane
come le donne fanno, non avvisandosi la madre di lei che quivi messer Amerigo,
che quasi mai usato non era, dovesse venire, avvenne che, tornando egli da
uccellare e passando lunghesso la camera dove la figliuola gridava,
maravigliandosi, subitamente entrò dentro e domandò che questo
fosse.
La donna, veggendo il
marito sopravenuto, dolente levatasi, ciò che alla figliuola era
intervenuto gli raccontò. Ma egli, men presto a creder che la donna non
era stata, disse ciò non dovere esser vero che ella non sapesse di cui
gravida fosse, e per ciò del tutto il voleva sapere; e dicendolo, essa
potrebbe la sua grazia racquistare; se non, pensasse senza alcuna misericordia
di morire.
La donna s'ingegnò,
in quanto poteva, di dovere fare star contento il marito a quello che ella
aveva creduto; ma ciò era niente. Egli, salito in furore, con la spada
ignuda in mano sopra la figliuola corse, la quale, mentre la madre di lei il
padre teneva in parole, aveva un figliuol maschio partorito, e disse:
- O tu manifesta di cui
questo parto si generasse, o tu morrai senza indugio.
La giovane, la morte
temendo, rotta la promessa fatta a Pietro, ciò che tra lui e lei stato
era tutto aperse. Il che udendo il cavaliere e fieramente divenuto fellone,
appena d'ucciderla si ritenne; ma, poi che quello che l'ira gli apparecchiava
detto l'ebbe, rimontato a cavallo, a Trapani se ne venne, e ad uno messer
Currado, che per lo re v'era capitano, la ingiuria fattagli da Pietro
contatagli, subitamente, non guardandosene egli, il fè pigliare; e
messolo al martorio, ogni cosa fatta confessò.
Ed essendo dopo alcun
dì dal capitano condannato che per la terra frustato fosse e poi
appiccato per la gola; acciò che una medesima ora togliesse di terra i
due amanti e il lor figliuolo, messere Amerigo, al quale per avere a morte con
dotto Pietro non era l'ira uscita, mise veleno in un nappo con vino, e quello
diede ad un suo famigliare e un coltello ignudo con esso, e disse:
- Va con queste due cose
alla Violante, e sì le dì da mia parte che prestamente prenda
qual vuole l'una di queste due morti, o del veleno o del ferro, e ciò
faccia senza indugio; se non, che io nel cospetto di quanti cittadini ci ha la
farò ardere, sì come ella ha meritato; e fatto questo, piglierai
il figliuolo pochi dì fa da lei partorito, e percossogli il capo al
muro, il gitta a mangiare a'cani.
Data dal fiero padre questa
crudel sentenzia contro alla figliuola e al nepote, il famigliare, più a
male che a ben disposto, andò via.
Pietro condennato, essendo
dà famigliari menato alle forche frustando, passò, sì come
a coloro che la brigata guida vano piacque, davanti ad uno albergo dove tre
nobili uomini d'Erminia erano, li quali dal re d'Erminia a Roma ambasciadori
eran mandati a trattar col papa di grandissime cose per un passaggio che far si
dovea, e quivi smontati per rinfrescarsi e riposarsi alcun dì, e molto
stati onorati dà nobili uomini di Trapani, e spezialmente da messere
Amerigo. Costoro, sentendo passare coloro che Pietro menavano, vennero ad una
finestra a vedere.
Era Pietro dalla cintura in
su tutto ignudo e con le mani legate di dietro, il quale riguardando l'uno
de'tre ambasciadori, che uomo antico era e di grande autorità, nominato
Fineo, gli vide nel petto una gran macchia di vermiglio, non tinta, ma
naturalmente nella pelle infissa, a guisa che quelle sono che le donne qua
chiamano rose. La qual veduta, subitamente nella memoria gli corse un suo
figliuolo, il quale, già eran quindici anni passati, dà corsali
gli era stato sopra la marina di Laiazzo tolto, né mai n'avea potuto saper
novella; e considerando l'età del cattivello che frustato era,
avvisò, se vivo fosse il suo figliuolo, dovere di cotale età
essere di quale colui pareva; e cominciò a sospicar per quel segno non
costui desso fosse; e pensossi, se desso fosse, lui ancora doversi del nome suo
e di quel del padre e della lingua erminia ricordare.
Per che, come gli fu
vicino, chiamò:
- O Teodoro.
La qual voce Pietro udendo,
subitamente levò il capo. Al quale Fineo in erminio parlando disse:
- Onde fosti? E cui
figliuolo?
Li sergenti che il
menavano, per reverenza del valente uomo, il fermarono, sì che Pietro
rispose:
- Io fui d'Erminia,
figliuolo d'uno che ebbe nome Fineo, qua picciol fanciullo trasportato da non
so che gente.
Il che Fineo udendo,
certissimamente conobbe lui essere il figliuolo che perduto avea; per che,
piagnendo co'suoi compagni discese giuso, e lui tra tutti i sergenti corse ad
abbracciare; e gittatogli addosso un mantello d'un ricchissimo drappo che in
dosso avea, pregò colui che a guastare il menava, che gli piacesse
d'attendere tanto quivi, che di doverlo rimenare gli venisse il comandamento.
Colui rispose che l'attenderebbe volentieri.
Aveva già Fineo
saputa la cagione per che costui era menato a morire, sì come la fama
l'aveva portata per tutto; per che prestamente co'suoi compagni e con la lor
famiglia n'andò a messer Currado, e sì gli disse:
- Messere, colui il quale
voi mandate a morire come servo, è libero uomo e mio figliuolo, ed
è presto di torre per moglie colei la qual si dice che della sua
virginità ha privata; e però piacciavi di tanto indugiare la
esecuzione che saper si possa se ella lui vuol per marito, acciò che
contro alla legge, dove ella il voglia, non vi troviate aver fatto.
Messer Currado, udendo colui
esser figliuolo di Fineo, si maravigliò; e vergognatosi alquanto del
peccato della Fortuna, confessato quello esser vero che diceva Fineo,
prestamente il fè ritornare a casa, e per messere Amerigo mandò,
e queste cose gli disse.
Messer Amerigo, che già
credeva la figliuola e '1 nepote esser morti, fu il più dolente uom del
mondo di ciò che fatto avea, conoscendo, dove morta non fosse, si potea
molto bene ogni cosa stata emendare; ma nondimeno mandò correndo
là dove la figliuola era, acciò che, se fatto non fosse il suo
comandamento, non si facesse.
Colui che andò,
trovò il famigliare stato da messere Amerigo mandato, che, avendole il
coltello e '1 veleno posto innanzi, perché ella così tosto non eleggeva,
le dicea villania e volevala costrignere di pigliare l'uno. Ma, udito il
comandamento del suo signore, lasciata star lei, a lui se ne ritornò e
gli disse come stava l'opera. Di che messer Amerigo contento, andatosene
là dove Fineo era, quasi piagnendo, come seppe il meglio, di ciò
che intervenuto era si scusò e domandonne perdono, affermando sé, dove
Teodoro la sua figliuola per moglie volesse, esser molto contento di dargliele.
Fineo ricevette le scuse
volentieri e rispose:
- Io intendo che mio
figliuolo la vostra figliuola prenda; e dove egli non volesse, vada innanzi la
sentenzia data di lui.
Essendo adunque e Fineo e
messer Amerigo in concordia, là ove Teodoro era ancora tutto pauroso
della morte e lieto di avere il padre ritrovato, il domandarono intorno a
questa cosa del suo volere.
Teodoro, udendo che la
Violante, dove egli volesse, sua moglie sarebbe, tanta fu la sua letizia, che
d'inferno gli parve saltare in paradiso, e disse che questo gli sarebbe
grandissima grazia, dove a ciascun di lor piacesse.
Mandossi adunque alla
giovane a sentire del suo volere; la quale, udendo ciò che di Teodoro
era avvenuto ed era per avvenire, dove più dolorosa che altra femina la
morte aspettava, dopo molto, alquanta fede prestando alle parole, un poco si
rallegrò e rispose che, se ella il suo disidero di ciò seguisse,
niuna cosa più lieta le poteva avvenire che d'essere moglie di Teodoro;
ma tuttavia farebbe quello che il padre le comandasse.
Così adunque in
concordia fatta sposare la giovane, festa si fece grandissima con sommo piacere
di tutti i cittadini. La giovane, confortandosi e faccendo nudrire il suo
piccol figliuolo, dopo non molto tempo ritornò più bella che mai;
e levata del parto, e davanti a Fineo, la cui tornata da Roma s'aspettò,
venuta, quella reverenza gli fece che a padre; ed egli, forte contento di
sì bella nuora, con grandissima festa e allegrezza fatte fare le lor
nozze, in luogo di figliuola la ricevette e poi sempre la tenne. E dopo
alquanti dì il suo figliuolo e lei e il suo picciol nepote, montati in
galea, seco ne menò a Laiazzo, dove con riposo e con piacere de'due
amanti, quanto la vita lor durò dimorarono.
Giornata quinta - Novella
ottava
Nastagio degli Onesti,
amando una de'Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato. Vassene,
pregato da'suoi, a Chiassi; quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane e
ucciderla e divorarla da due cani. Invita i parenti suoi e quella donna amata
da lui ad un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare; e
temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio.
Come Lauretta si tacque,
così, per comandamento della reina, cominciò Filomena.
Amabili donne, come in noi
è la pietà commendata, così ancora in noi è dalla
divina giustizia rigidamente la crudeltà vendicata; il che acciò
che io vi dimostri e materia vi dea di cacciarla del tutto da voi, mi piace di
dirvi una novella non men di compassion piena che dilettevole.
In Ravenna, antichissima
città di Romagna, furon già assai nobili e ricchi uomini, tra'
quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, per la morte del padre di lui
e d'un suo zio, senza stima rimaso ricchissimo. Il quale, sì come
de'giovani avviene, essendo senza moglie, s'innamorò d'una figliuola di
messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era,
prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre ad amar lui; le quali,
quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli
giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si
mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua
nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che
gli piacesse le piaceva.
La qual cosa era tanto a
Nastagio gravosa a comportare, che per dolore più volte, dopo molto
essersi doluto, gli venne in disidero d'uccidersi. Poi, pur tenendosene, molte
volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o, se potesse,
d'averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per
ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto
più moltiplicasse il suo amore.
Perseverando adunque il
giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici
e parenti che egli sé e '1 suo avere parimente fosse per consumare; per la qual
cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna
partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare; per
ciò che, così faccendo, scemerebbe l'amore e le spese. Di questo
consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollicitato,
non potendo tanto dir di no, disse di farlo; e fatto fare un grande
apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo
lontano andar volesse, montato a cavallo e da suoi molti amici accompagnato di
Ravenna uscì e andossene ad un luogo forse tre miglia fuor di Ravenna,
che si chiama Chiassi; e quivi, fatti venir padiglioni e trabacche disse a
coloro che accompagnato l'aveano che star si volea e che essi a Ravenna se ne
tornassono. Attendatosi adunque quivi Nastagio, cominciò a fare la
più bella vita e la più magnifica che mai si facesse, or questi e
or quegli altri invitando a cena e a desinare, come usato s'era.
Ora avvenne che uno
venerdì quasi all'entrata di maggio essendo un bellissimo tempo, ed egli
entrato in pensier della sua crudel donna, comandato a tutta la sua famiglia
che solo il lasciassero, per più potere pensare a suo piacere, piede
innanzi piè sé medesimo trasportò, pensando, infino nella
pigneta. Ed essendo già passata presso che la quinta ora del giorno, ed
esso bene un mezzo miglio per la pigneta entrato, non ricordandosi di mangiare
né d'altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai
altissimi messi da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò
il capo per veder che fosse, e maravigliossi nella pigneta veggendosi; e oltre
a ciò, davanti guardandosi vide venire per un boschetto assai folto
d'albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima
giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e dà pruni,
piagnendo e gridando forte mercè; e oltre a questo le vide a'fianchi due
grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole, spesse volte
crudelmente dove la giugnevano la mordevano, e dietro a lei vide venire sopra un
corsiere nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in
mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando.
Questa cosa ad una ora
maraviglia e spavento gli mise nell'animo, e ultimamente compassione della
sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sì fatta
angoscia e morte, se el potesse. Ma, senza arme trovandosi, ricorse a prendere
un ramo d'albero in luogo di bastone, e cominciò a farsi incontro a'cani
e contro al cavaliere. Ma il cavalier che questo vide, gli gridò di
lontano:
- Nastagio, non
t'impacciare, lascia fare a'cani e a me quello che questa malvagia femina ha
meritato.
E così dicendo, i
cani, presa forte la giovane né fianchi, la fermarono, e il cavaliere
sopraggiunto smontò da cavallo.
Al quale Nastagio avvicinatosi
disse:
- Io non so chi tu ti sé,
che me così cognosci; ma tanto ti dico che gran viltà è
d'un cavaliere armato volere uccidere una femina ignuda, e averle i cani alle
coste messi come se ella fosse una fiera salvatica; io per certo la difenderò
quant'io potrò.
Il cavaliere allora disse:
- Nastagio, io fui d'una
medesima terra teco, ed eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui
chiamato messer Guido degli Anastagi, era troppo più innamorato di
costei, che tu ora non sé di quella de'Traversari, e per la sua fierezza e
crudeltà andò sì la mia sciagura, che io un dì con
questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m'uccisi, e sono
alle pene etternali dannato. Né stette poi guari tempo che costei, la qual
della mia morte fu lieta oltre misura, morì, e per lo peccato della sua
crudeltà e della letizia avuta de'miei tormenti, non pentendosene, come
colei che non credeva in ciò aver peccato ma meritato, similmente fu ed
è dannata alle pene del ninferno. Nel quale come ella discese,
così ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi davanti e a
me, che già cotanto l'amai, di seguitarla come mortal nimica, non come
amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco, col quale io
uccisi me, uccido lei e aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo, nel
qual mai né amor né pietà poterono entrare, con l'altre interiora
insieme, sì come tu vedrai incontanente, le caccia di corpo, e dolle
mangiare a questi cani.
Né sta poi grande spazio
che ella, sì come la giustizia e la potenzia d'Iddio vuole, come se
morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga, e i cani
e io a seguitarla; e avviene che ogni venerdì in su questa ora io la
giungo qui, e qui ne fo lo strazio che vedrai; e gli altri dì non creder
che noi riposiamo, ma giungola in altri luoghi né quali ella crudelmente contro
a me pensò o operò; ed essendole d'amante divenuto nimico, come
tu vedi, me la conviene in questa guisa tanti anni seguitare quanti mesi ella
fu contro a me crudele. Adunque lasciami la divina giustizia mandare ad
esecuzione, né ti volere opporre a quello che tu non potresti contrastare.
Nastagio, udendo queste
parole, tutto timido divenuto e quasi non avendo pelo addosso che arricciato
non fosse, tirandosi addietro e riguardando alla misera giovane,
cominciò pauroso ad aspettare quello che facesse il cavaliere. Il quale,
finito il suo ragionare, a guisa d'un cane rabbioso, con lo stocco in mano
corse addosso alla giovane, la quale inginocchiata e dà due mastini
tenuta forte gli gridava mercè; e a quella con tutta sua forza diede per
mezzo il petto e passolla dall'altra parte. Il qual colpo come la giovane ebbe
ricevuto, così cadde boccone, sempre piagnendo e gridando; e il
cavaliere, messo mano ad un coltello, quella aprì nelle reni, e fuori
trattone il cuore e ogni altra cosa d'attorno, a'due mastini il gittò,
li quali affamatissimi incontanente il mangiarono. Né stette guari che la
giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse, subitamente si levò in
piè e cominciò a fuggire verso il mare, e i cani appresso di lei
sempre lacerandola; e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripreso il suo
stocco, la cominciò a seguitare, e in picciola ora si dileguarono in
maniera che più Nastagio non gli potè vedere.
Il quale, avendo queste
cose vedute, gran pezza stette tra pietoso e pauroso, e dopo alquanto gli venne
nella mente questa cosa dovergli molto poter valere, poi che ogni
venerdì avvenia; per che, segnato il luogo, a'suoi famigli se ne
tornò, e appresso, quando gli parve, mandato per più suoi parenti
e amici, disse loro:
- Voi m'avete lungo tempo
stimolato che io d'amare questa mia nemica mi rimanga e ponga fine al mio
spendere, e io son presto di farlo dove voi una grazia m'impetriate, la quale
è questa: che venerdì che viene voi facciate sì che messer
Paolo Traversaro e la moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, e
altre chi vi piacerà, qui sieno a desinar meco. Quello per che io questo
voglia, voi il vedrete allora.
A costor parve questa assai
piccola cosa a dover fare e promissongliele; e a Ravenna tornati, quando tempo
fu, coloro invitarono li quali Nastagio voleva, e come che dura cosa fosse il
potervi menare la giovane da Nastagio amata, pur v'andò con gli altri
insieme. Nastagio fece magnificamente apprestare da mangiare, e fece ]e tavole
mettere sotto i pini d'intorno a quel luogo dove veduto aveva lo strazio della
crudel donna; e fatti mettere gli uomini e le donne a tavola, sì
ordinò, che appunto la giovane amata da lui fu posta a sedere dirimpetto
al luogo dove doveva il fatto intervenire.
Essendo adunque già
venuta l'ultima vivanda, e il romore disperato della cacciata giovane da tutti
fu cominciato ad udire. Di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che
ciò fosse, e niun sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando
che ciò potesse essere, videro la dolente giovane e 'l cavaliere
è cani; ne guari stette che essi tutti furon quivi tra loro.
Il romore fu fatto grande e
a'cani e al cavaliere, e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi; ma il
cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece
indietro tirare, ma tutti gli spaventò e riempiè di maraviglia; e
faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v'avea (ché ve ne
avea assai che parenti erano state e della dolente giovane e del cavaliere e
che si ricordavano e dell'amore e della morte di lui) tutte così
miseramente piagnevano come se a sé medesime quello avesser veduto fare.
La qual cosa al suo termine
fornita, e andata via la donna e 'l cavaliere, mise costoro che ciò
veduto aveano in molti e vari ragionamenti; ma tra gli altri che più di
spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa
distintamente veduta avea e udita, e conosciuto che a sé più che ad
altra persona che vi fosse queste cose toccavano, ricordandosi della
crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea
fuggir dinanzi da lui adirato e avere i mastini a'fianchi.
E tanta fu la paura che di
questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo
non si vide (il quale quella medesima sera prestato le fu) che ella, avendo
l'odio in amore tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio
mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacer
d'andare a lei, per ciò ch'ella era presta di far tutto ciò che
fosse piacer di lui. Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a
grado molto, ma che, dove piacesse, con onor di lei voleva il suo piacere, e
questo era sposandola per moglie.
La giovane, la qual sapeva
che da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse,
gli fece risponder che le piacea. Per che, essendo ella medesima la messaggera,
al padre e alla madre disse che era contenta d'esser sposa di Nastagio, di che
essi furon contenti molto; e la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le
sue nozze, con lei più tempo lietamente visse.
E non fu questa paura
cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane donne
paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a'piaceri
degli uomini furono, che prima state non erano.
Giornata quinta - Novella
nona
Federigo degli Alberighi
ama e non è amato e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol
falcone, il quale, non avendo altro dà a mangiare alla sua donna
venutagli a casa; la quale, ciò sappiendo, mutata d'animo, il prende per
marito e fallo ricco.
Era già di parlar
ristata Filomena, quando la reina, avendo veduto che più niuno a dover
dire, se non Dioneo per lo suo privilegio, v'era rimaso, con lieto viso disse:
A me omai appartiene di
ragionare; e io, carissime donne, d'una novella simile in parte alla precedente
il farò volentieri, non acciò solamente che conosciate quanto la
vostra vaghezza possa né cuor gentili, ma perché apprendiate d'esser voi
medesime, dove si conviene, donatrici de'vostri guiderdoni, senza lasciarne
sempre esser la Fortuna guidatrice. La quale non discretamente, ma, come
s'avviene, moderatamente il più delle volte dona.
Dovete adunque sapere che
Coppo di Borghese Domenichi, il quale fu nella nostra città, e forse
ancora è, uomo di grande e di reverenda autorità né dì
nostri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà
di sangue chiarissimo e degno d'eterna fama, essendo già d'anni peno,
spesso volte delle cose passate co'suoi vicini e con altri si dilettava di
ragionare: la qual cosa egli meglio e con più ordine e con maggior
memoria e ornato parlare che altro uomo seppe fare. Era usato di dire, tra
l'altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato
Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d'arme e in cortesia pregiato
sopra ogni altro donzel di Toscana. Il quale, sì come il più
de'gentili uomini avviene, d'una gentil donna chiamata monna Giovanna
s'innamorò, né suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle
più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli l'amor di
lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo
senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di
queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva.
Spendendo adunque Federigo
oltre a ogni suo potere molto e niente acquistando, sì come di leggiere
adiviene, le ricchezze mancarono e esso rimase povero, senza altra cosa che un
suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite del quale
strettissimamente vivea, e oltre a questo un suo falcone de'miglior del mondo.
Per che, amando più che mai né parendo gli più potere essere cittadino
come disiderava, a Campi, là dove il suo poderetto era, se n'andò
a stare. Quivi, quando poteva uccellando e senza alcuna persona richiedere,
pazientemente la sua povertà comportava.
Ora avvenne un dì
che, essendo così Federigo divenuto allo stremo, che il marito di monna
Giovanna infermò, e veggendosi alla morte venire fece testamento, e
essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo
già grandicello e appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna,
lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede
substituì, e morissi.
Rimasa adunque vedova monna
Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l'anno di state con questo
suo figliuolo se n'andava in contado a una sua possessione assai vicina a
quella di Federigo. Per che avvenne che questo garzoncello s'incominciò
a dimesticare con Federigo e a dilettarsi d'uccelli e di cani; e avendo veduto
molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente piacendogli, forte
disiderava d'averlo ma pure non s'attentava di domandarlo, veggendolo a lui
esser cotanto caro.
E così stando la
cosa, avvenne che il garzoncello infermò: di che la madre dolorosa
molto, come colei che più non n'avea e lui amava quanto più si
poteva, tutto il dì standogli dintorno non restava di confortarlo e spesse
volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo
gliele dicesse, che per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come
l'avesse.
Il giovanetto, udite molte
volte queste proferte, disse:
- Madre mia, se voi fa che
io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire.
La donna, udendo questo,
alquanto sopra sé stette e cominciò a pensar quello che far dovesse.
Ella sapeva che Federigo lungamente l'aveva amata, né mai da lei una sola
guatatura aveva avuta, per che ella diceva: - Come manderò io o
andrò a domandargli questo falcone che è, per quel che io oda, il
migliore che mai volasse e oltre a ciò il mantien nel mondo? E come
sarò io sì sconoscente, che a un gentile uomo al quale niuno
altro diletto è più rimaso, io questo gli voglia torre?
E in così fatto
pensiero impacciata, come che ella fosse certissima d'averlo se '1 domandasse,
senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava.
Ultimamente tanto la vinse
l'amor del figliuolo, che ella seco dispose, per contentarlo che che esser ne
dovesse, di non mandare ma d'andare ella medesima per esso e di recargliele e
risposegli:
- Figliuol mio, confortati
e pensa di guerire di forza, ché io ti prometto che la prima cosa che io
farò domattina, io andrò per esso e sì il ti
recherò.
Di che il fanciullo lieto
il dì medesimo mostrò alcun miglioramento.
La donna la mattina
seguente, presa un'altra donna in compagnia, per modo di diporto se
n'andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare. Egli, per
ciò che non era tempo, né era stato a quei dì, d'uccellare, era
in un suo orto e faceva certi suoi lavorietti acconciare; il quale, udendo che
monna Giovanna il domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto là
corse.
La quale vedendol venire, con
una donnesca piacevolezza levataglisi incontrò, avendola già
Federigo reverentemente salutata, disse:
- Bene stea Federigo! - e
seguitò: -Io sono venuta a ristorarti de'danni li quali tu hai
già avuti per me amandomi più che stato non ti sarebbe bisogno: e
il ristoro è cotale che io intendo con questa mia compagna insieme
destinar teco dimesticamente stamane.
Alla qual Federigo
umilmente rispose:
- Madonna, niun danno mi
ricorda mai avere ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa
valsi, per lo vostro valore e per l'amore che portato v'ho adivenne. E per
certo questa vostra liberale venuta m'è troppo più cara che non
sarebbe se da capo mi fosse dato da spendere quanto per adietro ho già
speso, come che a povero oste siate venuta.
E così detto,
vergognosamente dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo giardino
la condusse, e quivi non avendo a cui farle tenere compagnia a altrui, disse:
- Madonna, poi che altri
non c'è, questa buona donna moglie di questo lavoratore vi terrà
compagnia tanto che io vada a far metter la tavola.
Egli, con tutto che la sua
povertà fosse strema, non s'era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli
facea che egli avesse fuor d'ordine spese le sue ricchezze, ma questa mattina
niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor della quale egli
già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere. E oltre modo
angoscioso, seco stesso maledicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé
fosse or qua e or là trascorrendo, né denari né pegno trovandosi, essendo
l'ora tarda e il disiderio grande di pure onorar d'alcuna cosa la gentil donna
e non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere gli corse
agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga
per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso,
pensò lui esser degna vivanda di cotal donna. E però, senza
più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella il fé prestamente,
pelato e acconcio, mettere in uno schedone e arrostir diligentemente; e messa
la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto
viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far
si potea, disse essere apparecchiato.
Laonde la donna con la sua
compagna levatasi andarono a tavola e, senza saper che si mangiassero, insieme
con Federigo, il quale con somma fede le serviva, mangiarono il buon falcone. E
levate da tavola e alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate,
parendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, così
benignamente verso Federigo cominciò a parlare:
- Federigo, ricordandoti tu
della tua preterita vita e della mia onestà, la quale per avventura tu
hai reputata durezza e crudeltà, io non dubito punto che tu non ti debbi
maravigliare della mia presunzione sentendo quello per che principalmente qui
venuta sono; ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi
conoscere di quanta forza sia l'amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa
che in parte m'avresti per iscusata.
Ma come che tu non n'abbia,
io che n'ho uno, non posso però le leggi comuni d'altre madri fuggire;
le cui forze seguir convenendomi, mi conviene, oltre al piacer mio e oltre a
ogni convenevolezza e dovere, chiederti un dono il quale io so che sommamente t'è
caro: e è ragione, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro
diporto, niuna consolazione lasciata t'ha la sua strema fortuna, e questo dono
è il falcon tuo, del quale il fanciul mio è sì forte
invaghito, che, se io non gliene porto, io temo che egli non aggravi tanto
nella infermità la quale ha, che poi ne segua cosa per la quale io il
perda. E per ciò ti priego, non per l'amore che tu mi porti, al quale tu
di niente sé tenuto, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia
s'è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di
donarlomi, acciò che io per questo dono possa dire d'avere ritenuto in
vita il mio figliuolo e per quello averloti sempre obligato.
Federigo, udendo ciò
che la donna adomandava e sentendo che servir non ne la potea per ciò che
mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi
che alcuna parola risponder potesse. Il quale pianto la donna prima credette
che da dolore di dover da sé di partire il buon falcone divenisse più
che d'altro, e quasi fu per dire che nol volesse; ma pur sostenutasi,
aspettò dopo il pianto la risposta di Federigo, il qual così
disse:
- Madonna poscia che a Dio
piacque che io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m'ho reputata la
fortuna contraria e sonmi di lei doluto; ma tutte sono state leggieri a
rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver
non debbo, pensando che voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre
che ricca fu, venir non degnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella abbia
sì fatto, che io donar nol vi possa: e perché questo esser non possa vi
dirò brievemente.
Come io udii che voi, la
vostra mercé, meco desinar volavate, avendo riguardo alla vostra eccellenzia e
al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con più cara
vivanda secondo la mia possibilità io vi dovessi onorare, che con quelle
che generalmente per l'altre persone s'usano: per che, ricordandomi del falcon
che mi domandate e della sua bontà, degno cibo da voi il reputai, e questa
mattina arrostito l'avete avuto in sul tagliere , il quale io per ottimamente
allogato avea; ma vedendo ora che in altra maniera il disideravate, m'è
sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo
dare.
E questo detto, le penne e
i piedi e 'l becco le fe'in testimonianza di ciò gittare davanti. La
qual cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d'aver per dar
mangiare a una femina ucciso un tal falcone, e poi la grandezza dell'animo suo,
la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare, molto seco
medesima commendò. Poi, rimasa fuori dalla speranza d'avere il falcone e
per quello della salute del figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si
dipartì e tornossi al figliuolo. Il quale, o per malinconia che il
falcone aver non potea o per la 'nfermità che pure a ciò il
dovesse aver condotto, non trapassar molti giorni che egli con grandissimo
dolor della madre di questa vita passò.
La quale, poi che piena di
lagrime e d'amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa ricchissima e ancora
giovane, più volte fu dà fratelli costretta a rimaritarsi. La
quale, come che voluto non avesse, pur veggendosi infestare, ricordatasi del
valore di Federigo e della sua magnificenzia ultima, cioè d'avere ucciso
un così fatto falcone per onorarla, disse a'fratelli:
- Io volentieri, quando vi
piacesse, mi starei; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io
non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi.
Alla quale i fratelli,
faccendosi beffe di lei, dissero:
- Sciocca, che è
ciò che tu dì? come vuoi tu lui che non ha cosa al mondo?
A'quali ella rispose:
- Fratelli miei, io so bene
che così è come voi dite, ma io voglio avanti uomo che abbia
bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d'uomo.
Li fratelli, udendo l'animo
di lei e conoscendo Federigo da molto, quantunque povero fosse, sì come
ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono. Il quale così
fatta donna e cui egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a
ciò ricchissima, in letizia con lei, miglior massaio fatto,
terminò gli anni suoi.
Giornata quinta - Novella
decima
Pietro di Vinciolo va a
cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il
nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa
d'Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima
la moglie d'Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui
che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo cognosce lo
'nganno della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua
tristezza.
Il ragionare della reina
era al suo fine venuto, essendo lodato da tutti Iddio che degnamente avea
guiderdonato Federigo, quando Dioneo, che mai comandamento non aspettava,
incominciò.
Io non so s'io mi dica che
sia accidental vizio e per malvagità di costumi né mortali sopravenuto,
o se pure è della natura peccato, il rider più tosto delle
cattive cose che delle buone opere, e spezialmente quando quelle cotali a noi
non pertengono. E per ciò che la fatica, la quale altra volta ho impresa
e ora son per pigliare, a niuno altro fine riguarda se non a dovervi torre
malinconia, e riso e allegrezza porgervi, quantunque la materia della mia
seguente novella, innamorate giovani, sia in parte meno che onesta, però
che diletto può porgere, ve la pur dirò; e voi, ascoltandola,
quello ne fate che usate siete di fare quando né giardini entrate, che, distesa
la dilicata mano, cogliete le rose e lasciate le spine stare; il che farete,
lasciando il cattivo uomo con la mala ventura stare con la sua
disonestà, e liete riderete degli amorosi inganni della sua donna,
compassione avendo all'altrui sciagure, dove bisogna.
Fu in Perugia, non è
ancora molto tempo passato, un ricco uomo chiamato Pietro di Vinciolo, il
quale, forse più per ingannare altrui e diminuire la generale oppinion
di lui avuta da tutti i perugini, che per vaghezza che egli n'avesse, prese
moglie; e fu la fortuna conforme al suo appetito in questo modo, che la moglie
la quale egli prese era un giovane compressa, di pelo rosso e accesa, la quale
due mariti più tosto che uno avrebbe voluti, là dove ella
s'avvenne a uno che molto più ad altro che a lei l'animo avea disposto.
Il che ella in processo di
tempo conoscendo, e veggendosi bella e fresca, e sentendosi gagliarda e
poderosa, prima se ne cominciò forte a turbare e ad averne col marito di
sconce parole alcuna volta, e quasi continuo mala vita; poi, veggendo che
questo, suo consumamento più tosto che ammendamento della
cattività del marito potrebbe essere, seco stessa disse: - Questo
dolente abbandona me, per volere con le sue disonestà andare in zoccoli
per l'asciutto, e io m'ingegnerò di portare altrui in nave per lo
piovoso. Io il presi per marito e diedigli grande e buona dota, sappiendo che
egli era uomo e credendol vago di quello che sono e deono esser vaghi gli
uomini; e se io non avessi creduto ch'è fosse stato uomo, io non lo
avrei mai preso. Egli che sapeva che io era femina, perché per moglie mi
prendeva se le femine contro all'animo gli erano? Questo non è da
sofferire. Se io non avessi voluto essere al mondo, io mi sarei fatta monaca; e
volendoci essere, come io voglio e sono, se io aspetterò diletto o
piacere di costui, io potrò per avventura invano aspettando invecchiare,
e quando io sarò vecchia, ravvedendomi, indarno mi dorrò d'avere
la mia giovinezza perduta, alla qual dover consolare m'è egli assai
buono maestro e dimostratore in farmi dilettare di quello che egli si diletta;
il qual diletto fia a me laudevole, dove biasimevole è forte a lui; io
offenderò le leggi sole, dove egli offende le leggi e la natura -.
Avendo adunque la buona
donna così fatto pensiero avuto, e forse più d'una volta, per
dare segretamente a ciò effetto, si dimesticò con una vecchia,
che pareva pur santa Verdiana che dà beccare alle serpi; la quale sempre
co'paternostri in mano andava ad ogni perdonanza, né mai d'altro che della vita
de'Santi Padri ragionava e delle piaghe di san Francesco, e quasi da tutti era
tenuta una santa. E quando tempo le parve, l'aperse la sua intenzion
compiutamente; a cui la vecchia disse:
- Figliuola mia, sallo
Iddio che sa tutte le cose, che tu molto ben fai; e quando per niuna altra cosa
il facessi, sì 'I dovresti far tu e ciascuna giovane per non perdere il
tempo della vostra giovinezza, perciò che niun dolore è pari a
quello, a chi conoscimento ha, che è d'avere il tempo perduto. E da che
diavol siam noi poi, quando noi siam vecchie, se non da guardare la cenere
intorno al focolare? Se niuna il sa o ne può rendere testimonianza, io
sono una di quelle; che ora che vecchia sono, non senza grandissime e amare
punture d'animo conosco, e senza pro, il tempo che andar lasciai; e benché io
nol perdessi tutto (ché non vorrei che tu credessi che io fossi stata una
milensa), io pur non feci ciò che io avrei potuto fare; di che quand'io
mi ricordo, veggendomi fatta come tu mi vedi, che non troverrei chi mi desse
fuoco a cencio, Dio il sa che dolore io sento.
Degli uomini non avvien
così: essi nascon buoni a mille cose, non pure a questa, e la maggior
parte sono da molto più vecchi che giovani; ma le femine a niuna altra
cosa che a far questo e figliuoli ci nascono, e per questo son tenute care. E
se tu non te ne avvedessi ad altro, sì te ne dei tu avvedere a questo,
che noi siam sempre apparecchiate a ciò, che degli uomini non avviene; e
oltre a questo una femina stancherebbe molti uomini, dove molti uomini non
possono una femina stancare. E per ciò che a questo siam nate, da capo
ti dico che tu farai molto bene a rendere al marito tuo pan per focaccia,
sì che l'anima tua non abbia in vecchiezza che rimproverare alle carni.
Di questo mondo ha ciascun
tanto quanto egli se ne toglie, spezialmente le femine, alle quali si conviene
troppo più d'adoperare il tempo quando l'hanno, che agli uomini, per
ciò che tu puoi vedere, quando c'invecchiamo, né marito né altri ci vuol
vedere anzi ci cacciano in cucina a dir delle favole con la gatta, e a noverare
le pentole e le scodelle; e peggio, che noi siamo messe in canzone e dicono: -
Alle giovani i buon bocconi, e alle vecchie gli stranguglioni -: e altre lor
cose assai ancora dicono.
E acciò che io non
ti tenga più in parole, ti dico infino ad ora che tu non potevi a
persona del mondo scoprire l'animo tuo che più utile ti fosse di me; per
ciò che egli non è alcun sì forbito, al quale io non
ardisca di dire ciò che bisogna, né sì duro o zotico, che io non
ammorbidisca bene e rechilo a ciò che io vorrò. Fa pure che tu mi
mostri qual ti piace, e lascia poi fare a me; ma una cosa ti ricordo, figliuola
mia, che io ti sia raccomandata, per ciò che io son povera persona, e io
voglio infino ad ora che tu sii partefice di tutte le mie perdonanze e di
quanti paternostri io dirò, acciò che Iddio gli faccia lume e candela
a'morti tuoi-; e fece fine.
Rimase adunque la giovane
in questa concordia colla vecchia, che se veduto le venisse un giovinetto, il
quale per quella contrada molto spesso passava, del quale tutti i segni le
disse, che ella sapesse quello che avesse a fare; e datale un pezzo di carne
salata, la mandò con Dio.
La vecchia, non passar
molti dì, occultamente le mise colui, di cui ella detto l'aveva, in
camera, e ivi a poco tempo un altro, secondo che alla giovane donna ne venivan
piacendo, la quale in cosa che far potesse intorno a ciò, sempre del
marito temendo, non ne lasciava a far tratto.
Avvenne che, dovendo una
sera andare a cena il marito con un suo amico, il quale aveva nome Ercolano, la
giovane impose alla vecchia che facesse venire a lei un garzone, che era
de'più belli e de'più piacevoli di Perugia; la quale prestamente
così fece. Ed essendosi la donna col giovane posti a tavola per cenare,
ed ecco Pietro chiamò all'uscio che aperto gli fosse.
La donna, questo sentendo,
si tenne morta; ma pur volendo, se potuto avesse, celare il giovane, non avendo
accorgimento di mandarlo o di farlo nascondere in altra parte, essendo una sua
loggetta vicina alla camera nella quale cenavano, sotto una cesta da polli, che
v'era, il fece ricoverare, e gittovvi suso un pannaccio d'un saccone che aveva
fatto il dì votare; e questo fatto, prestamente fece aprire al marito.
Al quale entrato in casa ella disse:
- Molto tosto l'avete voi
trangugiata questa cena.
Pietro rispose:
- Non l'abbiam noi
assaggiata.
- E come è stato
così?- disse la donna.
Pietro allora disse:
- Dirolti: essendo noi
già posti a tavola Ercolano e la moglie e io, e noi sentimmo presso di
noi starnutire, di che noi né la prima volta né la seconda ce ne curammo; ma
quegli che starnutito avea, starnutendo ancora la terza volta e la quarta e la
quinta e molte altre, tutti ci fece maravigliare; di che Ercolano, che alquanto
turbato con la moglie per ciò che gran pezza ci avea fatti stare
all'uscio senza aprirci, quasi con furia disse: - Questo che vuol dire? Chi
è questi che così starnutisce? - e levatosi da tavola andò
verso una scala la quale assai vicina v'era, sotto la quale era un chiuso di
tavole vicino al piè della scala, da riporvi, chi avesse voluto, alcuna
cosa, come tutto dì veggiamo che fanno far coloro che le lor case
acconciano.
E parendogli che di quindi
venisse il suono dello starnuto, aperse un usciuolo il qual v'era, e come
aperto l'ebbe, subitamente n'uscì fuori il maggior puzzo di solfo del
mondo, benché davanti, essendocene venuto puzzo e rammaricaticene, aveva detto
la donna: - Egli è che dianzi io imbiancai miei veli col solfo, e poi la
tegghiuzza, sopra la quale sparto l'avea perché il fummo ricevessero, io la
misi sotto quella scala, sì che ancora ne viene -. E poi che Ercolano
aperto ebbe l'usciuolo e sfogato fu alquanto il puzzo, guardando dentro vide
colui il quale starnutito avea e ancora starnutiva, a ciò la forza del
solfo strignendolo; e come che egli starnutisse, gli avea già il solfo
sì il petto serrato, che poco a stare avea che né starnutito né altro
non avrebbe mai.
Ercolano, vedutolo,
gridò: - Or veggio, donna, quello per che poco avanti, quando ce ne
venimmo, tanto tenuti fuor della porta, senza esserci aperto, fummo; ma non
abbia io mai cosa che mi piaccia, se io non te ne pago -. Il che la donna
udendo, e vedendo che '1 suo peccato era palese, senza alcuna scusa fare,
levatasi da tavola si fuggì, né so ove se n'andasse. Ercolano, non
accorgendosi che la moglie si fuggia, più volte disse a colui che
starnutiva che egli uscisse fuori; ma quegli, che già più non
poteva, per cosa che Ercolano dicesse non si movea; laonde Ercolano, presolo
per l'uno de'piedi, nel tirò fuori, e correva per un coltello per
ucciderlo; ma io, temendo per me medesimo la signoria, levatomi, non lo lasciai
uccidere né fargli alcun male, anzi gridando e difendendolo, fui cagione che
quivi de'vicini trassero, li quali, preso il già vinto giovane, fuori
della casa il portarono non so dove; per le quali cose la nostra cena turbata,
io non solamente non la ho trangugiata, anzi non l'ho pure assaggiata, come io
dissi.
Udendo la donna queste
cose, conobbe che egli erano dell'altre così savie come ella fosse,
quantunque talvolta sciagura ne cogliesse ad alcuna, e volentieri avrebbe con
parole la donna d'Ercolano difesa; ma, per ciò che col biasimare il
fallo altrui le parve dovere a'suoi far più libera via, cominciò
a dire:
- Ecco belle cose; ecco
buona e santa donna che costei dee essere; ecco fede d'onesta donna, ché mi
sarei confessata da lei, sì spirital mi pareva! e peggio, che, essendo
ella oggimai vecchia, dà molto buono essemplo alle giovani. Che
maladetta sia l'ora che ella nel mondo venne, ed ella altressì che viver
si lascia, perfidissima e rea femina che ella dee essere, universal vergogna e
vitupero di tutte le donne di questa terra; la quale, gittata via la sua
onestà e la fede promessa al suo marito e l'onor di questo mondo, lui,
che è così fatto uomo e così onorevole cittadino, e che
così bene la trattava, per un altro uomo non s'è vergognata di
vituperare, e sé medesima insieme con lui. Se Dio mi salvi, di così
fatte femine non si vorrebbe aver misericordia; elle si vorrebbero occidere;
elle si vorrebbon vive vive mettere nel fuoco e farne cenere.
Poi, del suo amico
ricordandosi, il quale ella sotto la cesta assai presso di quivi aveva,
cominciò a confortare Pietro che s'andasse al letto, per ciò che
tempo n'era.
Pietro, che maggior voglia
aveva di mangiare che di dormire, domandava pur se da cena cosa alcuna vi
fosse.
A cui la donna rispondeva:
- Sì, da cena ci ha!
Noi siamo molto usate di far da cena, quando tu non ci sé! Sì, che io
sono la moglie d'Ercolano! Deh che non vai? Dormi per istasera: quanto farai
meglio!
Avvenne che, essendo la
sera certi lavoratori di Pietro venuti con certe cose dalla villa, e avendo
messi gli asini loro, senza dar lor bere, in una stalletta la quale allato alla
loggetta era, l'un degli asini che grandissima sete avea, tratto il capo del
capestro, era uscito della stalla, e ogni cosa andava fiutando, se forse
trovasse dell'acqua; e così andando s'avvenne per me la cesta sotto la
quale era il giovinetto.
Il quale avendo, per
ciò che carpone gli conveniva stare, alquanto le dita dell'una mano
stese in terra fuor della cesta, tanta fu la sua ventura, o sciagura che
vogliam dire, che questo asino ve gli pose su piede; laonde egli, grandissimo
dolor sentendo, mise un grande strido. Il quale udendo Pietro si
maravigliò, e avvidesi ciò esser dentro alla casa; per che,
uscito della camera, e sentendo ancora costui rammaricarsi, non avendogli
ancora l'asino levato il piè d'in su le dita, ma premendol tuttavia
forte, disse: -Chi è là?- e corso alla cesta, e quella levata,
vide il giovinetto, il quale, oltre al dolore avuto delle dita premute dal
piè dell'asino, tutto di paura tremava che Pietro alcun male non gli
facesse.
Il quale essendo da Pietro
riconosciuto, sì come colui a cui Pietro per la sua cattività era
andato lungamente dietro, essendo da lui domandato - che fai tu qui? - niente a
ciò gli rispose, ma pregollo che per l'amor di Dio non gli dovesse far
male.
A cui Pietro disse:
- Leva su, non dubitare che
io alcun mal ti faccia, ma dimmi, come tu sé qui e perché?
Il giovinetto gli disse
ogni cosa. Il qual Pietro, non meno lieto d'averlo trovato che la sua donna
dolente, presolo per mano, con seco nel menò nella camera nella quale la
donna con la maggior paura del mondo l'aspettava; alla quale Pietro postosi a
seder dirimpetto disse:
- Or tu maladicevi
così testé la moglie d'Ercolano e dicevi che arder si vorrebbe e che
ella era vergogna di tutte voi: come non dicevi di te medesima? O, se di te dir
non volevi, come ti sofferiva l'animo di dir di lei, sentendoti quel medesimo
aver fatto che ella fatto avea? Certo niuna altra cosa vi ti induceva, se non
che voi siete tutte così fatte, e con l'altrui colpe guatate di
ricoprire i vostri falli; che venir possa fuoco da cielo che tutte v'arda,
generazion pessima che voi siete.
La donna, veggendo che
nella prima giunta altro male che di parole fatto non l'avea, e parendole
conoscere lui tutto gogolare per ciò che per man tenea un così
bel giovinetto, prese cuore e disse:
- Io ne son molto certa che
tu vorresti che fuoco venisse da cielo che tutte ci ardesse, sì come
colui che sé così vago di noi come il can delle mazze; ma alla croce di
Dio egli non ti verrà fatto. Ma volentieri farei un poco ragione con
essoteco per sapere di che tu ti ramarichi; e certo io starei pur bene se tu
alla moglie d'Ercolano mi volessi agguagliare, la quale è una vecchia
picchiapetto spigolistra e ha da lui ciò che ella vuole, e tienla cara
come si dee tener moglie, il che a me non avviene. Ché, posto che io sia da te
ben vestita e ben calzata, tu sai bene come io sto d'altro e quanto tempo egli
è che tu non giacesti con meco; e io vorrei innanzi andar con gli
stracci in dosso e scalza ed esser ben trattata da te nel letto, che aver tutte
queste cose, trattandomi come tu mi tratti. E intendi sanamente, Pietro, che io
son femina come l'altre, e ho voglia di quel che l'altre; sì che, perché
io me ne procacci, non avendone da te, non è da dirmene male; almeno ti
fo io cotanto d'onore, che io non mi pongo né con ragazzi né con tignosi.
Pietro s'avvide che le
parole non erano per venir meno in tutta notte; per che, come colui che poco di
lei si curava, disse:
- Or non più, donna;
di questo ti contenterò io bene; farai tu gran cortesia di far che noi
abbiamo da cena qualche cosa: ché mi pare che questo garzone, altressì
ben com'io, non abbia ancor cenato.
- Certo no, - disse la
donna - che egli non ha ancor cenato, ché quando tu nella tua mala ora venisti,
ci ponavam noi a tavola per cenare.
- Or va dunque, - disse
Pietro - fa che noi ceniamo, e appresso io disporrò di questa cosa in
guisa che tu non t'avrai che ramaricare.
La donna levata su, udendo
il marito contento, prestamente fatta rimetter la tavola, fece venir la cena la
quale apparecchiata avea, e insieme col suo cattivo marito e col giovane
lietamente cenò.
Dopo la cena, quello che
Pietro si divisasse a sodisfacimento di tutti e tre, m'è uscito di
mente. So io ben cotanto che la mattina vegnente infino in su la piazza fu il
giovane, non assai certo qual più stato si fosse la notte o moglie o
marito, accompagnato. Per che così vi vo' dire, donne mie care, che chi
te la fa, fagliele; e se tu non puoi, tienloti a mente fin che tu possa,
acciò che quale asin dà in parete tal riceva.
Giornata quinta -
Conclusione
Essendo adunque la novella
di Dioneo finita, meno per vergogna dalle donne risa che per poco diletto, e la
reina conoscendo che il fine del suo reggimento era venuto, levatasi in
piè e trattasi la corona dello alloro, quella piacevolmente mise in capo
ad Elissa, dicendole:
- A voi, madonna, sta omai
il comandare.
Elissa, ricevuto l'onore,
sì come per addietro era stato fatto, così fece ella; ché dato
col siniscalco primieramente ordine a ciò che bisogno facea per lo tempo
della sua signoria, con contentamento della brigata disse:
- Noi abbiamo già
molte volte udito che con be' motti e con risposte pronte o con avvedimenti
presti molti hanno già saputo con debito morso rintuzzare gli altrui
denti o i sopravegnenti pericoli cacciar via; e per ciò che la materia
è bella, e può essere utile, voglio che domane, con l'aiuto di
Dio, infra questi termini si ragioni, cioè di chi, con alcuno leggiadro
motto tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì
perdita, pericolo o scorno.
Questo fu commendato molto
da tutti; per la qual cosa la reina, levatasi in piè, loro tutti infino
all'ora della cena licenziò.
L'onesta brigata, vedendo
la reina levata, tutta si dirizzò, e, secondo il modo usato, ciascuno a
quello che più diletto gli era si diede. Ma essendo già di
cantare le cicale ristate, fatto ogn'uom richiamare, a cena andarono; la quale
con lieta festa fornita, a cantare e a sonare tutti si diedero E avendo
già, con volere della reina, Emilia una danza presa, a Dioneo fu
comandato che cantasse una canzone; il quale prestamente cominciò:
"Monna Aldruda, levate la coda, ché buone novelle vi reco". Di che
tutte le donne cominciarono a ridere, e massimamente la reina, la quale gli
comandò che quella lasciasse e dicessene un'altra.
Disse Dioneo:
- Madonna, se io avessi
cembalo, io direi: "Alzatevi i panni, monna Lapa"; o "Sotto
l'ulivello è l'erba"; o voleste voi che io dicessi: "L'onda
del mare mi fa sì gran male"? ma io non ho cembalo, e per
ciò vedete voi qual voi volete di queste altre. Piacerebbevi: "Escici
fuor che sia tagliato, com'un maio in su la campagna"?
Disse la reina:
- No, dinne un'altra.
- Dunque, - disse Dioneo -
dirò io; "Monna Simona imbotta imbotta è non è del
mese d'ottobre".
La reina ridendo disse:
- Deh in mal'ora, dinne una
bella, se tu vogli, ché noi non vogliam cotesta.
Disse Dioneo:
- No, madonna, non ve ne
fate male; pur qual più vi piace? Io ne so più di mille. O
volete: "Questo mio nicchio s'io nol picchio"; o, "Deh fa'pian,
marito mio"; o, "Io mi comperai un gallo delle lire cento".
La reina allora un poco
turbata, quantunque tutte l'altre ridessero, disse:
- Dioneo, lascia il
motteggiare, e dinne una bella; e se non, tu potresti provare come io mi so
adirare.
Dioneo, udendo questo,
lasciate star le ciance, presta mente in cotal guisa cominciò a cantare:
Amor, la vaga luce,
che move dà begli
occhi di costei,
servo m'ha fatto di te e di
lei.
Mosse dà suoi begli
occhi lo splendore,
che pria la fiamma tua nel
cor m'accese,
per li miei trapassando;
e quanto fosse grande il
tuo valore,
il bel viso di lei mi
fè palese;
il quale immaginando,
mi sentii gir legando
ogni virtù e
sottoporla a lei,
fatta nuova cagion
de'sospir miei.
Così de'tuoi adunque
divenuto
son, signor caro, e
ubbidiente aspetto
dal tuo poter merzede;
ma non so ben se 'ntero
è conosciuto
l'alto disio che messo
m'hai nel petto,
né la mia intera fede,
da costei che possiede
sì la mia mente, che
io non torrei
pace, fuor che da essa, né
vorrei.
Per ch'io ti priego, dolce
signor mio,
che gliel dimostri, e faccile
sentire
alquanto del tuo foco
in servigio di me, ché vedi
ch'io
già mi consumo
amando, e nel martire
mi sfaccio a poco a poco;
e poi, quando fia loco,
me raccomanda a lei, come
tu dei,
ché teco a farlo volentier
verrei.
Da poi che Dioneo, tacendo,
mostrò la sua canzone esser finita, fece la reina assai dell'altre dire,
avendo nondimeno commendata molto quella di Dioneo. Ma, poi che alquanto della
notte fu trapassata, e la reina sentendo già il caldo del dì
esser vinto dalla freschezza della notte, comandò che ciascuno infino al
dì seguente a suo piacere s'andasse a riposare.
Finisce la quinta giornata
del Decameron
Incomincia la sesta
giornata nella quale sotto il reggimento d'Elissa, si ragiona di chi con alcuno
leggiadro motto, tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avvedimento
fuggì perdita o pericolo o scorno
Giornata sesta -
Introduzione
Aveva la luna, essendo nel
mezzo del cielo, perduti i raggi suoi, e già, per la nuova luce
vegnente, ogni parte del nostro mondo era chiara, quando la reina levatasi,
fatta la sua compagnia chiamare, alquanto con lento passo dal bel palagio, su
per la rugiada spaziandosi, s'allontanarono, d'una e d'altra cosa vari
ragionamenti tenendo, e della più bellezza e della meno delle raccontate
novelle disputando, e ancora de'vari casi recitati in quelle rinnovando le risa
infino a tanto che, già più alzandosi il sole e cominciandosi a
riscaldare, a tutti parve di dover verso casa tornare; per che, voltati i
passi, là se ne vennero.
E quivi, essendo già
le tavole messe, e ogni cosa d'erbucce odorose e di be'fiori seminata, avanti
che il caldo surgesse più, per comandamento della reina si misero a
mangiare. E questo con festa fornito, avanti che altro facessero, alquante
canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare
a scacchi e chi a tavole. E Dioneo insieme con Lauretta di Troiolo e di
Criseida cominciarono a cantare.
E già l'ora venuta
del dovere a concistoro tornare, fatti tutti dalla reina chiamare, come usati
erano, dintorno alla fonte si posero a sedere. E volendo già la reina
comandare la prima novella, avvenne cosa che ancora addivenuta non v'era, cioè
che per la reina e per tutti fu un gran romore udito, che per le fanti e
famigliari si faceva in cucina. Laonde, fatto chiamare il siniscalco, e
domandato qual gridasse e qual fosse del romore la cagione, rispose che il
romore era tra Licisca e Tindaro; ma la cagione egli non sapea, sì come
colui che pure allora giugnea per fargli star cheti, quando per parte di lei
era stato chiamato. Al quale la reina comandò che incontanente quivi
facesse venire la Licisca e Tindaro; li quali venuti, domandò la reina
qual fosse la cagione del loro romore.
Alla quale volendo Tindaro
rispondere, la Licisca, che attempatetta era e anzi superba che no, e in sul
gridar riscaldata, voltatasi verso lui con un mal viso disse:
- Vedi bestia d'uom che
ardisce, dove io sia, a parlare prima di me! Lascia dir me -; e alla reina
rivolta disse:
- Madonna, costui mi vuol
far conoscere la moglie di Sicofante; e né più né meno, come se io con
lei usata non fossi, mi vuol dare a vedere che la notte prima che Sicofante
giacque con lei, messer Mazza entrasse in Monte Nero per forza e con
ispargimento di sangue; e io dico che non è vero, anzi v'entrò
paceficamente e con gran piacere di quei d'entro. Ed è ben sì
bestia costui, che egli si crede troppo bene che le giovani sieno così
sciocche, che elle stieno a perdere il tempo loro, stando alla bada del padre e
dei fratelli, che delle sette volte le sei soprastanno tre o quattro anni
più che non debbono a maritarle. Frate, bene starebbono, se elle
s'indugiasser tanto! Alla fè di Cristo (ché debbo sapere quello che io
mi dico quando io giuro) io non ho vicina che pulcella ne sia andata a marito;
e anche delle maritate, so io ben quante e quali beffe elle fanno à
mariti; e questo pecorone mi vuol far conoscere le femine, come se io fossi nata
ieri.
Mentre la Licisca parlava,
facevan le donne sì gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro
potuti trarre. E la reina l'aveva ben sei volte imposto silenzio; ma niente
valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe detto ciò che
le piacque. Ma poi che fatto ebbe alle parole fine, la reina ridendo, volta a
Dioneo, disse:
- Dioneo, questa è
quistion da te; e per ciò farai, quando finite fieno le nostre novelle
che tu sopr'essa dei sentenzia finale.
Alla qual Dioneo
prestamente rispose:
- Madonna, la sentenzia
è data senza udirne altro; e dico che la Licisca ha ragione, e credo che
così sia com'ella dice; e Tindaro è una bestia.
La qual cosa la Licisca
udendo, cominciò a ridere, e a Tindaro rivolta, disse:
- Occi ben lo diceva io;
vatti con Dio; credi tu saper più di me tu, che non hai ancora rasciutti
gli occhi? Gran mercé, non ci son vivuta invano io, no.
E, se non fosse che la
reina con un mal viso le 'mpose silenzio e comandolle che più parola né
romor facesse se esser non volesse scopata, e lei e Tindaro mandò via,
niuna altra cosa avrebbero avuta a fare in tutto quel giorno che attendere a
lei. Li quali poi che partiti furono, la reina impose a Filomena che alle
novelle desse principio. La quale lietamente così cominciò.
Giornata sesta - Novella
prima
Un cavaliere dice a madonna
Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola,
è da lei pregato che a piè la ponga.
Giovani donne, come né
lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de'verdi
prati, e de'colli i rivestiti albuscelli, così de'laudevoli costumi e
de'ragionamenti belli sono i leggiadri motti, li quali, per ciò che
brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto più
alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice.
E' il vero che, qual si sia
la cagione, o la malvagità del nostro ingegno o inimicizia singulare che
à nostri secoli sia portata dà cieli, oggi poche o non niuna
donna rimasa ci è, la qual ne sappi né tempi opportuni dire alcuno, o,
se detto l'è, intenderlo come si conviene: general vergogna di tutte
noi. Ma per ciò che già sopra questa materia assai da Pampinea fu
detto, più oltre non intendo di dirne. Ma per farvi avvedere quanto
abbiano in sé di bellezza à tempi detti, un cortese impor di silenzio
fatto da una gentil donna ad un cavaliere mi piace di raccontarvi.
Sì come molte di voi
o possono per veduta sapere o possono avere udito, egli non è ancora
guari che nella nostra città fu una gentile e costumata donna e ben
parlante, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia. Fu adunque
chiamata madonna Oretta, e fu moglie di messer Geri Spina; la quale per
avventura essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo ad un altro andando
per via di diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il
dì avuti avea a desinare, ed essendo forse la via lunghetta di là
onde si partivano a colà dove tutti a piè d'andare intendevano
disse uno de'cavalieri della brigata:
- Madonna Oretta, quando
voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che ad andare abbiamo,
a cavallo, con una delle belle novelle del mondo.
Al quale la donna rispose:
- Messere, anzi ve ne
priego io molto, e sarammi carissimo.
Messer lo cavaliere, al quale
forse non stava meglio la spada allato che '1 novellar nella lingua, udito
questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era
bellissima; ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima
parola, e ora indietro tornando, e talvolta dicendo: - Io non dissi bene - ; e
spesso né nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava;
senza che egli pessimamente, secondo le qualità delle persone e gli atti
che accadevano, proffereva. Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte
veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per
terminare; la qual cosa poi che più sofferir non potè, conoscendo
che il cavaliere era entrato nel pecoreccio, né era per riuscirne,
piacevolmente disse:
- Messere, questo vostro
cavallo ha troppo duro trotto; per che io vi priego che vi piaccia di pormi a
piè.
Il cavaliere, il qual per
avventura era molto migliore intenditore che novellatore, inteso il motto, e
quello in festa e in gabbo preso, mise mano in altre novelle, e quella che
cominciata avea e mai seguita, senza finita lasciò stare.
Giornata sesta - Novella
seconda
Cisti fornaio con una sola
parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua trascutata domanda
Molto fu da ciascuna delle
donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò
la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella così cominciò:
Belle donne, io non so da
me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura
apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a
un corpo dotato d'anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro
cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti,
d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio.
E certo io maladicerei e la
natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser
discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca
figurino. Le quali io avviso che, sì come molto avvedute, fanno quello
che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de'futuri casi, per le loro
oportunità le loro più care cose né più vili luoghi delle
lor case, sì come meno sospetti sepelliscono, e quindi né maggiori
bisogni le traggono, avendole il vil luogo più sicuramente servate che
la bella camera non avrebbe. E così le due ministre del mondo spesso le
lor cose più care nascondono sotto l'ombra dell'arti reputate più
vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più
chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il
dichiarasse, gli occhi dello 'ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il
quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m'ha tornata
nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.
Dico adunque che, avendo
Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato,
mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne,
essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti
del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con
questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a
Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e
personalmente la sua arte esserceva.
Al quale quantunque la
fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna,
che egli n'era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra
abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l'altre sue buone cose sempre
i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado.
Il quale, veggendo ogni mattina davanti all'uscio suo passar messer Geri e gli
ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s'avisò che gran
cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo
alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il
presummere d'invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri
medesimo a invitarsi.
E avendo un farsetto
bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali
più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l'ora
che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva
davanti all'uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d'acqua fresca e un
picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che
parevano d'ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi
passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s'era, cominciava a ber
sì saporitamente questo suo vino, che egli n'avrebbe fatta venir voglia
a'morti.
La qual cosa avendo messer
Geri una e due mattine veduta, disse la terza:
- Chente è, Cisti?
è buono? -
Cisti, levato prestamente
in piè, rispose:
- Messer sì, ma
quanto non vi potre'io dare a intendere, se voi non assaggiaste -.
Messer Geri, al quale o la
qualità o affanno più che l'usato avuto o forse il saporito bere,
che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo
disse:
- Signori, egli è
buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è
egli tale, che noi non ce ne penteremo -; e con loro insieme se n'andò
verso Cisti.
Il quale, fatta di presente
una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e
alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi,
disse:
- Compagni, tiratevi
indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere
che io sappia infornare; e non aspettaste voi d'assaggiarne gocciola!
E così detto, esso
stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo
orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e
a'compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo
davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero,
quasi ogni mattina con loro insieme n'andò a ber messer Geri.
A'quali, essendo espediti e
partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invitò
una parte de'più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale
per niuna condizione andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de'suoi
famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo
bicchier per uomo desse alle prime mense.
Il famigliare, forse
sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco.
Il quale come Cisti vide, disse:
- Figliuolo, messer Geri
non ti manda a me.
Il che raffermando
più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a
messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse:
- Tornavi e digli che
sì fo: e se egli più così sponde, domandalo a cui io ti
mando.
Il famigliare tornato
disse:
- Cisti, per certo messer
Geri mi manda pure a te.
Al quale Cisti rispose:
- Per certo, figliuol, non
fa.
- Adunque -, disse il
famigliare - a cui mi manda?
Rispose Cisti:
- Ad Arno.
Il che rapportando il
famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s'apersero dello 'ntelletto e
disse al famigliare:
- Lasciami vedere che
fiasco tu vi porti -; e vedutol disse:
- Cisti dice vero -; e
dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole.
Il quale Cisti vedendo
disse:
- Ora so io bene che egli
ti manda a me -, e lietamente glielo impiè.
E poi quel medesimo
dì fatto il botticello riempiere d'un simil vino e fattolo soavemente
portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse:
- Messere, io non vorrei
che voi credeste che il gran fiasco stamane m'avesse spaventato; ma, parendomi
che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co'miei
piccoli orcioletti v'ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia,
vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d'esservene
più guardiano tutto ve l'ho fatto venire: fatene per innanzi come vi
piace.
Messer Geri ebbe il dono di
Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si
convenissero, e sempre poi per da molto l'ebbero e per amico.
Giornata sesta - Novella
terza
Monna Nonna de'Pulci con
una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze
silenzio impone.
Quando Pampinea la sua
novella ebbe finita, poi che da tutte la risposta e la liberalità di
Cisti molto fu commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse appresso, la
quale lietamente così a dire cominciò.
Piacevoli donne, prima
Pampinea e ora Filomena assai del vero toccarono della nostra poca virtù
e della bellezza de'motti; alla quale per ciò che tornar non bisogna,
oltre a quello che de'motti è stato detto, vi voglio ricordare essere la
natura de'motti cotale, che essi come la pecora morde deono così mordere
l'uditore, e non come '1 cane; per ciò che, se come il cane mordesse il
motto, non sarebbe motto ma villania.
La qual cosa ottimamente
fecero e le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti.
E' il vero che, se per
risposta si dice, e il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima
stato morso, non par da riprendere, come, se ciò avvenuto non fosse,
sarebbe; e per ciò è da guardare e come e quando e con cui e
similmente dove si motteggia. Alle quali cose poco guardando già un
nostro prelato, non minor morso ricevette che '1 desse; il che in una piccola
novella vi voglio mostrare.
Essendo vescovo di Firenze
messer Antonio d'Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentile
uom catalano, chiamato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re Ruberto.
Il quale, essendo del corpo bellissimo e vie più che grande
vagheggiatore, avvenne che fra l'altre donne fiorentine una ne gli piacque, la
quale era assai bella donna ed era nepote d'un fratello del detto vescovo.
E avendo sentito che il
marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo,
con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d'oro, ed egli una notte
con la moglie il lasciasse giacere; per che, fatti dorare popolini d'ariento, che
allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di lei
fosse, gliele diede. Il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo uomo
il danno e le beffe; e il vescovo, come savio, s'infinse di queste cose niente
sentire.
Per che, usando molto
insieme il vescovo e '1 maliscalco, avvenne che il dì di San Giovanni,
cavalcando l'uno allato all'altro, veggendo le donne per la via onde il palio
si corre, il vescovo vide una giovane, la quale questa pestilenzia presente ci
ha tolta donna, il cui nome fu monna Nonna de'Pulci, cugina di messere Alesso
Rinucci, e cui voi tutte doveste conoscere; la quale, essendo allora una fresca
e bella giovane e parlante e di gran cuore, di poco tempo avanti in Porta San
Piero a marito venutane, la mostrò al maliscalco; e poi essendole
presso, posta la mano sopra la spalla del maliscalco, disse:
- Nonna, che ti par di
costui? Crederrestil vincere?
Alla Nonna parve che quelle
parole alquanto mordessero la sua onestà, o la dovesser contaminar negli
animi di coloro, che molti v'erano, che l'udirono. Per che, non intendendo a
purgar questa contaminazione, ma a render colpo per colpo, prestamente rispose:
- Messere, è forse
non vincerebbe me, ma vorrei buona moneta.
La qual parola udita il
maliscalco e 'l vescovo, sentendosi parimente trafitti, l'uno siccome facitore
della disonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo, e l'altro sì
come ricevitore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l'un l'altro,
vergognosi e taciti se n'andarono, senza più quel giorno dirle alcuna
cosa.
Così adunque,
essendo la giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui
motteggiando.
Giornata sesta - Novella
quarta
Chichibio, cuoco di Currado
Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l'ira di Currado volge in
riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado.
Tacevasi già la
Lauretta, e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina
a Neifile impose che seguitasse; la qual disse.
Quantunque il pronto
ingegno, amorose donne, spesso parole presti e utili e belle, secondo gli
accidenti, à dicitori, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice
de'paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone, che mai ad animo
riposato per lo dicitor si sarebber sapute trovare; il che io per la mia
novella intendo di dimostrarvi.
Currado Gianfiglia
sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere, sempre della
nostra città è stato nobile cittadino, liberale e magnifico, e
vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli s'è
dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un
suo falcone avendo un dì presso a Peretola una gru ammazata, trovandola
grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era
chiamato Chichibio, ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che
a cena l'arrostisse e governassela bene.
Chichibio, il quale come
riuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con
sollicitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo già presso
che cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada,
la qual Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato,
entrò nella cucina; e sentendo l'odor della gru e veggendola,
pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia.
Chichibio le rispose
cantando e disse:
- "Voi non
l'avrì da mi, donna Brunetta, voi non l'avrì da mi".
Di che donna Brunetta
essendo un poco turbata, gli disse:
- In fè di Dio, se
tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia - ; e in brieve le
parole furon molte. Alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna,
spiccata l'una delle cosce alla gru, gliele diede.
Essendo poi davanti a
Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado
maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta
l'altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose:
- Signor mio, le gru non
hanno se non una coscia e una gamba.
Currado allora turbato
disse:
- Come diavol non hanno che
una coscia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa?
Chichibio seguitò:
- Egli è, messer,
com'io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder né vivi.
Currado, per amor dei
forestieri che seco aveva, non volle dietro alle parole andare, ma disse:
- Poi che tu dì di
farmelo vedere né vivi, cosa che io mai più non vidi né udii dir che
fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in
sul corpo di Cristo, che, se altramenti sarà, che io ti farò
conciare in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci
viverai, del nome mio.
Finite adunque per quella
sera le parole, la mattina seguente come il giorno apparve, Currado, a cui non
era per lo dormire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e
comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto montar Chichibio sopra
un ronzino, verso una fiumana, alla riva della quale sempre soleva in sul far
del dì vedersi delle gru, nel menò dicendo:
- Tosto vedremo chi
avrà iersera mentito, o tu o io.
Chichibio, veggendo che
ancora durava l'ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia,
non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior
paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non
potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che
vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piedi.
Ma già vicini al
fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello
ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano, si come quando
dormono soglion fare. Per che egli prestamente mostratele a Currado, disse:
- Assai bene potete,
messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una
coscia e un piè, se voi riguardate a quelle che colà stanno.
Currado vedendole disse:
- Aspettati, che io ti
mosterrò che elle n'hanno due -; e fattosi alquanto più a quelle
vicino gridò: - Ho ho - ; per lo qual grido le gru, mandato l'altro
piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire. Laonde
Currado rivolto a Chichibio disse:
- Che ti par, ghiottone?
Parti ch'elle n'abbian due?
Chichibio quasi sbigottito,
non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose:
- Messer sì, ma voi
non gridaste - ho ho - a quella di iersera; ché se così gridato aveste,
ella avrebbe così l'altra coscia e l'altro piè fuor mandata, come
hanno fatto queste.
A Currado piacque tanto
questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso, e
disse:
- Chichibio, tu hai
ragione, ben lo dovea fare.
Così adunque con la
sua pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e
paceficossi col suo signore.
Giornata sesta - Novella
quinta
Messer Forese da Rabatta e
maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l'uno la sparuta apparenza
dell'altro motteggiando morde.
Come Neifile tacque, avendo
molto le donne preso di piacere della risposta di Chichibio, così
Panfilo per voler della reina disse.
Carissime donne, egli
avviene spesso che, sì come la Fortuna sotto vili arti alcuna volta
grandissimi tesori di virtù nasconde, come poco avanti per Pampinea fu
mostrato, così ancora sotto turpissime forme d'uomini si truovano
maravigliosi ingegni dalla Natura essere stati riposti.
La qual cosa assai apparve
in due nostri cittadini, de'quali io intendo brievemente di ragionarvi. Per
ciò che l'uno, il quale messer Forese da Rabatta fu chiamato, essendo di
persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato, che a qualunque
de'Baronci più trasformato l'ebbe sarebbe stato sozzo, fu di tanto
sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione
civile fu reputato. E l'altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta
eccellenzia, che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e
operatrice col continuo girar de'cieli, che egli con lo stile e con la penna o
col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi
più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui
fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello
credendo esser vero che era dipinto.
E per ciò, avendo
egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni,
che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo
'ntelletto de'savi dipignendo intendeano, era stata sepulta, meritamente una
delle luci della fiorentina gloria dir si puote; e tanto più, quanto con
maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò vivendo, quella
acquistò, sempre rifiutando d'esser chiamato maestro. Il quale titolo
rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con maggior
disidero da quegli che men sapevano di lui o dà suoi discepoli era
cupidamente usurpato. Ma, quantunque la sua arte fosse grandissima, non era
egli per ciò né di persona né d'aspetto in niuna cosa più bello
che fosse messer Forese.
Ma, alla novella venendo,
dico che avevano in Mugello messer Forese e Giotto lor possessioni; ed essendo
messer Forese le sue andate a vedere, in quegli tempi di state che le ferie si
celebran per le corti, e per avventura in su un cattivo ronzino da vettura
venendosene, trovò il già detto Giotto, il qual similmente avendo
le sue vedute, se ne tornava a Firenze. Il quale, né in cavallo né in arnese
essendo in cosa alcuna meglio di lui, sì come vecchi, a pian passo
venendosene, insieme s'accompagnarono.
Avvenne, come spesso di
state veggiamo avvenire, che una subita piova gli soprapprese; la quale essi,
come più tosto poterono, fuggirono in casa d'un lavoratore amico e
conoscente di ciascuno di loro. Ma dopo alquanto, non faccendo l'acqua alcuna
vista di dover ristare, e costoro volendo essere il dì a Firenze, presi dal
lavoratore in prestanza due mantellacci vecchi di romagnuolo e due cappelli
tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non v'erano,
cominciarono a camminare.
Ora, essendo essi alquanto
andati, e tutti molli veggendosi, e per gli schizzi che i ronzini fanno
co'piedi in quantità zaccherosi (le quali cose non sogliono altrui
accrescer punto d'orrevolezza), rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che
lungamente erano venuti taciti, cominciarono a ragionare.
E messer Forese, cavalcando
e ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a
considerarlo e da lato e da capo e per tutto, e veggendo ogni cosa così
disorrevole e così disparuto, senza avere a sé niuna considerazione,
cominciò a ridere, e disse:
- Giotto, a che ora venendo
di qua allo 'ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t'avesse, credi tu
che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu sé?
A cui Giotto prestamente
rispose:
- Messere, credo, che egli
il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste
l'abicì.
Il che messer Forese
udendo, il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato, quali erano
state le derrate vendute.
Giornata sesta - Novella
sesta
Pruova Michele Scalza a
certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di
maremma, e vince una cena.
Ridevano ancora le donne
della bella e presta risposta di Giotto, quando la reina impose il seguitare
alla Fiammetta, la qual così 'ncominciò a parlare.
Giovani donne, l'essere
stati ricordati i Baronci da Panfilo, li quali per avventura voi non conoscete
come fa egli, m'ha nella memoria tornata una novella, nella quale quanta sia la
lor nobiltà si dimostra, senza dal nostro proposito deviare; e per
ciò mi piace di raccontarla.
Egli non è ancora
guari di tempo passato che nella nostra città era un giovane chiamato
Michele Scalza, il quale era il più piacevole e il più
sollazzevole uom del mondo, e le più nuove novelle aveva per le mani;
per la qual cosa i giovani fiorentini avevan molto caro, quando in brigata si
trovavano, di poter aver lui.
Ora avvenne un giorno che,
essendo egli con alquanti a Montughi, si 'ncominciò tra loro una
quistion così fatta: quali fossero li più gentili uomini di
Firenze e i più antichi.
De'quali alcuni dicevano
gli Uberti, e altri i Lamberti, e chi uno e chi un altro, secondo che
nell'animo gli capea.
Li quali udendo lo Scalza,
cominciò a ghignare, e disse:
- Andate via, andate,
goccioloni che voi siete, voi non sapete ciò che voi vi dite; i
più gentili uomini e i più antichi, non che di Firenze, ma di
tutto il mondo o di maremma, sono i Baronci; e a questo s'accordano tutti i
fisofoli e ogn'uom che gli conosce, come fo io; e acciò che voi non
intendeste d'altri, io dico de'Baronci vostri vicini da Santa Maria Maggiore.
Quando i giovani, che
aspettavano che egli dovesse dire altro, udiron questo, tutti si fecero beffe
di lui, e dissero:
- Tu ci uccelli, quasi come
se noi non cognoscessimo i Baronci come facci tu
Disse lo Scalza:
- Alle guagnele non fo,
anzi mi dico il vero, e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una
cena a doverla dare a chi vince con sei compagni quali più gli
piaceranno, io la metterò volentieri; e ancora vi farò
più, che io ne starò alla sentenzia di chiunque voi vorrete.
Tra'quali disse uno, che si
chiamava Neri Mannini:
- Io sono acconcio a voler
vincer questa cena -; e accordatisi insieme d'aver per giudice Piero di
Fiorentino, in casa cui erano, e andatisene a lui, e tutti gli altri appresso,
per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono.
Piero, che discreto giovane
era, udita primieramente la ragione di Neri, poi allo Scalza rivolto, disse:
- E tu come potrai mostrare
questo che tu affermi?
Disse lo Scalza:
- Che? Il mosterrò
per sì fatta ragione, che non che tu, ma costui che il nega, dirà
che io dica il vero. Voi sapete che, quanto gli uomini sono più antichi,
più son gentili, e così si diceva pur testé tra costoro; e i
Baronci son più antichi che niuno altro uomo, sì che son
più gentili; e come essi sien più antichi mostrandovi, senza
dubbio io avrò vinta la quistione.
Voi dovete sapere che i
Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli avea cominciato d'apparare a
dipignere; ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe
dipignere. E che io dica di questo il vero, ponete mente à Baronci e
agli altri uomini: dove voi tutti gli altri vedrete co'visi ben composti e
debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e
stretto, e quale averlo oltre ad ogni convenevolezza largo, e tal v'è
col naso molto lungo, e tale l'ha corto, e alcuno col mento in fuori e in su
rivolto, e con mascelloni che paiono d'asino; ed evvi tale che ha l'uno occhio
più grosso che l'altro, e ancora chi l'un più giù che
l'altro, sì come sogliono esser i visi che fanno da prima i fanciulli
che apparano a disegnare. Per che, come già dissi, assai bene appare che
Domenedio gli fece quando apparava a dipignere; sì che essi sono
più antichi che gli altri, e così più gentili.
Della qual cosa, e Piero
che era il giudice, e Neri che aveva messa la cena, e ciascun altro
ricordandosi, e avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti
cominciarono a ridere e affermare che lo Scalza aveva la ragione, e che egli
aveva vinta la cena, e che per certo i Baronci erano i più gentili
uomini e i più antichi che fossero, non che in Firenze, ma nel mondo o
in maremma.
E perciò meritamente
Panfilo, volendo la turpitudine del viso di messer Forese mostrare, disse che
stato sarebbe sozzo ad un de'Baronci.
Giornata sesta - Novella
settima
Madonna Filippa dal marito
con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol
risposta sé libera e fa lo statuto modificare.
Già si tacea la
Fiammetta, e ciascun rideva ancora del nuovo argomento dallo Scalza usato a
nobilitare sopra ogn'altro i Baronci, quando la reina ingiunse a Filostrato che
novellasse; ed egli a dir cominciò.
Valorose donne, bella cosa
è in ogni parte saper ben parlare, ma io la reputo bellissima quivi
saperlo fare dove la necessità il richiede. Il che sì ben seppe
fare una gentil donna, della quale intendo di ragionarvi, che non solamente
festa e riso porse agli uditori, ma sé de'lacci di vituperosa morte disviluppò,
come voi udirete.
Nella terra di Prato fu
già uno statuto, nel vero non men biasimevole che aspro, il quale, senza
niuna distinzion fare, comandava che così fosse arsa quella donna che
dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio, come quella che
per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse.
E durante questo statuto
avvenne che una gentil donna e bella e oltre ad ogn'altra innamorata, il cui
nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da
Rinaldo de'Pugliesi suo marito nelle braccia di Lazzarino de'Guazzagliotri,
nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto sé medesima amava,
ed era da lui amata. La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del
correr loro addosso e di uccidergli si ritenne; e se non fosse che di sé
medesimo dubitava, seguitando l'impeto della sua ira, l'avrebbe fatto.
Rattemperatosi adunque da
questo, non si potè temperar da voler quello dello statuto pratese, che
a lui non era licito di fare, cioè la morte della sua donna. E per
ciò avendo al fallo della donna provare assai convenevole testimonianza,
come il dì fu venuto, senza altro consiglio prendere, accusata la donna,
la fece richiedere.
La donna, che di gran cuore
era, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da
dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del
tutto dispose di comparire e di voler più tosto, la verità
confessando, con forte animo morire, che, vilmente fuggendo, per contumacia in
essilio vivere e negarsi degna di così fatto amante come colui era nelle
cui braccia era stata la notte passata. E assai bene accompagnata di donne e
d'uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestà venuta,
domandò con fermo viso e con salda voce quello che egli a lei
domandasse.
Il podestà,
riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e,
secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di
lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a lui
convenisse, volendo il suo onor servare, farla morire. Ma pur, non potendo
cessare di domandarla di quello che apposto l'era, le disse:
- Madonna, come voi vedete,
qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi di voi, la quale egli dice che ha
con altro uomo trovata in adulterio; e per ciò domanda che io, secondo
che uno statuto che ci è vuole, faccendovi morire di ciò vi
punisca; ma ciò far non posso, se voi nol confessate, e per ciò
guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di
che vostro marito v'accusa.
La donna, senza sbigottire
punto, con voce assai piacevole rispose:
- Messere, egli è
vero che Rinaldo è mio marito, e che egli questa notte passata mi
trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per
perfetto amore che io gli porto, molte volte stata; né questo negherei mai; ma
come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con
consentimento di coloro a cui toccano. Le quali cose di questa non avvengono,
ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli
uomini potrebbero a molti sodisfare; e oltre a questo, non che alcuna donna,
quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata;
per le quali cose meritamente malvagia si può chiamare.
E se voi volete, in
pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella esecutore, a
voi sta; ma, avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una
piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io
ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa
gli concedeva intera copia o no.
A che Rinaldo, senza
aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza
alcun dubbio la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer
conceduto.
- Adunque,- seguì
prestamente la donna - domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre
di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o
debbo di quel che gli avanza? Debbolo io gittare ai cani? Non è egli
molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m'ama, che
lasciarlo perdere o guastare?
Eran quivi a così
fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna, quasi tutti i pratesi
concorsi, li quali, udendo così piacevol risposta, subitamente, dopo
molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono la donna aver ragione e dir bene;
e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il
podestà, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli
s'intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a'lor mariti
facesser fallo.
Per la qual cosa Rinaldo,
rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la
donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne
tornò gloriosa.
Giornata sesta - Novella
ottava
Fresco conforta la nepote
che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l'erano a veder noiosi.
La novella da Filostrato
raccontata prima con un poco di vergogna punse li cuori delle donne ascoltanti,
e con onesto rossore né lor visi apparito ne dieder segno; e poi, l'una l'altra
guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando quella
ascoltarono. Ma poi che esso alla fine ne fu venuto, la reina, ad Emilia
voltatasi, che ella seguitasse le 'mpose. La quale, non altrimenti che se da
dormir si levasse, soffiando incominciò.
Vaghe giovani, per
ciò che un lungo pensiero molto di qui m'ha tenuta gran pezza lontana,
per ubbidire alla nostra reina, forse con molto minor novella, che fatto non
avrei se qui l'animo avessi avuto, mi passerò, lo sciocco error d'una
giovane raccontandovi, con un piacevol motto corretto da un suo zio, se ella da
tanto stata fosse che inteso l'avesse.
Uno adunque, che si
chiamò Fresco da Celatico, aveva una sua nepote chiamata per vezzi
Cesca, la quale, ancora che bella persona avesse e viso (non però di
quegli angelici che già molte volte vedemo), sé da tanto e sì
nobile reputava, che per costume aveva preso di biasimare e uomini e donne e
ciascuna cosa che ella vedeva, senza avere alcun riguardo a sé medesima, la
quale era tanto più spiacevole, sazievole e stizzosa che alcuna altra,
che a sua guisa niuna cosa si poteva fare; e tanto, oltre a tutto questo, era
altiera, che se stata fosse de'reali di Francia sarebbe stato soperchio. E
quando ella andava per via sì forte le veniva del cencio, che altro che
torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse di chiunque vedesse o
scontrasse
Ora, lasciando stare molti
altri suoi modi spiacevoli e rincrescevoli, avvenne un giorno che, essendosi
ella in casa tornata là dove Fresco era, e tutta piena di smancerie
postaglisi presso a sedere, altro non faceva che soffiare; laonde Fresco
domandando le disse:
- Cesca, che vuol dir
questo che, essendo oggi festa, tu te ne sé così tosto tornata in casa?
Al quale ella tutta
cascante di vezzi rispose:
- Egli è il vero che
io me ne sono venuta tosto, per ciò che io non credo che mai in questa
terra fossero e uomini e femine tanto spiacevoli e rincrescevoli quanto sono
oggi, e non ne passa per via uno che non mi spiaccia come la mala ventura; e io
non credo che sia al mondo femina a cui più sia noioso il vedere gli
spiacevoli che è a me, e per non vedergli così tosto me ne son venuta.
Alla qual Fresco, a cui li
modi fecciosi della nepote dispiacevan fieramente, disse:
- Figliuola, se così
ti dispiaccion gli spiacevoli, come tu dì, se tu vuoi viver lieta, non
ti specchiare giammai.
Ma ella, più che una
canna vana e a cui di senno pareva pareggiar Salamone, non altramenti che un
montone avrebbe fatto, intese il vero motto di Fresco; anzi disse che ella si
voleva specchiar come l'altre. E così nella sua grossezza si rimase e
ancor vi si sta.
Giornata sesta - Novella
nona
Guido Cavalcanti dice con
un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso
l'aveano.
Sentendo la reina che
Emilia della sua novella s'era diliberata e che ad altri non restava a dir che
a lei, se non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo, così a
dir cominciò.
Quantunque, leggiadre
donne, oggi mi sieno da voi state tolte da due in su delle novelle delle quali
io m'avea pensato di doverne una dire, nondimeno me n'è pure una rimasa
da raccontare, nella conclusione della quale si contiene un sì fatto
motto, che forse non ci se n'è alcuno di tanto sentimento contato.
Dovete adunque sapere che
né tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli
usanze, delle quali oggi niuna ve n'è rimasa, mercé dell'avarizia che in
quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l'ha discacciate.
Tra le quali n'era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano
insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero,
guardando di mettervi tali che comportar potessono acconciamente le spese, e
oggi l'uno, doman l'altro, e così per ordine tutti mettevan tavola,
ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte
onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de'cittadini;
e similmente si vestivano insieme almeno una volta l'anno, e insieme i
dì più notabili cavalcavano per la città, e talora
armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta
novella di vittoria o d'altro fosse venuta nella città.
Tra le quali brigate n'era
una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto è compagni
s'eran molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de'Cavalcanti, e
non senza cagione; per ciò che, oltre a quello che egli fu un
de'migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali
cose poco la brigata curava, sì fu egli leggiadrissimo e costumato e
parlante uomo molto, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente,
seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a
lingua sapeva onorare cui nell'animo gli capeva che il valesse.
Ma a messer Betto non era
mai potuto venir fatto d'averlo, e credeva egli co'suoi compagni che ciò
avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli
uomini diveniva. E per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli
epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo
in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse.
Ora avvenne un giorno che,
essendo Guido partito d'Orto San Michele e venutosene per lo corso degli
Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo
quelle arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre
dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono
e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con
sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido
là tra quelle sepolture, dissero: - Andiamo a dargli briga -; e spronati
i cavalli a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli
se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire:
- Guido tu rifiuti d'esser
di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai
fatto?
A'quali Guido, da lor
veggendosi chiuso, prestamente disse:
- Signori, voi mi potete
dire a casa vostra ciò che vi piace - ; e posta la mano sopra una di
quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era,
prese un salto e fussi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se
n'andò.
Costoro rimaser tutti
guatando l'un l'altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che
quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse
cosa che quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri
cittadini, né Guido meno che alcun di loro.
Alli quali messer Betto
rivolto disse:
- Gli smemorati siete voi,
se voi non l'avete inteso. Egli ci ha detta onestamente in poche parole la
maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste
arche sono le case de'morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i
morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli
altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri
uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi
siamo a casa nostra.
Allora ciascuno intese
quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero
briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere.
Giornata sesta - Novella
decima
Frate Cipolla promette a
certi contadini di mostrar loro la penna dell'agnolo Gabriello; in luogo della
quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san
Lorenzo.
Essendo ciascuno della
brigata della sua novella riuscito, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover
dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento aspettare, imposto
silenzio a quegli che il sentito motto di Guido lodavano, incominciò:
Vezzose donne, quantunque
io abbia per privilegio di poter di quel che più mi piace parlare, oggi
io non intendo di volere da quella materia separarmi della qual voi tutte avete
assai acconciamente parlato; ma, seguitando le vostre pedate, intendo di
mostrarvi quanto cautamente con subito riparo uno de'frati di santo Antonio
fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era. Né vi
dovrà esser grave perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto
in parlar mi distenda, se al sol guarderete il qual è ancora a mezzo il
cielo.
Certaldo, come voi forse
avete potuto udire, è un castel di Val d'Elsa posto nel nostro contado,
il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d'agiati fu
abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un
lungo tempo d'andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro
dagli sciocchi un de'frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla,
forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volontieri, con
ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana.
Era questo frate Cipolla di
persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del
mondo: e oltre a questo, niuna scienzia avendo, sì ottimo parlatore e
pronto era, che chi conosciuto non l'avesse, non solamente un gran rettorico l'avrebbe
stimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di
tutti quegli della contrada era compare o amico o benivogliente.
Il quale, secondo la sua
usanza, del mese d'agosto tra l'altre v'andò una volta, e una domenica
mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da torno venuti
alla messa nella calonica, quando tempo gli parve, fattosi innanzi disse:
- Signori e donne, come voi
sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno à poveri del baron
messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi
assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò ché il beato santo
Antonio vi sia guardia de'buoi e degli asini e de'porci e delle pecore vostre;
e oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra
compagnia scritti sono, quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle
quali cose ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer l'abate,
stato mandato, e per ciò, con la benedizion di Dio, dopo nona, quando
udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove
io al modo usato vi farò la predicazione, e bacerete la croce; e oltre a
ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer
santo Antonio, di spezial grazia vi mostrerò una santissima e bella
reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d'oltremare:
e questa è una delle penne dell'agnol Gabriello, la quale nella camera
della Vergine Maria rimase quando egli la venne ad annunziare in Nazaret.
E questo detto, si tacque e
ritornossi alla messa.
Erano, quando frate Cipolla
queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto,
chiamato l'uno Giovanni del Bragoniera e l'altro Biagio Pizzini li quali, poi
che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che
molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa
penna alcuna beffa. E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel
castello con un suo amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero
alla strada e all'albergo dove il frate era smontato se n'andarono con questo
proponimento: che Biagio dovesse tenere a parole il fante di frate Cipolla e
Giovanni dovesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente che ella
si fosse, e torgliele, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al
popol dire.
Aveva frate Cipolla un suo
fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi
gli diceva Guccio Porco: il quale era tanto cattivo, che egli non è vero
che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto. Di cui spesse volte frate Cipolla
era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire:
- Il fante mio ha in sé
nove cose tali che, se qualunque è l'una di quelle fosse in Salamone o
in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù,
ogni lor senno, ogni lor santità. Pensate adunque che uom dee essere
egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna è,
avendone nove.
Ed, essendo alcuna volta
domandato quali fossero queste nove cose, ed egli, avendole in rima messe,
rispondeva:
- Dirolvi: egli è
tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato,
smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre taccherelle con queste,
che si taccion per lo migliore. E quel che sommamente è da rider
de'fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a
pigione; e avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser
bello e piacevole, che egli s'avisa che quante femine il veggano tutte di lui
s'innamorino, ed essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la
coreggia. E' il vero che egli m'è d'un grande aiuto, per ciò che
mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua
parte udire; e se avviene che io d'alcuna cosa sia domandato, ha sì gran
paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sì e
no, come giudica si convenga.
A costui, lasciandolo
all'albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse che alcuna persona
non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in
quelle erano le cose sacre.
Ma Guccio Imbratta, il
quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l'usignolo,
e massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell'oste una
veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean
due ceston da letame e con un viso che parea de'Baronci, tutta sudata, unta e
affumicata, non altramenti che si gitti l'avoltoio alla carogna, lasciata la
camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si
calò. E ancora che d'agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere,
cominciò con costei, che Nuta aveva nome, a entrare in parole e dirle
che egli era gentile uomo per procuratore e che egli aveva de'fiorini
più di millantanove, senza quegli che egli aveva a dare altrui, che
erano anzi più che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che
domine pure unquanche. E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era
tanto untume, che avrebbe condito il calderon d'Altopascio, e a un suo farsetto
rotto e ripezzato e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume,
con più macchie e di più colori che mai drappi fossero
tartereschi o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite,
le disse, quasi stato fosse il siri di Castiglione, che rivestir la voleva e
rimetterla in arnese, e trarla di quella cattività di star con altrui e
senza gran possession d'avere ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre
cose assai; le quali quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento
convertite, come le più delle sue imprese facevano, tornarono in niente.
Trovarono adunque i due
giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per
ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contradicendolo alcuno
nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima
cosa che venne lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna;
la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado fasciata una piccola
cassettina; la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda
d'un pappagallo, la quale avvisarono dovere esser quella che egli promessa avea
di mostrare a'certaldesi.
E certo egli il poteva a
quei tempi leggiermente far credere, per ciò che ancora non erano le
morbidezze d'Egitto, se non in piccola quantità, trapassate in Toscana,
come poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate:
e dove che elle poco conosciute fossero, in quella contrada quasi in niente
erano da gli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestà
degli antichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior
parte mai uditi non gli avean ricordare.
Contenti adunque i giovani
d'aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo
carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono; e richiusala
e ogni cosa racconcia come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se
ne vennero con la penna e cominciarono a aspettare quello che frate Cipolla, in
luogo della penna trovando carboni, dovesse dire.
Gli uomini e le femine
semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano la penna dell'agnol
Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l'un vicino
all'altro e l'una comare all'altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti
uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con
desiderio aspettando di veder questa penna.
Frate Cipolla, avendo ben
desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la
moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere,
mandò a Guccio Imbratta che lassù con le campanelle venisse e
recasse le sua bisacce. Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta
si fu divelto, con le cose addimandate con fatica lassù n'andò:
dove ansando giunto, per ciò che il ber dell'acqua gli avea molto fatto
crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in su la porta
della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare.
Dove, poi che tutto il popolo
fu ragunato, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse
stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio de'fatti suoi disse
molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell'agnolo Gabriello,
fatta prima con grande solennità la confessione, fece accender due
torchi, e soavemente sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il
cappuccio, fuori la cassetta ne trasse. E dette primieramente alcune parolette
a laude e a commendazione dell'agnolo Gabriello e della sua reliquia, la
cassetta aperse. La quale come piena di carboni vide, non sospicò che
ciò che Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva
da tanto, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò non
facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue
cose aveva commessa, conoscendol, come faceva, negligente, disubidente,
trascurato e smemorato. Ma non per tanto, senza mutar colore, alzato il viso e
le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito:
- O Iddio, lodata sia
sempre la tua potenzia!
Poi richiusa la cassetta e
al popolo rivolto disse:
- Signori e donne, voi
dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio
superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso
comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana,
li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a
altrui che a noi.
Per la qual cosa messom'io
cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de'Greci e di quindi
per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde,
non senza sete, dopo alquanto per venni in Sardigna. Ma perché vi vo io tutti i
paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il braccio di San Giorgio, in
Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi
pervenni in terra di Menzogna, dove molti de'nostri frati e d'altre religioni
trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l'amor di Dio schifando,
poco dell'altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità vedessero
seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio per quei paesi: e
quindi passai in terra d'Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli
su pe'monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco più
là trovai gente che portano il pan nelle mazze e 'l vin nelle sacca:
da'quali alle montagne de'bachi pervenni, dove tutte le acque corrono alla
'ngiù.
E in brieve tanto andai
adentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, là dove io vi
giuro, per l'abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa
incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire
Maso del Saggio, il quale gran mercante io trovai là, che schiacciava
noci e vendeva gusci a ritaglio.
Ma non potendo quello che
io andava cercando trovare, perciò che da indi in là si va per
acqua, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l'anno di
state vi vale il pan freddo quattro denari, e il caldo v'è per niente. E
quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo
patriarca di Jerusalem. Il quale, per reverenzia dell'abito che io ho sempre
portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante
reliquie le quali egli appresso di sé aveva; e furon tante che, se io ve le
volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure,
per non lasciarvi sconsolate, ve ne dirò alquante.
Egli primieramente mi
mostrò il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu
mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, e una dell'unghie
de'Gherubini, e una delle coste del Verbum caro fatti alle finestre, e
de'vestimenti della Santa Fé catolica, e alquanti de'raggi della stella che
apparve à tre Magi in oriente, e un ampolla del sudore di san Michele
quando combatté col diavole, e la mascella della Morte di san Lazzaro e altre.
E per ciò che io
liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare e
d'alquanti capitoli del Caprezio, li quali egli lungamente era andati cercando,
mi fece egli partefice delle sue sante reliquie, e donommi uno de'denti della
santa Croce, e in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di
Salomone e la penna dell'agnol Gabriello, della quale già detto v'ho, e
l'un de'zoccoli di san Gherardo da Villamagna (il quale io, non ha molto, a
Firenze donai a Gherardo di Bonsi, il quale in lui ha grandissima divozione) e
diedemi de'carboni, co'quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le
quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, e holle tutte.
E' il vero che il mio
maggiore non ha mai sofferto che io l'abbia mostrate infino a tanto che
certificato non s'è se desse sono o no; ma ora che per certi miracoli
fatti da esse e per lettere ricevute dal Patriarca fatto n'è certo m'ha
conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fidarle altrui, sempre
le porto meco.
Vera cosa è che io
porto la penna dell'agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una
cassetta e i carboni co'quali fu arrostito san Lorenzo in un'altra; le quali
son sì simiglianti l'una all'altra, che spesse volte mi vien presa l'una
per l'altra, e al presente m'è avvenuto; per ciò che, credendomi
io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove
sono i carboni. Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser
certo che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta
de'carboni ponesse nelle mie mani, ricordandom'io pur testé che la festa di san
Lorenzo sia di qui a due dì. E per ciò, volendo Iddio che io, col
mostrarvi i carboni co'quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la
divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti
carboni spenti dall'omor di quel santissimo corpo mi fe'pigliare. E per ciò,
figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v'appresserete a
vedergli.
Ma prima voglio che voi
sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto
quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si
senta.
E poi che così detto
ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i
carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione
reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s'appressarono a frate
Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse
toccare il pregava ciascuno.
Per la qual cosa frate
Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e
sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior
croci che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a far quelle
croci, poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva
provato.
E in cotal guisa, non senza
sua grandissima utilità avendo tutti crociati i certaldesi, per presto
accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna,
avevan creduto schernire. Li quali stati alla sua predica e avendo udito il
nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse e con che parole,
avevan tanto riso che eran creduti smascellare. E poi che partito si fu il
vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto
avevan gli discoprirono, e appresso gli renderono la sua penna; la quale l'anno
seguente gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni.
Giornata sesta -
Conclusione
Questa novella porse
igualmente a tutta la brigata grandissimo piacere e sollazzo, e molto per tutti
fu riso di fra Cipolla e massimamente del suo pellegrinaggio e delle reliquie
così da lui vedute come recate. La quale la reina sentendo esser finita,
e similmente la sua signoria, levata in piè, la corona si trasse e
ridendo la mise in capo a Dioneo, e disse:
- Tempo è, Dioneo,
che tu alquanto pruovi che carico sia l'aver donne a reggere e a guidare; sii
dunque re, e sì fattamente ne reggi, che del tuo reggimento nella fine
ci abbiamo a lodare.
Dioneo, presa la corona,
ridendo rispose:
- Assai volte già ne
potete aver veduti, io dico delli re da scacchi, troppo più cari che io
non sono; e per certo, se voi m'ubbidiste come vero re si dee ubbidire, io vi
farei goder di quello senza il che per certo niuna festa compiutamente è
lieta. Ma lasciamo star queste parole: io reggerò come io saprò.
E fattosi, secondo il
costume usato, venire il siniscalco, ciò che a fare avesse quanto
durasse la sua signoria ordinatamente gl'impose, e appresso disse:
- Valorose donne, in
diverse maniere ci s'è della umana industria e de'casi vari ragionato,
tanto che, se donna Licisca non fosse poco avanti qui venuta, la quale con le
sue parole m'ha trovata materia à futuri ragionamenti di domane, io
dubito che io non avessi gran pezza penato a trovar tema da ragionare. Ella,
come voi udiste, disse che vicina non avea che pulcella ne fosse andata a
marito; e soggiunse che ben sapeva quante e quali beffe le maritate ancora
facessero à mariti. Ma, lasciando stare la prima parte, che è
opera fanciullesca, reputo che la seconda debbia essere piacevole a ragionarne;
e per ciò voglio che domane si dica, poi che donna Licisca data ce n'ha
cagione, delle beffe, le quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne
hanno già fatte à lor mariti, senza essersene essi avveduti o
sì.
Il ragionare di sì
fatta materia pareva ad alcuna delle donne che male a loro si convenisse, e
pregavanlo che mutasse la proposta già detta.
Alle quali il re rispose:
- Donne, io conosco
ciò che io ho imposto non meno che facciate voi; e da imporlo non mi
potè istorre quello che voi mi volete mostrare, pensando che il tempo
è tale che, guardandosi e gli uomini e le donne d'operar disonestamente,
ogni ragionare è conceduto. Or non sapete voi che, per la
perversità di questa stagione, gli giudici hanno lasciati i tribunali;
le leggi, così le divine come le umane, tacciono; e ampia licenzia per
conservar la vita è conceduta a ciascuno? Per che, se alquanto s'allarga
la vostra onestà nel favellare, non per dovere con le opere mai alcuna
cosa sconcia seguire, ma per dare diletto a voi e ad altrui, non veggo con che
argomento da concedere vi possa nello avvenire riprendere alcuno.
Oltre a questo la nostra
brigata, dal primo dì infino a questa ora stata onestissima, per cosa
che detta ci si sia, non mi pare che in atto alcuno si sia maculata, né si
maculerà collo aiuto di Dio. Appresso, chi è colui che non conosca
la vostra onestà? La quale non che i ragionamenti sollazzevoli, ma il
terrore della morte non credo che potesse smagare.
E a dirvi il vero, chi
sapesse che voi vi cessaste da queste ciance ragionare alcuna volta, forse
suspicherebbe che voi in ciò non foste colpevoli, e per ciò
ragionare non ne voleste. Senza che voi mi fareste un bello onore, essendo io
stato ubbidente a tutti, e ora avendomi vostro re fatto, mi voleste la legge
porre in mano, e di quello non dire che io avessi imposto. Lasciate adunque
questa suspizione più atta à cattivi animi che à vostri, e
con la buona ventura pensi ciascuna di dirla bella.
Quando le donne ebbero
udito questo, dissero che così fosse come gli piacesse; per che il re
per infino all'ora della cena di fare il suo piacere diede licenzia a ciascuno.
Era ancora il sol molto
alto, per ciò che il ragionamento era stato brieve; per che, essendosi
Dioneo con gli altri giovani messo a giucare a tavole, Elissa, chiamate l'altre
donne da una parte, disse:
- Poi che noi fummo qui, ho
io disiderato di menarvi in parte assai vicina di questo luogo, dove io non
credo che mai fosse alcuna di voi, e chiamavisi la Valle delle donne, né ancora
vidi tempo da potervi quivi menare, se non oggi, sì è alto ancora
il sole; e per ciò, se di venirvi vi piace, io non dubito punto che,
quando vi sarete, non siate contentissime d'esservi state.
Le donne risposono che
erano apparecchiate; e chiamata una delle lor fanti, senza farne alcuna cosa
sentire à giovani, si misero in via; né guari più d'un miglio
furono andate, che alla Valle delle donne pervennero. Dentro alla quale per una
via assai stretta, dall'una delle parti della quale correva un chiarissimo
fiumicello, entrarono, e viderla tanto bella e tanto dilettevole, e
spezialmente in quel tempo che era il caldo grande, quanto più si
potesse divisare. E secondo che alcuna di loro poi mi ridisse, il piano che
nella valle era, così era ritondo come se a sesta fosse stato fatto,
quantunque artificio della natura e non manual paresse; ed era di giro poco
più che un mezzo miglio, intorniato di sei montagnette di non troppa
altezza, e in su la sommità di ciascuna si vedeva un palagio quasi in
forma fatto d'un bel castelletto. Le piaggie delle quali montagnette
così digradando giù verso '1 piano discendevano, come né teatri
veggiamo dalla lor sommità i gradi infino all'infimo venire
successivamente ordinati, sempre ristrignendo il cerchio loro.
Ed erano queste piaggie,
quante alla plaga del mezzogiorno ne riguardavano, tutte di vigne, d'ulivi, di
mandorli, di ciriegi, di fichi e d'altre maniere assai d'alberi fruttiferi
piene, senza spanna perdersene. Quelle le quali il carro di tramontana
guardava, tutte eran boschetti di querciuoli, di frassini e d'altri alberi
verdissimi e ritti quanto più esser poteano. Il piano appresso, senza
aver più entrate che quella donde le donne venute v'erano, era pieno
d'abeti, di cipressi, d'allori e d'alcuni pini sì ben composti e
sì bene ordinati, come se qualunque è di ciò il migliore
artefice gli avesse piantati; e fra essi poco sole o niente, allora che egli
era alto, entrava infino al suolo, il quale era tutto un prato d'erba
minutissima e piena di fiori porporini e d'altri.
E oltre a questo, quel che
non meno che altro di diletto porgeva, era un fiumicello, il qual d'una delle
valli, che due di quelle montagnette dividea, cadeva giù per balzi di
pietra viva, e cadendo faceva un romore ad udire assai dilettevole, e sprizzando
pareva da lungi ariento vivo che d'alcuna cosa premuta minutamente sprizzasse;
e come giù al piccol pian pervenia così quivi in un bel canaletto
raccolta infino al mezzo del piano velocissima discorreva, e ivi faceva un
picciol laghetto quale talvolta per modo di vivaio fanno né lor giardini i
cittadini che di ciò hanno destro. Ed era questo laghetto non più
profondo che sia una statura d'uomo infino al petto lunga, e senza avere in sé
mistura alcuna, chiarissimo il suo fondo mostrava esser duna minutissima
ghiaia, la qual tutta, chi altro non avesse avuto a fare, avrebbe, volendo,
potuta annoverare. Nè solamente nell'acqua riguardando vi si vedeva il
fondo, ma tanto pesce in qua e in là andar discorrendo, che oltre al
diletto era una maraviglia. Nè da altra ripa era chiuso che dal suolo
del prato, tanto d'intorno a quel più bello, quanto più dello
umido sentiva di quello. L'acqua, la quale alla sua capacità
soprabbondava, un altro canaletto riceveva, per lo qual fuori del valloncello uscendo
alle parti più basse sen correva.
In questo adunque venute le
giovani donne, poi che per tutto riguardato ebbero e molto commendato il luogo,
essendo il caldo grande e vedendosi il pelaghetto chiaro davanti e senza alcun
sospetto d'esser vedute, diliberaron di volersi bagnare. E comandato alla lor
fante che sopra la via per la quale quivi s'entrava dimorasse, e guardasse se
alcun venisse, e loro il facesse sentire tutte e sette si spogliarono ed
entrarono in esso, il quale non altrimenti li lor corpi candidi nascondeva, che
farebbe una vermiglia rosa un sottil vetro. Le quali essendo in quello, né per
ciò niuna turbazion d'acqua nascendone, cominciarono come potevano ad
andare in qua in là di dietro à pesci, i quali male avevan dove
nascondersi, e a volerne con esso le mani pigliare.
E poi che in così
fatta festa, avendone presi alcuni, dimorate furono alquanto, uscite di quello,
si rivestirono, e senza poter più commendare il luogo che commendato
l'avessero, parendo lor tempo da dover tornar verso casa, con soave passo, molto
della bellezza del luogo parlando, in cammino si misero. E al palagio giunte ad
assai buona ora, ancora quivi trovarono i giovani giucando dove lasciati gli
aveano. Alli quali Pampinea ridendo disse:
- Oggi vi pure abbiam noi
ingannati.
- E come? - disse Dioneo -
cominciate voi prima a far de'fatti che a dir delle parole?
Disse Pampinea:
- Signor nostro, sì
- ; e distesamente gli narrò donde venivano, e come era fatto il luogo,
e quanto di quivi distante, e ciò che fatto avevano.
Il re, udendo contare la
bellezza del luogo, disideroso di vederlo, prestamente fece comandar la cena;
la qual poi che con assai piacer di tutti fu fornita, li tre giovani colli lor
famigliari, lasciate le donne, se n'andarono a questa valle, e ogni cosa
considerata, non essendovene alcuno di loro stato mai più, quella per
una delle belle cose del mondo lodarono. E poi che bagnati si furono e
rivestiti, per ciò che troppo tardi si faceva, se ne tornarono a casa,
dove trovarono le donne che facevano una carola ad un verso che facea la
Fiammetta, e con loro, fornita la carola, entrati in ragionamenti della Valle
delle donne, assai di bene e di lode ne dissero.
Per la qual cosa il re,
fattosi venire il siniscalco, gli comandò che la seguente mattina
là facesse che fosse apparecchiato, e portatovi alcun letto, se alcun
volesse o dormire o giacersi di meriggiana. Appresso questo, fatto venire
de'lumi e vino e confetti, e alquanto riconfortatisi, comandò che
ogn'uomo fosse in sul ballare. E avendo per suo volere Panfilo una danza presa,
il re rivoltatosi verso Elissa le disse piacevolmente:
- Bella giovane, tu mi
facesti oggi onore della corona, e io il voglio questa sera a te fare della
canzone; e per ciò una fa che ne dichi qual più ti piace.
A cui Elissa sorridendo
rispose che volentieri, e con soave voce cominciò in cotal guisa:
Amor, s'io posso uscir
de'tuoi artigli,
appena creder posso
che alcun altro uncin
più mai mi pigli.
Io entrai giovinetta en la
tua guerra,
quella credendo somma e
dolce pace,
e ciascuna mia arme posi in
terra,
come sicuro chi si fida
face
tu, disleal tiranno, aspro
e rapace,
tosto mi fosti addosso
con le tue armi e
co'crude'roncigli.
Poi, circundata delle tue
catene,
a quel, che nacque per la
morte mia,
piena d'amare lagrime e di
pene
presa mi desti, e hammi in
sua balia;
ed è sì cruda
la sua signoria,
che giammai non l'ha mosso
sospir né pianto alcun che
m'assottigli.
Li prieghi miei tutti glien
porta il vento,
nullo n'ascolta né ne vuole
udire;
per che ogn'ora cresce '1
mio tormento,
onde 'l viver m'è
noia, né so morire.
Deh dolgati, signor, del
mio languire,
fa tu quel ch'io non posso;
dalmi legato dentro
à tuoi vincigli.
Se questo far non vuogli,
almeno sciogli,
i legami annodati da
speranza.
Deh! io ti priego, signor,
che tu vogli;
ché, se tu 'l fai, ancor
porto fidanza
di tornar bella qual fu mia
usanza,
e il dolor rimosso,
di bianchi fiori ornarmi e
di vermigli.
Poi che con un sospiro
assai pietoso Elissa ebbe alla sua canzon fatta fine, ancor che tutti si
maravigliasser di tali parole, niuno per ciò ve n'ebbe che potesse
avvisare chi di così cantar le fosse stato cagione. Ma il re, che in
buona tempera era, fatto chiamar Tindaro, gli comandò che fuor traesse
la sua cornamusa, al suono della quale esso fece fare molte . danze. Ma,
essendo già buona parte di notte passata, a ciascun disse ch'andasse a
dormire.
Finisce la sesta giornata
del Decameron
Incomincia la settima
giornata nella quale, sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle beffe, le
quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte
a'lor mariti, senza essersene avveduti o sì.
Giornata settima -
Introduzione
Ogni stella era già
delle parti d'oriente fuggita, se non quella sola, la qual noi chiamiamo
Lucifero, che ancor luceva nella biancheggiante aurora, quando il siniscalco
levatosi, con una gran salmeria n'andò nella Valle delle donne, per
quivi disporre ogni cosa secondo l'ordine e il comandamento avuto dal suo
signore. Appresso alla quale andata non stette guari a levarsi il re, il quale
lo strepito de'caricanti e delle bestie aveva desto, e levatosi fece le donne
e'giovani tutti parimente levare.
Né ancora spuntavano li
raggi del sole bene bene, quando tutti entrarono in cammino; né era ancora lor
paruto alcuna volta tanto gaiamente cantar gli usignuoli e gli altri uccelli
quanto quella mattina pareva; da' canti de' quali accompagnati infino nella
Valle delle donne n'andarono, dove da molti più ricevuti, parve loro che
essi della lor venuta si rallegrassero.
Quivi intorniando quella e
riproveggendo tutta da capo, tanto parve loro più bella che il dì
passato, quanto l'ora del dì era più alla bellezza di quella
conforme. E poi che col buon vino e con confetti ebbero il digiun rotto
acciò che di canto non fossero dagli uccelli avanzati, cominciarono a
cantare, e la valle insieme con essoloro, sempre quelle medesime canzoni
dicendo che essi dicevano; alle quali tutti gli uccelli, quasi non volessero
esser vinti, dolci e nuove note aggiugnevano.
Ma poi che l'ora del
mangiar fu venuta, messe le tavole sotto i vivaci allori e agli altri belli
arbori vicine al bel laghetto, come al re piacque, così andarono a
sedere, e mangiando, i pesci notar vedean per lo lago a grandissime schiere; il
che, come di riguardare, così talvolta dava cagione di ragionare. Ma poi
che venuta fu la fine del desinare, e le vivande e le tavole furon rimosse,
ancora più lieti che prima, cominciarono a cantare e dopo questo a
sonare e a carolare.
Quindi, essendo in
più luoghi per la piccola valle fatti letti, e tutti dal discreto
siniscalco di sarge francesche e di capoletti intorniati e chiusi, con licenzia
del re, a cui piacque, si potè andare a dormire; e chi dormir non volle,
degli altri lor diletti usati pigliar poteva a suo piacere. Ma, venuta
già l'ora che tutti levati erano e tempo era da riducersi a novellare,
come il re volle, non guari lontano al luogo dove mangiato aveano, fatti in su
l'erba tappeti distendere e vicini al lago a seder postisi, comandò il
re ad Emilia che cominciasse. La qual lietamente così cominciò a
dir sorridendo.
Giornata settima - Novella
prima
Gianni Lotteringhi ode di
notte toccar l'uscio suo; desta la moglie, ed ella gli fa accredere che egli
è la fantasima; vanno ad incantare con una orazione, e il picchiar si
rimane.
Signor mio, a me sarebbe
stato carissimo, quando stato fosse piacere a voi, che altra persona che io
avesse a così bella materia, come è quella di che parlar
dobbiamo, dato cominciamento; ma, poi che egli v'aggrada che io tutte l'altre
assicuri, e io il farò volentieri. E ingegnerommi, carissime donne, di
dir cosa che vi possa essere utile nell'avvenire, per ciò che, se
così son l'altre come io, tutte siamo paurose, e massimamente della
fantasima, la quale sallo Iddio che io non so che cosa si sia, né ancora alcuna
trovai che 'l sapesse, come che tutte ne temiamo igualmente. A quella cacciar
via, quando da voi venisse, notando bene la mia novella, potrete una santa e
buona orazione e molto a ciò valevole apparare.
Egli fu già in
Firenze nella contrada di San Brancazio uno stamaiuolo, il qual fu chiamato
Gianni Lotteringhi, uomo più avventurato nella sua arte che savio in
altre cose, per ciò che, tenendo egli del semplice, era molto spesso
fatto capitano de'laudesi di Santa Maria Novella, e aveva a ritenere la scuola
loro, e altri così fatti uficietti aveva assai sovente, di che egli da
molto più si teneva; e ciò gli avvenia per ciò che egli
molto spesso, sì come agiato uomo, dava di buone pietanze a' frati.
Li quali, per ciò
che qual calze e qual cappa e quale scapolare ne traevano spesso, gli
insegnavano di buone orazioni e davangli il paternostro in volgare e la canzone
di santo Alesso e il lamento di san Bernardo e la lauda di donna Matelda e
cotali altri ciancioni, li quali egli aveva molto cari, e tutti per la salute
dell'anima sua se gli serbava molto diligentemente.
Ora aveva costui una
bellissima donna e vaga per moglie, la quale ebbe nome monna Tessa e fu
figliuola di Mannuccio dalla Cuculia, savia e avveduta molto. La quale,
conoscendo la semplicità del marito, essendo innamorata di Federigo di
Neri Pegolotti, il quale bello e fresco giovane era, ed egli di lei,
ordinò con una sua fante che Federigo le venisse a parlare ad un luogo
molto bello che il detto Gianni aveva in Camerata, al quale ella si stava tutta
la state; e Gianni alcuna volta vi veniva la sera a cenare e ad albergo, e la
mattina se ne tornava a bottega e talora a' laudesi suoi.
Federigo, che ciò
senza modo disiderava, preso tempo, un dì che imposto gli fu, in su '1
vespro se n'andò lassù, e non venendovi la sera Gianni, a grande
agio e con molto piacere cenò e albergò con la donna; ed ella,
standogli in braccio, la notte gl'insegnò da sei delle laude del suo
marito.
Ma, non intendendo essa che
questa fosse così l'ultima volta come stata era la prima, né Federigo
altressì, acciò che ogni volta non convenisse che la fante avesse
ad andar per lui, ordinarono insieme a questo modo: che egli ognindì,
quando andasse o tornasse da un suo luogo che alquanto più su era,
tenesse mente in una vigna la quale allato alla casa di lei era, ed egli
vedrebbe un teschio d'asino in su un palo di quelli della vigna, il quale
quando col muso volto vedesse verso Firenze, sicuramente e senza alcun fallo la
sera di notte se ne venisse a lei, e se non trovasse l'uscio aperto, pianamente
picchiasse tre volte, ed ella gli aprirebbe; e quando vedesse il muso del
teschio volto verso Fiesole, non vi venisse, per ciò che Gianni vi
sarebbe. E in questa maniera faccendo, molte volte insieme si ritrovarono.
Ma tra l'altre volte una
avvenne che, dovendo Federigo cenar con monna Tessa, avendo ella fatti cuocere
due grossi capponi, avvenne che Gianni, che venir non vi doveva, molto tardi vi
venne; di che la donna fu molto dolente, ed egli ed ella cenarono un poco di
carne salata che da parte aveva fatta lessare; e alla fante fece portare in una
tovagliuola bianca i due capponi lessi e molte uova fresche e un fiasco di buon
vino in un suo giardino, nel quale andar si potea senza andar per la casa, e
dov'ella era usa di cenare con Federigo alcuna volta, e dissele che a
piè d'un pesco, che era allato ad un pratello, quelle cose ponesse.
E tanto fu il cruccio che
ella ebbe, che ella non si ricordò di dire alla fante che tanto
aspettasse che Federigo venisse, e dicessegli che Gianni v'era e che egli
quelle cose dell'orto prendesse. Per che, andatisi ella e Gianni al letto, e
similmente la fante, non stette guari che Federigo venne e toccò una
volta pianamente la porta, la quale sì vicina alla camera era che Gianni
incontanente il sentì, e la donna altressì; ma, acciò che
Gianni nulla suspicar potesse di lei, di dormire fece sembiante.
E stando un poco, Federigo
picchiò la seconda volta; di che Gianni maravigliandosi
punzecchiò un poco la donna, e disse:
- Tessa, odi tu quel ch'io?
E' pare che l'uscio nostro sia tocco -.
La donna, che molto meglio
di lui udito l'avea, fece vista di svegliarsi, e disse:
- Come di'? Eh? -
- Dico, - disse Gianni -
ch'e' pare che l'uscio nostro sia tocco -.
Disse la donna:
- Tocco? Ohimè,
Gianni mio, or non sai tu quello ch'egli è? Egli è la fantasima,
della quale io ho avuta a queste notti la maggior paura che mai s'avesse, tale
che, come io sentita l'ho, ho messo il capo sotto né mai ho avuto ardir di
trarlo fuori sì è stato dì chiaro -.
Disse allora Gianni:
- Va, donna, non aver
paura, se ciò è, ché io dissi dianzi il "Te lucis" e la
" 'ntemerata" e tante altre buone orazioni, quando al letto ci
andammo, e anche segnai il letto di canto in canto al nome del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo, che temere non ci bisogna, ché ella non ci
può, per potere ch'ella abbia, nuocere -.
La donna, acciò che
Federigo per avventura altro sospetto non prendesse e con lei si turbasse,
diliberò del tutto di doversi levare e di fargli sentire che Gianni
v'era, e disse al marito:
- Bene sta, tu di'tue
parole tu, io per me non mi terrò mai salva né sicura, se noi non la
'ncantiamo, poscia che tu ci se'-.
Disse Gianni:
- O come s'incanta ella? -
Disse la donna:
- Ben la so io incantare;
ché l'altrieri, quando io andai a Fiesole alla perdonanza, una di quelle
romite, che è, Gianni mio, pur la più santa cosa che Iddio tel
dica per me, vedendomene così paurosa, m'insegnò una santa e buona
orazione, e disse che provata l'avea più volte avanti che romita fosse,
e sempre l'era giovato. Ma sallo Iddio che io non avrei mai avuto ardire
d'andare sola a provarla; ma ora che tu ci se', io vo' che noi andiamo ad
incantarla -.
Gianni disse che molto gli
piacea; e levatisi, se ne vennero amenduni pianamente all'uscio, al quale ancor
di fuori Federigo, già sospettando, aspettava. E giunti quivi, disse la
donna a Gianni:
- Ora sputerai, quando io
il ti dirò -.
Disse Gianni:
- Bene -.
E la donna cominciò
l'orazione, e disse:
- Fantasima, fantasima che
di notte vai, a coda ritta ci venisti, a coda ritta te n'andrai; va nell'orto a
piè del pesco grosso, troverai unto bisunto e cento cacherelli della
gallina mia; pon bocca al fiasco e vatti via, e non far male né a me né a
Gianni mio -; e così detto, disse al marito:
- Sputa, Gianni -; e Gianni
sputò.
E Federigo, che di fuori
era e questo udiva, già di gelosia uscito, con tutta la malinconia,
aveva si gran voglia di ridere che scoppiava; e pianamente, quando Gianni
sputava, diceva:
- I denti -.
La donna, poi che in questa
guisa ebbe tre volte la fantasima incantata, al letto se ne tornò col
marito.
Federigo, che con lei di
cenar s'aspettava, non avendo cenato e avendo bene le parole della orazione
intese, se n'andò nell'orto e a piè del pesco grosso trovati i
due capponi e '1 vino e l'uova, a casa se ne gli portò e cenò a
grande agio. E poi dell'altre volte, ritrovandosi con la donna, molto di questa
incantazione rise con essolei.
Vera cosa è che
alcuni dicono che la donna aveva ben volto il teschio dello asino verso
Fiesole, ma un lavoratore, per la vigna passando, v'aveva entro dato d'un
bastone e fattol girare intorno intorno, ed era rimaso volto verso Firenze, e
per ciò Federigo, credendo esser chiamato, v'era venuto; e che la donna
aveva fatta l'orazione in questa guisa: - Fantasima, fantasima, vatti con Dio,
che la testa dell'asino non vols'io, ma altri fu, che tristo il faccia Iddio, e
io son qui con Gianni mio -; per che, andatosene, senza albergo e senza cena
era la notte rimaso.
Ma una mia vicina, la quale
è una donna molto vecchia, mi dice che l'una e l'altra fu vera, secondo
che ella aveva, essendo fanciulla, saputo; ma che l'ultimo non a Gianni
Lotteringhi era avvenuto, ma ad uno che si chiamò Gianni di Nello, che
stava in porta San Piero, non meno sofficiente lavaceci che fosse Gianni
Lotteringhi.
E per ciò, donne mie
care, nella vostra elezione sta di torre qual più vi piace delle due, o
volete amendune. Elle hanno grandissima virtù a così fatte cose,
come per esperienzia avete udito; apparatele, e potravvi ancor giovare.
Giornata settima - Novella
seconda
Peronella mette un suo
amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito
venduto, ella dice che venduto l'ha ad uno che dentro v'è a vedere se
saldo gli pare. Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi
portarsenelo a casa sua.
Con grandissime risa fu la
novella d'Emilia ascoltata e l'orazione per buona e per santa commendata da
tutti; la quale al suo fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato
che seguitasse, il quale incominciò.
Carissime donne mie, elle
son tante le beffe che gli uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che,
quando alcuna volta avviene che donna niuna alcuna al marito ne faccia, voi non
dovreste solamente esser contente che ciò fosse avvenuto o di risaperlo
o d'udirlo dire ad alcuno, ma il dovreste voi medesime andare dicendo per
tutto, acciò che per gli uomini si conosca che, se essi sanno, e le
donne d'altra parte anche sanno: il che altro che utile essere non vi
può; per ciò che, quando alcun sa che altri sappia, egli non si
mette troppo leggiermente a volerlo ingannare.
Chi dubita dunque che
ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli
uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi,
conoscendo che voi similmente, volendo, ne sapreste fare? E' adunque mia intenzion
di dirvi ciò che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse,
quasi in un momento di tempo, per salvezza di sé al marito facesse.
Egli non è ancora
guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta
chiamata Peronella, ed esso con l'arte sua, che era muratore, ed ella filando,
guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio.
Avvenne che un giovane
de'leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto,
s'innamorò di lei, e tanto in un modo e in uno altro la
sollicitò, che con essolei si dimesticò. E a potere essere
insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il
marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a
trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori; ed
essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria, dove stava, uscito
lui, egli in casa di lei se n'entrasse; e così molte volte fecero.
Ma pur tra l'altre avvenne
una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario,
ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con
Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì tornar non soleva, a casa
se ne tornò, e trovato l'uscio serrato dentro, picchiò, e dopo il
picchiare cominciò seco a dire:
- O Iddio, lodato sia tu
sempre; ché, benché tu m'abbi fatto povero, almeno m'hai tu consolato di buona
e onesta giovane di moglie. Vedi come ella tosto serrò l'uscio dentro,
come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che
noia le desse .
Peronella, sentito il
marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse:
- Ohimè, Giannel
mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci
tornò, e non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò
mai più a questa otta; forse che ti vide egli quando tu c'entrasti. Ma,
per l'amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi
costì, e io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo
vuol dire di tornare stamane così tosto a casa.
Giannello prestamente
entrò nel doglio, e Peronella andata all'uscio aprì al marito, e
con un malviso disse:
- Ora questa che novella
è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia
vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co'ferri tuoi in
mano; e, se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane?
Credi tu che io sofferi che tu m'impegni la gonnelluccia e gli altri miei
pannicelli? che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la
carne mi s'è spiccata dall'unghia, per potere almeno aver tanto olio che
n'arda la nostra lucerna. Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne
maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella
che io duro; e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti
esser a lavorare.
E così detto,
incominciò a piagnere e a dir da capo:
- Ohimè, lassa me,
dolente me, in che mal'ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto
avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non
pensa cui egli s'ha recata a casa. L'altre si danno buon tempo con gli amanti
loro, e non ce n'ha niuna che non n'abbia chi due e chi tre, e godono e
mostrano a'mariti la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e non
attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura; io non so perché
io non mi pigli di questi amanti come fanno l'altre. Intendi sanamente, marito
mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son
de'ben leggiadri che m'amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di
molti denari, o voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o
voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non
fui figliuola di donna da ciò; e tu mi torni a casa quando tu dei essere
a lavorare.
Disse il marito:
- Deh donna, non ti dar
malinconia, per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se', e pure stamane
me ne sono in parte avveduto. Egli è il vero ch'io andai per lavorare,
ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è
oggi la festa di santo Galeone, e non si lavora, e per ciò mi sono
tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che
noi avremo del pane per più d'un mese, ché io ho venduto a costui che tu
vedi qui con me co il doglio, il quale tu sai che, già è cotanto,
ha tenuta la casa impacciata, e dammene cinque gigliati.
Disse allora Peronella:
- E tutto questo è
del dolor mio: tu che se'uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del
mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non
fu'mai appena fuor dell'uscio, veggendo lo 'mpaccio che in casa ci dava, l'ho
venduto sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v'entrò
dentro per vedere se saldo era.
Quando il marito udì
questo, fu più che contento, e disse a colui che venuto era per esso:
- Buon uomo, vatti con Dio;
ché tu odi che mia mogliere l'ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro
che cinque.
Il buono uomo disse:
- In buona ora sia - ; e
andossene.
E Peronella disse al
marito:
- Vien su tu, poscia che tu
ci se', e vedi con lui insieme i fatti nostri.
Giannello, il quale stava
con gli orecchi levati per vedere se di nulla gli bisognasse temere o
provvedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del
doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò
a dire:
- Dove se', buona donna? Al
quale il marito, che già veniva, disse:
- Eccomi, che domandi tu?
Disse Giannello:
- Qual se'tu? Io vorrei la
donna con la quale io feci il mercato di questo doglio.
Disse il buono uomo:
- Fate sicuramente meco,
ché io son suo marito.
Disse allora Giannello:
- Il doglio mi par ben
saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli
è tutto impiastricciato di non so che cosa sì secca, che io non
ne posso levar con l'unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima
netto.
Disse allora Peronella:
- No, per quello non
rimarrà il mercato; mio marito il netterà tutto.
E il marito disse:
- Sì bene - ; e
posti giù i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione, si fece accendere
un lume e dare una radimadia, e fuvvi entrato dentro e cominciò a
radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo
per la bocca del doglio, che molto grande non era, e oltre a questo l'un
de'bracci con tutta la spalla, cominciò a dire:
- Radi quivi, e quivi, e
anche colà - ; e: - Vedine qui rimaso un micolino.
E mentre che così
stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva
quella mattina il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo
che come volea non potea, s'argomentò di fornirlo come potesse; e a lei
accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che
negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d'amor caldi le cavalle di Partia
assaliscono, ad effetto recò il giovinil desiderio, il quale quasi in un
medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la
Peronella tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori.
Per che Peronella disse a
Giannello:
- Te'questo lume, buono
uomo, e guata se egli è netto a tuo modo.
Giannello, guardatovi
dentro, disse che stava bene, e che egli era contento; e datigli sette
gigliati, a casa sel fece portare.
Giornata settima - Novella
terza
Frate Rinaldo si giace
colla comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli
incantava i vermini al figlioccio
Non seppe sì
Filostrato parlare oscuro delle cavalle partice, che l'avvedute donne non lo
intendessono e alquanto non ne ridessono, sembiante faccendo di rider d'altro.
Ma poi che il re conobbe la sua novella finita, ad Elissa impose che
ragionasse. La quale, disposta ad ubbidire, incominciò.
Piacevoli donne, lo
'ncantar della fantasima d'Emilia m'ha fatto tornare alla memoria una novella
d'un'altra incantagione, la quale quantunque così bella non sia come fu
quella, per ciò che altra alla nostra materia non me ne occorre al
presente, la racconterò.
Voi dovete sapere che in
Siena fu già un giovane assai leggiadro e d'orrevole famiglia, il quale
ebbe nome Rinaldo; e amando sommamente una sua vicina e assai bella donna e
moglie d'un ricco uomo, e sperando, se modo potesse avere di parlarle senza
sospetto, dovere aver da lei ogni cosa che egli disiderasse, non vedendone
alcuno ed essendo la donna gravida, pensossi di volere suo compar divenire; e
accontatosi col marito di lei, per quel modo che più onesto gli parve
gliele di se, e fu fatto.
Essendo adunque Rinaldo di
madonna Agnesa divenuto compare e avendo alquanto d'albitrio più
colorato di poterle parlare, assicuratosi, quello della sua intenzione con
parole le fece conoscere che ella molto davanti negli atti degli occhi suoi
avea conosciuto; ma poco per ciò gli valse, quantunque d'averlo udito
non dispiacesse alla donna.
Addivenne non guari poi,
che che si fosse la cagione, che Rinaldo si fece frate, e chente che egli
trovasse la pastura, egli perseverò in quello. E avvegna che egli
alquanto, di que tempi che frate si fece, avesse dall'un de'lati posto l'amore
che alla sua comar portava e certe altre sue vanità, pure in processo di
tempo, senza lasciar l'abito, se le riprese, e cominciò a dilettarsi
d'apparere e di vestir di buon panni e d'essere in tutte le sue cose
leggiadretto e ornato, e a fare delle canzoni e de'sonetti e delle ballate, e a
cantare, e tutto pieno d'altre cose a queste simili.
Ma che dico io di frate
Rinaldo nostro, di cui parliamo? Quali son quegli che così non facciano?
Ahi vitupero del guasto mondo! Essi non si vergognano d'apparir grassi,
d'apparir coloriti nel viso, d'apparir morbidi ne'vestimenti e in tutte le cose
loro; e non come colombi, ma come galli tronfi, con la cresta levata, pettoruti
procedono; e, che è peggio (lasciamo stare d'aver le lor celle piene
d'alberelli di lattovari e d'unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene,
d'ampolle e di guastadette con acque lavorate e con olii, di bottacci di
malvagìa e di greco e d'altri vini preziosissimi traboccanti, in tanto
che non celle di frati, ma botteghe di speziali o d'unguentari appaiono
più tosto a' riguardanti), essi non si vergognano che altri sappia loro
esser gottosi, e credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai,
le vivande grosse e poche e il viver sobriamente faccia gli uomini magri e sottili
e il più sani; e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte
gl'infermano, alle quali si suole per medicina dare la castità e ogni
altra cosa a vita di modesto frate appartenente. E credonsi che altri non
conosca, oltra la sottil vita, le vigilie lunghe, l'orare e il disciplinarsi
dover gli uomini pallidi e afflitti rendere; e che né san Domenico né san
Francesco, senza aver quattro cappe per uno, non di tintillani né d'altri panni
gentili, ma di lana grossa fatte e di natural colore, a cacciare il freddo e
non ad apparere si vestissero. Alle quali cose Iddio provegga, come all'anime
de'semplici che gli nutricano fa bisogno.
Così adunque
ritornato frate Rinaldo ne'primi appetiti, cominciò a visitare molto
spesso la comare; e cresciutagli baldanza, con più instanzia che prima
non faceva la cominciò a sollicitare a quello che egli di lei
disiderava.
La buona donna, veggendosi
molto sollicitare, e parendole frate Rinaldo forse più bello che non
soleva, essendo un dì molto da lui infestata, a quello ricorse che fanno
tutte quelle che voglia hanno di concedere quello che è addimandato, e
disse:
- Come! frate Rinaldo, o
fanno così fatte cose i frati?
A cui frate Rinaldo
rispose:
- Madonna, qualora io
avrò questa cappa fuor di dosso, che me la traggo molto agevolmente, io
vi parrò uno uomo fatto come gli altri, e non frate.
La donna fece bocca da
ridere, e disse:
- Ohimè trista, voi
siete mio compare; come si farebbe questo? Egli sarebbe troppo gran male; e io
ho molte volte udito che egli è troppo gran peccato; e per certo, se
ciò non fosse, io farei ciò che voi voleste.
A cui frate Rinaldo disse:
- Voi siete una sciocca, se
per questo lasciate. Io non dico che non sia peccato, ma de'maggiori perdona
Iddio a chi si pente. Ma ditemi, chi è più parente del vostro
figliuolo, o io che il tenni a battesimo, o vostro marito che il generò?
La donna rispose:
- E più suo parente
mio marito.
- E voi dite il vero, -
disse il frate - ; e vostro marito non si giace con voi?
- Mai sì, - rispose
la donna.
- Adunque, - disse il frate
- e io che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito,
così mi debbo poter giacere con voi come vostro marito.
La donna, che loica non
sapeva e di piccola levatura aveva bisogno, o credette o fece vista di credere
che il frate dicesse vero, e rispose: - Chi saprebbe rispondere alle vostre
savie parole? - ; e appresso, non ostante il comparatico, si recò a
dovere fare i suoi piaceri; né incominciarono pure una volta, ma sotto la
coverta del comparatico avendo più agio, perché la sospezione era
minore, più e più volte si ritrovarono insieme.
Ma tra l'altre una
n'avvenne che, essendo frate Rinaldo venuto a casa la donna, e vedendo quivi
niuna persona essere, altri che una fanticella della donna, assai bella e
piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco di sopra ad
insegnarle il paternostro, egli colla donna, che il fanciullin suo avea per
mano, se n'entrarono nella camera, e dentro serratisi, sopra un lettuccio da
sedere, che in quella era, s'incominciarono a trastullare.
E in questa guisa
dimorando, avvenne che il compar tornò, e senza esser sentito da alcuno,
fu all'uscio della camera, e picchiò e chiamò la donna.
Ma donna Agnesa, questo
sentendo, disse:
- Io son morta, ché ecco il
marito mio; ora si pure avvedrà egli qual sia la cagione della nostra
dimestichezza.
Era frate Rinaldo
spogliato, cioè senza cappa e senza scapolare, in tonicella, il quale
questo udendo disse:
- Voi dite vero: se io
fossi pur vestito, qualche modo ci avrebbe; ma, se voi gli aprite ed egli mi
truovi così, niuna scusa ci potrà essere.
La donna, da subito
consiglio aiutata, disse:
- Or vi vestite; e vestito
che voi siete, recatevi in braccio vostro figlioccio, e ascolterete bene
ciò che io gli dirò, sì che le vostre parole poi s'accordino
con le mie, e lasciate fare a me.
Il buono uomo non era
ristato appena di picchiare, che la moglie rispose:
- Io vengo a te; - e
levatasi, con un buon viso se n'andò all'uscio della camera e aperselo,
e disse:
- Marito mio, ben ti dico
che frate Rinaldo nostro compare ci si venne, e Iddio il ci mandò; ché
per certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro.
Quando il bescio sanctio
udì questo, tutto svenne e disse:
- Come?
- O marito mio, - disse la
donna - e'gli venne dianzi di subito uno sfinimento, che io mi credetti
ch'e'fosse morto. e non sapeva né che mi far né che mi dire; se non che frate
Rinaldo nostro compare ci venne in quella, e recatoselo in collo disse: -
Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, li quali gli s'appressano al
cuore e ucciderebbonlo troppo bene; ma non abbiate paura, ché io
gl'incanterò e farògli morir tutti, e innanzi che io mi parta di
qui voi vedrete il fanciul sano come voi vedeste mai -. E per ciò che tu
ci bisognavi per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sì
le fece dire al compagno suo nel più alto luogo della nostra casa, ed
egli e io qua entro ce n'entrammo. E per ciò che altri che la madre del
fanciullo non può essere a così fatto servigio, perché altri non
c'impacciasse, qui ci serrammo, e ancora l'ha egli in braccio, e credom'io che
egli non aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di dire l'orazioni,
e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è già tutto
tornato in sé.
Il santoccio credendo
queste cose, tanto l'affezion del figliuol lo strinse, che egli non pose
l'animo allo 'nganno fattogli dalla moglie, ma, gittato un gran sospiro, disse:
- Io il voglio andare a
vedere.
Disse la donna:
- Non andare, ché tu
guasteresti ciò che s'è fatto; aspettati, io voglio vedere se tu
vi puoi andare, e chiamerotti.
Frate Rinaldo, che ogni
cosa udito avea, ed erasi rivestito a bello agio e avevasi recato il fanciullo
in braccio, come ebbe disposte le cose a suo modo, chiamò:
- O comare, non sento io
costà il compare?
Rispose il santoccio:
- Messer sì.
- Adunque, - disse frate
Rinaldo - venite qua.
Il santoccio andò
là. Al quale frate Rinaldo disse:
- Tenete il vostro
figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu, che voi nol
vedeste vivo a vespro; e farete di far porre una statua di cera della sua
grandezza a laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio, per li
meriti del quale Iddio ve n'ha fatta grazia.
Il fanciullo, veggendo il
padre, corse a lui e fecegli festa. 3` come i fanciulli piccoli fanno; il quale
recatoselo in braccio, lagrimando non altramenti che se della fossa il traesse,
il cominciò a baciare e a render grazie al suo compare che guerito
gliele avea.
Il compagno di frate
Rinaldo, che non un paternostro, ma forse più di quattro n'aveva
insegnati alla fanticella, e donatale una borsetta di refe bianco, la quale a
lui aveva donata una monaca, e fattala sua divota, avendo udito il santoccio
alla camera della moglie chiamare, pianamente era venuto in parte della quale e
vedere e udire ciò che vi si facesse poteva; veggendo la cosa in buoni
termini, se ne venne giuso, ed entrato nella camera disse:
- Frate Rinaldo, quelle
quattro orazioni che m'imponeste, io l'ho dette tutte.
A cui frate Rinaldo disse:
- Fratel mio, tu hai buona
lena e hai fatto bene. Io per me, quando mio compar venne, non n'aveva dette
che due; ma Domenedio tra per la tua fatica e per la mia ci ha fatta grazia che
il fanciullo è guerito.
Il santoccio fece venire di
buoni vini e di confetti, e fece onore al suo compare e al compagno di
ciò che essi avevano maggior bisogno che d'altro. Poi, con loro insieme
uscito di casa, gli accomandò a Dio; e senza alcuno indugio fatta fare
la imagine di cera, la mandò ad appiccare con l'altre dinanzi alla figura
di santo Ambruogio, ma non a quel di Melano.
Giornata settima - Novella
quarta
Tofano chiude una notte
fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista
di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra. Tofano esce di casa e corre
là, ed ella in casa le n'entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il
vitupera.
Il re, come la novella
d'Elissa sentì aver fine, così senza indugio verso la Lauretta
rivolto le dimostrò che gli piacea che ella dicesse; per che essa, senza
stare, così cominciò.
O Amore, chenti e quali
sono le tue forze! Chenti i consigli e chenti gli avvedimenti! Qual filosofo,
quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare quegli argomenti, quegli
avvedimenti, quegli dimostramenti che fai tu subitamente a chi seguita le tue
orme? Certo la dottrina di qualunque altro è tarda a rispetto della tua,
sì come assai bene com prender si può nelle cose davanti
mostrate. Alle quali, amorose donne, io una n'aggiugnerò da una
semplicetta donna adoperata, tale che io non so chi altri se l'avesse potuta
mostrare che Amore.
Fu adunque già in
Arezzo un ricco uomo, il quale fu Tofano nominato. A costui fu data per moglie
una bellissima donna, il cui nome fu monna Ghita, della quale egli, senza saper
perché, prestamente divenne geloso. Di che la donna avvedendosi prese sdegno, e
più volte avendolo della cagione della sua gelosia addomandato, né egli
alcuna avendone saputa assegnare, se non cotali generali e cattive, cadde
nell'animo alla donna di farlo morire del male del quale senza cagione aveva paura.
Ed essendosi avveduta che
un giovane, secondo il suo giudicio molto da bene, la vagheggiava,
discretamente con lui s'incominciò ad intendere. Ed essendo già
tra lui e lei tanto le cose innanzi, che altro che dare effetto con opera alle
parole non vi mancava, pensò la donna di trovare similmente modo a
questo. E avendo già tra'costumi cattivi del suo marito conosciuto lui
dilettarsi di bere, non solamente gliele cominciò a commendare, ma
artatamente a sollicitarlo a ciò molto spesso. E tanto ciò prese per
uso, che, quasi ogni volta che a grado l'era, infino allo inebriarsi bevendo il
conducea; e quando bene ebbro il vedea, messolo a dormire, primieramente col
suo amante si ritrovò, e poi sicuramente più volte di ritrovarsi
con lui continuò. E tanto di fidanza nella costui ebbrezza prese, che
non solamente avea preso ardire di menarsi il suo amante in casa, ma ella
talvolta gran parte della notte s'andava con lui a dimorare alla sua, la qual
di quivi non era guari lontana.
E in questa maniera la
innamorata donna continuando, avvenne che il doloroso marito si venne
accorgendo che ella, nel confortare lui a bere, non beveva però essa
mai; di che egli prese sospetto non così fosse come era, cioè che
la donna lui inebriasse per poter poi fare il piacer suo mentre egli
addormentato fosse. E volendo di questo, se così fosse, far pruova,
senza avere il dì bevuto, una sera tornò a casa mostrandosi il
più ebbro uomo, e nel parlare e ne'modi, che fosse mai; il che la donna
credendo né estimando che più bere gli bisognasse a ben dormire, il mise
prestamente a letto. E fatto ciò, secondo che alcuna volta era usata di
fare, uscita di casa, alla casa del suo amante se n'andò, e quivi infino
alla mezza notte dimorò.
Tofano, come la donna non
vi sentì, così si levò, e andatosene alla sua porta,
quella serrò dentro e posesi alle finestre, acciò che tornare
vedesse la donna e le facesse manifesto che egli si fosse accorto delle maniere
sue; e tanto stette che la donna tornò. La quale, tornando a casa e trovandosi
serrata di fuori, fu oltre modo dolente, e cominciò a tentare se per
forza potesse l'uscio aprire.
Il che poi che Tofano
alquanto ebbe sofferto, disse:
- Donna, tu ti fatichi
invano, per ciò che qua entro non potrai tu entrare. Va, tornati
là dove infino ad ora se'stata, e abbi per certo che tu non ci tornerai
mai, infino a tanto che io di questa cosa, in presenza de'parenti tuoi e
de'vicini, te n'avrò fatto quello onore che ti si conviene.
La donna lo
'ncominciò a pregar per l'amor di Dio che piacer gli dovesse d'aprirle.
per ciò che ella non veniva donde s'avvisava, ma da vegghiare con una
sua vicina, per ciò che le notti eran grandi ed ella non le poteva
dormir tutte, né sola in casa vegghiare.
Li prieghi non giovavano
nulla, per ciò che quella bestia era pur disposto a volere che tutti gli
aretin sapessero la loro vergogna, laddove niun la sapeva. La donna, veggendo
che il pregar non le valeva, ricorse al minacciare e disse:
- Se tu non m'apri, io ti
farò il più tristo uom che viva.
A cui Tofano rispose:
- E che mi potresti tu
fare?
La donna, alla quale Amore
aveva già aguzzato co'suoi consigli lo 'ngegno, rispose:
- Innanzi che io voglia
sofferire la vergogna che tu mi vuoi fare ricevere a torto, io mi
gitterò in questo pozzo che qui è vicino, nel quale poi essendo
trovata morta, niuna persona sarà che creda che altri che tu, per
ebbrezza, mi v'abbia gittata; e così o ti converrà fuggire e
perdere ciò che tu hai ed essere in bando, o converrà che ti sia
tagliata la testa, sì come a micidial di me che tu veramente sarai
stato.
Per queste parole niente si
mosse Tofano dalla sua sciocca oppinione. Per la qual cosa la donna disse:
- Or ecco, io non posso
più sofferire questo tuo fastidio; Dio il ti perdoni; farai riporre
questa mia rocca che io lascio qui.
E questo detto, essendo la
notte tanto oscura che appena si sarebbe potuto veder l'un l'altro per la via,
se n'andò la donna verso il pozzo, e presa una grandissima pietra che a
piè del pozzo era, gridando: - Iddio, perdonami - , la lasciò
cadere entro nel pozzo. La pietra giugnendo nell'acqua fece un grandissimo
romore; il quale come Tofano udì, credette fermamente che essa gittata
vi si fosse; per che, presa la secchia con la fune, subitamente si gittò
di casa per aiutarla, e corse al pozzo. La donna, che presso all'uscio della
sua casa nascosa s'era, come il vide correre al pozzo, così
ricoverò in casa e serrossi dentro e andossene alle finestre e
cominciò a dire: - Egli si vuole inacquare quando altri il bee, non
poscia la notte.-
Tofano, udendo costei, si tenne
scornato e tornossi all'uscio; e non potendovi entrare, le cominciò a
dire che gli aprisse.
Ella, lasciato stare il
parlar piano come infino allora aveva fatto, quasi gridando cominciò a
dire:
- Alla croce di Dio,
ubriaco fastidioso, tu non c'enterrai stanotte; io non posso più
sofferire questi tuoi modi; egli convien che io faccia vedere ad ogn'uomo chi
tu se' e a che ora tu torni la notte a casa.
Tofano d'altra parte
crucciato le 'ncominciò a dir villania e a gridare; di che i vicini,
sentendo il romore, si levarono, e uomini e donne, e fecersi alle finestre e
domandarono che ciò fosse.
La donna cominciò
piagnendo a dire: - Egli è questo reo uomo, il quale mi torna ebbro la
sera a casa, o s'addormenta per le taverne e poscia torna a questa otta; di che
io avendo lungamente sofferto e dettogli molto male e non giovandomi, non
potendo più sofferire, ne gli ho voluta fare questa vergogna di serrarlo
fuor di casa, per vedere se egli se ne ammenderà.
Tofano bestia, d'altra
parte, diceva come il fatto era stato, e minacciava forte.
La donna co'suoi vicini
diceva: - Or vedete che uomo egli è! Che direste voi se io fossi nella
via come è egli, ed egli fosse in casa come sono io? In fè di Dio
che io dubito che voi non credeste che egli dicesse il vero. Ben potete a
questo conoscere il senno suo. Egli dice appunto che io ho fatto ciò che
io credo che egli abbia fatto egli. Egli mi credette spaventare col gittare non
so che nel pozzo; ma or volesse Iddio che egli vi si fosse gittato da dovero e
affogato, sì che il vino, il quale egli di soperchio ha bevuto, si fosse
molto bene inacquato.
I vicini, e gli uomini e le
donne, cominciaro a riprender tutti Tofano, e a dar la colpa a lui e a dirgli
villania di ciò che contro alla donna diceva; e in brieve tanto
andò il romore di vicino in vicino, che egli pervenne infino a'parenti
della donna.
Li quali venuti là,
e udendo la cosa e da un vicino e da altro, presero Tofano e diedergli tante
busse che tutto il ruppono. Poi, andati in casa, presero le cose della donna e
con lei si ritornarono a casa loro, minacciando Tofano di peggio.
Tofano, veggendosi mal
parato, e che la sua gelosia l'aveva mal condotto, sì come quegli che
tutto 'l suo ben voleva alla donna, ebbe alcuni amici mezzani, e tanto
procacciò che egli con buona pace riebbe la donna a casa sua alla quale
promise di mai più non esser geloso; e oltre a ciò le diè
licenza che ogni suo piacer facesse, ma sì saviamente, che egli non se
ne avvedesse. E così, a modo del villan matto, dopo danno fe' patto. E
viva amore, e muoia soldo e tutta la brigata.
Giornata settima - Novella
quinta
Un geloso in forma di prete
confessa la moglie, al quale ella dà a vedere che ama un prete che viene
a lei ogni notte; di che mentre che il geloso nascostamente prende guardia
all'uscio, la donna per lo tetto si fa venire un suo amante, e con lui si
dimora.
Posto avea fine la Lauretta
al suo ragionamento, e avendo già ciascun commendata la donna che ella
bene avesse fatto e come a quel cattivo si conveniva, il re, per non perder
tempo, verso la Fiammetta voltatosi, piacevolmente il carico le 'mpose del
novellare; per la qual cosa ella così cominciò.
Nobilissime donne, la
precedente novella mi tira a dovere io similmente ragionar d'un geloso,
estimando che ciò che si fa loro dalle loro donne, e massimamente quando
senza cagione ingelosiscono, esser ben fatto. E se ogni cosa avessero i
componitori delle leggi guardata, giudico che in questo essi dovessero alle
donne non altra pena avere constituta che essi constituirono a colui che alcuno
offende sé difendendo; per ciò che i gelosi sono insidiatori della vita
delle giovani donne e diligentissimi cercatori della lor morte.
Esse stanno tutta la
settimana rinchiuse e attendono alle bisogne familiari e domestiche,
disiderando, come ciascun fa, d'aver poi il dì delle feste alcuna
consolazione, alcuna quiete, e di potere alcun diporto pigliare, sì come
prendono i lavoratori dei campi, gli artefici delle città e i reggitori
delle corti; come fece Iddio, che il dì settimo da tutte le sue fatiche
si riposò; e come vogliono le leggi sante e le civili, le quali, allo
onor di Dio e al ben comune di ciascun riguardando, hanno i dì delle
fatiche distinti da quegli del riposo. Alla qual cosa fare niente i gelosi
consentono, anzi quegli dì che a tutte l'altre son lieti, fanno ad esse,
più serrate e più rinchiuse tenendole, esser più miseri e
più dolenti; il che quanto e qual consumamento sia delle cattivelle
quelle sole il sanno che l'hanno provato. Perché, conchiudendo, ciò che
una donna fa ad un marito geloso a torto, per certo non condennare ma
commendare si dovrebbe.
Fu adunque in Arimino un
mercatante, ricco e di possessioni e di denari assai, il quale avendo una
bellissima donna per moglie, di lei divenne oltre misura geloso: né altra
cagione a questo avea se non che, come egli molto l'amava e molto bella la
teneva e conosceva che ella con tutto il suo studio s'ingegnava di piacergli,
così estimava che ogn'uomo l'amasse, e che ella a tutti paresse bella e
ancora che ella s'ingegnasse così di piacere altrui come a lui. E
così ingelosito tanta guardia ne prendeva e sì stretta la tenea,
che forse assai son di quegli che a capital pena son dannati, che non sono
da'pregionieri con tanta guardia servati.
La donna, lasciamo stare
che a nozze o a festa o a chiesa andar potesse, o il piè della casa
trarre in alcun modo, ma ella non osava farsi ad alcuna finestra né fuor della
casa guardare per alcuna cagione; per la qual cosa la vita sua era pessima, ed
essa tanto più impaziente sosteneva questa noia, quanto meno si sentiva
nocente.
Per che, veggendosi a torto
fare ingiuria al marito, s avvisò, a consolazion di sé medesima, di
trovar modo (se alcuno ne potesse trovare) di far sì che a ragione le
fosse fatto. E per ciò che a finestra far non si potea, e così
modo non avea di potersi mostrare contenta dello amore d'alcuno che atteso
l'avesse per la sua contrada passando, sappiendo che nella casa la quale era
allato alla sua aveva alcun giovane e bello e piacevole, si pensò, se
pertugio alcun fosse nel muro che la sua casa divideva da quella, di dovere per
quello tante volte guatare, che ella vedrebbe il giovane in atto da potergli
parlare, e di donargli il suo amore, se egli il volesse ricevere; e se modo vi
si potesse vedere, di ritrovarsi con lui alcuna volta, e in questa maniera
trapassare la sua malvagia vita infino a tanto che il fistolo uscisse da dosso
al suo marito.
E venendo ora in una parte
e ora in una altra, quando il marito non v'era, il muro della casa guardando,
vide per avventura in una parte assai segreta di quella il muro alquanto da una
fessura esser aperto; per che, riguardando per quella, ancora che assai male
discerner potesse dall'altra parte, pur s'avvide che quivi era una camera dove
capitava la fessura, e seco disse: - Se questa fosse la camera di Filippo -
(cioè del giovane suo vicino) - io sarei mezza fornita -.E cautamente da
una sua fante, a cui di lei incresceva, ne fece spiare, e trovò che
veramente il giovane in quella dormiva tutto solo; per che, visitando la
fessura spesso, e, quando il giovane vi sentiva, faccendo cader pietruzze e
cotali fuscellini, tanto fece che, per veder che ciò fosse, il giovane
venne quivi. Il quale ella pianamente chiamò; ed egli che la sua voce
conobbe, le rispose; ed ella, avendo spazio, in brieve tutto l'animo suo gli
aprì. Di che il giovane contento assai, sì fece che dal suo lato
il pertugio si fece maggiore, tuttavia in guisa faccendo che alcuno avvedere
non se ne potesse; e quivi spesse volte insieme si favellavano e toccavansi la
mano, ma più avanti per la solenne guardia del geloso non si poteva.
Ora, appressandosi la festa
del Natale, la donna disse al marito che, se gli piacesse, ella voleva andar la
mattina della pasqua alla chiesa e confessarsi e comunicarsi come fanno gli
altri cristiani.
Alla quale il geloso disse:
- E che peccati ha'tu
fatti, che tu ti vuoi confessare?
Disse la donna:
- Come! Credi tu che io sia
santa, perché tu mi tenghi rinchiusa? Ben sai che io fo de'peccati come l'altre
persone che ci vivono, ma io non gli vo'dire a te, ché tu non se'prete.
Il geloso prese di queste
parole sospetto e pensossi di voler saper che peccati costei avesse fatti e
avvisossi del modo nel quale ciò gli verrebbe fatto; e rispose che era
contento, ma che non volea che ella andasse ad altra chiesa che alla cappella
loro; e quivi andasse la mattina per tempo e confessassesi o dal cappellan loro
o da quel prete che il cappellan le desse e non da altrui, e tornasse di
presente a casa. Alla donna pareva mezzo avere inteso; ma, senza altro dire,
rispose che sì farebbe.
Venuta la mattina della
pasqua, la donna si levò in su l'aurora e acconciossi e andossene alla
chiesa impostale dal marito. Il geloso d'altra parte levatosi se n'andò
a quella medesima chiesa e fuvvi prima di lei; e avendo già col prete di
là entro composto ciò che far voleva, messasi prestamente una
delle robe del prete indosso con un cappuccio grande a gote, come noi veggiamo
che i preti portano, avendosel tirato un poco innanzi, si mise a stare in coro.
La donna venuta alla chiesa
fece domandare il prete. Il prete venne, e udendo dalla donna che confessar si
volea, disse che non potea udirla, ma che le manderebbe un suo compagno; e
andatosene, mandò il geloso nella sua malora. Il quale molto contegnoso
vegnendo, ancora che egli non fosse molto chiaro il dì ed egli s'avesse
molto messo il cappuccio innanzi agli occhi, non si seppe sì occultare
che egli non fosse prestamente conosciuto dalla donna; la quale, questo
vedendo, disse seco medesima: - Lodato sia Iddio, che costui di geloso è
divenuto prete; ma pure lascia fare, ché io gli darò quello che egli va
cercando -. Fatto adunque sembiante di non conoscerlo, gli si pose a sedere
a'piedi.
Messer lo geloso s'avea
messe alcune petruzze in bocca, acciò che esse alquanto la favella gli
'mpedissero, sì che egli a quella dalla moglie riconosciuto non fosse,
parendogli in ogn'altra cosa sì del tutto esser divisato che esser da
lei riconosciuto a niun partito credeva.
Or venendo alla
confessione, tra l'altre cose che la donna gli disse, avendogli prima detto
come maritata era, si fu che ella era innamorata d'un prete, il quale ogni
notte con lei s'andava a giacere.
Quando il geloso udì
questo, e'gli parve che gli fosse dato d'un coltello nel cuore; e se non fosse
che volontà lo strinse di saper più innanzi, egli avrebbe la
confessione abbandonata andatosene. Stando adunque fermo domandò la
donna:
- E come? Non giace vostro
marito con voi?
La donna rispose:
- Messer sì.
- Adunque, - disse '1
geloso - come vi puote anche il prete giacere?
- Messere, - disse la donna
- il prete con che arte il si faccia non so, ma egli non è in casa uscio
sì serrato che, come egli il tocca, non s'apra; e dicemi egli che,
quando egli è venuto a quello della camera mia, anzi che egli l'apra,
egli dice certe parole per le quali il mio marito incontanente s'addormenta, e
come addormentato il sente, così apre l'uscio e viensene dentro e stassi
con meco, e questo non falla mai.
Disse allora il geloso:
- Madonna, questo è
mal fatto, e del tutto egli ve ne conviene rimanere.
A cui la donna disse:
- Messere, questo non
crederrei io mai poter fare, per ciò che io l'amo troppo.
- Dunque, - disse il geloso
- non vi potrò io assolvere.
A cui la donna disse:
- Io ne son dolente: io non
venni qui per dirvi le bugie; se io il credessi poter fare, io il vi direi.
Disse allora il geloso:
- In verità,
madonna, di voi m'incresce, ché io vi veggio a questo partito perder l'anima;
ma io, in servigio di voi, ci voglio durar fatica in far mie orazioni speziali
a Dio in vostro nome, le quali forse vi gioveranno; e sì vi
manderò alcuna volta un mio cherichetto, a cui voi direte se elle vi
saranno giovate o no; e se elle vi gioveranno, sì procederemo innanzi.
A cui la donna disse:
- Messer, cotesto non fate
voi che voi mi mandiate persona a casa, ché, se il mio marito il risapesse,
egli è sì forte geloso che non gli trarrebbe del capo tutto il
mondo che per altro che per male vi si venisse, e non avrei ben con lui di
questo anno.
A cui il geloso disse:
- Madonna, non dubitate di
questo, ché per certo io terrò sì fatto modo, che voi non ne
sentirete mai parola da lui.
Disse allora la donna:
- Se questo vi dà il
cuore di fare, io son contenta - ; e fatta la confessione e presa la
penitenzia, e da'piè levataglisi, se n'andò a udire la messa.
Il geloso soffiando con la
sua mala ventura s'andò a spogliare i panni del prete, e tornossi a
casa, disideroso di trovar modo da dovere il prete e la moglie trovare insieme,
per fare un mal giuoco e all'uno e all'altro. La donna tornò dalla
chiesa, e vide bene nel viso al marito che ella gli aveva data la mala pasqua;
ma egli, quanto poteva, s'ingegnava di nasconder ciò che fatto avea e
che saper gli parea.
E avendo seco stesso
diliberato di dover la notte vegnente star presso all'uscio della via ad
aspettare se il prete venisse, disse alla donna:
- A me conviene questa sera
essere a cena e ad albergo altrove, e per ciò serrerai ben l'uscio da
via e quello da mezza scala e quello della camera, e quando ti parrà
t'andrai a letto.
La donna rispose:
- In buon'ora.
E quando tempo ebbe se
n'andò alla buca e fece il cenno usato, il quale come Filippo
sentì, così di presente a quel venne. Al quale la donna disse
ciò che fatto avea la mattina, e quello che il marito appresso mangiare
l'aveva detto, e poi disse:
- Io son certa che egli non
uscirà di casa, ma si metterà a guardia dell'uscio; e per
ciò truova modo che su per lo tetto tu venghi stanotte di qua, sì
che noi siamo insieme.
Il giovane, contento molto
di questo fatto, disse:
- Madonna, lasciate far me.
Venuta la notte, il geloso
con sue armi tacitamente si nascose in una camera terrena, e la donna avendo
fatti serrar tutti gli usci, e massimamente quello da mezza scala, acciò
che il geloso su non potesse venire, quando tempo le parve, il giovane per via
assai cauta dal suo lato se ne venne, e andaronsi a letto, dandosi l'un
dell'altro piacere e buon tempo; e venuto il dì, il giovane se ne
tornò in casa sua.
Il geloso, dolente e senza
cena, morendo di freddo, quasi tutta la notte stette con le sue armi allato
all'uscio ad aspettare se il prete venisse; e appressandosi il giorno, non
potendo più vegghiare, nella camera terrena si mise a dormire.
Quindi vicin di terza
levatosi, essendo già l'uscio della casa aperto faccendo sembiante di
venire altronde, se ne salì in casa sua e desinò. E poco appresso
mandato un garzonetto, a guisa che stato fosse il cherico del prete che confessata
l'avea, la mandò dimandando se colui cui ella sapeva più venuto
vi fosse.
La donna, che molto bene
conobbe il messo, rispose che venuto non v'era quella notte, e che, se
così facesse, che egli le potrebbe uscir di mente, quantunque ella non
volesse che di mente l'uscisse.
Ora che vi debbo dire? Il
geloso stette molte notti per volere giugnere il prete all'entrata, e la donna
continuamente col suo amante dandosi buon tempo. Alla fine il geloso, che
più sofferir non poteva, con turbato viso domandò la moglie ciò
che ella avesse al prete detto la mattina che confessata s'era. La donna
rispose che non gliele voleva dire, per ciò che ella non era onesta cosa
né convenevole.
A cui il geloso disse:
- Malvagia femina, a
dispetto di te io so ciò che tu gli dicesti; e convien del tutto che io
sappia chi è il prete di cui tu tanto se'innamorata e che teco per suoi
incantesimi ogni notte si giace, o io ti segherò le veni.
La donna disse che non era
vero che ella fosse innamorata d'alcun prete.
- Come! - disse il geloso -
non dicestù così e così al prete che ti confessò?
La donna disse:
- Non che egli te l'abbia
ridetto, ma egli basterebbe, se tu fossi stato presente, mai sì, che io
gliele dissi.
- Dunque, - disse il geloso
- dimmi chi è questo prete, e tosto.
La donna cominciò a
sorridere, e disse:
- Egli mi giova molto
quando un savio uomo è da una donna semplice menato come si mena un
montone per le corna in beccheria; benché tu non se'savio, né fosti da quella
ora in qua che tu ti lasciasti nel petto entrare il maligno spirito della
gelosia, senza saper perché; e tanto quanto tu se'più sciocco e
più bestiale, cotanto ne diviene la gloria mia minore.
Credi tu, marito mio, che
io sia cieca degli occhi della testa, come tu se'cieco di quegli della mente?
Certo no; e vedendo conobbi chi fu il prete che mi confessò, e so che tu
fosti desso tu; ma io mi puosi in cuore di darti quello che tu andavi cercando,
e dieditelo. Ma, se tu fussi stato savio come esser ti pare, non avresti per
quel modo tentato di sapere i segreti della tua buona donna, e, senza prender
vana sospezion, ti saresti avveduto di ciò che ella ti confessava
così essere il vero, senza avere ella in cosa alcuna peccato.
Io ti dissi che io amava un
prete: e non eri tu, il quale io a gran torto amo, fatto prete? Dissiti che
niuno uscio della mia casa gli si poteva tener serrato quando meco giacer
volea: e quale uscio ti fu mai in casa tua tenuto quando tu colà dove io
fossi se'voluto venire? Dissiti che il prete si giaceva ogni notte con meco: e
quando fu che tu meco non giacessi? E quante volte il tuo cherico a me
mandasti, tante sai quante tu meco non fosti, ti mandai a dire che il prete
meco stato non era. Quale smemorato altri che tu, che alla gelosia tua t'hai
lasciato accecare, non avrebbe queste cose intese? E se' ti stato in casa a far
la notte la guardia all'uscio, e a me credi aver dato a vedere che tu altrove
andato sii a cena e ad albergo.
Ravvediti oggimai, e torna
uomo come tu esser solevi, e non far far beffe di te a chi conosce i modi tuoi
come fo io, e lascia star questo solenne guardar che tu fai; ché io giuro a
Dio, se voglia me ne venisse di porti le corna, se tu avessi cento occhi come
tu n'hai due, e'mi darebbe il cuore di fare i piacer miei in guisa che tu non
te ne avvedresti.
Il geloso cattivo, a cui
molto avvedutamente pareva avere il segreto della donna sentito, udendo questo,
si tenne scornato; e senza altro rispondere, ebbe la donna per buona e per
savia; e quando la gelosia gli bisognava del tutto se la spogliò, così
come, quando bisogno non gli era, se l'aveva vestita. Per che la savia donna,
quasi licenziata ai suoi piaceri, senza far venire il suo amante su per lo
tetto, come vanno le gatte, ma pur per l'uscio, discretamente operando, poi
più volte con lui buon tempo e lieta vita si diede.
Giornata settima - Novella
sesta
Madonna Isabella con
Leonetto standosi, amata da un messer Lambertuccio, è da lui visitata; e
tornando il marito di lei, messer Lambertuccio con un coltello in mano fuor di
casa ne manda, e il marito di lei poi Leonetto accompagna.
Maravigliosamente era
piaciuta a tutti la novella della Fiammetta, affermando ciascuno ottimamente la
donna aver fatto, e quel che si convenia al bestiale uomo; ma poi che finita
fu, il re a Pampinea impose che seguitasse. La quale incominciò a dire.
Molti sono, li quali,
semplicemente parlando, dicono che Amore trae altrui del senno e quasi chi ama
fa divenire smemorato. Sciocca oppinione mi pare; e assai le già dette
cose l'hanno mostrato; e io ancora intendo di dimostrarlo.
Nella nostra città,
copiosa di tutti i beni, fu già una giovane donna e gentile e assai
bella, la qual fu moglie d'un cavaliere assai valoroso e da bene. E come spesso
avviene che s sempre non può l'uomo usare un cibo, ma talvolta disidera
di variare; non soddisfaccendo a questa donna molto il suo marito,
s'innamorò d'un giovane, il quale Leonetto era chiamato, assai piacevole
e costumato, come che di gran nazion non fosse, ed egli similmente
s'innamorò di lei; e come voi sapete che rade volte è senza effetto
quello che vuole ciascuna delle parti, a dare al loro amor compimento molto
tempo non si interpose.
Ora avvenne che, essendo
costei bella donna e avvenevole, di lei un cavalier chiamato messer
Lambertuccio s'innamorò forte, il quale ella, per ciò che
spiacevole uomo e sazievole le parea, per cosa del mondo ad amar lui disporre
non si potea. Ma costui con ambasciate sollicitandola molto, e non valendogli,
essendo possente uomo, la mandò minacciando di vituperarla se non
facesse il piacer suo. Per la qual cosa la donna, temendo e conoscendo come
fatto era, si condusse a fare il voler suo. Ed essendosene la donna, che
madonna Isabella avea nome, andata, come nostro costume è di state, a
stare ad una sua bellissima possessione in contado, avvenne, essendo una
mattina il marito di lei cavalcato in alcun luogo per dovere stare alcun
giorno, che ella mandò per Leonetto che si venisse a star con lei, il
quale lietissimo incontanente v'andò.
Messer Lambertuccio,
sentendo il marito della donna essere andato altrove, tutto solo montato a
cavallo, a lei se n'andò e picchiò alla porta.
La fante della donna,
vedutolo, n'andò incontanente a lei, che in camera era con Leonetto, e
chiamatala le disse:
- Madonna, messer
Lambertuccio è qua giù tutto solo.
La donna, udendo questo, fu
la più dolente femina del mondo; ma, temendol forte, pregò
Leonetto che grave non gli fosse il nascondersi alquanto dietro alla cortina
del letto, in fino a tanto che messer Lambertuccio se n'andasse.
Leonetto, che non minor
paura di lui avea che avesse la donna, vi si nascose; ed ella comandò
alla fante che andasse ad aprire a messer Lambertuccio: la quale apertogli, ed
egli nella corte smontato d'un suo pallafreno e quello appiccato ivi ad uno
arpione, se ne salì suso. La donna, fatto buon viso e venuta infino in
capo della scala, quanto più potè in parole lietamente il
ricevette e domandollo quello che egli andasse faccendo. Il cavaliere,
abbracciatala e baciatala, disse:
- Anima mia, io intesi che
vostro marito non c'era, sì ch'io mi son venuto a stare alquanto con
essovoi. - E dopo queste parole, entratisene in camera e serratisi dentro,
cominciò messer Lambertuccio a prender diletto di lei.
E così con lei
standosi, tutto fuori della credenza della donna, avvenne che il marito di lei
tornò; il quale quando la fante alquanto vicino al palagio vide,
così subitamente corse alla camera della donna e disse:
- Madonna, ecco messer che
torna: io credo che egli sia già giù nella corte. La donna, udendo questo e sentendosi aver due
uomini in casa, e conosceva che il cavaliere non si poteva nascondere per lo
suo pallafreno che nella corte era, si tenne morta. Nondimeno, subitamente
gittatasi del letto in terra, prese partito, e disse a messer Lambertuccio:
- Messere, se voi mi volete
punto di bene e voletemi da morte campare, farete quello che io vi dirò.
Voi vi recherete in mano il vostro coltello ignudo, e con un mal viso e tutto
turbato ve n'andrete giù per le scale, e andrete dicendo: - Io fo boto a
Dio che io il coglierò altrove -; e se mio marito vi volesse ritenere o
di niente vi domandasse, non dite altro che quello che detto v'ho, e montato a
cavallo, per niuna cagione seco ristate.
Messer Lambertuccio disse
che volentieri; e tirato fuori i coltello, tutto infocato nel viso tra per la
fatica durata e per l'ira avuta della tornata del cavaliere, come la donna
gl'impose così fece. Il marito della donna, già nella corte
smontato, maravigliandosi del pallafreno e volendo su salire, vide messer
Lambertuccio scendere, e maravigliossi e delle parole e del viso di lui, e
disse:
- Che è questo
messere?
Messer Lambertuccio, messo
il piè nella staffa e montato su, non disse altro, se non:
- Al corpo di Dio, io il
giugnerò altrove - ; e andò via.
Il gentile uomo montato su
trovò la donna sua in capo della scala tutta sgomentata e piena di
paura, alla quale egli disse:
- Che cosa è questa?
Cui va messer Lambertuccio così adirato minacciando?
La donna, tiratasi verso la
camera, acciò che Leonetto l'udisse, rispose:
- Messere, io non ebbi mai
simil paura a questa. Qua entro si fuggì un giovane, il quale io non
conosco e che esser Lambertuccio col coltello in man seguitava, e trovò
per ventura questa camera aperta, e tutto tremante disse: - Madonna, per Dio
aiutatemi, ché io non sia nelle braccia vostre morto ». Io mi levai diritta, e
come il voleva domandare chi fosse e che avesse, ed ecco messer Lambertuccio
venir su dicendo: - Dove se', traditore? - Io mi parai in su l'uscio della
camera, e volendo egli entrar dentro, il ritenni, ed egli in tanto fu cortese
che, come vide che non mi piaceva che egli qua entro entrasse, dette molte
parole, se ne venne giù come voi vedeste.
Disse allora il marito:
- Donna, ben facesti:
troppo ne sarebbe stato gran biasimo, se persona fosse stata qua entro uccisa;
e messer Lambertuccio fece gran villania a seguitar persona che qua entro
fuggita fosse.
Poi domandò dove
fosse quel giovane.
La donna rispose:
- Messere, io non so dove
egli si sia nascoso.
Il cavaliere allora disse:
- Ove se'tu? Esci fuori
sicuramente.
Leonetto che ogni cosa
udita avea, tutto pauroso, come colui che paura aveva avuta da dovero,
uscì fuori del luogo dove nascoso s'era.
Disse allora il cavaliere:
- Che hai tu a fare con
messer Lambertuccio?
Il giovane rispose:
- Messer, niuna cosa che
sia in questo mondo; e per ciò io credo fermamente che egli non sia in
buon senno, o che egli m'abbia colto in iscambio; per ciò che, come poco
lontano da questo palagio nella strada mi vide, così mise mano al
coltello, e disse: - Traditor, tu se'morto -. Io non mi posi a domandare per
che cagione, ma quanto potei cominciai a fuggire e qui me ne venni dove, mercé
di Dio e di questa gentil donna, scampato sono.
Disse allora il cavaliere:
- Or via, non aver paura
alcuna; io ti porrò a casa tua sano e salvo, e tu poi sappi far cercar
quello che con lui hai a fare.
E, come cenato ebbero,
fattol montare a cavallo, a Firenze il ne menò, e lasciollo a casa sua.
Il quale, secondo l'ammaestramento della donna avuto, quella sera medesima
parlò con messer Lambertuccio occultamente, e sì con lui
ordinò, che quantunque poi molte parole ne fossero, mai per ciò
il cavalier non s'accorse della beffa fattagli dalla moglie.
Giornata settima - Novella
settima
Lodovico discuopre a
madonna Beatrice l'amore il quale egli le porta; la qual manda Egano suo marito
in un giardino in forma di sé, e con Lodovico si giace; il quale poi levatosi,
va e bastona Egano nel giardino.
Questo avvedimento di
madonna Isabella da Pampinea raccontato fu da ciascun della brigata tenuto
maraviglioso. Ma Filomena, alla quale il re imposto aveva che secondasse,
disse.
Amorose donne, se io non ne
sono ingannata, io ve ne credo uno non men bello raccontare, e prestamente.
Voi dovete sapere che in
Parigi fu già un gentile uomo fiorentino, il quale per povertà
divenuto era mercatante, ed eragli sì bene avvenuto della mercatantia,
che egli ne era fatto ricchissimo, e avea della sua donna un figliuol senza
più, il quale egli aveva nominato Lodovico. E perché egli alla
nobiltà del padre e non alla mercatantia si traesse, non l'aveva il
padre voluto mettere ad alcun fondaco, ma l'avea messo ad essere con altri
gentili uomini al servigio del re di Francia, là dove egli assai di
be'costumi e di buone cose aveva apprese.
E quivi dimorando, avvenne
che certi cavalieri, li quali tornati erano dal Sepolcro, sopravvenendo ad un
ragionamento di giovani, nel quale Lodovico era, e udendogli fra sé ragionare
delle belle donne di Francia e d'Inghilterra e d'altre parti del mondo,
cominciò l'un di loro a dir che per certo di quanto mondo egli aveva
cerco e di quante donne vedute aveva mai, una simigliante alla moglie d'Egano
de'Galluzzi di Bologna, madonna Beatrice chiamata, veduta non avea di bellezza;
a che tutti i compagni suoi, che con lui insieme in Bologna l'avean veduta,
s'accordarono.
Le quali cose ascoltando
Lodovico, che d'alcuna ancora innamorato non s'era, s'accese in tanto disidero
di doverla vedere, che ad altro non poteva tenere il suo pensiere; e del tutto
disposto d'andare infino a Bologna a vederla, e quivi ancora dimorare, se ella
gli piacesse, fece veduto al padre che al Sepolcro voleva andare; il che con
grandissima malagevolezza ottenne.
Postosi adunque nome Anichino,
a Bologna pervenne, e, come la fortuna volle, il dì seguente vide questa
donna ad una festa, e troppo più bella gli parve assai che stimato non
avea; per che, innamoratosi ardentissimamente di lei, propose di mai di Bologna
non partirsi se egli il suo amore non acquistasse. E seco divisando che via
dovesse a ciò tenere, ogn'altro modo lasciando stare, avvisò che,
se divenir potesse famigliar del marito di lei, il qual molti ne teneva, per
avventura gli potrebbe venir fatto quel che egli disiderava.
Venduti adunque i suoi
cavalli, e la sua famiglia acconcia in guisa che stava bene, avendo lor
comandato che sembiante facessero di non conoscerlo, essendosi accontato con
l'oste suo, gli disse che volentier per servidore d'un signore da bene, se
alcun ne potesse trovare, starebbe. Al quale l'oste disse:
- Tu se'dirittamente
famiglio da dovere esser caro ad un gentile uomo di questa terra che ha nome
Egano, il quale molti ne tiene, e tutti li vuole appariscenti come tu se': io
ne gli parlerò.
E come disse così
fece; e avanti che da Egano si partisse, ebbe con lui acconcio Anichino; il che
quanto più poté esser gli fu caro. E con Egano dimorando e avendo copia
di vedere assai spesso la sua donna, tanto bene e sì a grado
cominciò a servire Egano, che egli gli pose tanto amore, che senza lui
niuna cosa sapeva fare; e non solamente di sé, ma di tutte le sue cose gli
aveva commesso il governo.
Avvenne un giorno che,
essendo andato Egano ad uccellare e Anichino rimaso a casa, madonna Beatrice,
che dello amor di lui accorta non s'era ancora quantunque seco, lui e'suoi
costumi guardando, più volte molto commendato l'avesse e piacessele, con
lui si mise a giucare a'scacchi; e Anichino, che di piacerle disiderava, assai
acconciamente faccendolo, si lasciava vincere, di che la donna faceva
maravigliosa festa. Ed essendosi da vedergli giucare tutte le femine della
donna partite, e soli giucando lasciatigli, Anichino gittò un
grandissimo sospiro.
La donna guardatolo disse:
- Che avesti, Anichino?
Duolti così che io ti vinco?
- Madonna, - rispose
Anichino - troppo maggior cosa che questa non è fu cagion del mio
sospiro.
Disse allora la donna:
- Deh dilmi per quanto ben
tu mi vuogli.
Quando Anichino si
sentì scongiurare - per quanto ben tu mi vuogli - a colei la quale egli
sopra ogn'altra cosa amava, egli ne mandò fuori un troppo maggiore che
non era stato il primo; per che la donna ancor da capo il ripregò che
gli piacesse di dirle qual fosse la cagione de'suoi sospiri. Alla quale
Anichino disse:
- Madonna, io temo forte
che egli non vi sia noia, se io il vi dico; e appresso dubito che voi ad altra
persona nol ridiciate.
A cui la donna disse:
- Per certo egli non mi
sarà grave, e renditi sicuro di questo, che cosa che tu mi dica, se non
quanto ti piaccia, io non dirò mai ad altrui.
Allora disse Anichino:
- Poi che voi mi promettete
così, e io il vi dirò - ; e quasi colle lagrime in sugli occhi le
disse chi egli era, quel che di lei aveva udito e dove e come di lei s'era
innamorato e come venuto e perché per servidor del marito di lei postosi; e
appresso umilemente, se esser potesse, la pregò che le dovesse piacere
d'aver pietà di lui, e in questo suo segreto e sì fervente
disidero di compiacergli; e che, dove questo far non volesse, che ella,
lasciandolo star nella forma nella qual si stava, fosse contenta che egli
l'amasse.
O singular dolcezza del
sangue bolognese! Quanto se'tu stata sempre da commendare in così fatti
casi! Mai né di lagrime né di sospir fosti vaga, e continuamente a'prieghi
pieghevole e agli amorosi disideri arrendevol fosti. Se io avessi degne lode da
commendarti, mai sazia non se ne vedrebbe la voce mia!
La gentil donna, parlando
Anichino, il riguardava, e dando piena fede alle sue parole, con sì
fatta forza ricevette per li prieghi di lui il suo amore nella mente, che essa
altressì cominciò a sospirare, e dopo alcun sospiro rispose:
- Anichino mio dolce, sta
di buon cuore; né doni né promesse né vagheggiare di gentile uomo né di signore
né d'alcuno altro (ché sono stata e sono ancor vagheggiata da molti) mai
potè muovere l'animo mio tanto che io alcuno n'amassi; ma tu m'hai fatta
in così poco spazio, come le tue parole durate sono, troppo più
tua divenir che io non son mia. Io giudico che tu ottimamente abbi il mio amor
guadagnato, e per ciò io il ti dono, e sì ti prometto che io te
ne farò godente avanti che questa notte che viene tutta trapassi. E
acciò che questo abbia effetto, farai che in su la mezza notte tu venghi
alla camera mia; io lascerò l'uscio aperto; tu sai da qual parte del
letto io dormo; verrai là, e, se io dormissi, tanto mi tocca che io mi
svegli, e io ti consolerò di così lungo disio come avuto hai; e
acciò che tu questo creda, io ti voglio dare un bacio per arra - ; e
gittatogli il braccio in collo, amorosamente il baciò, e Anichin lei.
Queste cose dette, Anichin,
lasciata la donna, andò a fare alcune sue bisogne, aspettando con la
maggior letizia del mondo che la notte sopravvenisse. Egano tornò da
uccellare, e come cenato ebbe, essendo stanco, s'andò a dormire, e la
donna appresso, e, come promesso avea, lasciò l'uscio della camera
aperto.
Al quale, all'ora che detta
gli era stata, Anichin venne, e pianamente entrato nella camera e l'uscio
riserrato dentro, dal canto donde la donna dormiva se n'andò, e postale
la mano in sul petto, lei non dormente trovò; la quale come sentì
Anichino esser venuto, presa la sua mano con amendune le sue e tenendol forte,
volgendosi per lo letto tanto fece che Egano che dormiva destò, al quale
ella disse:
- Io non ti volli iersera
dir cosa niuna, per ciò che tu mi parevi stanco; ma dimmi, se Dio ti
salvi, Egano, quale hai tu per lo migliore famigliare e per lo più leale
e per colui che più t'ami, di quegli che tu in casa hai?
Rispose Egano:
- Che è ciò,
donna, di che tu mi domandi? Nol conosci tu? Io non ho, né ebbi mai alcuno, di
cui io tanto mi fidassi o fidi o ami, quant'io mi fido e amo Anichino; ma
perché me ne domandi tu?
Anichino, sentendo desto
Egano e udendo di sé ragionare, aveva più volte a sé tirata la mano per
andarsene, temendo forte non la donna il volesse ingannare; ma ella l'aveva
sì tenuto e teneva, che egli non s'era potuto partire né poteva.
La donna rispose ad Egano e
disse:
- Io il ti dirò. Io
mi credeva che fosse ciò che tu di'e che egli più fede che alcuno
altro ti portasse; ma me ha egli sgannata, per ciò che, quando tu
andasti oggi ad uccellare, egli rimase qui, e quando tempo gli parve, non si
vergognò di richiedermi che io dovessi, a'suoi piaceri acconsentirmi; e
io, acciò che questa cosa non mi bisognasse con troppe pruove mostrarti
e per farlati toccare e vedere, risposi che io era contenta e che stanotte,
passata mezzanotte, io andrei nel giardino nostro e a piè del pino
l'aspetterei. Ora io per me non intendo d'andarvi; ma, se tu vuogli la
fedeltà del tuo famiglio cognoscere, tu puoi leggiermente, mettendoti
indosso una delle guarnacche mie e in capo un velo, e andare laggiuso ad
aspettare se egli vi verrà, ché son certa del sì.
Egano udendo questo disse:
- Per certo io il convengo
vedere - ; e levatosi, come meglio seppe al buio, si mise una guarnacca della
donna e un velo in capo, e andossen nel giardino e a piè d'un pino
cominciò ad attendere Anichino.
La donna, come sentì
lui levato e uscito della camera, così si levò e l'uscio di
quella dentro serrò.
Anichino, il quale la
maggior paura che avesse mai avuta avea, e che quanto potuto avea s'era
sforzato d'uscire delle mani della donna e centomila volte lei e il suo amore e
sé che fidato se n'era avea maladetto, sentendo ciò che alla fine aveva
fatto, fu il più contento uomo che fosse mai; ed essendo la donna
tornata nel letto, come ella volle, con lei si spogliò, e insieme
presero piacere e gioia per un buono spazio di tempo.
Poi, non parendo alla donna
che Anichino dovesse più stare, il fece levar suso e rivestire, e
sì gli disse:
- Bocca mia dolce, tu
prenderai un buon bastone e andra'tene al giardino, e faccendo sembianti
d'avermi richiesta per tentarmi, come se io fossi dessa, dirai villania ad
Egano e sonera'mel bene col bastone, per ciò che di questo ne
seguirà maraviglioso diletto e piacere.
Anichino levatosi e nel
giardino andatosene con un pezzo di saligastro in mano, come fu presso al pino
e Egano il vide venire, così levatosi come con grandissima festa
riceverlo volesse, gli si faceva incontro. Al quale Anichin disse:
- Ahi malvagia femina,
dunque ci se'venuta, e hai creduto che io volessi o voglia al mio signor far
questo fallo? Tu sii la mal venuta per le mille volte! - ; e alzato il bastone,
lo incominciò a sonare.
Egano, udendo questo e
veggendo il bastone, senza dir parola cominciò a fuggire, e Anichino
appresso sempre dicendo:
- Via, che Dio vi metta in
malanno, rea femina, ché io il dirò domatina ad Egano per certo.
Egano avendone avute
parecchie delle buone, come più tosto poté, se ne tornò alla
camera; il quale la donna domandò se Anichin fosse al giardin venuto.
Egano disse:
- Così non fosse
egli, per ciò che, credendo esso che io fossi te, m'ha con un bastone
tutto rotto, e dettami la maggior villania che mai si dicesse a niuna cattiva
femina; e per certo io mi maravigliava forte di lui che egli con animo di far
cosa che mi fosse vergogna t'avesse quelle parole dette; ma, per ciò che
così lieta e festante ti vede, ti volle provare.
Allora disse la donna:
- Lodato sia Iddio, che
egli ha me provata con parole e te con fatti, e credo che egli possa dire che
io comporti con più pazienzia le parole che tu i fatti non fai. Ma poi
che tanta fede ti porta, si vuole aver caro e fargli onore.
Egano disse:
- Per certo tu di'il vero.
E, da questo prendendo
argomento, era in oppinione d'avere la più leal donna e il più
fedel servidore che mai avesse alcun gentile uomo. Per la qual cosa, come che
poi più volte con Anichino ed egli e la donna ridesser di questo fatto,
Anichino e la donna ebbero assai più agio, di quello per avventura che
avuto non avrebbono, a far di quello che loro era diletto e piacere, mentre ad
Anichin piacque di dimorar con Egano in Bologna.
Giornata settima - Novella
ottava
Un diviene geloso della
moglie, ed ella, legandosi uno spago al dito la notte, sente il suo amante
venire a lei. Il marito se n'accorge, e mentre seguita l'amante, la donna mette
in luogo di sé nel letto un'altra femina, la quale il marito batte e tagliale
le trecce, e poi va per li fratelli di lei, li quali, trovando ciò non
esser vero, gli dicono villania.
Stranamente pareva a tutti
madonna Beatrice essere stata maliziosa in beffare il suo marito, e ciascuno
affermava dovere essere stata la paura d'Anichino grandissima, quando, tenuto
forte dalla donna, l'udì dire che egli d'amore l'aveva richesta; ma poi
che il re vide Filomena tacersi, verso Neifile voltosi, disse:
- Dite voi.
La qual, sorridendo prima
un poco, cominciò.
Belle donne, gran peso mi
resta se io vorrò con una bella novella contentarvi, come quelle che
davanti hanno detto contentate v'hanno; del quale con l'aiuto di Dio io spero
assai bene scaricarmi.
Dovete dunque sapere che nella
nostra città fu già un ricchissimo mercatante chiamato Arriguccio
Berlinghieri, il quale scioccamente, sì come ancora oggi fanno tutto 'l
dì i mercatanti pensò di volere ingentilire per moglie, e prese
una giovane gentil donna male a lui convenientesi, il cui nome fu monna
Sismonda. La quale, per ciò che egli, sì come i mercatanti fanno,
andava molto dattorno e poco con lei dimorava, s'innamorò d'un giovane
chiamato Ruberto, il quale lungamente vagheggiata l'avea.
E avendo presa sua
dimestichezza e quella forse men discretamente usando, per ciò che
sommamente le dilettava, avvenne o che Arriguccio alcuna cosa ne sentisse, o
come che s'andasse, egli ne diventò il più geloso uom del mondo,
e lascionne stare l'andar dattorno e ogni altro suo fatto, e quasi tutta la sua
sollicitudine aveva posta in guardar ben costei; né mai addormentato si
sarebbe, se lei primieramente non avesse sentita entrar nel letto; per la qual
cosa la donna sentiva gravissimo dolore, per ciò che in guisa niuna col
suo Ruberto esser poteva.
Or pure, avendo molti
pensieri avuti a dover trovare alcun modo d'esser con essolui, e molto ancora
da lui essendone sollicitata, le venne pensato di tenere questa maniera: che,
con ciò fosse cosa che la sua camera fosse lungo la via, ed ella si fosse
molte volte accorta che Arriguccio assai ad addormentarsi penasse, ma poi
dormiva saldissimo, avvisò di dover far venire Ruberto in su la mezza
notte all'uscio della casa sua e d'andargli ad aprire e a starsi alquanto con
essolui mentre il marito dormiva forte. E a fare che ella il sentisse quando
venuto fosse, in guisa che persona non se ne accorgesse, divisò di
mandare uno spaghetto fuori della finestra della camera, il quale con l'un de'
capi vicino alla terra aggiugnesse, e l'altro capo mandatol basso infin sopra
'l palco e conducendolo al letto suo, quello sotto i panni mettere, e quando
essa nel letto fosse, legarlosi al dito grosso del piede.
E appresso, mandato questo
a dire a Ruberto, gl'impose che, quando venisse, dovesse lo spago tirare, ed
ella, se il marito dormisse, il lascerebbe andare e andrebbegli ad aprire; e
s'egli non dormisse, ella il terrebbe fermo e tirerebbelo a sé, acciò
che egli non aspettasse: la qual cosa piacque a Ruberto, e assai volte
andatovi, alcuna gli venne fatto d'esser con lei, e alcuna no.
Ultimamente, continuando
costoro questo artificio così fatto, avvenne una notte che, dormendo la
donna e Arriguccio stendendo il piè per lo letto, gli venne questo spago
trovato; per che, postavi la mano e trovatolo al dito della donna legato, disse
seco stesso: - Per certo questo dee essere qualche inganno -. E avvedutosi poi
che lo spago usciva fuori per la finestra, l'ebbe per fermo; per che,
pianamente tagliatolo dal dito della donna, al suo il legò, e stette
attento per vedere quel che questo volesse dire.
Né stette guari che Ruberto
venne, e tirato lo spago, come usato era, Arriguccio si sentì, e non
avendoselo ben saputo legare, e Ruberto avendo tirato forte ed essendogli lo
spago in man venuto, intese di doversi aspettare, e così fece.
Arriguccio, levatosi
prestamente e prese sue armi, corse all'uscio, per dover vedere chi fosse
costui, e per fargli male. Ora era Arriguccio, con tutto che fosse mercatante,
un fiero e un forte uomo; e giunto all'uscio e non aprendolo soavemente come
soleva far la donna, e Ruberto che aspettava sentendolo, s'avvisò esser
quello che era, cioè che colui che l'uscio apriva fosse Arriguccio; per
che prestamente cominciò a fuggire, e Arriguccio a seguitarlo.
Ultimamente, avendo Ruberto
un gran pezzo fuggito e colui non cessando di seguitarlo, essendo
altressì Ruberto armato, tirò fuori la spada e rivolsesi, e
incominciarono l'uno a volere offendere e l'altro a difendersi.
La donna, come Arriguccio
aprì la camera, svegliatasi e trovatosi tagliato lo spago dal dito,
incontanente s'accorse che 'l suo inganno era scoperto; e sentendo Arriguccio
esser corso dietro a Ruberto, prestamente levatasi, avvisandosi ciò che
doveva potere avvenire, chiamò la fante sua, la quale ogni cosa sapeva,
e tanto la predicò, che ella in persona di sé nel suo letto la mise,
pregandola che, senza farsi conoscere, quel le busse pazientemente ricevesse
che Arriguccio le desse, per ciò che ella ne le renderebbe sì
fatto merito, che ella non avrebbe cagione donde dolersi. E spento il lume che
nella camera ardeva, di quella s'uscì, e nascosa in una parte della casa
cominciò ad aspettare quello che dovesse avvenire.
Essendo tra Arriguccio e
Ruberto la zuffa, i vicini della contrada, sentendola e levatisi, cominciarono
loro a dir male; e Arriguccio, per tema di non esser conosciuto, senza aver
potuto sapere chi il giovane si fosse o d'alcuna cosa offenderlo, adirato e di
mal talento, lasciatolo stare, se ne tornò verso la casa sua; e pervenuto
nella camera adiratamente cominciò a dire:
- Ove se'tu, rea femina? Tu
hai spento il lume perché io non ti truovi, ma tu l'hai fallita.
E andatosene al letto,
credendosi la moglie pigliare, prese la fante, e quanto egli potè menare
le mani e'piedi, tante pugna e tanti calci le diede, che tutto il viso
l'ammaccò; e ultimamente le tagliò i capegli, sempre dicendole la
maggior villania che mai a cattiva femina si dicesse.
La fante piagneva forte,
come colei che aveva di che; e ancora che ella alcuna volta dicesse: -
Ohimè, mercé per Dio; oh, non più - ; era sì la voce dal
pianto rotta, e Arriguccio impedito dal suo furore, che discerner non poteva
più quella esser d'un'altra femina che della moglie
Battutala adunque di santa
ragione e tagliatile i capegli, come dicemmo, disse:
- Malvagia femina, io non
intendo di toccarti altramenti, ma io andrò per li tuoi fratelli e
dirò loro le tue buone opere; e appresso che essi vengan per te e
faccianne quello che essi credono che loro onor sia, e menintene; ché per certo
in questa casa non starai tu mai più.
E così detto, uscito
della camera, la serrò di fuori e andò tutto sol via.
Come monna Sismonda, che
ogni cosa udita aveva, sentì il marito essere andato via, così,
aperta la camera e racceso il lume, trovò la fante sua tutta pesta che
piagneva forte; la quale, come poté il meglio, racconsolò, e nella
camera di lei la rimise, dove poi chetamente fattala servire e governare,
sì di quello d'Arriguccio medesimo la sovvenne che ella si chiamò
per contenta.
E come la fante nella sua
camera rimessa ebbe, così prestamente il letto della sua rifece, e
quella tutta racconciò e rimise in ordine, come se quella notte niuna
persona giaciuta vi fosse, e raccese la lampana e sé rivestì e
racconciò, come se ancora al letto non si fosse andata; e accesa una
lucerna e presi suoi panni, in capo della scala si pose a sedere, e
cominciò a cucire e ad aspettare quello a che il fatto dovesse riuscire.
Arriguccio, uscito di casa
sua, quanto più tosto potè n'andò alla casa de'fratelli
della moglie, e quivi tanto picchiò che fu sentito e fugli aperto. Li
fratelli della donna, che eran tre, e la madre di lei, sentendo che Arriguccio
era, tutti si levarono, e fatto accendere de' lumi vennero a lui e domandaronlo
quello che egli a quella ora e così solo andasse cercando.
A' quali Arriguccio,
cominciandosi dallo spago che trovato aveva legato al dito del piè di
monna Sismonda, infino all'ultimo di ciò che trovato e fatto avea,
narrò loro; e per fare loro intera testimonianza di ciò che fatto
avesse, i capelli che alla moglie tagliati aver credeva lor pose in mano,
aggiugnendo che per lei venissero e quel ne facessero che essi credessero che
al loro onore appartenesse, per ciò che egli non intendeva di mai
più in casa tenerla.
I fratelli della donna,
crucciati forte di ciò che udito avevano e per fermo tenendolo, contro a
lei inanimati, fatti accender de'torchi, con intenzione di farle un mal giuoco,
con Arriguccio si misero in via e andaronne a casa sua. Il che veggendo la
madre di loro, piagnendo gl'incominciò a seguitare, or l'uno e or
l'altro pregando che non dovessero queste cose così subitamente credere,
senza vederne altro o saperne; per ciò che il marito poteva per altra
cagione esser crucciato con lei e averle fatto male, e ora apporle questo per
iscusa di sé; dicendo ancora che ella si maravigliava forte come ciò
potesse essere avvenuto, per ciò che ella conosceva ben la sua
figliuola, sì come colei che infino da piccolina l'aveva allevata; e
molte altre parole simiglianti.
Pervenuti adunque a casa
d'Arriguccio ed entrati dentro, cominciarono a salir le scale. Li quali monna
Sismonda sentendo venire, disse:
- Chi è là?
Alla quale l'un de'fratelli
rispose:
- Tu il saprai bene, rea
femina, chi è.
Disse allora monna
Sismonda:
- Ora che vorrà dir questo?
Domine, aiutaci. - E levatasi in piè disse:
- Fratelli miei, voi siate
i benvenuti; che andate voi cercando a questa ora quincentro tutti e tre?
Costoro, avendola veduta a
sedere e cucire e senza alcuna vista nel viso d'essere stata battuta, dove Arriguccio
aveva detto che tutta l'aveva pesta, alquanto nella prima giunta si
maravigliarono e rifrenarono l'impeto della loro ira, e domandaronla come stato
fosse quello di che Arriguccio di lei si doleva, minacciandola forte se ogni
cosa non dicesse loro.
La donna disse:
- Io non so ciò che
io mi vi debba dire, né di che Arriguccio di me vi si debba esser doluto.
Arriguccio, vedendola, la
guatava come smemorato, ricordandosi che egli l'aveva dati forse mille punzoni
per lo viso e graffiatogliele e fattole tutti i mali del mondo, e ora la vedeva
come se di ciò niente fosse stato.
In brieve i fratelli le
dissero ciò che Arriguccio loro aveva detto, e dello spago e delle
battiture e di tutto.
La donna, rivolta ad
Arriguccio, disse:
- Ohimè, marito mio,
che è quel ch'io odo? Perché fai tu tener me rea femina con tua gran
vergogna, dove io non sono, e te malvagio uomo e crudele di quello che tu non
se'? E quando fostù questa notte più in questa casa, non che con
meco? O quando mi battesti tu? Io per me non me ne ricordo.
Arriguccio cominciò
a dire:
- Come, rea femina, non ci
andammo noi iersera al letto insieme? Non ci tornai io, avendo corso dietro
all'amante tuo? Non ti diedi io di molte busse, e taglia'ti i capegli?
La donna rispose:
- In questa casa non ti
coricasti tu iersera. Ma lasciamo stare di questo, ché non ne posso altra
testimonianza fare che le mie vere parole, e veniamo a quello che tu di', che
mi battesti e tagliasti i capegli. Me non battestù mai, e quanti n'ha qui
e tu altressì mi ponete mente se io ho segno alcuno per tutta la persona
di battitura; né ti consiglierei che tu fossi tanto ardito che tu mano addosso
mi ponessi, ché, alla croce di Dio, io ti sviserei. Né i capegli
altressì mi tagliasti, che io sentissi o vedessi; ma forse il facesti
che io non me n'avvidi: lasciami vedere se io gli ho tagliati o no.
E, levatisi suoi veli di
testa, mostrò che tagliati non gli avea, ma interi.
Le quali cose e vedendo e
udendo i fratelli e la madre, cominciarono verso d'Arriguccio a dire:
- Che vuoi tu dire,
Arriguccio? Questo non è già quello che tu ne venisti a dire che
avevi fatto; e non sappiam noi come tu ti proverrai il rimanente.
Arriguccio stava come
trasognato e voleva pur dire; ma, veggendo che quello ch'egli credea poter
mostrare non era così, non s'attentava di dir nulla.
La donna, rivolta verso i
fratelli, disse:
- Fratei miei, io veggio
che egli è andato cercando che io faccia quello che io non volli mai
fare, cioè ch'io vi racconti le miserie e le cattività sue, e io
il farò. Io credo fermamente che ciò che egli v'ha detto gli sia
intervenuto e abbial fatto; e udite come.
Questo valente uomo, al
qual voi nella mia mala ora per moglie mi deste, che si chiama mercatante e che
vuole esser creduto e che dovrebbe esser più temperato che uno religioso
e più onesto che una donzella, son poche sere che egli non si vada
inebbriando per le taverne, e or con questa cattiva femina e or con quella
rimescolando; e a me si fa infino a mezza notte e talora infino a matutino aspettare,
nella maniera che mi trovaste. Son certa che, essendo bene ebbro, si mise a
giacere con alcuna sua trista, e a lei destandosi trovò lo spago al
piede e poi fece tutte quelle sue gagliardie che egli dice, e ultimamente
tornò a lei e battella e tagliolle i capegli; e non essendo ancora ben
tornato in sé, si credette, e son certa che egli crede ancora, queste cose aver
fatte a me; e se voi il porrete ben mente nel viso, egli è ancora mezzo
ebbro. Ma tuttavia, che che egli s'abbia di me detto, io non voglio che voi il
vi rechiate se non come da uno ubriaco; e poscia che io gli perdono io, gli
perdonate voi altressì.
La madre di lei, udendo
queste cose, cominciò a fare romore e a dire:
- Alla croce di Dio,
figliuola mia, cotesto non si votrebbe fare; anzi si vorrebbe uccidere questo
can fastidioso e sconoscente, ché egli non ne fu degno d'avere una figliuola
fatta come se'tu. Frate, bene sta!; Basterebbe se egli t'avesse ricolta del
fango. Col malanno possa egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle
parole di un mercantuzzo di feccia d'asino, che venutici di contado e usciti
delle troiate, vestiti di romagnuolo, con le calze a campanile e con ]a penna
in culo, come egli hanno tre soldi, vogliono le figliuole de'gentili uomini e
delle buone donne per moglie, e fanno arme e dicono: -I' son de'cotali - e -
quei di casa mia fecer così. - Ben vorrei che'miei figliuoli n'avesser
seguito il mio consiglio, ché ti potevano così orrevolmente acconciare
in casa i conti Guidi con un pezzo di pane, ed essi vollon pur darti a questa
bella gioia, che, dove tu se'la miglior figliuola di Firenze e la più
onesta, egli non s'è vergognato di mezza notte di dir che tu sii
puttana, quasi noi non ti conoscessimo; ma, alla fè di Dio, se me ne
fosse creduto, se ne gli darebbe sì fatta gastigatoia che gli putirebbe.
E, rivolta a' figliuoli,
disse:
- Figliuoli miei, io il vi
dicea bene che questo non doveva potere essere. Avete voi udito come il buono
vostro cognato tratta la sirocchia vostra? Mercatantuolo di quattro denari che
egli è! Ché, se io fossi come voi, avendo detto quello che egli ha di
lei e faccendo quello che egli fa, io non mi terrei mai né contenta né
appagata, se io nollo levassi di terra; e se io fossi uomo come io son femina,
io non vorrei che altri ch'io se ne 'mpacciasse. Domine, fallo tristo: ubriaco
doloroso che non si vergogna!
I giovani, vedute e udite
queste cose, rivoltisi ad Arriguccio, gli dissero la maggior villania che mai a
niun cattivo uom si dicesse; e ultimamente dissero:
- Noi ti perdoniam questa si
come ad ebbro; ma guarda che per la vita tua da quinci innanzi simili novelle
noi non sentiamo più, ché per certo, se più nulla ce ne viene
agli orecchi, noi ti pagheremo di questa e di quella - ; e così detto,
se n'andarono.
Arriguccio, rimaso come uno
smemorato, seco stesso non sappiendo se quello che fatto avea era stato vero o
s'egli aveva sognato, senza più farne parola, lasciò la moglie in
pace. La qual, non solamente colla sua sagacità fuggì il pericol
sopra stante ma s'aperse la via a poter fare nel tempo avvenire ogni suo
piacere, senza paura alcuna più aver del marito.
Giornata settima - Novella
nona
Lidia moglie di Nicostrato
ama Pirro, il quale, acciò che credere il possa, le chiede tre cose, le
quali ella gli fa tutte; e oltre a questo in presenza di Nicostrato si sollazza
con lui, e a Nicostrato fa credere che non sia vero quello che ha veduto.
Tanto era piaciuta la
novella di Neifile, che né di ridere né di ragionar di quella si potevano le
donne tenere, quantunque il re più volte silenzio loro avesse imposto,
avendo comandato a Panfilo che la sua dicesse. Ma pur, poi che tacquero,
così Panfilo incominciò.
Io non credo, reverende
donne, che niuna cosa sia, quantunque sia grave e dubbiosa, che a far non
ardisca chi ferventemente ama. La qual cosa quantunque in assai novelle sia
stato dimostrato, nondimeno io il mi credo molto più, con una che dirvi
intendo, mostrare, dove udirete d'una donna, alla qua le nelle sue opere fu
troppo più favorevole la fortuna, che la ragione avveduta; e per
ciò non consiglierei io alcuna che dietro alle pedate di colei, di cui
dire intendo, s'arrischiasse d'andare, per ciò che non sempre è
la fortuna in un modo disposta, né sono al mondo tutti gli uomini abbagliati
igualmente.
In Argo, antichissima
città di Grecia, per li suoi passati re molto più famosa che
grande, fu già uno nobile uomo, il quale appellato fu Nicostrato, a cui
già vicino alla vecchiezza la fortuna concedette per moglie una gran
donna, non meno ardita che bella, detta per nome Lidia.
Teneva costui, sì
come nobile uomo e ricco, molta famiglia e cani e uccelli, e grandissimo
diletto prendea nelle cacce; e aveva tra gli altri suoi famigliari un
giovinetto leggiadro e adorno e bello della persona e destro a qualunque cosa
avesse voluta fare, chiamato Pirro; il quale Nicostrato oltre ad ogni altro
amava e più di lui si fidava.
Di costui Lidia
s'innamorò forte, tanto che né dì né notte in altra parte che con
lui aver poteva il pensiere; del quale amore, o che Pirro non s'avvedesse o non
volesse, niente mostrava se ne curasse, di che la donna intollerabile noia
portava nell'animo. E disposta del tutto di fargliele sentire, chiamò a
sé una sua cameriera nomata Lusca, della quale ella si confidava molto, e
sì le disse:
- Lusca, li benefici li
quali tu hai da me ricevuti ti debbono fare a me obediente e fedele; e per
ciò guarda che quello che io al presente ti dirò niuna persona
senta giammai se non colui al quale da me ti fia imposto. Come tu vedi, Lusca,
io son giovane e fresca donna, e piena e copiosa di tutte quelle cose che
alcuna può disiderare; e brievemente, fuor che d'una, non mi posso
rammaricare, e questa è che gli anni del mio marito son troppi, se
co'miei si misurano, per la qual cosa di quello che le giovani donne prendono
più piacere io vivo poco contenta; e pur come l'altre disiderandolo,
è buona pezza che io diliberai meco di non volere, se la fortuna
m'è stata poco amica in darmi così vecchio marito, essere io
nimica di me medesima in non saper trovar modo a' miei diletti e alla mia
salute; e per avergli così compiuti in questo come nell'altre cose, ho
per partito preso di volere, sì come di ciò più degno che
alcun altro, che il nostro Pirro co'suoi abbracciamenti gli supplisca, e ho
tanto amore in lui posto, che io non sento mai bene se non tanto quanto io il
veggio o di lui penso; e se io senza indugio non mi ritruovo seco, per certo io
me ne credo morire. E per ciò, se la mia vita t'è cara, per quel
modo che miglior ti parrà, il mio amore gli significherai e sì 'l
pregherai da mia parte che gli piaccia di venire a me quando tu per lui andrai.
La cameriera disse di farlo
volentieri; e come prima tempo e luogo le parve, tratto Pirro da parte, quanto
seppe il meglio l'ambasciata gli fece della sua donna. La qual cosa udendo
Pirro, si maravigliò forte, sì come colui che mai d'alcuna cosa
avveduto non s'era, e dubitò non la donna ciò facesse dirgli per
tentarlo; per che subito e ruvidamente rispose:
- Lusca, io non posso
credere che queste parole vengano dalla mia donna, e per ciò guarda quel
che tu parli; e se pure da lei venissero, non credo che con l'animo dir te le
faccia; e se pur con l'animo dir le facesse, il mio signore mi fa più
onore che io non vaglio; io non farei a lui sì fatto oltraggio per la
vita mia; e però guarda che tu più di sì fatte cose non mi
ragioni.
La Lusca, non sbigottita
per lo suo rigido parlare, gli disse:
- Pirro, e di queste e
d'ogn'altra cosa che la mia donna m'imporrà ti parlerò io quante
volte ella il mi comanderà, o piacere o noia ch'egli ti debbia essere;
ma tu se' una bestia.
E turbatetta con le parole
di Pirro se ne tornò alla donna, la quale udendole disiderò di
morire, e dopo alcun giorno riparlò alla cameriera e disse:
- Lusca, tu sai che per lo
primo colpo non cade la quercia; per che a me pare che tu da capo ritorni a
colui che in mio pregiudicio nuovamente vuol divenir leale, e, prendendo tempo
convenevole, gli mostra interamente il mio ardore e in tutto t'ingegna di far
che la cosa abbia effetto; però che, se così s'intralasciasse, io
ne morrei ed egli si crederebbe esser stato tentato; e dove il suo amor
cerchiamo, ne seguirebbe odio.
La cameriera
confortò la donna, e cercato di Pirro, il trovò lieto e ben
disposto, e sì gli disse:
- Pirro, io ti mostrai,
pochi dì sono, in quanto fuoco la tua donna e mia stea per l'amor che
ella ti porta, e ora da capo te ne rifò certo, che, dove tu in su la
durezza che l'altrieri dimostrasti dimori, vivi sicuro che ella viverà
poco; per che io ti priego che ti piaccia di consolarla del suo disiderio; e
dove tu pure in su la tua ostinazione stessi duro, là dove io per molto
savio t'aveva, io t'avrò per uno scioccone. Che gloria ti può
egli esser maggiore che una così fatta donna, così bella,
così gentile e così ricca, te sopra ogni altra cosa ami? Appresso
questo, quanto ti puo'tu conoscere alla fortuna obligato, pensando che ella
t'abbia parata dinanzi così fatta cosa, e a'disideri della tua
giovinezza atta, e ancora un così fatto rifugio a'tuoi bisogni! Qual tuo
pari conosci tu che per via di diletto meglio stea che starai tu, se tu sarai
savio? Quale altro troverai tu che in arme, in cavalli, in robe e in denari
possa star come tu starai, volendo il tuo amor concedere a costei?
Apri adunque l'animo alle
mie parole e in te ritorna; e ricordati che una volta senza più suole
avvenire che la Fortuna si fa altrui incontro col viso lieto e col grembo
aperto; la quale chi allora non sa ricevere, poi, trovandosi povero e mendico,
di sé e non di lei s'ha a rammaricare. E oltre a questo non si vuol quella lealtà
tra'servidori usare e'signori, che tra gli amici e pari si conviene; anzi gli
deono così i servidori trattare, in quel che possono, come essi da loro
trattati sono. Speri tu, se tu avessi o bella moglie o madre o figliuola o
sorella che a Nicostrato piacesse, che egli andasse la lealtà ritrovando
che tu servar vuoi a lui della sua donna? Sciocco se' se tu 'l credi: abbi di
certo, se le lusinghe e'prieghi non bastassono, che che ne dovesse a te parere,
e'vi si adoperrebbe la forza. Trattiamo adunque loro e le lor cose come essi
noi e le nostre trattano. Usa il beneficio della Fortuna; non la cacciare,
falleti incontro e lei vegnente ricevi, ché per certo, se tu nol fai, lasciamo
stare la morte la quale senza fallo alla tua donna ne seguirà, ma tu
ancora te ne penterai tante volte che tu ne vorrai morire.
Pirro, il qual più
fiate sopra le parole che la Lusca dette gli avea avea ripensato, per partito
avea preso che, se ella più a lui ritornasse, di fare altra risposta e
del tutto recarsi a compiacere alla donna, dove certificar si potesse che
tentato non fosse; e per ciò rispose:
- Vedi, Lusca, tutte le
cose che tu mi di'io le conosco vere, ma io conosco d'altra parte il mio
signore molto savio e molto avveduto, e ponendomi tutti i suoi fatti in mano,
io temo forte che Lidia con consiglio e voler di lui questo non faccia per
dovermi tentare; e per ciò, dove tre cose ch'io domanderò voglia
fare a chiarezza di me, per certo niuna cosa mi comanderà poi che io
prestamente non faccia. E quelle tre cose che io voglio son queste:
primieramente che in presenzia di Nicostrato ella uccida il suo buono
sparviere; appresso ch'ella mi mandi una ciocchetta della barba di Nicostrato;
e ultimamente un dente di quegli di lui medesimo de' migliori.
Queste cose parvono alla
Lusca gravi e alla donna gravissime; ma pure Amore, (che è buono
confortatore e gran maestro di consigli, le fece diliberar di farlo, e per la
sua cameriera gli mandò dicendo che quello che egli aveva addimandato
pienamente fornirebbe, e tosto; e oltre a ciò, per ciò che egli
così savio reputava Nicostrato, disse che in presenzia di lui con Pirro
si sollazzerebbe e a Nicostrato farebbe credere che ciò non fosse vero.
Pirro adunque
cominciò ad aspettare quello che far dovesse la gentil donna; la quale,
avendo ivi a pochi dì Nicostrato dato un gran desinare, sì come
usava spesse volte di fare, a certi gentili uomini, ed essendo già
levate le tavole, vestita d'uno sciamito verde e ornata molto, e uscita della
sua camera, in quella sala venne dove costoro erano, e veggente Pirro e
ciascuno altro, se n'andò alla stanga sopra la quale lo sparviere era
cotanto da Nicostrato tenuto caro, e scioltolo, quasi in mano sel volesse
levare, e presolo per li geti, al muro il percosse e ucciselo.
E gridando verso lei
Nicostrato: - Ohimè, donna, che hai tu fatto? - niente a lui rispose;
ma, rivolta a'gentili uomini che con lui avevan mangiato, disse: - Signori, mal
prenderei vendetta d'un re che mi facesse dispetto, se d'uno sparvier non
avessi ardir di pigliarla. Voi dovete sapere che questo uccello tutto il tempo
da dover essere prestato dagli uomini al piacer delle donne lungamente m'ha
tolto; per ciò che, sì come l'aurora suole apparire, così
Nicostrato s'è levato, e salito a cavallo col suo sparviere in mano
n'è andato alle pianure aperte a vederlo volare; e io, qual voi mi
vedete, sola e mal contenta nel letto mi sono rimasa; per la qual cosa ho
più volte avuta voglia di far ciò che io ho ora fatto, né altra
cagione m'ha di ciò ritenuta se non l'aspettar di farlo in presenzia
d'uomini che giusti giudici sieno alla mia querela, sì come io credo che
voi sarete.
I gentili uomini che
l'udivano, credendo non altramente esser fatta la sua affezione a Nicostrato
che sonasser le parole, ridendo ciascuno e verso Nicostrato rivolti che turbato
era cominciarono a dire:
- Deh! come la donna ha ben
fatto a vendicare la sua ingiuria con la morte dello sparviere! - e con diversi
motti sopra così fatta materia, essendosi già la donna in camera
ritornata, in riso rivolsero il cruccio di Nicostrato.
Pirro, veduto questo, seco
medesimo disse: - Alti principii ha dati la donna a' miei felici amori; faccia
Iddio che ella perseveri -.
Ucciso adunque da Lidia lo
sparviere, non trapassar molti giorni che, essendo ella nella sua camera
insieme con Nicostrato, faccendogli carezze, con lui cominciò a
cianciare, ed egli per sollazzo alquanto tiratala per li capelli, le diè
cagione di mandare ad effetto la seconda cosa a lei domandata da Pirro; e
prestamente lui per un picciolo lucignoletto preso della sua barba e ridendo,
sì forte il tirò che tutto del mento gliele divelse.
Di che ramaricandosi
Nicostrato, ella disse:
- Or che avesti, che fai
cotal viso per ciò che io t'ho tratti forse sei peli della barba? Tu non
sentivi quel ch'io, quando tu mi tiravi testeso i capelli.
E così d'una parola
in una altra continuando il lor sollazzo, la donna cautamente guardò la
ciocca della barba che tratta gli avea, e il dì medesimo la mandò
al suo caro amante.
Della terza cosa
entrò la donna in più pensiero; ma pur, sì come quella che
era d'alto ingegno e Amor la faceva vie più, s'ebbe pensato che modo
tener dovesse a darle compimento.
E avendo Nicostrato due
fanciulli datigli da' padri loro acciò che in casa sua, per ciò
che gentili uomini erano, apparassono alcun costume, dei quali, quando
Nicostrato mangiava, l'uno gli tagliava innanzi e l'altro gli dava bere,
fattigli chiamare amenduni, fece lor vedere che la bocca putiva loro e
ammaestrogli che quando a Nicostrato servissono, tirassono il capo indietro il
più che potessono, né questo mai dicessero a persona.
I giovanetti, credendole,
cominciarono a tenere quella maniera che la donna aveva lor mostrata. Per che
ella una volta domandò Nicostrato:
- Se'ti tu accorto di
ciò che questi fanciulli fanno quando ti servono?
Disse Nicostrato:
- Mai sì, anzi gli
ho io voluti domandare perché il facciano.
A cui la donna disse:
- Non fare, ché io il ti so
dire io, e holti buona pezza taciuto per non fartene noia; ma ora che io
m'accorgo che altri comincia ad avvedersene, non è più da
celarloti. Questo non ti avviene per altro, se non che la bocca ti pute
fieramente, e non so qual si sia la cagione, per ciò che ciò non
soleva essere; e questa è bruttissima cosa, avendo tu ad usare con
gentili uomini; e per ciò si vorrebbe veder modo di curarla.
Disse allora Nicostrato:
- Che potrebbe ciò
essere? Avrei io in bocca dente niun guasto?
A cui Lidia disse:
- Forse che sì - ; e
menatolo ad una finestra, gli fece aprire la bocca, e poscia che ella ebbe
d'una patte e d'altra riguardato, disse:
- O Nicostrato, e come il
puoi tu tanto aver patito? Tu n'hai uno da questa parte, il quale, per quel che
mi paia, non solamente è magagnato, ma egli è tutto fracido, e
fermamente, se tu il terrai guari in bocca, egli guasterà quegli che son
da lato; per che io ti consiglierei che tu nel cacciassi fuori, prima che
l'opera andasse più innanzi.
Disse allora Nicostrato:
- Da poi che egli ti pare,
ed egli mi piace; mandisi senza più indugio per un maestro il qual mel
tragga.
Al quale la donna disse:
- Non piaccia a Dio che qui
per questo venga maestro; e'mi pare che egli stea in maniera, che senza alcun
maestro io medesima tel trarrò ottimamente. E d'altra parte questi
maestri son sì crudeli a far questi servigi, che il cuore nol mi
patirebbe per niuna maniera di vederti o di sentirti tra le mani a niuno; e per
ciò del tutto io voglio fare io medesima; ché almeno, se egli ti
dorrà troppo, ti lascerò io incontanente, quello che il maestro
non farebbe.
Fattisi adunque venire i
ferri da tal servigio e mandato fuori della camera ogni persona, solamente seco
la Lusca ritenne; e dentro serratesi, fece distender Nicostrato sopra un desco,
e messegli le tanaglie in bocca, e preso uno de'denti suoi, quantunque egli
forte per dolor gridasse, tenuto fermamente dall'una, fu dall'altra per viva
forza un dente tirato fuori; e quel serbatosi, e presone un altro il quale
sconciamente magagnato Lidia aveva in mano, a lui doloroso e quasi mezzo morto
il mostrarono, dicendo:
- Vedi quello che tu hai
tenuto in bocca già è cotanto.
Egli credendoselo,
quantunque gravissima pena sostenuta avesse e molto se ne ramaricasse, pur, poi
che fuor n'era, gli parve esser guarito; e con una cosa e con altra
riconfortato, essendo la pena alleviata, s'uscì della camera.
La donna, preso il dente,
tantosto al suo amante il mandò; il quale già certo del suo
amore, sé ad ogni suo piacere offerse apparecchiato. La donna, disiderosa di
farlo più sicuro, e parendole ancora ogn'ora mille che con lui fosse,
volendo quello che profferto gli avea attenergli, fatto sembiante d'essere
inferma ed essendo un dì appresso mangiare da Nicostrato visitata, non
veggendo con lui altri che Pirro, il pregò per alleggiamento della sua
noia, che aiutar la dovessero ad andare infino nel giardino.
Per che Nicostrato dall'un
de'lati e Pirro dall'altro presala, nel giardin la portarono e in un pratello a
piè d'un bel pero la posarono; dove stati alquanto sedendosi, disse la
donna, che già aveva fatto informar Pirro di ciò che avesse a
fare:
- Pirro, io ho gran
disiderio d'aver di quelle pere, e però montavi suso e gittane
giù alquante.
Pirro, prestamente
salitovi, cominciò a gittar giù delle pere; e mentre le gittava
cominciò a dire:
- Eh, messere, che è
ciò che voi fate? E voi, madonna, come non vi vergognate di sofferirlo
in mia presenza? Credete voi che io sia cieco? Voi eravate pur testé
così forte malata; come siete voi così tosto guerita che voi
facciate tai cose? Le quali se pur far volete, voi avete tante belle camere;
perché non in alcuna di quelle a far queste cose ve n'andate? E' sarà
più onesto che farlo in mia presenza.
La donna, rivolta al
marito, disse:
- Che dice Pirro? Farnetica
egli?
Disse allora Pirro:
- Non farnetico no,
madonna; non credete voi che i veggia?
Nicostrato si maravigliava
forte, e disse:
- Pirro, veramente io credo
che tu sogni.
Al quale Pirro rispose:
- Signor mio, non sogno né
mica, né voi anche non sognate; anzi vi dimenate ben sì che, se
così si dimenasse questo pero, egli non ce ne rimarrebbe su niuna.
Disse la donna allora:
- Che può questo
essere? Potrebbe egli esser vero che gli paresse ver ciò ch'e'dice? Se
Dio mi salvi, se io fossi sana come io fu'già, che io vi sarrei suso,
per vedere che maraviglie sien queste che costui dice che vede.
Pirro d'in sul pero pur
diceva, e continuava queste novelle; al qual Nicostrato disse:
- Scendi giù - ; ed
egli scese; a cui egli disse: - Che di' tu che vedi?
Disse Pirro:
- Io credo che voi
m'abbiate per smemorato o per trasognato; vedeva voi addosso alla donna vostra,
poi pur dir mel conviene; e poi discendendo io vi vidi levare e porvi
così dove voi siete a sedere.
- Fermamente, - disse
Nicostrato - eri tu in questo smemorato, ché noi non ci siamo, poi che in sul
pero salisti, punto mossi, se non come tu vedi.
Al qual Pirro disse:
- Perché ne facciam noi
quistione? Io vi pur vidi; e se io vi vidi, io vi vidi in sul vostro.
Nicostrato più
ogn'ora si maravigliava, tanto che egli disse:
- Ben vo'vedere se questo
pero è incantato, e che chi v'è su vegga le maraviglie - ; e
montovvi su. Sopra il quale come egli fu, la donna insieme con Pirro
s'incominciarono a sollazzare; il che Nicostrato veggendo cominciò a
gridare:
- Ahi rea femina, che
è quel che tu fai? E tu Pirro, di cui io più mi fidava? - e
così dicendo cominciò a scendere del pero.
La donna e Pirro dicevano:
- Noi ci seggiamo - e lui
veggendo discendere, a seder si tornarono in quella guisa che lasciati gli
avea. Come Nicostrato fu giù e vide costoro dove lasciati gli avea,
così lor cominciò a dir villania.
Al quale Pirro disse:
- Nicostrato, ora veramente
confesso io che, come voi diciavate davanti, che io falsamente vedessi mentre
fui sopra 'l pero; né ad altro il conosco se non a questo, che io veggio e so
che voi falsamente avete veduto. E che io dica il vero, niun'altra cosa vel
mostri, se non l'aver riguardo e pensare a che ora la vostra donna, la quale
è onestissima e più savia che altra volendo di tal cosa farvi oltraggio,
si recherebbe a farlo davanti agli occhi vostri. Di me non vo'dire, che mi
lascerei prima squartare che io il pur pensassi, non che io il venissi a fare
in vostra presenza. Per che di certo la magagna di questo transvedere dee
procedere dal pero; per ciò che tutto il mondo non m'avrebbe fatto
discredere che voi qui non foste colla donna vostra carnalmente giaciuto, se io
non udissi dire a voi che egli vi fosse paruto che io facessi quello che io so
certissimamente che io non pensai, non che io facessi mai.
La donna appresso, che
quasi tutta turbata s'era levata in piè, cominciò a dire:
- Sia con la mala ventura,
se tu m'hai per sì poco sentita, che, se io volessi attendere a queste
tristezze che tu di'che vedevi, io le venissi a fare dinanzi agli occhi tuoi.
Sii certo di questo che qualora volontà me ne venisse, io non verrei
qui, anzi mi crederrei sapere essere in una delle nostre camere, in guisa e in
maniera che gran cosa mi parrebbe che tu il risapessi giammai.
Nicostrato, al qual vero
parea ciò che dicea l'uno e l'altro che essi quivi dinanzi a lui mai a
tale atto non si dovessero esser condotti, lasciate stare le parole e le
riprensioni di tal maniera, cominciò a ragionar della novità del
fatto e del miracolo della vista che così si cambiava a chi su vi
montava.
Ma la donna, che della
oppinione che Nicostrato mostrava d'avere avuta di lei si mostrava turbata,
disse:
- Veramente questo pero non
ne farà mai più niuna, né a me né ad altra donna, di queste
vergogne, se io potrò; e perciò, Pirro, corri e va e reca una
scure, e ad una ora te e me vendica tagliandolo, come che molto meglio sarebbe
a dar con essa in capo a Nicostrato, il quale senza considerazione alcuna
così tosto si lasciò abbagliar gli occhi dello 'ntelletto; ché,
quantunque a quegli che tu hai in testa paresse ciò che tu di, per niuna
cosa dovevi nel giudicio della tua mente comprendere o consentire che
ciò fosse.
Pirro prestissimo
andò per la scure e tagliò il pero; il quale come la donna vide
caduto, disse verso Nicostrato:
- Poscia che io veggio
abbattuto il nimico della mia onestà, la mia ira è ita via - ; e
a Nicostrato, che di ciò la pregava, benignamente perdonò,
imponendogli che più non gli avvenisse di presummere, di colei che
più che sé l'amava, una così fatta cosa giammai.
Così il misero
marito schernito con lei insieme e col suo amante nel palagio se ne tornarono,
nel quale poi molte volte Pirro di Lidia, ed ella di lui, con più agio
presero piacere e di letto. Dio ce ne dea a noi.
Giornata settima - Novella
decima
Due sanesi amano una donna
comare dell'uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa
fattagli, e raccontagli come di là si dimori.
Restava solamente al re il
dover novellare, il quale, poi che vide le donne racchetate, che del pero
tagliato che colpa non avea si dolevano, incominciò.
Manifestissima cosa
è che ogni giusto re primo servatore dee essere delle leggi fatte da
lui, e se altro ne fa, servo degno di punizione, e non re, si dee giudicare;
nel quale peccato e riprensione a me, che vostro re sono, quasi costretto cader
con viene. Egli è il vero che io ieri la legge diedi a'nostri
ragionamenti fatti oggi, con intenzione di non voler questo dì il mio
privilegio usare; ma soggiacendo con voi insieme a quella, di quello ragionare
che voi tutti ragionato avete; ma egli non s solamente è stato
raccontato quello che io imaginato avea di raccontare ma sonsi sopra quello
tante altre cose e molto più belle dette, che io per me, quantunque la
memoria ricerchi, rammentar non mi posso né conoscere che io intorno a
sì fatta materia dir potessi cosa che alle dette s'appareggiasse; e per
ciò, dovendo peccare nella legge da me medesimo fatta, sì come
degno di punizione, infino ad ora ad ogni ammenda che comandata mi fia mi
proffero apparecchiato, e al mio privilegio usitato mi tornerò.
E dico che la novella detta
da Elissa del compare e della comare, e appresso la bessaggine de' sanesi,
hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando stare le beffe agli sciocchi
mariti fatte dalle lor savie mogli, mi tirano a dovervi con tare una novelletta
di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non si
dee, nondimeno sarà in parte piacevole ad ascoltare.
Furono adunque in Siena due
giovani popolari, de'quali l'uno ebbe nome Tingoccio Mini e l'altro fu chiamato
Meuccio di Tura, e abitavano in porta Salaia, e quasi mai non usavano se non
l'un con l'altro, e per quello che paresse s'amavan molto; e andando, come gli
uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito avevano della
gloria e della miseria che all'anime di coloro che morivano era, secondo li lor
meriti, conceduta nell'altro mondo. Delle quali cose disiderando di saper certa
novella, né trovando il modo, insieme si promisero che qual prima di lor
morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli
novelle di quello che egli desiderava; e questo fermarono con giuramento.
Avendosi adunque questa
promession fatta, e insieme continuamente usando, come è detto, avvenne
che Tingoccio divenne compare d'uno Ambruogio Anselmini, che stava in
Camporeggi, il qual d'una sua donna chiamata monna Mita aveva avuto un
figliuolo.
Il qual Tingoccio, insieme
con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una
bellissima e vaga donna, non ostante il comparatico, s'innamorò di lei;
e Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a
Tingoccio, se ne innamorò. E di questo amore l'un si guardava
dall'altro, ma non per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di scoprirlo
a Meuccio per la cattività che a lui medesimo pareva fare d'amare la
comare, e sarebbesi vergognato che alcun l'avesse saputo; Meuccio non se ne
guardava per questo. ma perché già avveduto s'era che ella piaceva a
Tingoccio. Laonde egli diceva: - Se io questo gli discuopro, egli
prenderà gelosia di me; e potendole ad ogni suo piacere parlare,
sì come compare, in ciò che egli potrà le mi
metterà in odio, e così mai cosa che mi piaccia di lei io non
avrò -.
Ora, amando questi due
giovani, come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era più
destro il potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare, e con
atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacere suo; di che Meuccio
s'accorse bene; e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere
alcuna volta pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non
avesse materia né cagione di guastargli o d'impedirgli alcun suo fatto, faceva
pur vista di non avvedersene.
Così amando i due
compagni, l'uno più felicemente che l'altro, avvenne che, trovando
Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e
tanto lavorò che una infermità ne gli sopravenne, la quale dopo
alquanti dì sì l'aggravò forte che, non potendola
sostenere, trapassò di questa vita.
E trapassato, il terzo
dì appresso (ché forse prima non aveva potuto) se ne venne, secondo la
promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual forte
dormiva, chiamò.
Meuccio destatosi disse:
- Qual se' tu?
A cui egli rispose:
- Io son Tingoccio, il
qual, secondo la promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle
dell'altro mondo.
Alquanto si spaventò
Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse:
- Tu sia il ben venuto,
fratel mio - ; e poi il domandò se egli era perduto.
Al qual Tingoccio rispose:
- Perdute son le cose che
non si ritruovano; e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto?
- Deh, - disse Meuccio - io
non dico così ; ma io ti domando se tu se'tra l'anime dannate nel fuoco
pennace di ninferno.
A cui Tingoccio rispose:
- Costetto no, ma io son
bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto.
Domandò allora
Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun
de'peccati che di qua si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte. Poi gli
domandò Meuccio s'egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa. A cui
Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dir
delle messe e delle orazioni e fare delle limosine per ciò che queste
cose molto giovavano a quei di là, a cui Meuccio disse di farlo
volentieri.
E partendosi Tingoccio da
lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo
disse:
- Ben che mi ricorda, o
Tingoccio: della comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena
t'è di là data?
A cui Tingoccio rispose:
- Fratel mio, come io
giunsi di là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati
sapesse a mente, il quale mi comandò che io andassi in quel luogo nel
quale io purgo in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni
a quella medesima pena condennati che io; e stando io tra loro, e ricordandomi
di ciò che già fatto avea con la comare e aspettando per quello
troppo maggior pena che quella che data m'era, quantunque io fossi in un gran
fuoco e molto ardente, tutto di paura tremava. Il che sentendo un che m'era dal
lato, mi disse: - Che hai tu più che gli altri che qui sono, che triemi
stando nel fuoco? - - Oh, - diss'io - amico mio, io ho gran paura del giudicio
che io aspetto d'un gran peccato che io feci già -. Quegli allora mi
domandò che peccato quel fosse. A cui io dissi: - Il peccato fu cotale,
che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto che io me ne scorticai
-. Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: - Va, sciocco, non
dubitare; ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari -; il che io
udendo tutto mi rassicurai.
E detto questo,
appressandosi il giorno, disse:
- Meuccio, fatti con Dio,
ché io non posso più esser con teco - ; e subitamente andò via.
Meuccio, avendo udito che
di là niuna ragione si teneva delle comari, cominciò a far beffe
della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie n'avea
risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per
innanzi divenne savio. Le quali cose se frate Rinaldo avesse saputo, non gli
sarebbe stato bisogno d'andare sillogizzando quando convertì a'suoi
piaceri la sua buona comare.
Giornata settima -
Conclusione
Zeffiro era levato per lo
sole che al ponente s'avvicinava, quando il re, finita la sua novella né alcuno
altro restandogli a dire, levatasi la corona di testa, sopra il capo la pose
alla Lauretta, dicendo:
- Madonna, io vi corono di
voi medesima reina della nostra brigata; quello omai che crederete che piacer
sia di tutti e consolazione, sì come donna, comanderete - ; e riposesi a
sedere.
La Lauretta, divenuta
reina, si fece chiamare il siniscalco, al quale impose che ordinasse che nella
piacevole valle alquanto a migliore ora che l'usato si mettesser le tavole,
acciò che poi adagio si potessero al palagio tornare; e appresso
ciò che a fare avesse, mentre il suo reggimento durasse, gli
divisò.
Quindi, rivolta alla
compagnia, disse:
- Dioneo volle ieri che
oggi si ragionasse delle beffe che le donne fanno a'mariti; e, se non fosse
ch'io non voglio mostrare d'essere di schiatta di can botolo che incontanente
si vuol vendicare, io direi che domane si dovesse ragionare delle beffe che gli
uomini fanno alle lor mogli. Ma, lasciando star questo, dico che ciascun pensi
di dire di quelle beffe che tutto il giorno, o donna ad uomo, o uomo a donna, o
l'uno uomo all'altro si fanno; e credo che in questo sarà non men di
piacevol ragionare, che stato sia questo giorno - ; e così detto,
levatasi in piè, per infino ad ora di cena licenziò la brigata.
Levaronsi adunque le donne
e gli uomini parimente, de'quali alcuni scalzi per la chiara acqua cominciarono
ad andare, e altri tra'belli e diritti alberi sopra il verde prato s'andavano
diportando.
Dioneo e la Fiammetta gran
pezza cantarono insieme d'Arcita e di Palemone; e così, vari e diversi
diletti pigliando, il tempo infino all'ora della cena con grandissimo piacer
trapassarono. La qual venuta e lungo al pelaghetto a tavola postisi, quivi al
canto di mille uccelli, rinfrescati sempre da un'aura soave che da quelle
montagnette dattorno nasceva, senza alcuna mosca, riposatamente e con letizia
cenarono.
E levate le tavole, poi che
alquanto la piacevol valle ebber circuita, essendo ancora il sole alto a mezzo
vespro, sì come alla loro reina piacque, in verso la loro usata dimora
con lento passo ripresero il cammino; e motteggiando e cianciando di ben mille
cose, così di quelle che il dì erano state ragionate come
d'altre, al bel palagio assai vicino di notte pervennero. Dove con freschissimi
vini e con confetti la fatica del picciol cammin cacciata via, intorno della
bella fontana di presente furono in sul danzare, quando al suono della
cornamusa di Tindaro e quando d'altri suoni carolando.
Ma alla fine la reina
comandò a Filomena che dicesse una canzone, la quale così
incominciò:
Deh lassa la mia vita!
Sarà giammai ch'io
possa ritornare
donde mi tolse noiosa
partita?
Certo io non so, tanto
è ' disio focoso
che io porto nel petto,
di ritrovarmi ov'io lassa
già fui.
O caro bene, o solo mio
riposo,
che 'l mio cuor tien
distretto,
deh dilmi tu, ché
domandarne altrui
non oso, né so cui,
deh, signor mio, deh
fammelo sperare
sì ch'io conforti
l'anima smarrita.
I' non so ben ridir qual fu
'l piacere
che sì m'ha
infiammata,
ché io non trovo dì
né notte loco,
perché l'udire e 'l sentire
e 'l vedere,
con forza non usata,
ciascun per sé accese novo
foco;
nel qual tutta mi coco,
né mi può altri che
tu confortare,
o ritornar la virtù
sbigottita.
Deh dimmi s'esser dee, e
quando fia,
ch'io ti trovi giammai,
dov'io baciai quegli occhi
che m'han morta.
Dimmel, caro mio bene,
anima mia
quando tu vi verrai, e, col
dir - tosto -, alquanto mi conforta.
Sia la dimora corta
d'ora al venire, e poi
lunga allo stare,
ch'io non men curo,
sì m'ha Amor ferita.
Se egli avvien che io mai
più ti tenga,
non so s'io sarò
sciocca,
com'io or fui, a lasciarti
partire.
Io ti terrò, e che
può sì n'avvenga;
e della dolce bocca
convien ch'io sodisfaccia
al mio disire.
D'altro non voglio or dire.
Dunque vien tosto, vienmi
ad abbracciare
che 'l pur pensarlo di
cantar m'invita.
Estimar fece questa canne a
tutta la brigata che nuovo e piacevole amore Filomena strignesse; e per
ciò che per le parole di quella pareva che ella più avanti che la
vista sola n'avesse sentito, tenendonela più felice, invidia per tali vi
furono le ne fu avuta. Ma poi che la sua canzon fu finita, ricordandosi la
reina che il dì seguente era venerdì, così a tutti
piacevolmente disse:
- Voi sapete, nobili donne
e voi giovani, che domane è quel dì che alla passione del nostro
Signore è consecrato, il qual, se ben vi ricorda, noi divotamente
celebrammo, essendo reina Neifile, e a'ragionamenti dilettevoli demmo luogo, e
il simigliante facemmo del sabato susseguente. Per che, volendo il buono
essemplo datone da Neifile seguitare, estimo che onesta cosa sia, che domane e
l'altro dì, come i passati giorni facemmo, dal nostro dilettevole
novellare ci asteniamo, quello a memoria riducendoci che in così fatti
giorni per la salute delle nostre anime addivenne.
Piacque a tutti il divoto
parlare della loro reina, dalla quale licenziati, essendo già buona
pezza di notte passata, tutti s'andarono a riposare.
Finisce la settima giornata
del Decameron
Comincia l'ottava giornata,
nella quale, sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che
tutto il giorno o donna ad uomo, o uomo a donna, o l'uno uomo all'altro si
fanno.
Giornata ottava -
Introduzione
Già nella
sommità de'più alti monti apparivano la domenica mattina i raggi
della surgente luce e, ogni ombra partitasi, manifestamente le cose si
conosceano, quando la reina levatasi con la sua compagnia, primieramente
alquanto su per le rugiadose erbette andarono, e poi in su la mezza terza una chiesetta
lor vicina visitata, in quella il divino officio ascoltarono; e a casa
tornatisene, poi che con letizia e con festa ebber mangiato, cantarono e
danzarono alquanto, e appresso, licenziati dalla reina, chi volle andare a
riposarsi potè.
Ma, avendo il sol
già passato il cerchio di meriggio, come alla reina piacque, al
novellare usato tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento
della reina così Neifile cominciò.
Giornata ottava - Novella
prima
Gulfardo prende da
Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover
giacer con lei per quegli, sì gliele dà, e poi in presenzia di
lei a Guasparruolo dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
Se così ha disposto
Iddio che io debba alla presente giornata dare con la mia novella
cominciamento, ed el mi piace. E per ciò, amorose donne, con ciò
sia cosa che molto detto si sia delle beffe fatte dalle donne agli uomini, una
fattane da uno uomo ad una donna mi piace di raccontarne, non già perché
io intenda in quella di biasimare ciò che l'uom fece o di dire che alla
donna non fosse bene investito, anzi per commendar l'uomo e biasimare la donna,
e per mostrare che anche gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da
cui egli credono son beffati; avvegna che, chi volesse più propriamente
parlare, quello che io dir debbo non si direbbe beffa, anzi si direbbe merito;
per ciò che, con ciò sia cosa che ciascuna donna debba essere
onestissima e la sua castità come la sua vita guardare, né per alcuna
cagione a contaminarla conducersi; e questo non potendosi così appieno
tuttavia, come si converrebbe, per la fragilità nostra; affermo colei
esser degna del fuoco la quale a ciò per prezzo si conduce; dove chi per
amore, conoscendo le sue forze grandissime, perviene, da giudice non troppo
rigido merita perdono, come, pochi dì son passati, ne mostrò
Filostrato essere stato in madonna Filippa osservato in Prato.
Fu adunque già in
Melano un tedesco al soldo, il cui nome fu Gulfardo, pro'della persona e assai
leale a coloro ne'cui servigi si mettea, il che rade volte suole de'tedeschi a
venire; e per ciò che egli era nelle prestanze de'denari che fatte gli
erano lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo
utile ogni quantità di denari gli avrebber prestata.
Pose costui, in Melan
dimorando, l'amor suo in una donna assai bella, chiamata madonna Ambruogia,
moglie d'un ricco mercatante, che aveva nome Guasparruol Cagastraccio, il quale
era assai suo conoscente e amico; e amandola assai discretamente, senza
avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare, pregandola
che le dovesse piacere d'essergli del suo amor cortese, e che egli era dalla
sua parte presto a dover far ciò che ella gli comandasse.
La donna, dopo molte
novelle, venne a questa conclusione, che ella era presta di far ciò che
a Gulfardo piacesse, dove due cose ne dovesser seguire: l'una, che questo non
dovesse mai per lui esser manifestato ad alcuna persona; l'altra, che, con
ciò fosse cosa che ella avesse per alcuna sua cosa bisogno di fiorini
dugento d'oro, voleva che egli, che ricco uomo era, gliele donasse, e appresso
sempre sarebbe al suo servigio.
Gulfardo, udendo la
'ngordigia di costei, sdegnato per la viltà di lei, la quale egli
credeva che fosse una valente donna, quasi in odio trasmutò il fervente
amore, e pensò di doverla beffare, e mandolle dicendo che molto
volentieri e quello e ogn'altra cosa, che egli potesse, che le piacesse; e per
ciò mandassegli pure a dire quando ella volesse che egli andasse a lei,
ché egli gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun sentirebbe, se non
un suo compagno di cui egli si fidava molto e che sempre in sua compagnia
andava in ciò che faceva.
La donna, anzi cattiva
femina, udendo questo, fu contenta, e mandogli dicendo che Guasparruolo suo
marito doveva ivi a pochi dì per sue bisogne andare infino a Genova, e
allora ella gliele farebbe assapere e manderebbe per lui.
Gulfardo, quando tempo gli
parve, se n'andò a Guasparruolo e sì gli disse:
- Io son per fare un mio
fatto, per lo quale mi bisognano fiorini dugento d'oro, li quali io voglio che
tu mi presti con quello utile che tu mi suogli prestare degli altri.
Guasparruolo disse che
volentieri, e di presente gli annoverò i denari.
Ivi a pochi giorni
Guasparruolo andò a Genova, come la donna aveva detto; per la qual cosa
la donna mandò a Gulfardo che a lei dovesse venire e recare li dugento
fiorin d'oro. Gulfardo, preso il compagno suo, se n'andò a casa della
donna, e trovatala che l'aspettava, la prima cosa che fece, le mise in mano questi
dugento fiorin d'oro, veggente il suo compagno, e sì le disse:
- Madonna, tenete questi
denari, e daretegli a vostro marito quando serà tornato.
La donna gli prese, e non
s'avvide perché Gulfardo dicesse così; ma si credette che egli il
facesse, acciò che 'l compagno suo non s'accorgesse che egli a lei per
via di prezzo gli desse. Per che ella disse:
- Io il farò
volentieri, ma io voglio vedere quanti sono - ; e versatigli sopra una tavola e
trovatigli esser dugento, seco forte contenta, gli ripose, e tornò a
Gulfardo, e lui nella sua camera menato, non solamente quella volta, ma molte
altre, avanti che 'l marito tornasse da Genova, della sua persona gli
sodisfece.
Tornato Guasparruolo da
Genova, di presente Gulfardo, avendo appostato che insieme con la moglie era,
[preso il compagno suo], se n'andò a lui, e in presenza di lei disse:
- Guasparruolo, i denari,
cioè li dugento fiorin d'oro che l'altrier mi prestasti, non m'ebber
luogo, per ciò che io non pote'fornir la bisogna per la quale gli presi;
e per ciò io gli recai qui di presente alla donna tua, e sì
gliele diedi; e per ciò dannerai la mia ragione.
Guasparruolo, volto alla
moglie, la domandò se avuti gli avea. Ella, che quivi vedeva il
testimonio, nol seppe negare, ma disse:
- Mai sì che io gli
ebbi, né me n'era ancora ricordata di dirloti.
Disse allora Guasparruolo:
- Gulfardo, io son
contento; andatevi pur con Dio, che io acconcerò bene la vostra ragione.
Gulfardo partitosi, e la
donna rimasa scornata diede al marito il disonesto prezzo della sua
cattività; e così il sagace amante senza costo godé della sua
avara donna.
Giornata ottava - Novella
seconda
Il Prete da Varlungo si
giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro; e accattato da lei un
mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo
proverbiando la buona donna
Commendavano igualmente e
gli uomini e le donne ciò che Gulfardo fatto aveva alla 'ngorda
melanese, quando la reina a Panfilo voltatasi, sorridendo gl'impose ch'el
seguitasse; per la qual cosa Panfilo incominciò.
Belle donne, a me occorre
di dire una novelletta contro a coloro li quali continuamente n'offendono senza
poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a'preti, li quali sopra
le nostre mogli hanno bandita la croce, e par loro non altramenti aver
guadagnato il perdono di colpa e di pena, quando una se ne possono metter
sotto, che se d'Alessandria avessero il soldano menato legato a Vignone. Il che
i secolari cattivelli non possono a lor fare; come che nelle madri, nelle
sirocchie, nell'amiche e nelle figliuole con non meno ardore, che essi le lor
mogli assaliscano, vendichino l'ire loro. E per ciò io intendo
raccontarvi uno amorazzo contadino, più da ridere per la conclusione che
lungo di parole, del quale ancora potrete per frutto cogliere che a'preti non
sia sempre ogni cosa da credere.
Dico adunque che a
Varlungo, villa assai vicina di qui, come ciascuna di voi o sa o puote avere
udito, fu un valente prete e gagliardo della persona ne'servigi delle donne, il
quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante
parolozze la domenica a piè dell'olmo ricreava i suoi popolani; e meglio
le lor donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro prete che prima
vi fosse stato, visitava, portando loro della festa e dell'acqua benedetta e
alcun moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione.
Ora avvenne che, tra
l'altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli
piacque, che aveva nome monna Belcolore, moglie d'un lavoratore che si facea
chiamare Bentivegna del Mazzo, la qual nel vero era pure una piacevole e fresca
foresozza, brunazza e ben tarchiata, e atta a meglio saper macinare che alcuna
altra. E oltre a ciò era quella che meglio sapeva sonare il cembalo e
cantare: L'acqua corre la borrana, e menare la ridda e il ballonchio, quando
bisogno faceva, che vicina che ella avesse, con bel moccichino e gentile in
mano. Per le quali cose messer lo prete ne 'nvaghì sì forte, che
egli ne menava smanie; e tutto 'l dì andava aiato per poterla vedere; e
quando la domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie e un Sanctus
sforzandosi ben di mostrarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino che
ragghiasse, dove, quando non la vi vedeva, si passava assai leggermente; ma
pure sapeva sì fare che Bentivegna del Mazzo non se ne avvedeva, né
ancora vicino che egli avesse.
E per potere più
avere la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava, e
quando le mandava un mazzuol d'agli freschi, che egli aveva i più belli
della contrada in un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un
canestruccio di baccelli, e talora un mazzuol di cipolle maligie o di scalogni;
e, quando si vedeva tempo, guatatala un poco in cagnesco, per amorevolezza la
rimorchiava, ed ella cotal salvatichetta, faccendo vista di non avvedersene,
andava pure oltre in contegno; per che messer lo prete non ne poteva venire a
capo.
Ora avvenne un dì
che, andando il prete di fitto meriggio per la contrada or qua or là
zazzeato, scontrò Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose
innanzi; e fattogli motto, il domandò dov'egli andava. A cui Bentivegna
rispose:
- Gnaffe, sere, in buona
verità io vo infino a città per alcuna mia vicenda, e porto
queste cose a ser Bonaccorri da Ginestreto, che m'aiuti di non so che m'ha
fatto richiedere per una comparigione del parentorio per lo pericolator suo il
giudice del dificio.
Il prete lieto disse:
- Ben fai, figliuolo; or va
con la mia benedizione, e torna tosto; e se ti venisse veduto Lapuccio o
Naldino, non t'esca di mente di dir lor che mi rechino quelle combine per li
coreggiati miei.
Bentivegna disse che
sarebbe fatto; e venendosene verso Firenze, si pensò il prete che ora
era tempo d'andare alla Bel colore e di provare sua ventura; e messasi la via
tra'piedi, non ristette sì fu a casa di lei, ed entrato dentro disse:
- Dio ci mandi bene, chi
è di qua?
La Belcolore, ch'era andata
in balco, udendol disse:
- O sere, voi siate il ben
venuto; che andate voi zacconato per questo caldo?
Il prete rispose:
- Se Dio mi dea bene, che
io mi vengo a star con teco un pezzo, per ciò che io trovai l'uom tuo
che andava a città.
La Belcolore, scesa
giù, si pose a sedere, e cominciò nettar sementa di cavolini, che
il marito avea poco innanzi trebbiati.
Il prete le cominciò
a dire:
- Bene, Belcolore, de'mi tu
far sempre mai morire questo modo?
La Belcolore
cominciò a ridere e a dire:
- O che ve fo io?
Disse il prete:
- Non mi fai nulla, ma tu
non mi lasci fare a te quei ch'io vorrei e che Iddio comandò.
Disse la Belcolore:
- Deh! andate, andate: o
fanno i preti così fatte cose?
Il prete rispose:
- Sì facciam noi
meglio che gli altri uomini; o perché no? E dicoti più, che noi facciamo
vie miglior lavorio; e sai perché? Perché noi maciniamo a raccolta; ma in
verità bene a tuo uopo, se tu stai cheta e lascimi fare. Disse la
Belcolore:
- O che bene a mio uopo
potrebbe esser questo, ché siete tutti quanti più scarsi che 'l fistolo?
Allora il prete disse:
- Io non so, chiedi pur tu:
o vuogli un paio di scarpette, o vuogli un frenello, o vuogli una bella fetta
di stame, o ciò che tu vuogli.
Disse la Belcolore:
- Frate, bene sta! Io me
n'ho di coteste cose; ma se voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un
servigio, e io farò ciò che voi vorrete?
Allora disse il prete:
- Di'ciò che tu
vuogli, e io il farò volentieri.
La Belcolore allora disse:
- Egli mi conviene andar
sabato a Firenze a render lana che io ho filata e a far racconciare il filatoio
mio; e se voi mi prestate cinque lire, che so che l'avete, io ricoglierò
dall'usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale dai dì delle
feste, che io recai a marito, ché vedete che non ci posso andare a santo né in
niun buon luogo, perché io non l'ho; e io sempre mai poscia farò
ciò che voi vorrete.
Rispose il prete:
- Se Dio mi dea il buono
anno, io non gli ho allato; ma credimi che, prima che sabato sia, io
farò che tu gli avrai molto volentieri.
- Sì,- disse la
Belcolore - tutti siete così gran promettitori, e poscia non attenete
altrui nulla; credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se
n'andò col ceteratoio? Alla fè di Dio non farete, ché ella
n'è divenuta femina di mondo pur per ciò; se voi non gli avete, e
voi andate per essi.
- Deh! - disse il prete -
non mi fare ora andare infino a casa; ché vedi che ho così ritta la
ventura testè che non c'è persona, e forse quand'io tornassi ci
sarebbe chi che sia che c'impaccerebbe; e io non so quando e'mi si venga così
ben fatto come ora.
Ed ella disse:
- Bene sta; se voi volete
andar, sì andate; se non, sì ve ne durate.
Il prete, veggendo che ella
non era acconcia a far cosa che gli piacesse, se non a salvum me fac, ed egli
volea fare sine custodia, disse:
- Ecco, tu non mi credi che
io te gli rechi; acciò che tu mi creda, io ti lascerò pegno
questo mio tabarro di sbiavato.
La Belcolore levò
alto il viso e disse:
- Sì, cotesto
tabarro, o che vale egli?
Disse il prete:
- Come, che vale? Io voglio
che tu sappi che egli è di duagio infino in treagio, e hacci di quegli
nel popolo nostro che il tengon di quattragio, e non è ancora quindici
dì che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, ed
ebbine buon mercato de soldi ben cinque, per quel che mi dice Buglietto d'Alberto,
che sai che si conosce così bene di questi panni sbiavati.
- O, sié? - disse la
Belcolore - se Dio m'aiuti, io non l'averei mai creduto; ma datemelo in prima.
Messer lo prete, ch'aveva
carica la balestra, trattosi il tabarro, gliele diede; ed ella, poi che riposto
l'ebbe, disse:
- Sere, andiancene qua
nella capanna, che non vi vien mai persona - ; e così fecero.
E quivi il prete, dandole i
più dolci baciozzi del mondo e faccendola parente di messer Domenedio,
con lei una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in gonnella, che
pareva che venisse da servire a nozze, se ne tornò al santo.
Quivi, pensando che quanti
moccoli ricoglieva in tutto l'anno d'offerta non valevan la metà di
cinque lire, gli parve aver mal fatto, e pentessi d'aver lasciato il tabarro e
cominciò a pensare in che modo riavere lo potesse senza costo.
E per ciò che
alquanto era maliziosetto, s'avvisò troppo bene come dovesse fare a
riaverlo, e vennegli fatto; per ciò che il dì seguente, essendo
festa, egli mandò un fanciul d'un suo vicino in casa questa monna
Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo
della pietra, però che desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio
e Nuto Buglietti, sì che egli voleva far della salsa.
La Belcolore gliele
mandò. E come fu in su l'ora del desinare, e 'l prete appostò
quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor manicassero, e chiamato il chierico
suo, gli disse:
- Togli quel mortaio e
riportalo alla Belcolore, e di': - Dice il sere che gran mercè, e che
voi gli rimandiate il tabarro che 'l fanciullo vi lasciò per ricordanza
- .
Il cherico andò a
casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a
desco che desinavano. Quivi, posto giù il mortaio, fece l'ambasciata del
prete.
La Belcolore, udendosi
richiedere il tabarro, volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse:
- Dunque toi tu ricordanza
al sere? Fo boto a Cristo, che mi vien voglia di darti un gran sergozzone; va,
rendigliel tosto, che canciola te nasca; e guarda che di cosa che voglia mai,
io dico s'e'volesse l'asino nostro, non ch'altro, non gli sia detto di no.
La Belcolore brontolando si
levò, e andatasene al soppidiano, ne trasse il tabarro e diello al
cherico e disse:
- Dirai così al sere
da mia parte: - La Belcolore dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai
più salsa in suo mortaio, non l'avete voi sì bello onor fatto di
questa - .
Il cherico se n'andò
col tabarro e fece l'ambasciata al sere, a cui il prete ridendo disse:
- Dira'le, quando tu la
vedrai, che s'ella non ci presterà il mortaio, io non presterrò a
lei il pestello; vada l'un per Bentivegna si credeva che la moglie quelle
parole dicesse perché egli l'aveva garrita, e non se ne curò. Ma la
Belcolore, rimasa scornata, venne in iscrezio col sere, e tennegli favella
insino a vendemmia; poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in
bocca del Lucifero maggiore, per bella paura entro, col mosto e con le castagne
calde si rappattumò con lui, e più volte insieme fecer poi
gozzoviglia.
E in iscambio delle cinque
lire le fece il prete rincartare il cembal suo e appiccarvi un sonagliuzzo, ed
ella fu contenta.
Giornata ottava - Novella
terza
Calandrino, Bruno e
Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar l'elitropia, e
Calandrino se la crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie
il proverbia, ed egli turbato la batte, e a'suoi compagni racconta ciò
che essi sanno meglio di lui.
Finita la novella di
Panfilo, della quale le donne avevano tanto riso che ancor ridono, la reina ad
Elissa commise che seguitasse, la quale ancora ridendo incominciò.
Io non so, piacevoli donne,
se egli mi si verrà fatto di farvi con una mia novelletta, non men vera
che piacevole, tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua, ma io me ne
'ngegnerò.
Nella nostra città,
la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu,
ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice
e di nuovi costumi, il quale il più del tempo con due altri dipintori
usava, chiamati l'un Bruno e l'altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma
per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che
de'modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano.
Era similmente allora in
Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far
voleva astuto e avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune
cose della simplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto
de'fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa.
E per avventura trovandolo
un dì nella chiesa di San Giovanni, e vedendolo stare attento a
riguardar le dipinture e gl'intagli del tabernacolo il quale è sopra
l'altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò
essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione; e informato un suo compagno di
ciò che fare intendeva, insieme s'accostarono là dove Calandrino
solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme cominciarono a
ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente
parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario.
A'quali ragionamenti
Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che
non era credenza, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale,
seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre
così virtuose si trovassero.
Maso rispose che le
più si trovavano in Berlinzone, terra de'Baschi, in una contrada che si
chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi
un'oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio
parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan
che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli
gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'aveva;
e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve,
senza avervi entro gocciol d'acqua.
- Oh, - disse Calandrino -
cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de'capponi che cuocon coloro?
Rispose Maso:
- Mangiansegli i Baschi
tutti.
Disse allora Calandrino:
- Fostivi tu mai?
A cui Maso rispose:
- Di'tu se io vi fu'mai?
Sì vi sono stato così una volta come mille.
Disse allora Calandrino:
- E quante miglia ci ha?
Maso rispose:
- Haccene più di
millanta, che tutta notte canta.
Disse Calandrino:
- Dunque dee egli essere
più là che Abruzzi.
- Sì bene, - rispose
Maso - si è cavelle.
Calandrino semplice,
veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede
vi dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e
così l'aveva per vere, e disse:
- Troppo ci è di
lungi a'fatti miei, ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi
verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei maccheroni, e
tormene una satolla. Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne
truova niuna di queste pietre così virtuose?
A cui Maso rispose:
- Sì, due maniere di
pietre ci si truovano di grandissima virtù: l'una sono i macigni da
Settignano e da Montici, per virtù de'quali, quando son macine fatti, se
ne fa la farina; e per ciò si dice egli in que'paesi di là, che
da Dio vengono le grazie e da Montici le macine; ma ecci di questi macigni
sì gran quantità, che appo noi è poco prezzata, come appo
loro gli smeraldi, de'quali v'ha maggior montagne che monte Morello che rilucon
di mezza notte vatti con Dio. E sappi che chi facesse le macine belle e fatte
legare in anella, prima che elle si forassero, e portassele al soldano,
n'avrebbe ciò che volesse. L'altra si è una pietra, la quale noi
altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran virtù, per
ciò che qualunque persona la porta sopra di sè, mentre la tiene,
non è da alcuna altra persona veduto dove non è.
Allora Calandrin disse:
- Gran virtù son
queste; ma questa seconda dove si truova?
A cui Maso rispose, che nel
Mugnone se ne solevan trovare.
Disse Calandrino:
- Di che grossezza è
questa pietra? O che colore è il suo?
Rispose Maso:
- Ella è di varie
grossezze, ché alcuna n'è più e alcuna meno, ma tutte son di
colore quasi come nero.
Calandrino, avendo tutte
queste cose seco notate, fatto sembiante d'avere altro a fare, si partì
da Maso, e seco propose di voler cercare di questa pietra; ma diliberò
di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali
spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che
senza indugio e prima che alcuno altro n'andassero a cercare, e tutto il
rimanente di quella mattina consumò in cercargli.
Ultimamente, essendo
già l'ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel
monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo,
lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n'andò a costoro, e
chiamatigli, così disse loro:
- Compagni, quando voi
vogliate credermi, noi possiamo divenire i più ricchi uomini di Firenze,
per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova
una pietra, la qual chi la porta sopra non è veduto da niun'altra
persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra
persona v'andasse, v'andassimo a cercare. Noi la troveremo per certo, per
ciò che io la conosco; e trovata che noi l'avremo, che avrem noi a fare
altro se non mettercela nella scarsella e andare alle tavole de'cambiatori, le
quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti
noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire
subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare le mura a modo che fa
la lumaca.
Bruno e Buffalmacco, udendo
costui, fra sé medesimi cominciarono a ridere, e guatando l'un verso l'altro
fecer sembianti di maravigliarsi forte, e lodarono il consiglio di Calandrino;
ma domandò Buffalmacco, come questa pietra avesse nome. A Calandrino,
che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente, per che egli
rispose:
- Che abbiam noi a far del
nome, poi che noi sappiam la virtù? A me parrebbe che noi andassimo a
cercare senza star più.
- Or ben, - disse Bruno -
come è ella fatta?
Calandrin disse:
- Egli ne son d'ogni fatta,
ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte
quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa; e per
ciò non perdiamo tempo, andiamo.
A cui Brun disse:
- Or t'aspetta; - e volto a
Buffalmacco disse:
- A me pare che Calandrino
dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che
il sole è alto e dà per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre
rasciutte, per che tali paion testé bianche delle pietre che vi sono, che la
mattina, anzi che il sole l'abbia rasciutte, paion nere; e oltre a ciò
molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dì di
lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si potrebbono indovinare quello
che noi andassimo faccendo, e forse farlo essi altressì, e potrebbe
venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l'ambiadura. A me
pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover fare da mattina, che si
conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa, che non vi
sarà persona che ci vegga.
Buffalmacco lodò il
consiglio di Bruno, e Calandrino vi s'accordò, e ordinarono che la
domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa
pietra; ma sopra ogn'altra cosa gli pregò Calandrino che essi non
dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui
era stata posta in credenza. E ragionato questo, disse loro ciò che udito
avea della contrada di
Bengodi, con saramenti affermando che così era. Partito Calandrino da
loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono fra sé
medesimi.
Calandrino con disidero
aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si
levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel
Mugnon discesi, cominciarono ad andare in giù, della pietra cercando.
Calandrino andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e
or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella
ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e
quando un'altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che
egli il seno se n'ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che
all'analda non era, e faccendo di quegli ampio grembo, bene avendogli alla
coreggia attaccati d'ogni parte, non dopo molto gli empié, e similmente, dopo
alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empiè.
Per che, veggendo
Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l'ora del mangiare
s'avvicinava, secondo l'ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco:
- Calandrino dove è?
Buffalmacco, che ivi presso
sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose:
- Io non so, ma egli era
pur poco fa qui dinanzi da noi.
Disse Bruno:
- Ben che fa poco! a me par
egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel
farnetico d'andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone.
- Deh come egli ha ben
fatto, - disse allora Buffalmacco - d'averci beffati e lasciati qui, poscia che
noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi! chi sarebbe stato
sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una
così virtuosa pietra, altri che noi?
Calandrino, queste parole
udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per
la virtù d'essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero.
Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò
di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominciò a venire.
Vedendo ciò,
Buffalmacco disse a Bruno:
- Noi che faremo? Ché non
ce ne andiam noi?
A cui Bruno rispose:
- Andianne; ma io giuro a
Dio che mai Calandrino non me ne farà più niuna; e se io gli
fossi presso, come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto
nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa - ; e il
dir le parole e l'aprirsi e '1 dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu
tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e
cominciò a soffiare, ma pur si tacque e andò oltre.
Buffalmacco, recatosi in
mano uno de'ciottoli che raccolti avea, disse a Bruno:
- Deh! vedi bel codolo,
così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! - e lasciato andare,
gli diè con esso nelle reni una gran percossa. E in brieve in cotal
guisa or con una parola, e or con una altra su per lo Mugnone infino alla porta
a San Gallo il vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che
ricolte aveano, alquanto con le guardie de'gabellieri si ristettero; le quali,
prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar
Calandrino con le maggior risa del mondo.
Il quale senza arrestarsi
se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu
la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e
poi per la città, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne
scontrasse, per ciò che quasi a desinare era ciascuno.
Entrossene adunque
Calandrino così carico in casa sua.
Era per avventura la moglie
di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della
scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire,
cominciò proverbiando a dire:
- Mai, frate, il diavol ti
ci reca! ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare.
Il che udendo Calandrino, e
veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a
gridare:
- Ohimè, malvagia
femina, o eri tu costì? Tu m'hai diserto; ma in fè di Dio io te
ne pagherò - ; e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte
pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le
treccie la si gittò a'piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia
e'piedi, tanto le diè per tutta la persona pugna e calci, senza
lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa
valendole il chieder mercé con le mani in croce.
Buffalmacco e Bruno, poi
che co'guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono
alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell'uscio di
lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista
di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso e
affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui dovessero andare.
Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di
pietre, e nell'un de'canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e
rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d'altra parte Calandrino scinto e
ansando a guisa d'uom lasso sedersi.
Dove come alquanto ebbero
riguardato, dissero:
- Che è questo,
Calandrino? Vuoi tu murare, che noi veggiamo qui tante pietre? - E oltre a
questo soggiunsero:
- E monna Tessa che ha?
E'par che tu l'abbi battuta; che novelle son queste?
Calandrino, faticato dal
peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta, e dal
dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere
lo spirito a formare intera la parola alla risposta. Per che soprastando,
Buffalmacco ricominciò:
- Calandrino, se tu aveva
altra ira, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; ché, poi
sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a
diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che
noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai
mai.
A queste parole Calandrino
sforzandosi rispose:
- Compagni, non vi turbate,
l'opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato! avea quella pietra
trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me
domandaste l'un l'altro, io v'era presso a men di diece braccia; e veggendo che
voi ve ne venavate e non mi vedavate, v'entrai innanzi, e continuamente poco
innanzi a voi me ne son venuto.
E, cominciandosi dall'un
de'capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto
aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci
gliel'avessero, e poi seguitò:
- E dicovi che, entrando
alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu
detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que'guardiani a
volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei
compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né
alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sì come quegli che non mi
vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina
maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come
voi sapete, le femine fanno perder la virtù ad ogni cosa: di che io, che
mi poteva dire il più avventurato uom di Firenze, sono rimaso il
più sventurato; e per questo l'ho tanto battuta quant'io ho potuto menar
le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni; che
maladetta sia l'ora che io prima la vidi e quand'ella mi venne in questa casa!
E raccesosi nell'ira, si
voleva levar. per tornare a batterla da capo.
Buffalmacco e Bruno, queste
cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello
che Calandrino diceva, e avevano sì gran voglia di ridere che quasi
scoppiavano; ma, vedendolo furioso levare per battere un'altra volta la moglie,
levatiglisi allo 'ncontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver
la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virtù
alle cose e non le aveva detto che ella si guardasse d'apparirgli innanzi quel
giorno: il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la
ventura non doveva esser sua, o perch'egli aveva in animo d'ingannare i suoi
compagni, a'quali, come s'avvedeva d'averla trovata, il doveva palesare.
E dopo molte parole, non
senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol
malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono.
Giornata ottava - Novella
quarta
Il proposto di Fiesole ama
una donna vedova; non è amato da lei, e credendosi giacer con lei, giace
con una sua fante, e i fratelli della donna vel fanno trovare al vescovo suo.
Venuta era Elissa alla fine
della sua novella, non senza gran piacere di tutta la compagnia avendola
raccontata, quando la reina, ad Emilia voltatasi, le mostrò voler che
ella appresso d'Elissa la sua raccontasse, la quale prestamente così
cominciò.
Valorose donne, quanto i
preti e'frati e ogni cherico sieno sollecitatori delle menti nostre, in
più novelle dette mi ricorda essere mostrato; ma per ciò che dir
non se ne potrebbe tanto che ancora più non ne fosse, io, oltre a
quelle, intendo di dirvene una d'un proposto, il quale, malgrado di tutto il
mondo, voleva che una gentil donna vedova gli volesse bene o volesse ella o no;
la quale, si come molto savia, il trattò sì come egli era degno.
Come ciascuna di voi sa,
Fiesole, il cui poggio noi possiamo di quinci vedere, fu già antichissima
città e grande, come che oggi tutta disfatta sia, né per ciò
è mai cessato che vescovo avuto non abbia, e ha ancora. Quivi vicino
alla maggior chiesa ebbe già una gentil donna vedova, chiamata monna
Piccarda, un suo podere con una casa non troppo grande; e per ciò che la
più agiata donna del mondo non era, quivi la maggior parte dell'anno
dimorava e con lei due suoi fratelli, giovani assai dabbene e cortesi.
Ora avvenne che, usando
questa donna alla chiesa maggiore ed essendo ancora assai giovane e bella e
piacevole, di lei s'innamorò sì forte il proposto della chiesa,
che più qua né più là non vedea. E dopo alcun tempo fu di
tanto ardire, che egli medesimo disse a questa donna il piacer suo, e pregolla
che ella dovesse esser contenta del suo amore e d'amar lui come egli lei amava.
Era questo proposto d'anni
già vecchio, ma di senno giovanissimo, baldanzoso e altiero, e di
sè ogni gran cosa presummeva, con suoi modi e costumi pieni di scede e
di spiacevolezze, e tanto sazievole e rincrescevole che niuna persona era che
ben gli volesse; e se alcuno ne gli voleva poco, questa donna era colei, ché
non solamente non ne gli voleva punto, ma ella l'aveva più in odio che
il mal del capo.
Per che ella, sì
come savia, gli rispose:
- Messere, che voi m'amiate
mi può esser molto caro, e io debbo amar voi e amerovvi volentieri; ma
tra 'vostro amore e 'mio niuna cosa disonesta dee cader mai. Voi siete mio
padre spirituale e siete prete, e già v'appressate molto bene alla
vecchiezza, le quali cose vi debbono fare e onesto e casto; e d'altra parte io
non son fanciulla, alla quale questi innamoramenti steano oggimai bene, e son
vedova; ché sapete quanta onestà nelle vedove si richiede; e per
ciò abbiatemi per iscusata, che al modo che voi mi richiedete io non
v'amerò mai, né così voglio essere amata da voi.
Il proposto, per quella
volta non potendo trarre da lei altro, non fece come sbigottito o vinto al
primo colpo, ma, usando la sua trascutata prontezza, la sollicitò molte
volte e con lettere e con ambasciate, e ancora egli stesso quando nella chiesa
la vedeva venire. Per che, parendo questo stimolo troppo grave e troppo noioso
alla donna, si pensò di volerlosi levar da dosso per quella maniera la
quale egli meritava, poscia che altramenti non poteva; ma cosa alcuna far non
volle, che prima co'fratelli no 'ragionasse. E detto loro ciò che il
proposto verso lei operava, e quello ancora che ella intendeva di fare, e
avendo in ciò piena licenza da loro, ivi a pochi giorni andò alla
chiesa come usata era. La quale come il proposto vide, così se ne venne
verso lei e, come far soleva, per un modo parentevole seco entrò in
parole.
La donna, vedendol venire,
e verso lui riguardando, gli fece lieto viso, e da una parte tiratisi, avendole
il proposto molte parole dette al modo usato, la donna dopo un gran sospiro
disse
- Messere, io ho udito
assai volte che egli non è alcun castello sì forte che, essendo
ogni dì combattuto, non venga fatto d'esser preso una volta, il che io
veggo molto bene in me essere avvenuto. Tanto, ora con dolci parole e ora con
una piacevolezza e ora con un'altra, mi siete andato d'attorno, che voi m'avete
fatto rompere il mio proponimento, e son disposta, poscia che io così vi
piaccio, a volere esser vostra.
Il proposto tutto lieto
disse:
- Madonna, gran
mercè; e a dirvi il vero, io mi son forte maravigliato come voi vi siete
tanto tenuta, pensando che mai più di niuna non m'avvenne; anzi ho io
alcuna volta detto: - Se le femine fossero d'ariento, elle non varrebbon
denaio, per ciò che niuna se ne terrebbe a martello - . Ma lasciamo
andare ora questo: quando e dove potrem noi essere insieme?
A cui la donna rispose:
- Signor mio dolce, il
quando potrebbe essere qual ora più ci piacesse, perciò che io
non ho marito a cui mi convenga render ragion delle notti, ma io non so pensare
il dove.
Disse il proposto:
- Come no? O in casa
vostra?
Rispose la donna:
- Messer, voi sapete che io
ho due fratelli giovani, li quali e di dì e di notte vengono in casa con
lor brigate, e la casa mia non è troppo grande, e per ciò esser
non vi si potrebbe, salvo chi non volesse starvi a modo di mutolo, senza far
motto o zitto alcuno e al buio a modo di ciechi; vogliendo far così, si
potrebbe, per ciò che essi non s'impacciano nella camera mia; ma
è la loro sì allato alla mia, che paroluzza sì cheta non
si può dire che non si senta.
Disse allora il proposto:
- Madonna, per questo non
rimanga per una notte per due, intanto che io pensi dove noi possiamo essere in
altra parte con più agio.
La donna disse:
- Messere, questo stea pure
a voi; ma d'una cosa vi priego: che questo stea segreto, che mai parola non se
ne sappia.
Il proposto disse allora:
- Madonna, non dubitate di
ciò, e se esser puote, fate che istasera noi siamo insieme.
La donna disse:
- Piacemi - ; e datogli
l'ordine come e quando venir dovesse, si partì e tornossi a casa.
Aveva questa donna una sua
fante, la qual non era però troppo giovane, ma ella aveva il più
brutto viso e il più contrafatto che si vedesse mai; ché ella aveva il
naso schiacciato forte e la bocca torta e le labbra grosse e i denti mal
composti e grandi, e sentiva del guercio, né mai era senza mal d'occhi, con un
color verde e giallo, che pareva che non a Fiesole ma a Sinigaglia avesse fatta
la state; e oltre a tutto questo era sciancata e un poco monca dal lato destro;
e il suo nome era Ciuta; e perché così cagnazzo viso avea, da ogn'uomo
era chiamata Ciutazza. E benché ella fosse contrafatta della persona, ella era
pure alquanto maliziosetta.
La quale la donna
chiamò a sè e dissele:
- Ciutazza, se tu mi vuoi
fare un servigio stanotte, io ti donerò una bella camicia nuova.
La Ciutazza, udendo
ricordar la camicia, disse:
- Madonna, se voi mi date
una camicia, io mi gitterò nel fuoco, non che altro.
- Or ben, - disse la donna
- io voglio che tu giaccia stanotte con uno uomo entro il letto mio, e che tu
gli faccia carezze, e guarditi ben di non far motto, sì che tu non fossi
sentita da'fratei miei, ché sai che ti dormono allato; e poscia io ti
darò la camicia.
La Ciutazza disse:
- Sì dormirò
io con sei, non che con uno, se bisognerà.
Venuta adunque la sera,
messer lo proposto venne, come ordinato gli era stato, e i due giovani, come la
donna composto avea, erano nella camera loro e facevansi ben sentire; per che
il proposto, tacitamente e al buio nella camera della donna entratosene, se
n'andò, come ella gli disse, al letto, e dall'altra parte la Ciutazza,
ben dalla donna informata di ciò che a far avesse.
Messer lo proposto,
credendosi aver la donna sua allato, si recò in braccio la Ciutazza, e
cominciolla a baciar senza dir parola, e la Ciutazza lui; e cominciossi il
proposto a sollazzar con lei, la possession pigliando de'beni lungamente
disiderati.
Quando la donna ebbe questo
fatto, impose a'fratelli che facessero il rimanente di ciò che ordinato
era; li quali, chetamente della camera usciti, n'andarono verso la piazza, e fu
lor la fortuna in quello che far volevano più favorevole che essi
medesimi non dimandavano; per ciò che, essendo il caldo grande, aveva
domandato il vescovo di questi due giovani, per andarsi infino a casa lor
diportando e ber con loro. Ma come venir gli vide, così detto loro il
suo disidero, con loro si mise in via, e in una lor corticella fresca entrato,
dove molti lumi accesi erano, con gran piacer bevve d'un loro buon vino.
E avendo bevuto, dissono i
giovani:
- Messer, poi che tanta di
grazia n'avete fatto, che degnato siete di visitar questa nostra piccola
casetta, alla quale noi venavamo ad invitarvi, noi vogliam che vi piaccia di
voler vedere una cosetta che noi vi vogliam mostrare.
Il vescovo rispose che
volentieri; per che l'un de'giovani, preso un torchietto acceso in mano e
messosi innanzi, seguitandolo il vescovo e tutti gli altri, si dirizzò
verso la camera dove messer lo proposto giaceva con la Ciutazza. Il quale, per
giugner tosto, s'era affrettato di cavalcare, ed era, avanti che costor quivi
venissero, cavalcato già delle miglia più di tre; per che
istanchetto, avendo, non ostante il caldo, la Ciutazza in braccio, si riposava.
Entrato adunque con lume in
mano il giovane nella camera, e il vescovo appresso e poi tutti gli altri, gli
fu mostrato il proposto con la Ciutazza in braccio. In questo destatosi messer
lo proposto, e veduto il lume e questa gente dattornosi, vergognandosi forte e
temendo, mise il capo sotto i panni. Al quale il vescovo disse una gran
villania, e fecegli trarre il capo fuori e vedere con cui giaciuto era.
Il proposto, conosciuto lo
'nganno della donna, sì per quello e sì per lo vituperio che aver
gli parea, subito divenne il più doloroso uomo che fosse mai; e per
comandamento del vescovo rivestitosi, a patir gran penitenza del peccato
commesso con buona guardia ne fu mandato alla chiesa. Volle il vescovo appresso
sapere come questo fosse avvenuto, che egli quivi con la Ciutazza fosse a
giacere andato. I giovani gli dissero ordinatamente ogni cosa. Il che il
vescovo udito, commendò molto la donna e i giovani altressì, che,
senza volersi del sangue de'preti imbrattar le mani, lui sì come egli
era degno avean trattato.
Questo peccato gli fece il
vescovo piagnere quaranta dì, ma amore e isdegno gliele fecero piagnere
più di quarantanove, senza che, poi ad un gran tempo, egli non poteva
mai andar per via che egli non fosse da'fanciulli mostrato a dito, li quali
dicevano:
- Vedi colui che giacque
con la Ciutazza - ; il che gli era sì gran noia, che egli ne fu quasi in
su lo 'mpazzare.
E in così fatta
guisa la valente donna si tolse da dosso la noia dello impronto proposto; e la
Ciutazza guadagnò la camicia.
Giornata ottava - Novella
quinta
Tre giovani traggono le
brache ad un giudice marchigiano in Firenze, mentre che egli, essendo al banco,
teneva ragione.
Fatto aveva Emilia fine al
suo ragionamento, essendo stata la vedova donna commendata da tutti, quando la
reina, a Filostrato guardando, disse:
- A te viene ora il dover
dire.
Per la qual cosa egli
prestamente rispose sè essere apparecchiato, e cominciò.
Dilettose donne, il giovane
che Elissa poco avanti nominò, cioè Maso del Saggio, mi
farà lasciare stare una novella la quale io di dire intendeva, per dirne
una di lui e d'alcuni suoi compagni, la quale ancora che disonesta non sia, per
ciò che vocaboli in essa s'usano che voi d'usar vi vergognate, nondimeno
è ella tanto da ridere, che io la pur dirò.
Come voi tutte potete avere
udito, nella nostra città vengono molto spesso rettori marchigiani, li
quali generalmente sono uomini di povero cuore e di vita tanto strema e tanto
misera, che altro non pare ogni lor fatto che una pidocchieria; e per questa
loro innata miseria e avarizia, menan seco e giudici e notai, che paion uomini
levati più tosto dallo aratro o tratti dalla calzoleria, che delle
scuole delle leggi.
Ora, essendovene venuto uno
per podestà, tra gli altri molti giudici che seco menò, ne
menò uno il quale si facea chiamare messer Niccola da San Lepidio, il
qual pareva più tosto un magnano che altro a vedere, e fu posto costui
tra gli altri giudici ad udire le quistion criminali.
E come spesso avviene che,
bene che i cittadini non abbiano a fare cosa del mondo a Palagio, pur talvolta
vi vanno, avvenne che Maso del Saggio una mattina, cercando d'un suo amico,
v'andò; e venutogli guardato là dove questo messer Niccola
sedeva, parendogli che fosse un nuovo uccellone, tutto il venne considerando.
E, come che egli gli vedesse il vaio tutto affumicato in capo e un pennaiuolo a
cintola, e più lunga la gonnella che la guarnacca, e assai altre cose
tutte strane da ordinato e costumato uomo, tra queste una, ch'è
più notabile che alcuna dell'altre, al parer suo, ne gli vide, e
ciò fu un paio di brache, le quali, sedendo egli e i panni per
istrettezza standogli aperti dinanzi, vide che il fondo loro in fino a mezza
gamba gli aggiugnea.
Per che, senza star troppo
a guardarle, lasciato quello che andava cercando, incominciò a far cerca
nuova, e trovò due suoi compagni, de'quali l'uno aveva nome Ribi e
l'altro Matteuzzo, uomini ciascun di loro non meno sollazzevoli che Maso, e
disse loro:
- Se vi cal di me, venite
meco infino a Palagio, ché io vi voglio mostrare il più nuovo
squasimodeo che voi vedeste mai.
E con loro andatosene in
Palagio, mostrò loro questo giudice e le brache sue. Costoro dalla lungi
cominciarono a ridere di questo fatto, e fattisi più vicini alle panche
sopra le quali messer lo giudice stava, vider che sotto quelle panche molto
leggiermente si poteva andare, e oltre a ciò videro rotta l'asse sopra
la quale messer lo giudicio teneva i piedi, tanto che a grand'agio vi si poteva
mettere la mano e '1 braccio.
E allora Maso disse
a'compagni:
- Io voglio che noi gli
traiamo quelle brache del tutto, per ciò che si può troppo bene.
Aveva già ciascun
de'compagni veduto come: per che, fra sè ordinato che dovessero fare e
dire, la seguente mattina vi ritornarono; ed essendo la corte molto piena
d'uomini, Matteuzzo, che persona non se ne avvide, entrò sotto il banco
e andossene appunto sotto il luogo dove il giudice teneva i piedi. Maso dall'un
de'lati accostatosi a messer lo giudice, il prese per lo lembo della guarnacca,
e Ribi accostatosi dall'altro e fatto il simigliante, incominciò Maso a
dire:
- Messer, o messere; io vi
priego per Dio, che, innanzi che cotesto ladroncello, che v'è
costì dallato, vada altrove, che voi mi facciate rendere un mio paio
d'uose le quali egli m'ha imbolate, e dice pur di no, e io il vidi, non
è ancora un mese, che le faceva risolare.
Ribi dall'altra parte
gridava forte:
- Messere, non gli credete,
ché egli è un ghiottoncello, e perché egli sa che io son venuto a
richiamarmi di lui d'una valigia la quale egli m'ha imbolata, ed egli è
testè venuto e dice dell'uose, che io m'aveva in casa infin vie
l'altrieri, e se voi non mi credeste, io vi posso dare per testimonia la trecca
mia dallato, e la Grassa ventraiuola, e un che va raccogliendo la spazzatura da
Santa Maria a Verzaia, che '1 vide quando egli tornava di villa.
Maso d'altra parte non
lasciava dire a Ribi, anzi gridava, e Ribi gridava ancora. E mentre che il
giudice stava ritto e loro più vicino per intendergli meglio, Matteuzzo,
preso tempo, mise la mano per lo rotto dell'asse, e pigliò il fondo
delle brache del giudice, e tirò giù forte. Le brache ne venner
giuso incontanente, per ciò che il giudice era magro e sgroppato. Il
quale, questo fatto sentendo e non sappiendo che ciò si fosse, volendosi
tirare i panni dinanzi e ricoprirsi e porsi a sedere, Maso dall'un lato e Ribi
dall'altro pur tenendolo e gridando forte:
- Messer, voi fate villania
a non farmi ragione, e non volermi udire, e volervene andare altrove; di
così piccola cosa, come questa è, non si dà libello in
questa terra - ; e tanto in queste parole il tennero per li panni, che quanti
nella corte n'erano s'accorsero essergli state tratte le brache. Ma Matteuzzo,
poi che alquanto tenute l'ebbe, lasciatele, se n'uscì fuori e andossene
senza esser veduto.
Ribi, parendogli di aver
assai fatto, disse:
- Io fo boto a Dio
d'aiutarmene al sindacato.
E Maso dall'altra parte,
lasciatagli la guarnacca disse:
- No, io ci pur
verrò tante volte, che io vi troverrò così impacciato come
voi siete paruto stamane - ; e l'uno in qua e l'altro in là, come
più tosto poterono, si partirono.
Messer lo giudice, tirate
in su le brache in presenza d'ogni uomo, come se da dormir si levasse
accorgendosi pure allora del fatto, domandò dove fossero andati quegli
che dell'uose e della valigia avevan quistione; ma, non ritrovandosi,
cominciò a giurare per le budella di Dio che e'gli conveniva cognoscere
e saper se egli s'usava a Firenze di trarre le brache a'giudici, quando
sedevano al banco della ragione.
Il podestà d'altra
parte, sentitolo, fece un grande schiamazzio; poi per suoi amici mostratogli
che questo non gli era fatto se non per mostrargli che i fiorentini conoscevano
che, dove egli doveva aver menati giudici, egli aveva menati becconi per averne
miglior mercato, per lo miglior si tacque, né più avanti andò la
cosa per quella volta.
Giornata ottava - Novella
sesta
Bruno e Buffalmacco
imbolano un porco a Calandrino; fannogli fare la sperienzia da ritrovarlo con
galle di gengiovo e con vernaccia, e a lui ne danno due, l'una dopo l'altra, di
quelle del cane confettate in aloè, e pare che l'abbia avuto egli
stesso; fannolo ricomperare, se egli non vuole che alla moglie il dicano.
Non ebbe prima la novella
di Filostrato fine, della quale molto si rise, che la reina a Filomena impose
che seguitando dicesse; la quale incominciò.
Graziose donne, come
Filostrato fu dal nome di Maso tirato a dover dire la novella la quale da lui
udita avete, così né più né men son tirata io da quello di
Calandrino e de'compagni suoi a dirne un'altra di loro, la qual, sì come
io credo, vi piacerà.
Chi Calandrino, Bruno e
Buffalmacco fossero non bisogna che io vi mostri, ché assai l'avete di sopra
udito; e per ciò, più avanti faccendomi, dico che Calandrino
aveva un suo poderetto non guari lontano da Firenze, che in dote aveva avuto
della moglie, del quale tra l'altre cose che su vi ricoglieva, n'aveva ogn'anno
un porco, ed era sua usanza sempre colà di dicembre d'andarsene la
moglie ed egli in villa, e ucciderlo e quivi farlo salare.
Ora avvenne una volta tra
l'altre che, non essendo la moglie ben sana, Calandrino andò egli solo
ad uccidere il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco, e sappiendo
che la moglie di lui non v'andava, se n'andarono ad un prete loro grandissimo
amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì.
Aveva Calandrino, la
mattina che costor giunsero il dì, ucciso il porco, e vedendogli col
prete, gli chiamò e disse:
- Voi siate i ben venuti. Io
voglio che voi veggiate che massaio io sono; e menatigli in casa, mostrò
loro questo porco.
Videro costoro il porco
esser bellissimo, e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva
salare. A cui Brun disse:
- Deh! come tu se'grosso!
Vendilo, e godianci i denari; e a mogliata dì che ti sia stato imbolato.
Calandrino disse:
- No, ella nol crederrebbe,
e caccerebbemi fuor di casa; non v'impacciate, ché io nol farei mai.
Le parole furono assai, ma
niente montarono. Calandrino gl'invitò a cena cotale alla trista,
sì che costoro non vi vollon cenare, e partirsi da lui.
Disse Bruno a Buffalmacco:
- Vogliangli noi imbolare
stanotte quel porco?
Disse Buffalmacco:
- O come potremmo noi?
Disse Bruno:
- Il come ho io ben veduto,
se egli nol muta di là ove egli era testé.
- Adunque,- disse
Buffalmacco - faccianlo; perché nol faremo noi? E poscia cel goderemo qui
insieme col domine.
Il prete disse che gli era
molto caro.
Disse allora Bruno:
- Qui si vuole usare un
poco d'arte: tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli
bee volentieri quando altri paga; andiamo e meniallo alla taverna, e quivi il
prete faccia vista di pagare tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla;
egli si ciurmerà, e verracci troppo ben fatto poi, per ciò che
egli è solo in casa. Come Brun disse, così fecero. Calandrino,
veggendo che il prete nol lasciava pagare, si diede in sul bere, e benché non
ne gli bisognasse troppo, pur si caricò bene; ed essendo già
buona ora di notte quando dalla taverna si partì, senza volere
altramenti cenare, se n'entrò in casa, e credendosi aver serrato
l'uscio, il lasciò aperto e andossi al letto.
Buffalmacco e Bruno se
n'andarono a cenare col prete, e, come cenato ebbero, presi loro argomenti per
entrare in casa Calandrino là onde Bruno aveva divisato, là
chetamente n'andarono; ma, trovando aperto l'uscio, entrarono dentro, e
ispiccato il porco, via a casa del prete nel portarono, e ripostolo, se
n'andarono a dormire.
Calandrino, essendogli il
vino uscito del capo, si levò la mattina, e, come scese giù,
guardò e non vide il porco suo, e vide l'uscio aperto; per che,
domandato questo e quell'altro se sapessero chi il porco s'avesse avuto, e non
trovandolo, incominciò a fare il romore grande: ohisé, dolente sé, che il
porco gli era stato imbolato.
Bruno e Buffalmacco
levatisi, se n'andarono verso Calandrino, per udir ciò che egli del
porco dicesse. Il qual, come gli vide, quasi piagnendo chiamatigli, disse:
- Ohimè, compagni
miei, che il porco mio m'è stato imbolato.
Bruno, accostatoglisi, pianamente
gli disse:
- Maraviglia, che se'stato
savio una volta.
- Ohimè,- disse
Calandrino - ché io dico da dovero.
- Così di',- diceva
Bruno - grida forte sì, che paia bene che sia stato cosi.
Calandrino gridava allora
più forte e diceva:
- Al corpo di Dio, che io
dico da dovero che egli m'è stato imbolato.
E Bruno diceva:
- Ben di', ben di': e'si
vuol ben dir così, grida forte fatti ben sentire, sì che egli
paia vero.
Disse Calandrino:
- Tu mi faresti dar l'anima
al nimico. Io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la gola,
che egli m'è stato imbolato.
Disse allora Bruno:
- Deh! come dee potere
esser questo? Io il vidi pure ieri costì. Credimi tu far credere che
egli sia volato?
Disse Calandrino:
- Egli è come io ti
dico.
- Deh! - disse Bruno -
può egli essere?
- Per certo,- disse
Calandrino - egli è così, di che io son diserto e non so come io
mi torni a casa: mogliema nol mi crederà, e se ella il mi pur crede, io
non avrò uguanno pace con lei.
Disse allora Bruno:
- Se Dio mi salvi, questo
è mal fatto, se vero è; ma tu sai, Calandrino, che ieri io
t'insegnai dir così: io non vorrei che tu ad un'ora ti facessi beffe di
moglieta e di noi.
Calandrino
incominciò a gridare e a dire:
- Deh perché mi farete
disperare e bestemmiare Iddio e'santi e ciò che v'è? Io vi dico
che il porco m'è stato sta notte imbolato.
Disse allora Buffalmacco:
- Se egli è pur
così, vuolsi veder via, se noi sappiamo, di riaverlo.
- E che via - disse
Calandrino - potrem noi trovare?
Disse allora Buffalmacco:
- Per certo egli non
c'è venuto d'India niuno a torti il porco; alcuno di questi tuoi vicini
dee essere stato; e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare la
esperienza del pane e del formaggio e vederemmo di botto chi l'ha avuto.
- Sì,- disse Bruno
ben farai con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha dattorno, ché
son certo che alcun di loro l'ha avuto, e avvederebbesi del fatto, e non ci
vorrebber venire.
- Come è dunque da
fare? - disse Buffalmacco.
Rispose Bruno:
- Vorrebbesi fare con belle
galle di gengiovo e con bella vernaccia, e invitargli a bere. Essi non sel
penserebbono e verrebbono; e così si possono benedire le galle del
gengiovo, come il pane e 'cacio.
Disse Buffalmacco:
- Per certo tu di'il vero;
e tu, Calandrino, che di'? Vogliallo fare?
Disse Calandrino:
- Anzi ve ne priego io per
l'amor di Dio; ché, se io sapessi pur chi l'ha avuto, sì mi parrebbe
esser mezzo consolato.
- Or via, - disse Bruno -
io sono acconcio d'andare infino a Firenze per quelle cose in tuo servigio, se
tu mi dai i denari.
Aveva Calandrino forse
quaranta soldi, li quali egli gli diede.
Bruno, andatosene a Firenze
ad un suo amico speziale, comperò una libbra di belle galle di gengiovo,
e fecene far due di quelle del cane, le quali egli fece confettare in uno
aloè patico fresco; poscia fece dar loro le coverte del zucchero, come
avevan l'altre, e per non ismarrirle o scambiarle, fece lor fare un certo
segnaluzzo per lo quale egli molto bene le conoscea, e comperato un fiasco
d'una buona vernaccia, se ne tornò in villa a Calandrino e dissegli:
- Farai che tu inviti
domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto; egli è
festa, ciascun verrà volentieri, e io farò stanotte insieme con
Buffalmacco la 'ncantagione sopra le galle, e recherolleti domattina a casa, e
per tuo amore io stesso le darò, e farò e dirò ciò
che fia da dire e da fare.
Calandrino così
fece.
Ragunata adunque una buona
brigata tra di giovani fiorentini, che per la villa erano, e di lavoratori, la
mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all'olmo, Bruno e Buffalmacco
vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino, e fatti stare costoro
in cerchio, disse Bruno:
- Signori, e'mi vi convien
dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro avvenisse che
non vi piacesse, voi non v'abbiate a ramaricar di me. A Calandrino, che qui
è, fu ier notte tolto un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se
l'abbia; e per ciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele
dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l'ha, vi dà a
mangiar queste galle una per uno, e bere. E infino da ora sappiate che chi
avuto avrà il porco, non potrà mandar giù la galla, anzi
gli parrà più amara che veleno, e sputeralla; e per ciò,
anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse il
meglio che quel cotale che avuto l'avesse, in penitenzia il dica al sere, e io
mi rimarrò di questo fatto.
Ciascun che v'era disse che
ne voleva volentier mangiare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra
loro, cominciatosi all'un de'capi, cominciò a dare a ciascun la sua, e,
come fu per mei Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano.
Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a
masticare; ma sì tosto come la lingua sentì l'aloè,
così Calandrino, non potendo l'amaritudine sostenere, la sputò
fuori.
Quivi ciascun guatava nel
viso l'uno all'altro, perveder chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora
compiuto di darle, non faccendo sembianti d'intendere a ciò,
s'udì dir dietro: - Eja, Calandrino, che vuol dir questo? - per che
prestamente rivolto, e veduto che Calandrino la sua aveva sputata, disse:
- Aspettati, forse che
alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne un'altra -; e presa la seconda,
gliele mise in bocca, e fornì di dare l'altre che a dare aveva.
Calandrino, se la prima gli
era paruta amara, questa gli parve amarissima; ma pur vergognandosi di
sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò
a gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì eran grosse; e ultimamente,
non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto.
Buffalmacco faceva dar bere
alla brigata, e Bruno; li quali, insieme con gli altri questo vedendo, tutti
dissero che per certo Calandrino se l'aveva imbolato egli stesso; e furonvene
di quegli che aspramente il ripresono.
Ma pur, poi che partiti si
furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl'incominciò
Buffalmacco a dire:
- Io l'aveva per lo certo
tuttavia che tu te l'avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato
imbolato, per non darci una volta bere de'denari che tu n'avesti.
Calandrino, il quale ancora
non aveva sputata l'amaritudine dello aloè, incominciò a giurare
che egli avuto non l'avea.
Disse Buffalmacco:
- Ma che n'avesti, sozio,
alla buona fè? Avestine sei?
Calandrino, udendo questo,
s'incominciò a disperare. A cui Brun disse:
- Intendi sanamente,
Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevve,
che mi disse che tu avevi quinci su una giovinetta che tu tenevi a tua posta, e
davile ciò che tu potevi rimedire, e che egli aveva per certo che tu
l'avevi mandato questo porco. Tu sì hai apparato ad esser beffardo! Tu
ci menasti una volta giù per lo Mugnone ricogliendo pietre nere, e
quando tu ci avesti messo in galea senza biscotto, e tu te ne venisti; e poscia
ci volevi far credere che tu l'avessi trovata; e ora similmente ti credi
co'tuoi giuramenti far credere altressì che il porco, che tu hai donato
o ver venduto, ti sia stato imbolato. Noi sì siamo usi delle tue beffe e
conoscialle; tu non ce ne potresti far più; e per ciò, a dirti il
vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l'arte, per che noi intendiamo che tu
ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa.
Calandrino, vedendo che
creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il
riscaldamento della moglie, diede a costoro due paia di capponi. Li quali,
avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col
danno e con le beffe.
Giornata ottava - Novella
settima
Uno scolare ama una donna
vedova, la quale, innamorata d'altrui, una notte di verno il fa stare sopra la
neve ad aspettarsi; la quale egli poi, con un suo consiglio, di mezzo luglio
ignuda tutto un dì la fa stare in su una torre alle mosche e a'tafani e
al sole.
Molto avevan le donne riso
del cattivello di Calandrino, e più n'avrebbono ancora, se stato non
fosse che loro in crebbe di vedergli torre ancora i capponi, a color che tolto
gli aveano il porco. Ma poi che la fine fu venuta, la reina a Pampinea impose
che dicesse la sua; ed essa prestamente così cominciò.
Carissime donne, spesse
volte avviene che l'arte è dall'arte schernita, e per ciò
è poco senno il dilettarsi di schernire altrui.
Noi abbiamo per più
novellette dette riso molto delle beffe state fatte, delle quali niuna vendetta
esserne stata fatta s'è raccontato; ma io intendo di farvi avere
alquanta compassione d'una giusta retribuzione ad una nostra cittadina renduta,
alla quale la sua beffa presso che con morte, essendo beffata, ritornò
sopra il capo. E questo udire non sarà senza utilità di voi, per
ciò che meglio di beffare altrui vi guarderete, e farete gran senno.
Egli non sono ancora molti
anni passati, che in Firenze fu una giovane del corpo bella e d'animo altiera e
di legnaggio assai gentile, de'beni della fortuna convenevolmente abondante e
nominata Elena; la quale rimasa del suo marito vedova, mai più rimaritar
non si volle, essendosi ella d'un giovinetto bello e leggiadro a sua scelta
innamorata; e da ogni altra sollicitudine sviluppata, con l'opera d'una sua
fante, di cui ella si fidava molto, spesse volte con lui con maraviglioso
diletto si dava buon tempo.
Avvenne che in questi tempi
un giovane chiamato Rinieri, nobile uomo della nostra città, avendo
lungamente studiato a Parigi, non per vender poi la sua scienzia a minuto, come
molti fanno, ma per sapere la ragion delle cose e la cagion d'esse (il che
ottimamente sta in gentile uomo), tornò da Parigi a Firenze; e quivi
onorato molto sì per la sua nobiltà e sì per la sua
scienzia, cittadinescamente viveasi.
Ma, come spesso avviene,
coloro ne'quali è più l'avvedimento delle cose profonde
più tosto da amore essere incapestrati, avvenne a questo Rinieri. Al
quale, essendo egli un giorno per via di diporto andato ad una festa, davanti
agli occhi si parò questa Elena, vestita di nero sì come le
nostre vedove vanno, piena di tanta bellezza al suo giudicio e di tanta piacevolezza,
quanto alcuna altra ne gli fosse mai paruta vedere; e seco estimò colui
potersi beato chiamare, al quale Iddio grazia facesse lei potere ignuda nelle
braccia tenere. E una volta e altra cautamente riguardatala, e conoscendo che
le gran cose e care non si possono senza fatica acquistare, seco
diliberò del tutto di porre ogni pena e ogni sollicitudine in piacere a
costei, acciò che per lo piacerle il suo amore acquistasse, e per questo
il potere aver copia di lei.
La giovane donna, la quale
non teneva gli occhi fitti in inferno, ma, quello e più tenendosi che
ella era, artificiosamente movendogli si guardava dintorno, e prestamente
conosceva chi con diletto la riguardava, accortasi di Rinieri, in sé stessa
ridendo disse: - Io non ci sarò oggi venuta in vano, ché, se io non
erro, io avrò preso un paolin per lo naso - . E cominciatolo con la coda
dell'occhio alcuna volta a guardare, in quanto ella poteva, s'ingegnava di
dimostrar gli che di lui le calesse; d'altra parte, pensandosi che quanti
più n'adescasse e prendesse col suo piacere, tanto di maggior pregio
fosse la sua bellezza, e massimamente a colui al quale ella insieme col suo
amore l'aveva data.
Il savio scolare, lasciati
i pensier filosofici da una parte, tutto l'animo rivolse a costei; e,
credendosi doverle piacere, la sua casa apparata, davanti v'incominciò a
passare, con varie cagioni colorando l'andate. Al qual la donna, per la cagion
già detta di ciò seco stessa vanamente gloriandosi, mostrava di
vederlo assai volentieri; per la qual cosa lo scolare, trovato modo,
s'accontò con la fante di lei, e il suo amor le scoperse, e la
pregò che con la sua donna operasse sì che la grazia di lei
potesse avere.
La fante promise largamente
e alla sua donna il raccontò, la quale con le maggior risa del mondo
l'ascoltò, e disse:
- Hai veduto dove costui
è venuto a perdere il senno che egli ci ha da Parigi recato? Or via,
diangli di quello ch'e'va cercando. Dira'gli, qualora egli ti parla più,
che io amo molto più lui che egli non ama me; ma che a me si convien di
guardar l'onestà mia, sì che io con l'altre donne possa andare a
fronte scoperta, di che egli, se così è savio come si dice, mi
dee molto più cara avere.
Ahi cattivella, cattivella,
ella non sapeva ben, donne mie, che cosa è il mettere in aia con gli
scolari!
La fante, trovatolo, fece
quello che dalla donna sua le fu imposto.
Lo scolar lieto procedette
a più caldi prieghi e a scriver lettere e a mandar doni, e ogni cosa era
ricevuta, ma in dietro non venivan risposte se non generali; e in questa guisa
il tenne gran tempo in pastura.
Ultimamente, avendo ella al
suo amante ogni cosa scoperta ed egli essendosene con lei alcuna volta turbato
e alcuna gelosia presane, per mostrargli che a torto di ciò di lei
sospicasse, sollicitandola lo scolare molto, la sua fante gli mandò, la
quale da sua parte gli disse che ella tempo mai non aveva avuto da poter fare
cosa che gli piacesse poi che del suo amore fatta l'aveva certa, se non che per
le feste del Natale che s'appressava ella sperava di potere esser con lui; e
per ciò la seguente sera alla festa, di notte, se gli piacesse, nella
sua corte se ne venisse, dove ella per lui, come prima potesse, andrebbe.
Lo scolare, più che
altro uom lieto, al tempo impostogli andò alla casa della donna, e messo
dalla fante in una corte e dentro serratovi, quivi la donna cominciò ad
aspettare.
La donna, avendosi quella
sera fatto venire il suo amante e con lui lietamente avendo cenato, ciò
che fare quella notte intendeva gli ragionò, aggiugnendo:
- E potrai vedere quanto e
quale sia l'amore, il quale io ho portato e porto a colui del quale
scioccamente hai gelosia presa.
Queste parole
ascoltò l'amante con gran piacer d'animo disideroso di vedere per opera
ciò che la donna con parole gli dava ad intendere. Era per avventura il
dì davanti a quello nevicato forte, e ogni cosa di neve era coperta; per
la qual cosa lo scolare fu poco nella corte dimorato, che egli cominciò
a sentir più freddo che voluto non avrebbe; ma, aspettando di
ristorarsi, pur pazientemente il sosteneva.
La donna al suo amante
disse dopo alquanto:
- Andiancene in camera, e
da una finestretta guardiamo ciò che colui, di cui tu se'divenuto
geloso, fa, e quello che egli risponderà alla fante, la quale io gli ho
mandata a favellare.
Andatisene adunque costoro
ad una finestretta, e veggendo senza esser veduti, udiron la fante da un'altra
favellare allo scolare e dire:
- Rinieri, madonna è
la più dolente femina che mai fosse, per ciò che egli ci è
stasera venuto uno de'suoi fratelli e ha molto con lei favellato, e poi volle
cenar con lei, e ancora non se n'è andato; ma io credo che egli se
n'andrà tosto; e per questo non è ella potuta venire a te, ma
tosto verrà oggimai; ella ti priega che non ti incresca l'aspettare.
Lo scolare, credendo questo
esser vero, rispose:
- Dirai alla mia donna che
di me niun pensier si dea in fino a tanto che ella possa con suo acconcio per
me venire; ma che questo ella faccia come più tosto può.
La fante, dentro tornatasi
se n'andò a dormire.
La donna allora disse al
suo amante:
- Ben, che dirai? Credi tu
che io, se quel ben gli volessi che tu temi, sofferissi che egli stesse
là giù ad agghiacciare? - e questo detto, con l'amante suo, che
già in parte era contento, se n'andò a letto, e grandissima pezza
stettero in festa e in piacere, del misero iscolare ridendosi e faccendosi
beffe.
Lo scolare, andando per la
corte, sé esercitava per riscaldarsi, né aveva dove porsi a sedere né dove
fuggire il sereno, e maladiceva la lunga dimora del fratel con la donna; e
ciò che udiva credeva che uscio fosse che per lui dalla donna s'aprisse;
ma invano sperava.
Essa infino vicino della
mezza notte col suo amante sollazzatasi, gli disse:
- Che ti pare, anima mia,
dello scolare nostro? Qual ti par maggiore o il suo senno o l'amore ch'io gli
porto? Faratti il freddo che io gli fo patire uscir del petto quello che per li
miei motti vi t'entrò l'altrieri?
L'amante rispose:
- Cuor del corpo mio,
sì, assai conosco che così come tu se'il mio bene e il mio riposo
e il mio diletto e tutta la mia speranza, così sono io la tua.
- Adunque,- diceva la donna
- or mi bacia ben mille volte, a veder se tu di'vero.- Per la qual cosa
l'amante, abbracciandola stretta, non che mille, ma più di cento milia
la baciava. E poi che in cotale ragionamento stati furono alquanto, disse la
donna:
- Deh! levianci un poco, e
andiamo a vedere se 'l fuoco è punto spento, nel quale questo mio
novello amante tutto il dì mi scrivea che ardeva.
E levati, alla finestretta
usata n'andarono, e nella corte guardando, videro lo scolare fare su per la
neve una carola trita al suon d'un batter di denti, che egli faceva per troppo
freddo, sì spessa e ratta, che mai simile veduta non aveano.
Allora disse la donna:
- Che dirai, speranza mia
dolce? Parti che io sappia far gli uomini carolare senza suono di trombe o di
cornamusa?
A cui l'amante ridendo
rispose:
- Diletto mio grande,
sì.
Disse la donna:
- Io voglio che noi andiamo
infin giù all'uscio: tu ti starai cheto e io gli parlerò, e
udirem quello che egli dirà; e per avventura n'avrem non men festa che
noi abbiam di vederlo.
E aperta la camera
chetamente, se ne scesero all'uscio, e quivi, senza aprir punto, la donna con
voce sommessa da un pertugetto che v'era il chiamò.
Lo scolare, udendosi
chiamare, lodò Iddio, credendosi troppo bene entrar dentro; e
accostatosi all'uscio disse:
- Eccomi qui, madonna:
aprite per Dio, ché io muoio di freddo.
La donna disse:
- O sì che io so che
tu se'uno assiderato; e anche è il freddo molto grande, perché
costì sia un poco di neve! Già so io che elle sono molto maggiori
a Parigi. Io non ti posso ancora aprire, per ciò che questo mio
maladetto fratello, che ier sera ci venne meco a cenare, non se ne va ancora;
ma egli se n'andrà tosto, e io verrò incontanente ad aprirti. Io
mi son testé con gran fatica scantonata da lui, per venirti a confortare che
l'aspettar non t'incresca.
Disse lo scolare:
- Deh! madonna, io vi
priego per Dio che voi m'apriate, acciò che io possa costì dentro
stare al coperto, per ciò che da poco in qua s'è messa la più
folta neve del mondo, e nevica tuttavia; e io v'attenderò quanto vi
sarà a grado.
Disse la donna:
- Ohimè, ben mio
dolce, che io non posso ché questo uscio fa sì gran romore quando
s'apre, che leggermente sarei sentita da fratelmo, se io t'aprissi; ma io
voglio andare a dirgli che se ne vada, acciò che io possa poi tornare ad
aprirti.
Disse lo scolare:
- Ora andate tosto; e
priegovi che voi facciate fare un buon fuoco, acciò che, come io
enterrò dentro, io mi possa riscaldare, ché io son tutto divenuto sì
freddo che appena sento di me.
Disse la donna:
- Questo non dee potere
essere, se quello è vero che tu m'hai più volte scritto,
cioè che tu per l'amor di me ardi tutto; ma io son certa che tu mi
beffi. Ora io vo: aspettati, e sia di buon cuore.
L'amante, che tutto udiva e
aveva sommo piacere, con lei nel letto tornatosi, poco quella notte dormirono,
anzi quasi tutta in lor diletto e in farsi beffe dello scolare consumarono.
Lo scolare cattivello
(quasi cicogna divenuto, sì forte batteva i denti) accorgendosi d'esser
beffato, più volte tentò l'uscio se aprir lo potesse, e
riguardò se altronde ne potesse uscire; né vedendo il come, faccendo le
volte del leone, maladiceva la qualità del tempo, la malvagità
della donna e la lunghezza della notte, insieme con la sua simplicità; e
sdegnato forte verso di lei, il lungo e fervente amor portatole subitamente in
crudo e acerbo odio transmutò, seco gran cose e varie volgendo a trovar
modo alla vendetta, la quale ora molto più disiderava, che prima d'esser
con la donna non avea disiato.
La notte, dopo molta e
lunga dimoranza, s'avvicinò al dì, e cominciò l'alba ad
apparire. Per la qual cosa la fante della donna ammaestrata, scesa giù,
aperse la corte, e mostrando d'aver compassion di costui, disse:
- Mala ventura possa egli
avere che iersera ci venne. Egli n'ha tutta notte tenute in bistento, e te ha
fatto agghiacciare; ma sai che è? Portatelo in pace, ché quello che
stanotte non è potuto essere sarà un'altra volta; so io bene che
cosa non potrebbe essere avvenuta, che tanto fosse dispiaciuta a madonna.
Lo scolare sdegnoso,
sì come savio, il quale sapeva niun'altra cosa le minacce essere che
arme del minacciato, serrò dentro al petto suo ciò che la non
temperata volontà s'ingegnava di mandar fuori, e con voce sommessa, senza
punto mostrarsi crucciato, disse:
- Nel vero io ho avuta la
piggior notte che io avessi mai, ma bene ho conosciuto che di ciò non ha
la donna alcuna colpa, per ciò che essa medesima, sì come pietosa
di me, infin quaggiù venne a scusar sé e a confortar me; e come tu di',
quello che stanotte non è stato sarà un'altra volta;
raccomandalemi e fatti con Dio.
E quasi tutto rattrappato,
come potè a casa sua se ne tornò; dove, essendo stanco e di sonno
morendo, sopra il letto si gittò a dormire, donde tutto quasi perduto
delle braccia e delle gambe si destò. Per che, mandato per alcun medico
e dettogli il freddo che avuto avea, alla sua salute fe'provedere.
Li medici con grandissimi
argomenti e con presti aiutandolo, appena dopo alquanto di tempo il poterono
de'nervi guerire e far sì che si distendessero; e se non fosse che egli
era giovane e sopravveniva il caldo, egli avrebbe avuto troppo da sostenere. Ma
ritornato sano e fresco, dentro il suo odio servando, vie più che mai si
mostrava innamorato della vedova sua.
Ora avvenne, dopo certo
spazio di tempo, che la fortuna apparecchiò caso da poter lo scolare al
suo disiderio sodisfare; per ciò che, essendosi il giovane che dalla
vedova era amato (non avendo alcun riguardo all'amore da lei portatogli), innamorato
di un'altra donna, e non volendo né poco né molto dire né far cosa che a lei
fosse a piacere, essa in lagrime e in amaritudine si consumava. Ma la sua
fante, la qual gran compassion le portava, non trovando modo da levar la sua
donna dal dolor preso per lo perduto amante, vedendo lo scolare al modo usato
per la contrada passare, entrò in uno sciocco pensiero, e ciò fu
che l'amante della donna sua ad amarla come far solea si dovesse poter riducere
per alcuna nigromantica operazione, e che di ciò lo scolare dovesse
essere gran maestro, e disselo alla sua donna.
La donna poco savia, senza
pensare che, se lo scolare saputo avesse nigromantia, per sé adoperata
l'avrebbe, pose l'animo alle parole della sua fante, e subitamente le disse che
da lui sapesse se fare il volesse, e sicuramente gli promettesse che per merito
di ciò, ella farebbe ciò che a lui piacesse.
La fante fece l'ambasciata
bene e diligentemente, la quale udendo lo scolare, tutto lieto seco medesimo
disse: - Iddio lodato sie tu: venuto è il tempo che io farò col
tuo aiuto portar pena alla malvagia femina della ingiuria fattami in premio del
grande amore che io le portava - . E alla fante disse:
- Dirai alla mia donna che
di questo non stea in pensiero, che, se il suo amante fosse in India, io gliele
farò prestamente venire e domandar mercé di ciò che contro al suo
piacere avesse fatto; ma il modo che ella abbia a tenere intorno a ciò,
attendo di dire a lei, quando e dove più le piacerà; e
così le di', e da mia parte la conforta.
La fante fece la risposta,
e ordinossi che in Santa Lucia del Prato fossero insieme.
Quivi venuta la donna e lo
scolare, e soli insieme parlando, non ricordandosi ella che lui quasi alla
morte condotto avesse, gli disse apertamente ogni suo fatto e quello che
disiderava, e pregollo per la sua salute. A cui lo scolar disse:
- Madonna, egli è il
vero che tra l'altre cose che io apparai a Parigi si fu nigromantia, della
quale per certo io so ciò che n'è, ma per ciò che ella
è di grandissimo dispiacer di Dio, io avea giurato di mai né per me né
per altrui adoperarla. E il vero che l'amore il quale io vi porto è di
tanta forza, che io non so come io mi nieghi cosa che voi vogliate che io
faccia; e per ciò, se io ne dovessi per questo solo andare a casa del
diavolo, sì son presto di farlo, poi che vi piace. Ma io vi ricordo che
ella è più malagevole cosa a fare che voi per
avventura non v'avvisate; e
massimamente quando una donna vuole rivocare uno uomo ad amar sé o l'uomo una
donna, per ciò che questo non si può far se non per la propria persona
a cui appartiene; e a far ciò convien che chi 'l fa sia di sicuro animo,
per ciò che di notte si convien fare e in luoghi solitari e senza
compagnia; le quali cose io non so come voi vi siate a far disposta.
A cui la donna, più
innamorata che savia, rispose:
- Amor mi sprona per
sì fatta maniera, che niuna cosa è la quale io non facessi per
riaver colui che a torto m'ha abbandonata; ma tuttavia, se ti piace, mostrami
in che mi convenga esser sicura.
Lo scolare, che di mal pelo
avea taccata la coda, disse:
- Madonna, a me
converrà fare una imagine di stagno in nome di colui il qual voi
disiderate di racquistare, la quale quando io v'arò mandata,
converrà che voi, essendo la luna molto scema, ignuda in un fiume vivo,
in sul primo sonno e tutta sola, sette volte con lei vi bagniate; e appresso,
così ignuda, n'andiate sopra ad un albero, o sopra una qualche casa
disabitata; e, volta a tramontana con la imagine in mano, sette volte diciate
certe parole che io vi darò scritte; le quali come dette avrete, verranno
a voi due damigelle delle più belle che voi vedeste mai, e sì vi
saluteranno e piacevolmente vi domanderanno quel che voi vogliate che si
faccia. A queste farete che voi diciate bene e pienamente i disideri vostri; e
guardatevi che non vi venisse nominato un per un altro; e come detto l'avrete,
elle si partiranno, e voi ve ne potrete scendere al luogo dove i vostri panni
avrete lasciati e rivestirvi e tornarvene a casa. E per certo, egli non
sarà mezza la seguente notte, che il vostro amante piagnendo vi
verrà a dimandar mercé e misericordia; e sappiate che mai da questa ora
innanzi egli per alcuna altra non vi lascierà.
La donna, udendo queste
cose e intera fede prestandovi, parendole il suo amante già riaver nelle
braccia, mezza lieta divenuta disse:
- Non dubitare, che queste
cose farò io troppo bene, e ho il più bel destro da ciò
del mondo; ché io ho un podere verso il Vai d'Arno di sopra, il quale è
assai vicino alla riva del fiume, ed egli è testé di luglio, che
sarà il bagnarsi dilettevole. E ancora mi ricorda esser non guari
lontana dal fiume una torricella disabitata, se non che per cotali scale di
castagnuoli che vi sono, salgono alcuna volta i pastori sopra un battuto che
v'è, a guardar di lor bestie smarrite (luogo molto solingo e fuor di
mano), sopra la quale io salirò, e quivi il meglio del mondo spero di
fare quello che m'imporrai.
Lo scolare, che ottimamente
sapeva e il luogo della donna e la torricella, contento d'esser certificato
della sua intenzion, disse:
- Madonna, io non fu'mai in
coteste contrade, e per ciò non so il podere né la torricella; ma, se
così sta come voi dite, non può essere al mondo migliore. E per
ciò, quando tempo sarà, vi manderò la imagine e
l'orazione; ma ben vi priego che, quando il vostro disiderio avrete e
conoscerete che io v'avrò ben servita, che vi ricordi di me e
d'attenermi la promessa.
A cui la donna disse di
farlo senza alcun fallo; e preso da lui commiato, se ne tornò a casa.
Lo scolar lieto di
ciò che il suo avviso pareva dovere avere effetto, fece una imagine con
sue cateratte, e scrisse una sua favola per orazione; e, quando tempo gli
parve, la mandò alla donna e mandolle a dire che la notte vegnente senza
più indugio dovesse far quello che detto l'avea; e appresso segretamente
con un suo fante se n'andò a casa d'un suo amico che assai vicino stava
alla torricella, per dovere al suo pensiero dare effetto.
La donna d'altra parte con
la sua fante si mise in via e al suo podere se n'andò; e come la notte
fu venuta, vista faccendo d'andarsi al letto, la fante ne mandò a
dormire, e in su l'ora del primo sonno, di casa chetamente uscita, vicino alla
torricella sopra la riva d'Arno se n'andò, e molto dattorno guatatosi,
né veggendo né sentendo alcuno, spogliatasi e i suoi panni sotto un cespuglio nascosi,
sette volte con la imagine si bagnò, e appresso, ignuda con la imagine
in mano, verso la torricella n'andò.
Lo scolare, il quale in sul
fare della notte, col suo fante tra salci e altri alberi presso della
torricella nascoso s'era, e aveva tutte queste cose vedute, e passandogli ella
quasi allato così ignuda, ed egli veggendo lei con la bianchezza del suo
corpo vincere le tenebre della notte, e appresso riguardandole il petto e
l'altre parti del corpo, e vedendole belle e seco pensando quali infra piccol
termine dovean divenire, sentì di lei alcuna compassione; e d'altra
parte lo stimolo della carne l'assalì subitamente e fece tale in
piè levare che si giaceva, e con fortavalo che egli da guato uscisse e
lei andasse a prendere e il suo piacer ne facesse; e vicin fu ad essere tra
dall'uno e dal l'altro vinto. Ma nella memoria tornandosi chi egli era, e qual
fosse la 'ngiuria ricevuta, e perché e da cui, e per ciò nel lo sdegno
raccesosi, e la compassione e il carnale appetito cacciati, stette nel suo proponimento
fermo, e lasciolla andare.
La donna, montata in su la
torre e a tramontana rivolta, cominciò a dire le parole datele dallo
scolare; il quale, poco appresso nella torricella entrato, chetamente a poco a
poco levò quella scala che saliva in sul battuto dove la donna era, e
appresso aspettò quello che ella dovesse dire e fare.
La donna, detta sette volte
la sua orazione, cominciò ad aspettare le due damigelle, e fu sì
lungo l'aspettare (senza che fresco le faceva troppo più che voluto non
avrebbe) che ella vide l'aurora apparire; per che, dolente che avvenuto non era
ciò che lo scolare detto l'avea, seco disse: - Io temo che costui non
m'abbia voluto dare una notte chente io diedi a lui; ma, se per ciò
questo m'ha fatto, mal s'è saputo vendicare, ché questa non è
stata lunga per lo terzo che fu la sua, senza che il I freddo fu d'altra
qualità - . E perché il giorno quivi non la cogliesse, cominciò a
volere smontare della torre, ma ella trovò non esservi la scala.
Allora, quasi come se il
mondo sotto i piedi venuto le fosse meno, le fuggì l'animo, e vinta
cadde sopra il battuto della torre. E poi che le forze le ritornarono,
miseramente cominciò a piagnere e a dolersi; e assai ben conoscendo
questa dovere essere stata opera dello scolare, s'incominciò a
ramaricare d'avere altrui offeso, e appresso d'essersi troppo fidata di colui,
il quale ella doveva
meritamente creder nimico; e in ciò stette
lunghissimo spazio.
Poi, riguardando se via
alcuna da scender vi fosse e non veggendola, ricominciato il pianto,
entrò in uno amaro pensiero, a sé stessa dicendo:- O sventurata, che si
dirà da'tuoi fratelli, da'parenti e da'vicini, e generalmente da tutti i
fiorentini, quando si saprà che tu sii qui trovata ignuda? La tua
onestà, stata cotanta, sarà conosciuta essere stata falsa; e se
tu volessi a queste ce avrebbe, il maladetto scolare, che tutti i fatti tuoi
sa, non ti lascerà mentire. Ahi misera te, che ad una ora avrai perduto
il male amato giovane e il tuo onore! - E dopo questo venne in tanto dolore, che
quasi fu per gittarsi della torre in terra.
Ma, essendosi già
levato il sole ed ella alquanto più dall'una delle parti più al
muro accostatasi della torre, guardando se alcuno fanciullo quivi colle bestie
s'accostasse cui essa potesse mandare per la sua fante, avvenne che lo scolare,
avendo a piè d'un cespuglio dormito alquanto, destandosi la vide ed ella
lui. Alla quale lo scolare disse:
- Buon dì, madonna;
sono ancor venute le damigelle?
La donna, vedendolo e
udendolo, ricominciò a piagner forte e pregollo che nella torre venisse,
acciò che essa potesse parlargli.
Lo scolare le fu di questo
assai cortese.
La donna, postasi a giacer
boccone sopra il battuto, il capo solo fece alla cateratta di quello, e
piagnendo disse:
- Rinieri, sicuramente, se
io ti diedi la mala notte, tu ti se'ben di me vendicato, per ciò che,
quantunque di luglio sia, mi sono io creduta questa notte, stando ignuda,
assiderare; senza che io ho tanto pianto e lo 'nganno che io ti feci e la mia
sciocchezza che ti credetti, che maraviglia è come gli occhi mi sono in
capo rimasi. E per ciò io ti priego, non per amor di me, la qual tu amar
non dei, ma per amor di te, che se'gentile uomo, che ti basti, per vendetta
della ingiuria la quale io ti feci, quello che infino a questo punto fatto hai,
e faccimi i miei panni recare, e che io possa di quassù discendere, e
non mi voler tor quello che tu poscia vogliendo render non mi potresti,
cioè l'onor mio; ché, se io tolsi a te l'esser con meco quella notte,
io, ognora che a grado ti fia, te ne posso render molte per quella una. Bastiti
adunque questo, e come a valente uomo, sieti assai l'esserti potuto vendicare e
l'averlomi fatto conoscere; non volere le tue forze contro ad una femina
esercitare; niuna gloria è ad una aquila l'aver vinta una colomba; dunque,
per l'amor di Dio e per onor di te, t'incresca di me.
Lo scolare, con fiero animo
seco la ricevuta ingiuria rivolgendo, e veggendo piagnere e pregare, ad una ora
aveva piacere e noia nello animo; piacere della vendetta, la quale più
che altra cosa disiderata avea; e noia sentiva, movendolo la umanità sua
a compassion della misera. Ma pur, non potendo la umanità vincere la
fierezza dello appetito, rispose:
- Madonna Elena, se i miei
prieghi (li quali nel vero io non seppi bagnare di lagrime né far melati come
tu ora sai porgere i tuoi) m'avessero impetrato, la notte che io nella tua
corte di neve piena moriva di freddo, di potere essere stato messo da te pure
un poco sotto il coperto, leggier cosa mi sarebbe al presente i tuoi esaudire;
ma se cotanto or più che per lo passato del tuo onor ti cale, ed etti
grave il costà su ignuda dimorare, porgi cotesti prieghi a colui nelle
cui braccia non t'increbbe, quella notte che tu stessa ricordi, ignuda stare,
me sentendo per la tua corte andare i denti battendo e scalpitando la neve, e a
lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare, a lui ti fa por la scala
per la qual tu scenda, in lui t'ingegna di mettere tenerezza del tuo onore, per
cui quel medesimo, e ora e mille altre volte, non hai dubitato di mettere in
periglio.
Come nol chiami tu che ti
venga ad aiutare? E a cui appartiene egli più che a lui? Tu se'sua: e
quali cose guarderà egli o aiuterà, se egli non guarda e aiuta
te? Chiamalo, stolta che tu se', e prova se l'amore il quale tu gli porti e il
tuo senno col suo ti possono dalla mia sciocchezza liberare, la qual,
sollazzando con lui, domandasti quale gli pareva maggiore o la mia sciocchezza
o l'amor che tu gli portavi. Né essere a me ora cortese di ciò che io
non disidero, né negare il mi puoi se io il disiderassi; al tuo amante le tue
notti riserba, se egli avviene che tu di qui viva ti parti; tue sieno e di lui;
io n'ebbi troppo d'una, e bastimi d'essere stato una volta schernito.
E ancora, la tua astuzia
usando nel favellare, t'ingegni col commendarmi la mia benivolenzia acquistare,
e chiamimi gentile uomo e valente, e tacitamente, che io come magnanimo mi
ritragga dal punirti della tua malvagità, t'ingegni di fare; ma le tue
lusinghe non m'adombreranno ora gli occhi dello 'ntelletto, come già
fecero le tue disleali promessioni; io mi conosco, né tanto di me stesso
apparai mentre dimorai a Parigi, quanto tu in una sola notte delle tue mi
facesti conoscere.
Ma, presupposto che io pur
magnammo fossi, non se'tu di quelle in cui la magnanimità debba i suoi
effetti mostrare; la fine della penitenzia, nelle salvatiche fiere come tu se',
e similmente della vendetta, vuole esser la morte, dove negli uomini quel dee
bastare che tu dicesti. Per che, quatunque io aquila non sia, te non colomba,
ma velenosa serpe conoscendo, come antichissimo nimico con ogni odio e con
tutta la forza di perseguire intendo, con tutto che questo che io ti fo non si
possa assai propiamente vendetta chiamare, ma più tosto gastigamento, in
quanto la vendetta dee trapassare l'offesa, e questo non v'aggiugnerà;
per ciò che se io vendicar mi volessi, riguardando a che partito tu
ponesti l'anima mia, la tua vita non mi basterebbe, togliendolati, né cento
altre alla tua simiglianti, per ciò che io ucciderei una vile e cattiva
e rea feminetta.
E da che diavol (togliendo
via cotesto tuo pochetto di viso, il quale pochi anni guasteranno riempiendolo
di crespe) se'tu più che qualunque altra dolorosetta fante? Dove per te
non rimase di far morire un valente uomo, come tu poco avanti mi chiamasti, la
cui vita ancora potrà più in un dì essere utile al mondo,
che centomilia tue pari non potranno mentre il mondo durar dee. Insegnerotti
adunque con questa noia che tu sostieni che cosa sia lo schernir gli uomini che
hanno alcun sentimento, e che cosa sia lo schernir gli scolari; e darotti
materia di giammai più in tal follia non cader, se tu campi.
Ma, se tu n'hai così
gran voglia di scendere, ché non te ne gitti tu in terra? E ad una ora con lo
aiuto di Dio fiaccandoti tu il collo, uscirai della pena nella quale esser ti
pare, e me farai il più lieto uomo del mondo. Ora io non ti vo'dir
più; io seppi tanto fare che io costà su ti feci salire; sappi tu
ora tanto fare che tu ne scenda, come tu mi sapesti beffare.
Parte che lo scolare questo
diceva, la misera donna piagneva continuo, e il tempo se n'andava, sagliendo
tuttavia il sol più alto. Ma poi che ella il sentì tacer, disse:
- Deh! crudele uomo, se
egli ti fu tanto la maladetta notte grave e parveti il fallo mio così
grande che né ti posson muovere a pietate alcuna la mia giovane bellezza, le
amare lagrime né gli umili prieghi, almeno muovati alquanto e la tua severa
rigidezza diminuisca questo solo mio atto, l'essermi di te nuovamente fidata e
l'averti ogni mio segreto scoperto col quale ho dato via al tuo disidero in
potermi fare del mio peccato conoscente; con ciò sia cosa che, senza
fidarmi io di te, niuna via fosse a te a poterti di me vendicare, il che tu
mostri con tanto ardore aver disiderato.
Deh! lascia l'ira tua e
perdonami omai: io sono, quando tu perdonar mi vogli e di quinci farmi
discendere, acconcia d'abbandonar del tutto il disleal giovane e te solo aver
per amadore e per signore, quantunque tu molto la mia bellezza biasimi, brieve
e poco cara mostrandola; la quale, chente che ella, insieme con quella
dell'altre, si sia, pur so che, se per altro non fosse da aver cara, si
è per ciò che vaghezza e trastullo e diletto è della
giovanezza degli uomini; e tu non se'vecchio. E quantunque io crudelmente da te
trattata sia, non posso per ciò credere che tu volessi vedermi fare
così disonesta morte, come sarebbe il gittarmi a guisa di disperata
quinci giù dinanzi agli occhi tuoi, a'quali, se tu bugiardo non eri come
sei diventato, già piacqui cotanto. Deh! increscati di me per Dio e per
pietà: il sole s'incomincia a riscaldar troppo, e come il troppo freddo
questa notte m'offese, così il caldo m'incomincia a far grandissima
noia.
A cui lo scolare, che a
diletto la teneva a parole, rispose:
- Madonna, la tua fede non
si rimise ora nelle mie mani per amor che tu mi portassi, ma per racquistare
quello che tu perduto avevi; e per ciò niuna cosa merita altro che
maggior male; e mattamente credi, se tu credi questa sola via senza più
essere, alla disiderata vendetta da me, opportuna stata. Io n'aveva mille
altre, e mille lacciuoli, col mostrar d'amarti, t'aveva tesi intorno a'piedi,
né guari di tempo era ad andare, che di necessità, se questo avvenuto
non fosse, ti convenia in uno incappare; né potevi incappare in alcuno, che in
maggior pena e vergogna che questa non ti fia caduta non fossi; e questo presi
non per agevolarti, ma per esser più tosto lieto. E dove tutti mancati
mi fossero, non mi fuggiva la penna, con la quale tante e sì fatte cose
di te scritte avrei e in sì fatta maniera, che, avendole tu risapute
(ché l'avresti), avresti il dì mille volte disiderato di mai non esser
nata.
Le forze della penna sono
troppo maggiori che coloro non estimano che quelle con conoscimento provate non
hanno. Io giuro a Dio (e se egli di questa vendetta, che io di te prendo, mi
faccia allegro infin la fine, come nel cominciamento m'ha fatto) che io avrei
di te scritte cose che, non che dell'altre persone, ma di te stessa
vergognandoti, per non poterti vedere t'avresti cavati gli occhi; e per
ciò non rimproverare al mare d'averlo fatto crescere il piccolo
ruscelletto.
Del tuo amore, o che tu sii
mia, non ho io, come già dissi, alcuna cura; sieti pur di colui di cui
stata se', se tu puoi, il quale, come io già odiai, così al
presente amo, riguardando a ciò che egli ha ora verso te operato. Voi
v'andate innamorando e disiderate l'amor de'giovani, per ciò che
alquanto con le carni più vive e con le barbe più nere gli
vedete, e sopra sé andare e carolare e giostrare; le quali cose tutte ebber
coloro che più alquanto attempati sono, e quel sanno che coloro hanno ad
imparare. E oltre a ciò, gli stimate miglior cavalieri e far di
più miglia le lor giornate che gli uomini più maturi.
Certo io confesso che essi
con maggior forza scuotono i pilliccioni, ma gli attempati, sì come
esperti, sanno meglio i luoghi dove stanno le pulci; e di gran lunga è
da eleggere più tosto il poco e saporito che il molto e insipido; e il
trottar forte rompe e stanca altrui, quantunque sia giovane, dove il soavemente
andare, ancora che alquanto più tardi altrui meni allo albergo, egli il
vi conduce almen riposato.
Voi non v'accorgete,
animali senza intelletto, quanto di male sotto quella poca di bella apparenza
stea nascoso. Non sono i giovani d'una contenti, ma quante ne veggono tante ne
disiderano, di tante par loro esser degni; per che essere non può
stabile il loro amore; e tu ora ne puoi per pruova esser verissima testimonia.
E par loro esser degni d'essere reveriti e careggiati dalle loro donne; né altra
gloria hanno maggiore che il vantarsi di quelle che hanno avute; il qual fallo
già sotto a'frati, che nol ridicono, ne mise molte. Benché tu dichi che
mai i tuoi amori non seppe altri che la tua fante e io, tu il sai male, e mal
credi se così credi. La sua contrada quasi di niun'altra cosa ragiona, e
la tua; ma le più volte è l'ultimo, a cui cotali cose agli
orecchi pervengono, colui a cui elle appartengono. Essi ancora vi rubano, dove
dagli attempati v'è donato.
Tu adunque, che male
eleggesti, sieti di colui a cui tu ti desti, e me, il quale schernisti, lascia
stare ad altrui, ché io ho trovata donna da molto più che tu non se',
che meglio n'ha conosciuto che tu non facesti. E acciò che tu del
disidero degli occhi miei possi maggior certezza nell'altro mondo portare che
non mostra che tu in questo prenda dalle mie parole, gittati giù pur
tosto, e l'anima tua, sì come io credo, già ricevuta nel le
braccia del diavolo, potrà vedere se gli occhi miei d'averti veduta
strabocchevolmente cadere si saranno turbati o no. Ma per ciò che io
credo che di tanto non mi vorrai far lieto, ti dico che, se il sole ti comincia
a scaldare, ricorditi del freddo che tu a me facesti patire, e se con cotesto
caldo il mescolerai, senza fallo il sol sentirai temperato.
La sconsolata donna,
veggendo che pure a crudel fine riuscivano le parole dello scolare,
ricominciò a piagnere e disse:
- Ecco, poi che niuna mia
cosa di me a pietà ti muove, muovati l'amore, il qual tu porti a quella
donna che più savia di me di'che hai trovata, e da cui tu di'che
se'amato, e per amor di lei mi perdona e i miei panni mi reca, ché io rivestir
mi possa, e quinci mi fa smontare.
Lo scolare allora
cominciò a ridere; e veggendo che già la terza era di buona ora
passata, rispose:
- Ecco, io non so ora dir
di no, per tal donna me n'hai pregato; insegnamegli, e io andrò per essi
e farotti di costà su scendere.
La donna, ciò
credendo, alquanto si confortò, e insegnogli il luogo dove aveva i panni
posti. Lo scolare, della torre uscito, comandò al fante suo che di
quindi non si partisse, anzi vi stesse vicino, e a suo poter guardasse che
alcun non v'entrasse dentro infino a tanto che egli tornato fosse; e questo
detto, se n'andò a casa del suo amico, e quivi a grande agio
desinò, e appresso, quando ora gli parve, s'andò a dormire.
La donna, sopra la torre
rimasa, quantunque da sciocca speranza un poco riconfortata fosse, pure oltre
misura dolente si dirizzò a sedere, e a quella parte del muro dove un
poco d'ombra era s'accostò, e cominciò accompagnata da amarissimi
pensieri ad aspettare; e ora pensando e ora piagnendo, e ora sperando e or
disperando della tornata dello scolare co'panni, e d'un pensiero in altro
saltando, sì come quella che dal dolore era vinta, e che niente la notte
passata aveva dormito, s'addormentò.
Il sole, il quale era
ferventissimo, essendo già al mezzo giorno salito, feriva alla scoperta
e al diritto sopra il tenero e dilicato corpo di costei e sopra la sua testa,
da niuna cosa coperta, con tanta forza, che non solamente le cosse le carni tanto
quanto ne vedea, ma quelle minuto minuto tutte l'aperse; e fu la cottura tale,
che lei che profondamente dormiva constrinse a destarsi.
E sentendosi cuocere e
alquanto movendosi, parve nel muoversi che tutta la cotta pelle le s'aprisse e
ischiantasse, come veggiamo avvenire d'una carta di pecora abbruciata, se altri
la tira; e oltre a questo le doleva sì forte la testa, che pareva che le
si spezzasse, il che niuna maraviglia era. E il battuto della torre era
fervente tanto, che ella né co'piedi né con altro vi poteva trovar luogo; per
che, senza star ferma, or qua or là si tramutava piagnendo. E oltre a
questo, non faccendo punto di vento, v'erano mosche e tafani in grandissima
quantità abondanti, li quali, ponendolesi sopra le carni aperte,
sì fieramente la stimolavano, che ciascuna le pareva una puntura d'uno
spontone per che ella di menare le mani attorno non restava niente, sé, la sua
vita, il suo amante e lo scolare sempre maladicendo.
E così essendo dal
caldo inestimabile, dal sole, dalle mosche e da'tafani, e ancor dalla fame, ma
molto più dalla sete, e per aggiunta da mille noiosi pensieri angosciata
e stimolata e trafitta, in piè dirizzata, cominciò a guardare se
vicin di sé o vedesse o udisse alcuna persona, disposta del tutto, che che
avvenire ne le dovesse, di chiamarla e di domandare aiuto.
Ma anche questo l'aveva la
sua nimica fortuna tolto. I lavoratori eran tutti partiti de'campi per lo
caldo, avvegna che quel dì niuno ivi appresso era andato a lavorare,
sì come quegli che allato alle lor case tutti le lor biade battevano;
per che niuna altra cosa udiva che cicale, e vedeva Arno, il qual, porgendole
disiderio delle sue acque, non iscemava la sete ma l'accresceva. Vedeva ancora
in più luoghi boschi e ombre e case, le quali tutte similmente l'erano
angoscia disiderando.
Che direm più della
sventurata vedova? Il sol di sopra e il fervor del battuto di sotto e le
trafitture delle mosche e de'tafani da lato sì per tutto l'avean concia,
che ella, dove la notte passata con la sua bianchezza vinceva le tenebre,
allora rossa divenuta come robbia, e tutta di sangue chiazata, sarebbe paruta,
a chi veduta l'avesse, la più brutta cosa del mondo.
E così dimorando
costei, senza consiglio alcuno o speranza, più la morte aspettando che
altro, essendo già la mezza nona passata, lo scolare, da dormir levatosi
e della sua donna ricordandosi, per veder che di lei fosse se ne tornò
alla torre, e il suo fante, che ancora era digiuno, ne mandò a mangiare;
il quale avendo la donna sentito, debole e della grave noia angosciosa, venne
sopra la cateratta, e postasi a sedere, piagnendo cominciò a dire:
- Rinieri, ben ti se'oltre
misura vendico, ché se io feci te nella mia corte di notte agghiacciare, tu hai
me di giorno sopra questa torre fatta arrostire, anzi ardere, e oltre a
ciò di fame e di sete morire; per che io ti priego per solo Iddio che
qua su salghi, e poi che a me non soffera il cuore di dare a me stessa la
morte, dallami tu, ché io la disidero più che altra cosa, tanto e tale
è il tormento che io sento. E se tu questa grazia non mi vuoi fare,
almeno un bicchier d'acqua mi fa venire, che io possa bagnarmi la bocca, alla
quale non bastano le mie lagrime, tanta è l'asciugaggine e l'arsura la
quale io v'ho dentro.
Ben conobbe lo scolare alla
voce la sua debolezza, e ancor vide in parte il corpo suo tutto riarso dal
sole, per le quali cose e per gli umili suoi prieghi un poco di compassione gli
venne di lei; ma non per tanto rispose:
- Malvagia donna, delle mie
mani non morrai tu già, tu morrai pur delle tue, se voglia te ne
verrà; e tanta acqua avrai da me a sollevamento del tuo caldo, quanto
fuoco io ebbi da te ad alleggiamento del mio freddo. Di tanto mi dolgo forte,
che la 'nfermità del mio freddo col caldo del letame puzzolente si
convenne curare, ove quella del tuo caldo col freddo della odorifera acqua rosa
si curerà; e dove io per perdere i nervi e la persona fui, tu da questo
caldo scorticata, non altramenti rimarrai bella che faccia la serpe lasciando
il vecchio cuoio.
- O misera me!- disse la
donna - queste bellezze in così fatta guisa acquistate dea Iddio a
quelle persone che mal mi vogliono; ma tu, più crudele che ogni altra
fiera, come hai potuto sofferire di straziarmi a questa maniera? Che più
doveva io aspettar da te o da alcuno altro, se io tutto il tuo parentado sotto
crudelissimi tormenti avessi uccisi? Certo io non so qual maggior
crudeltà si fosse potuta usare in un traditore che tutta una
città avesse messa ad uccisione, che quella alla qual tu m'hai posta a
farmi arrostire al sole e manicare alle mosche; e oltre a questo non un
bicchier d'acqua volermi dare, che a'micidiali dannati dalla ragione, andando
essi alla morte, è dato ber molte volte del vino, pur che essi ne
domandino. Ora ecco, poscia che io veggo te star fermo nella tua acerba crudeltà,
né poterti la mia passione in parte alcuna muovere, con pazienzia mi
disporrò alla morte ricevere, acciò che Iddio abbia misericordia
della anima mia, il quale io priego che con giusti occhi questa tua operazion
riguardi.
E queste parole dette, si
trasse con gravosa sua pena verso il mezzo del battuto, disperandosi di dovere
da così ardente caldo campare; e non una volta ma mille, oltre agli
altri suoi dolori, credette di sete ispasimare, tuttavia piagnendo forte e
della sua sciagura dolendosi.
Ma essendo già
vespro e parendo allo scolare avere assai fatto, fatti prendere i panni di lei
e inviluppare nel mantello del fante, verso la casa della misera donna se
n'andò, e quivi sconsolata e trista e senza consiglio la fante di lei
trovò sopra la porta sedersi, alla quale egli disse:
- Buona femina, che
è della donna tua?
A cui la fante rispose:
- Messere, io non so; io mi
credeva stamane trovarla nel letto dove iersera me l'era paruta vedere andare;
ma io non la trovai né quivi né altrove, né so che si sia divenuta, di che io
vivo con grandissimo dolore; ma voi, messere, saprestemene dir niente?
A cui lo scolar rispose:
- Così avess'io
avuta te con lei insieme là dove io ho lei avuta, acciò che io
t'avessi della tua colpa così punita come io ho lei della sua! Ma
fermamente tu non mi scapperai dalle mani, che io non ti paghi sì
dell'opere tue che mai di niuno uomo farai beffe che di me non ti ricordi.- E
questo detto, disse al suo fante:
- Dalle cotesti panni e
dille che vada per lei, s'ella vuole.
Il fante fece il suo
comandamento; per che la fante, presigli e riconosciutigli, udendo ciò
che detto l'era, temette forte non l'avessero uccisa, e appena di gridar si
ritenne; e subitamente, piagnendo, essendosi già lo scolar partito, con
quegli verso la torre n'andò correndo.
Aveva per isciagura uno
lavoratore di questa donna quel dì due suoi porci smarriti, e andandoli
cercando, poco dopo la partita dello scolare a quella torricella pervenne, e
andando guatando per tutto se i suoi porci vedesse, sentì il miserabile
pianto che la sventurata donna faceva, per che salito su quanto potè,
gridò:
- Chi piagne là su?
La donna conobbe la voce
del suo lavoratore, e chiamatol per nome gli disse:
- Deh! vammi per la mia
fante, e fa sì che ella possa qua su a me venire.
Il lavoratore,
conosciutala, disse:
- Ohimè! madonna: o
chi vi portò costà su? La fante vostra v'è tutto dì
oggi andata cercando; ma chi avrebbe mai pensato che voi doveste essere stata
qui?
E presi i travicelli della
scala, la cominciò a dirizzar come star dovea e a legarvi con ritorte i
bastoni a traverso. E in questo la fante di lei sopravenne, la quale, nella
torre entrata, non potendo più la voce tenere, battendosi a palme
cominciò a gridare:
- Ohimè, donna mia
dolce, ove siete voi?
La donna udendola, come
più forte potè, disse:
- O sirocchia mia, io son
qua su; non piagnere, ma recami tosto i panni miei.
Quando la fante
l'udì parlare, quasi tutta riconfortata, salì su per la scala
già presso che racconcia dal lavoratore, e aiutata da lui in sul battuto
pervenne; e vedendo la donna sua, non corpo umano ma più tosto un
cepperello innarsicciato parere, tutta vinta, tutta spunta, e giacere in terra
ignuda, messesi l'unghie nel viso cominciò a piagnere sopra di lei, non
altramenti che se morta fosse. Ma la donna la pregò per Dio che ella
tacesse e lei rivestire aiutasse. E avendo da lei saputo che niuna persona
sapeva dove ella stata fosse, se non coloro che i panni portati l'aveano e il
lavoratore che al presente v'era, alquanto di ciò racconsolata, gli
pregò per Dio che mai ad alcuna persona di ciò niente dicessero.
Il lavoratore dopo molte
novelle, levatasi la donna in collo, che andar non poteva, salvamente infin
fuor della torre la condusse.
La fante cattivella, che di
dietro era rimasa, scendendo meno avvedutamente, smucciandole il piè,
cadde della scala in terra e ruppesi la coscia, e per lo dolor sentito
cominciò a mugghiar che pareva un leone.
Il lavoratore, posata la
donna sopra ad uno erbaio, andò a vedere che avesse la fante, e
trovatala con la coscia rotta, similmente nello erbaio la recò, e allato
alla donna la pose. La quale veggendo questo a giunta degli altri suoi mali
avvenuto, e colei avere rotta la coscia da cui ella sperava essere aiutata
più che da altrui, dolorosa senza modo ricominciò il suo pianto
tanto miseramente, che non solamente il lavoratore non la potè
racconsolare, ma egli altressì cominciò a piagnere.
Ma, essendo già il
sol basso, acciò che quivi non gli cogliesse la notte, come alla
sconsolata donna piacque, n'andò alla casa sua, e quivi chiamati due
suoi fratelli e la moglie, e là tornati con una tavola, su
v'acconciarono la fante e alla casa ne la portarono; e riconfortata la donna
con un poco d'acqua fresca e con buone parole, levatalasi il lavoratore in
collo, nella camera di lei la portò.
La moglie del lavoratore,
datole mangiar pan lavato e poi spogliatala, nel letto la mise, e ordinarono
che essa e la fante fosser la notte portate a Firenze; e così fu fatto.
Quivi la donna, che aveva a
gran divizia lacciuoli, fatta una sua favola tutta fuor dell'ordine delle cose
avvenute, sì di sé e sì della sua fante fece a'suoi fratelli e
alle sirocchie e ad ogn'altra persona credere che per indozzamenti di demoni
questo loro fosse avvenuto.
I medici furon presti, e
non senza grandissima angoscia e affanno della donna che tutta la pelle
più volte appiccata lasciò alle lenzuola, lei d'una fiera febbre
e degli altri accidenti guerirono, e similmente la fante della coscia.
Per la qual cosa la donna,
dimenticato il suo amante, da indi innanzi e di beffare e d'amare si
guardò saviamente. E lo scolare, sentendo alla fante la coscia rotta,
parendogli avere assai intera vendetta, lieto, senza altro dirne, se ne
passò.
Così adunque alla
stolta giovane addivenne delle sue beffe, non altramente con uno scolare
credendosi frascheggiare che con un altro avrebbe fatto; non sappiendo bene che
essi, non dico tutti ma la maggior parte, sanno dove il diavolo tien la coda.
E per ciò
guardatevi, donne, dal beffare, e gli scolari spezialmente.
Giornata ottava - Novella
ottava
Due usano insieme; l'uno
con la moglie dell'altro si giace; l'altro, avvedutosene, fa con la sua moglie
che l'uno è serrato in una cassa, sopra la quale, standovi l'un dentro,
l'altro con la moglie dell'un si giace.
Gravi e noiosi erano stati
i casi d'Elena ad ascoltare alle donne; ma per ciò che in parte
giustamente avvenutigli gli estimavano, con più moderata compassion gli
avean trapassati, quantunque rigido e costante fieramente, anzi crudele,
riputassero lo scolare. Ma essendo Pampinea venutane alla fine, la reina alla
Fiammetta impose che seguitasse, la quale, d'ubidire disiderosa, disse.
Piacevoli donne, per
ciò che mi pare che alquanto trafitto v'abbia la severità dello
offeso scolare, estimo che convenevole sia con alcuna cosa più
dilettevole rammorbidire gl'innacerbiti spiriti; e per ciò intendo di
dirvi una novelletta d'un giovane, il quale con più mansueto animo una
ingiuria ricevette, e quella con più moderata operazion vendicò.
Per la quale potrete comprendere che assai dee bastare a ciascuno, se quale
asino dà in parete tal riceve, senza volere, soprabondando oltre la
convenevoleza della vendetta, ingiuriare, dove l'uomo si mette alla ricevuta
ingiuria vendicare.
Dovete adunque sapere che
in Siena, sì come io intesi già, furon due giovani assai agiati e
di buone famiglie popolane, de'quali l'uno ebbe nome Spinelloccio Tavena e
l'altro ebbe nome Zeppa di Mino, e amenduni eran vicini a casa in Cammollia.
Questi due giovani sempre usavano insieme, e per quello che mostrassono,
così s'amavano, o più, come se stati fosser fratelli, e ciascun
di loro avea per moglie una donna assai bella.
Ora avvenne che Spinelloccio,
usando molto in casa del Zeppa, ed essendovi il Zeppa e non essendovi, per
sì fatta maniera con la moglie del Zeppa si dimesticò, che egli
incominciò a giacersi con essolei; e in questo continuarono una buona
pezza avanti che persona se n'avvedesse. Pure al lungo andare, essendo un
giorno il Zeppa in casa e non sappiendolo la donna, Spinelloccio venne a
chiamarlo. La donna disse che egli non era in casa; di che Spinelloccio
prestamente andato su e trovata la donna nella sala, e veggendo che altri non v'era,
abbracciatala la cominciò a baciare, ed ella lui. Il Zeppa, che questo
vide, non fece motto, ma nascoso si stette a veder quello a che il giuoco
dovesse riuscire; e brievemente egli vide la sua moglie e Spinelloccio
così abbracciati andarsene in camera e in quella serrarsi, di che egli
si turbò forte. Ma conoscendo che per far romore né per altro la sua
ingiuria non diveniva minore, anzi ne cresceva la vergogna, si diede a pensar
che vendetta di questa cosa dovesse fare, che, senza sapersi dattorno, l'animo
suo rimanesse contento; e dopo lungo pensiero, parendogli aver trovato il modo,
tanto stette nascoso quanto Spinelloccio stette con la donna.
Il quale come andato se ne
fu, così egli nella camera se n'entrò, dove trovò la donna
che ancora non s'era compiuta di racconciare i veli in capo, li quali
scherzando Spinelloccio fatti l'aveva cadere, e disse:
- Donna, che fai tu?
A cui la donna rispose:
- Nol vedi tu?
Disse il Zeppa:
- Sì bene,
sì, ho io veduto anche altro che io non vorrei - ; e con lei delle cose
state entrò in parole, ed essa con grandissima paura dopo molte novelle
quello avendogli confessato che acconciamente della sua dimestichezza con
Ispinelloccio negar non potea, piagnendo gl'incominciò a chieder
perdono.
Alla quale il Zeppa disse:
- Vedi, donna, tu hai fatto
male, il quale se tu vuogli che io ti perdoni, pensa di fare compiutamente
quello che io t'imporrò, il che è questo. Io voglio che tu dichi
a Spinelloccio che domattina in su l'ora della terza egli truovi qualche cagione
di partirsi da me e venirsene qui a te; e quando egli ci sarà, io
tornerò, e come tu mi senti, cosi il fa entrare in questa cassa e
serracel dentro; poi, quando questo fatto avrai, e io ti dirò il
rimanente che a fare avrai; e di far questo non aver dottanza niuna, ché io ti
prometto che io non gli farò male alcuno.
La donna, per sodisfargli,
disse di farlo, e così fece.
Venuto il dì
seguente, essendo il Zeppa e Spinelloccio insieme in su la terza, Spinelloccio,
che promesso aveva alla donna d'andare a lei a quella ora, disse al Zeppa:
- Io debbo stamane desinare
con alcuno amico, al quale io non mi voglio fare aspettare, e per ciò
fatti con Dio.
Disse il Zeppa:
- Egli non è ora di
desinare di questa pezza.
Spinelloccio disse:
- Non fa forza; io ho
altressì a parlar seco d'un mio fatto, sì che egli mi vi convien
pure essere a buona ora.
Partitosi adunque
Spinelloccio dal Zeppa, data una sua volta, fu in casa con la moglie di lui; ed
essendosene entrati in camera, non stette guari che il Zeppa tornò; il
quale come la donna sentì, mostratasi paurosa molto, lui fece ricoverare
in quella cassa che il marito detto l'avea e serrollovi entro, e uscì
della camera. Il Zeppa, giunto suso, disse:
- Donna, è egli otta
di desinare?
La donna rispose:
- Sì, oggimai.
Disse allora il Zeppa:
- Spinelloccio è
andato a desinare stamane con un suo amico e ha la donna sua lasciata sola;
fatti alla finestra e chiamala, e dì che venga a desinar con essonoi.
La donna, di sé stessa
temendo e per ciò molto ubbidiente divenuta, fece quello che il marito
le 'mpose. La moglie di Spinelloccio, pregata molto dalla moglie del Zeppa, vi
venne, udendo che il marito non vi doveva desinare.
E quando ella venuta fu, il
Zeppa, faccendole le carezze grandi e presala dimesticamente per mano,
comandò pianamente alla moglie che in cucina n'andasse, e quella seco ne
menò in camera, nella quale come fu, voltatosi addietro, serrò la
camera dentro.
Quando la donna vide serrar
la camera dentro, disse:
- Ohimè, Zeppa, che
vuol dire questo? Dunque mi ci avete voi fatta venir per questo? Ora, è
questo l'amor che voi portate a Spinelloccio e la leale compagnia che voi gli
fate?
Alla quale il Zeppa,
accostatosi alla cassa dove serrato era il marito di lei e tenendola bene,
disse:
- Donna, imprima che tu ti
ramarichi, ascolta ciò che io ti vo'dire: io ho amato e amo Spinelloccio
come fratello, e ieri, come che egli nol sappia, io trovai che la fidanza la
quale io ho di lui avuta era pervenuta a questo, che egli con la mia donna
così si giace come con teco; ora, per ciò che io l'amo, non
intendo di voler di lui pigliare altra vendetta, se non quale è stata
l'offesa: egli ha la mia donna avuta, e io intendo d'aver te. Dove tu non
vogli, per certo egli converrà che io il ci colga, e per ciò che
io non intendo di lasciare questa ingiuria impunita, io gli farò giuoco
che né tu né egli sarete mai lieti.
La donna, udendo questo e
dopo molte riconfermazioni fattelene dal Zeppa, credendol, disse:
- Zeppa mio, poi che sopra
me dee cadere questa vendetta, e io son contenta, sì veramente che tu mi
facci, di questo che far dobbiamo, rimanere in pace con la tua donna, come io,
non ostante quello che ella m'ha fatto, intendo di rimaner con lei.
A cui il Zeppa rispose:
- Sicuramente io il
farò; e oltre a questo ti donerò un così caro e bello
gioiello, come niun altro che tu n'abbi;- e così detto, abbracciatala e
cominciatala a baciare, la distese sopra la cassa, nella quale era il marito di
lei serrato e quivi su, quanto gli piacque, con lei si sollazzò, ed ella
con lui.
Spinelloccio, che nella
cassa era e udite aveva tutte le parole dal Zeppa dette e la risposta della sua
moglie, e poi aveva sentita la danza trivigiana che sopra il capo fatta gli
era, una grandissima pezza sentì tal dolore che parea che morisse; e se
non fosse che egli temeva del Zeppa, egli avrebbe detta alla moglie una gran
villania così rinchiuso come era. Poi, pur ripensandosi che da lui era
la villania incominciata e che il Zeppa aveva ragione di far ciò che
egli faceva, e che verso di lui umanamente e come compagno s'era portato, seco
stesso disse di volere esser più che mai amico del Zeppa, quando
volesse.
Il Zeppa, stato con la
donna quanto gli piacque, scese della cassa, e domandando la donna il gioiello
promesso, aperta la camera fece venir la moglie, la quale niun'altra cosa
disse, se non:
- Madonna, voi m'avete
renduto pan per focaccia - ; e questo disse ridendo.
Alla quale il Zeppa disse:
- Apri questa cassa - ; ed
ella il fece; nella quale il Zeppa mostrò alla donna il suo
Spinelloccio.
E lungo sarebbe a dire qual
più di lor due si vergognò, o Spinelloccio vedendo il Zeppa e
sappiendo che egli sapeva ciò che fatto aveva, o la donna vedendo il suo
marito e conoscendo che egli aveva e udito e sentito ciò che ella sopra
il capo fatto gli aveva.
Alla quale il Zeppa disse:
- Ecco il gioiello il quale
io ti dono.
Spinelloccio, uscito della
cassa, senza far troppe novelle, disse:
- Zeppa, noi siam pari
pari; e per ciò è buono, come tu dicevi dianzi alla mia donna,
che noi siamo amici come solavamo; e non essendo tra noi due niun'altra cosa
che le mogli divisa, che noi quelle ancora comunichiamo.
Il Zeppa fu contento; e
nella miglior pace del mondo tutti e quattro desinarono insieme. E da indi
innanzi ciascuna di quelle donne ebbe due mariti, e ciascun di loro ebbe due
mogli, senza alcuna quistione o zuffa mai per quello insieme averne.
Giornata ottava - Novella
nona
Maestro Simone medico, da
Bruno e da Buffalmacco, per esser fatto d'una brigata che va in corso, fatto
andar di notte in alcun luogo, è da Buffalmacco gittato in una fossa di
bruttura e lasciatovi.
Poi che le donne alquanto
ebber cianciato dello accomunar le mogli fatto da'due sanesi, la reina, alla
qual sola restava a dire, per non fare ingiuria a Dioneo, incominciò.
Assai bene, amorose donne,
si guadagnò Spinelloccio la beffa che fatta gli fu dal Zeppa; per la
qual cosa non mi pare che agramente sia da riprendere, come Pampinea volle poco
innanzi mostrare, chi fa beffa alcuna a colui che la va cercando o che la si
guadagna. Spinelloccio la si guadagnò; e io intendo di dirvi d'uno che
se l'andò cercando; estimando che quegli che gliele fecero, non da
biasimare ma da com mendar sieno. E fu colui a cui fu fatta un medico, che a
Firenze da Bologna, essendo una pecora, tornò tutto coperto di pelli di
vai.
Sì come noi veggiamo
tutto il dì i nostri cittadini da Bologna ci tornano qual giudice e qual
medico e qual notaio, co'panni lunghi e larghi, e con gli scarlatti e co'vai, e
con altre assai apparenze grandissime, alle quali come gli effetti succedano
anche veggiamo tutto giorno. Tra'quali un maestro Simone da Villa, più
ricco di ben paterni che di scienza, non ha gran tempo, vestito di scarlatto e
con un gran batalo, dottor di medicine, secondo che egli medesimo diceva, ci
ritornò, e prese casa nella via la quale noi oggi chiamiamo la Via del
Cocomero.
Questo maestro Simone
novellamente tornato, sì come è detto, tra gli altri suoi costumi
notabili aveva in costume di domandare chi con lui era chi fosse qualunque uomo
veduto avesse per via passare; e quasi degli atti degli uomini dovesse le
medicine che dar doveva a'suoi infermi comporre, a tutti poneva mente e
raccoglievali.
E intra gli altri, alli
quali con più efficacia gli vennero gli occhi addosso posti, furono due
dipintori dei quali s'è oggi qui due volte ragionato, Bruno e
Buffalmacco, la compagnia de'quali era continua, ed eran suoi vicini. E
parendogli che costoro meno che alcuni altri del mondo curassero e più
lieti vivessero, sì come essi facevano, più persone
domandò di lor condizione; e udendo da tutti costoro essere poveri
uomini e dipintori, gli entrò nel capo non dover potere essere che essi
dovessero così lietamente vivere della lor povertà, ma s'avvisò,
per ciò che udito avea, che astuti uomini erano, che d'alcuna altra
parte non saputa da gli uomini dovesser trarre profitti grandissimi; e per
ciò gli venne in disidero di volersi, se esso potesse con amenduni, o
con l'uno almeno, dimesticare; e vennegli fatto di prendere dimestichezza con
Bruno. E Bruno, conoscendo, in poche di volte che con lui stato era, questo
medico essere uno animale, cominciò di lui ad avere il più bel
tempo del mondo con sue nuove novelle, e il medico similmente cominciò
di lui a prendere maraviglioso piacere. E avendolo alcuna volta seco invitato a
desinare e per questo credendosi dimesticamente con lui poter ragionare, gli
disse la maraviglia che egli si faceva di lui e di Buffalmacco, che, essendo
poveri uomini, così lietamente viveano; e pregollo che gli 'nsegnasse
come facevano. Bruno, udendo il medico, e parendogli la domanda dell'altre sue
sciocche e dissipite, cominciò a ridere, e pensò di rispondergli
secondo che alla sua pecoraggine si convenia, e disse:
- Maestro, io nol direi a
molte persone come noi facciamo, ma di dirlo a voi, perché siete amico e so che
ad altrui nol direte, non mi guarderò. Egli è il vero che il mio
compagno e io viviamo così lietamente e così bene come vi pare e
più; né di nostra arte né d'altro frutto, che noi d'alcune possessioni
traiamo, avremmo da poter pagar pur l'acqua che noi logoriamo; né voglio per
ciò che voi crediate che noi andiamo ad imbolare, ma noi andiamo in
corso, e di questo ogni cosa che a noi è di diletto o di bisogno, senza alcun
danno d'altrui, tutto traiamo, e da questo viene il nostro viver lieto che voi
vedete.
Il medico udendo questo e,
senza saper che si fosse, credendolo, si maravigliò molto; e subitamente
entrò in disidero caldissimo di sapere che cosa fosse l'andare in corso;
e con grande instanzia il pregò che gliel dicesse, affermandogli che per
certo mai a niuna persona il direbbe.
- Ohmè! - disse
Bruno - maestro, che mi domandate voi? Egli è troppo gran segreto quello
che voi volete sapere, ed è cosa da disfarmi e da cacciarmi del mondo;
anzi da farmi mettere in bocca del Lucifero da San Gallo, se altri il
risapesse; ma sì è grande l'amor che io porto alla vostra
qualitativa mellonaggine da Legnaia, e la fidanza la quale ho in voi, che io
non posso negarvi cosa che voi vogliate; e per ciò io il vi dirò
con questo patto, che voi per la croce a Montesone mi giurerete che mai, come
promesso avete, a niuno il direte. Il maestro affermò che non farebbe.
- Dovete adunque, - disse
Bruno - maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in
questa città fu un gran maestro in nigromantia, il quale ebbe nome
Michele Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini,
de'quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui
partire, ad istanzia de'prieghi loro ci lasciò due suoi soffficienti
discepoli, a'quali impose che ad ogni piacere di questi cotali gentili uomini,
che onorato l'aveano, fossero sempre presti.
Costoro adunque servivano i
predetti gentili uomini di certi loro innamoramenti e d'altre cosette
liberamente; poi, piacendo lor la città e i costumi degli uomini, ci si
disposero a voler sempre stare, e preserci di grandi e di strette amistà
con alcuni, senza guardare chi essi fossero, più gentili che non
gentili, o più ricchi che poveri, solamente che uomini fossero conformi
a'lor costumi. E per compiacere a questi così fatti loro amici
ordinarono una brigata forse di venticinque uomini, li quali due volte almeno
il mese insieme si dovessero ritrovare in alcun luogo da loro ordinato; e qui
vi essendo, ciascuno a costoro il suo disidero dice, ed essi prestamente per
quella notte il forniscono. Co'quali due avendo Buffalmacco e io singulare
amistà e dimestichezza, da loro in cotal brigata fummo messi, e siamo. E
dicovi così che, qualora egli avvien che noi insieme ci raccogliamo,
è maravigliosa cosa a vedere i capoletti intorno alla sala dove
mangiamo, e le tavole messe alla reale, e la quantità de'nobili e belli
servidori, così femine come maschi, al piacer di ciascuno che è
di tal compagnia, e i bacini, gli urciuoli, i fiaschi e le coppe e l'altro
vasellamento d'oro e d'argento, ne'quali noi mangiamo e beiamo; e oltre a
questo le molte e varie vivande, secondo che ciascun disidera, che recate ci
sono davanti ciascheduna a suo tempo.
Io non vi potrei mai
divisare chenti e quanti sieno i dolci suoni d'infiniti istrumenti e i canti
pieni di melodia che vi s'odono; né vi potrei dire quanta sia la cera che vi
s'arde a queste cene, né quanti sieno i confetti che vi si con sumano e come sieno
preziosi i vini che vi si beono. E non vorrei, zucca mia da sale, che voi
credeste che noi stessimo là in questo abito o con questi panni che ci
vedete: egli non ve n'è niuno sì cattivo che non vi paresse uno
imperadore, sì siamo di cari vestimenti e di belle cose ornati.
Ma sopra tutti gli altri
piaceri che vi sono, si è quello delle belle donne, le quali
subitamente, purché l'uom voglia, di tumo il mondo vi son recate. Voi vedreste
quivi la donna dei Barbanicchi, la reina de'Baschi, la moglie del soldano, la
imperadrice d'Osbech, la ciancianfera di Norrueca, la semistante di Berlinzone
e la scalpedra di Narsia. Che vivo io annoverando? E'vi sono tutte le reine del
mondo, io dico infino alla schinchimurra del Presto Giovanni, che ha per me' '1
culo le corna: or vedete oggimai voi! Dove, poi che hanno bevuto e confettato,
fatta una danza o due, ciascuna con colui a cui stanzia v'è fatta venire
se ne va nel la sua camera.
E sappiate che quelle
camere paiono un paradiso a veder, tanto son belle; e sono non meno odorifere
che sieno i bossoli delle spezie della bottega vostra, quando voi fate pestare
il comino, e havvi letti che vi parrebber più belli che quello del doge
di Vinegia, e in quegli a riposar se ne vanno. Or che menar di calcole e di
tirar le casse a sè per fare il panno serrato faccian le tessitrici,
lascerò io pensare pure a voi! Ma tra gli altri che meglio stanno,
secondo il parer mio, siam Buffalmacco e io, per ciò che Buffalmacco le
più delle volte vi fa venir per sè la reina di Francia, e io per
me quella d'Inghilterra, le quali son due pur le più belle donne del
mondo; e sì abbiamo saputo fare che elle non hanno altro occhio in capo
che noi. Per che da voi medesimo pensar potete se noi possiamo e dobbiamo
vivere e andare più che gli altri uomini lieti, pensando che noi abbiamo
l'amor di due così fatte reine; senza che, quando noi vogliamo un mille
o un dumilia fiorini da loro, noi non gli abbiamo prestamente. E questa cosa
chiamiam noi vulgarmente l'andare in corso; per ciò che sì come i
corsari tolgono la roba d'ogn'uomo, e così facciam noi; se non che di
tanto siam differenti da loro, che eglino mai non la rendono, e noi la rendiamo
come adoperata l'abbiamo.
Ora avete, maestro mio da
bene, inteso ciò che noi diciamo l'andare in corso; ma quanto questo
voglia esser segreto voi il vi potete vedere, e per ciò più nol
vi dico né ve ne priego.
Il maestro, la cui scienzia
non si stendeva forse più oltre che il medicare i fanciulli del lattime,
diede tanta fede alle parole di Bruno quanta si saria convenuta a qualunque
verità; e in tanto disiderio s'accese di volere essere in questa brigata
ricevuto, quanto di qualunque altra cosa più disiderabile si potesse
essere acceso. Per la qual cosa a Bruno rispose che fermamente maraviglia non era
se lieti andavano; e a gran pena si temperò in riservarsi di richiederlo
che essere il vi facesse, infino a tanto che, con più onor fattogli, gli
potesse con più fidanza porgere i prieghi suoi.
Avendoselo adunque
riservato, cominciò più a continuare con lui l'usanza e ad averlo
da sera e da mattina a mangiar seco e a mostrargli smisurato amore; ed era
sì grande e sì continua questa loro usanza, che non parea che
senza Bruno il maestro potesse né sapesse vivere.
Bruno, parendogli star
bene, acciò che ingrato non paresse di questo onor fattogli dal medico,
gli aveva dipinto nella sala sua la quaresima e uno agnus dei all'entrar della
camera e sopra l'uscio della via uno orinale, acciò che coloro che
avessero del suo consiglio bisogno il sapessero riconoscere dagli altri; e in
una sua loggetta gli aveva dipinta la battaglia dei topi e delle gatte, la
quale troppo bella cosa pareva al medico. E oltre a questo diceva alcuna volta
al maestro, quando con lui non avea cenato:
- Stanotte fu'io alla
brigata, ed essendomi un poco la reina d'Inghilterra rincresciuta, mi feci
venire la gumedra del gran Can d'Altarisi.
Diceva il maestro:
- Che vuol dire gumedra? Io
non gli intendo questi nomi.
- O maestro mio,- diceva
Bruno - io non me ne maraviglio, ché io ho bene udito dire che Porcograsso e
Vannaccena non ne dicon nulla.
Disse il maestro:
- Tu vuoi dire Ipocrasso e
Avicenna.
Disse Bruno:
- Gnaffe! io non so; io
m'intendo così male de'vostri nomi come voi de'miei; ma la gumedra in
quella lingua del gran Cane vuol tanto dire quanto imperadrice nella nostra. O
ella vi parrebbe la bella feminaccia! Ben vi so dire che ella vi farebbe
dimenticare le medicine e gli argomenti e ogni impiastro.
E così dicendogli
alcuna volta per più accenderlo, avvenne che, parendo a messer lo
maestro una sera a vegghiare, parte che il lume teneva a Bruno che la battaglia
de'topi e delle gatte dipignea, bene averlo co'suoi onori preso, che egli si
dispose d'aprirgli l'animo suo; e soli essendo, gli disse:
- Bruno, come Iddio sa,
egli non vive oggi alcuna persona per cui io facessi ogni cosa come io farei
per te; e per poco, se tu mi dicessi che io andassi di qui a Peretola, io credo
che io v'andrei; e per ciò non voglio che tu ti maravigli se io te
dimesticamente e a fidanza richiederò.
Come tu sai, egli non
è guari che tu mi ragionasti de'modi della vostra lieta brigata, di che
sì gran disiderio d'esserne m'è venuto, che mai niuna altra cosa
si disiderò tanto. E. questo non è senza cagione, come tu vedrai
se mai avviene che io ne sia; ché infino ad ora voglio io che tu ti facci beffe
di me se io non vi fo venire la più bella fante che tu vedessi
già è buona pezza, che io vidi pur l'altr'anno a Cacavincigli, a
cui io voglio tutto il mio bene; e per lo corpo di Cristo che io le volli dare
dieci bolognini grossi, ed ella mi s'acconsentisse, e non volle. E però
quanto più posso ti priego che m'insegni quello che io abbia a fare per
dovervi potere essere, e che tu ancora facci e adoperi che io vi sia; e nel
vero voi avrete di me buono e fedel compagno e orrevole. Tu vedi innanzi
innanzi come io sono bello uomo e come mi stanno bene le gambe in su la
persona, e ho un viso che pare una rosa, e oltre a ciò son dottore di
medicine, che non credo che voi ve n'abbiate niuno; e so di molte belle cose e
di belle canzonette, e vo'tene dire una - ; e di botto incominciò a
cantare.
Bruno aveva sì gran
voglia di ridere che egli in sè medesimo non capeva; ma pur si tenne. E
finita la canzone, e '1 maestro disse:
- Che te ne pare?
Disse Bruno:
- Per certo con voi
perderieno le cetere de'sagginali, sì artagoticamente stracantate.
Disse il maestro:
- Io dico che tu non
l'avresti mai creduto, se tu non m'avessi udito.
- Per certo voi dite vero,-
disse Bruno.
Disse il maestro:
- Io so bene anche
dell'altre, ma lasciamo ora star questo. Così fatto come tu mi vedi, mio
padre fu gentile uomo, benché egli stesse in contado, e io altressì son
nato per madre di quegli da Vallecchio; e, come tu hai potuto vedere, io ho
pure i più be'libri e le più belle robe che medico di Firenze. In
fè di Dio, io ho roba che costò, contata ogni cosa, delle lire
presso a cento di bagattini, già è degli anni più di
dieci. Per che quanto più posso ti priego che facci che io ne sia; e in
fè di Dio, se tu il fai, sie pure infermo se tu sai, che mai di mio
mestiere io non ti torrò un denaio.
Bruno, udendo costui, e
parendogli, sì come altre volte assai paruto gli era, un lavaceci,
disse:
- Maestro, fate un poco il
lume più qua, e non v'incresca infin tanto che io abbia fatte le code a
questi topi, e poi vi risponderò.
Fornite le code, e Bruno
faccendo vista che forte la petizion gli gravasse, disse:
- Maestro mio, gran cose
son quelle che per me fareste, e io il conosco; ma tuttavia quella che a me
addimandate, quantunque alla grandezza del vostro cervello sia piccola, pure
è a me grandissima, né so alcuna persona del mondo per cui io potendo la
mi facessi, se io non la facessi per voi, sì perché v'amo quanto si
conviene, e sì per le parole vostre le quali son condite di tanto senno
che trarrebbono le pinzochere degli usatti, non che me del mio proponimento; e
quanto più uso con voi, più mi parete savio. E dicovi ancora
così, che se altro non mi vi facesse voler bene, sì vi vo'bene
perché veggio che innamorato siete di così bella cosa come diceste. Ma
tanto vi vo'dire: io non posso in queste cose quello che voi avvisate, e per
questo non posso per voi quello che bisognerebbe adoperare; ma, ove voi mi
promettiate sopra la vostra grande e calterita fede di tenerlomi credenza, io
vi darò il modo che a tenere avrete; e parmi esser certo che, avendo voi
così be'libri e l'altre cose che di sopra dette m'avete, che egli vi
verrà fatto.
A cui il mastro disse:
- Sicuramente di': io
veggio che tu non mi conosci bene e non sai ancora come io so tenere segreto.
Egli erano poche cose che messer Guasparruolo da Saliceto facesse, quando egli
era giudice della podestà di Forlimpopoli, che egli non me le mandasse a
dire, perché mi trovava così buon segretaro. E vuoi vedere se io dico
vero? Io fui il primaio uomo a cui egli dicesse che egli era per isposare la
Bergamina: vedi oggimai tu!
- Or bene sta dunque,-
disse Bruno - se cotestui se ne fidava, ben me ne posso fidare io. Il modo che
voi avrete a tener fia questo. Noi sì abbiamo a questa nostra brigata un
capitano con due consiglieri, li quali di sei in sei mesi si mutano; e senza
fallo a calendi sarà capitano Buffalmacco e io consigliere, e
così è fermato; e chi è capitano può molto in
mettervi e far che messo vi sia chi egli vuole; e per ciò a me parrebbe
che voi, in quanto voi poteste, prendeste la dimestichezza di Buffalmacco e
facestegli onore. Egli è uomo che, veggendovi così savio,
s'innamorerà di voi incontanente, e quando voi l'avrete col senno vostro
e con queste buone cose che avete un poco dimesticato, voi il potrete
richiedere: egli non vi saprà dir di no. Io gli ho già ragionato
di voi, e vuolvi il meglio del mondo; e quando voi avrete fatto così,
lasciate far me con lui.
Allora disse il maestro:
- Troppo mi piace
ciò che tu ragioni; e se egli è uomo che si diletti de'savi
uomini, e favellami pure un poco, io farò ben che egli m'andrà
sempre cercando, per ciò che io n'ho tanto del senno, che io ne potrei
fornire una Città. e rimarrei savissimo.
Ordinato questo, Bruno
disse ogni cosa a Buffalmacco per ordine; di che a Buffalmacco parea mille anni
di dovere essere a far quello che questo maestro Scipa andava cercando.
Il medico che oltre modo
disiderava d'andare in corso, non mollò mai che egli divenne amico di
Buffalmacco, il che agevolmente gli venne fatto;- e cominciogli a dare le più
belle cene e i più belli desinari del mondo, e a Bruno con lui-
altressì; ed essi si carapinavano,. come que'signori, li quali
sentendogli bonissimi vini e di grossi capponi ed altre buone cose assai, gli
si tenevano assai di presso, e senza troppi inviti, dicendo sempre che con uno
altro ciò non farebbono, si rimanevan con lui.
Ma pure, quando tempo parve
al maestro, sì come Bruno aveva fatto, così Buffalmacco richiese.
Di che Buffalmacco si mostrò molto turbato e fece a Bruno un gran romore
in testa, dicendo:
- Io fo boto all'alto Dio
da Passignano che io mi tengo a poco che lo non ti do tale in su la testa, che
il naso ti caschi nelle calcagna traditor che tu se', ché altri che tu non ha
queste cose manifestate al maestro.
Ma il maestro lo scusava
forte, dicendo e giurando sè averlo d'altra parte saputo; e dopo molte
delle sue savie parole pure il paceficò. Buffalmacco rivolto al maestro
disse:
- Maestro mio, egli si par
bene che voi siete stato a Bologna, e che voi infino in questa terra abbiate
recata la bocca chiusa; e ancora vi dico più, che voi non apparaste miga
l'abbiccì in su la mela, come molti sciocconi voglion fare, anzi
l'apparaste bene in sul mellone, ch'è così lungo; e se io non
m'inganno, voi foste battezzato in domenica. E come che Bruno m'abbia detto che
voi studiaste là in medicine, a me pare che voi studiaste in apparare a
pigliar uomini; il che voi, meglio che altro uomo che io vidi mai, sapete fare
con vostro senno e con vostre novelle.
Il medico, rompendogli la
parola in bocca, verso Brun disse:
- Che cosa è a
favellare e ad usare co'savi! Chi avrebbe così tosto ogni
particularità compresa del mio sentimento, come ha questo valente uomo?
Tu non te ne avvedesti miga così tosto tu di quel che io valeva, come ha
fatto egli; ma di'almeno quello che io ti dissi quando tu mi dicesti che
Buffalmacco si dilettava de'savi uomini: parti che io l'abbia fatto?
Disse Bruno:
- Meglio.
Allora il maestro disse a
Buffalmacco:
- Altro avresti detto se tu
m'avessi veduto a Bologna, dove non era niuno grande né piccolo, né dottore né
scolare, che non mi volesse il meglio del mondo, sì tutti gli sapeva
appagare col mio ragionare e col senno mio. E dirotti più, che io. non
vi dissi mai parola che io non facessi ridere ogn'uomo, sì forte piaceva
loro; e quando io me ne partii, fecero tutti il maggior pianto del mondo, e
volevano tutti che io vi pur rimanessi; e fu a tanto la cosa perch'io vi
stessi, che vollono lasciare a me solo che io leggessi, a quanti scolari
v'aveva, le medicine; ma io non volli, ché io era pur disposto a venir qua a
grandissime eredità che io ci ho, state sempre di quei di casa mia, e
così feci.
Disse allora Bruno a
Buffalmacco:
- Che ti pare? Tu nol mi
credevi, quando io il ti diceva. Alle guagnele! Egli non ha in questa terra
medico che s'intenda d'orina d'asino a petto a costui, e fermamente tu non ne
troverresti un altro di qui alle porti di Parigi de'così fatti. Va,
tienti oggimai tu di non fare ciò ch'e'vuole!
Disse il medico:
- Brun dice il vero, ma io
non ci sono conosciuto. Voi siete anzi gente grossa che no; ma io vorrei che
voi mi vedeste tra'dottori, come io soglio stare. Allora disse Buffalmacco:
- Veramente, maestro, voi
le sapete troppo più che io non avrei mai creduto; di che io, parlandovi
come si vuole parlare a'savi come voi siete, frastagliatamente vi dico che io
procaccerò senza fallo che voi di nostra brigata sarete.
Gli onori dal medico fatti
a costoro appresso questa promessa multiplicarono; laonde essi, godendo, gli
facevan cavalcar la capra delle maggiori sciocchezze del mondo, e impromisongli
di dargli per donna la contessa di Civillari, la quale era la più bella
cosa che si trovasse in tutto il culattario dell'umana generazione.
Domandò il medico
chi fosse questa contessa; al quale Buffalmacco disse:
- Pinca mia da seme, ella
è una troppo gran donna, e poche case ha per lo mondo, nelle quali ella
non abbia alcuna giurisdizione; e non che altri, ma i frati minori a suon di
nacchere le rendon tributo. E sovvi dire, che quando ella va dattorno, ella si
fa ben sentire, benché ella stea il più rinchiusa; ma non ha per
ciò molto che ella vi passò innanzi all'uscio, una notte che
andava ad Arno a lavarsi i piedi e per pigliare un poco d'aria; ma la sua
più continua dimora è in Laterina. Ben vanno per ciò
de'suoi sergenti spesso dattorno, e tutti a dimostrazion della maggioranza di
lei portano la verga e '1 piombino. De'suoi baron si veggon per tutto assai,
sì come è il Tamagnin del la porta, don Meta, Manico di Scopa, lo
Squacchera e altri, li quali vostri dimestici credo che sieno, ma ora non ve ne
ricordate. A così gran donna adunque, lasciata star quella da
Cacavincigli, se '1 pensier non c'inganna, vi metteremo nelle dolci braccia.
Il medico, che a Bologna
nato e cresciuto era, non intendeva i vocaboli di costoro, per che egli della
donna si chiamò per contento. Nè guari dopo queste novelle gli
recarono i dipintori che egli era per ricevuto.
E venuto il dì che
la notte seguente si dovean ragunare, il maestro gli ebbe amenduni a desinare,
e desinato ch'egli ebbero, gli domandò che modo gli conveniva tenere a
venire a questa brigata.
Al quale Buffalmacco disse:
- Vedete, maestro, a voi
conviene esser molto sicuro, per ciò che, se voi non foste molto sicuro,
voi potreste ricevere impedimento e fare a noi grandissimo danno; e quello a
che egli vi conviene esser molto sicuro, voi l'udirete. A voi si convien trovar
modo che voi siate stasera in sul primo sonno in su uno di quegli avelli rilevati
che poco tempo ha si fecero di fuori a Santa Maria Novella, con una delle
più belle vostre robe in dosso, acciò che voi per la prima volta
compariate orrevole dinanzi alla brigata, e sì ancora per ciò che
(per quello che detto ne fosse, ché non vi fummo noi poi), per ciò che
voi siete gentile uomo, la contessa intende di farvi cavaliere bagnato alle sue
spese; e quivi v'aspettate tanto, che per voi venga colui che noi manderemo.
E acciò che voi
siate d'ogni cosa informato, egli verrà per voi una bestia nera e
cornuta, non molto grande, e andrà faccendo per la piazza dinanzi da voi
un gran sufolare e un gran saltare per ispaventarvi; ma poi, quando
vedrà che voi non vi spaventiate, ella vi s'accosterà pianamente;
quando accostata vi si sarà, e voi allora senza alcuna paura scendete
giù dello avello, e, senza ricordare o Iddio o'santi, vi salite suso, e
come suso vi siete acconcio, così, a modo che se steste cortese, vi
recate le mani al petto, senza più toccar la bestia.
Ella allora soavemente si
moverà e recherravverle a noi; ma infino ad ora, se voi ricordaste o
Iddio o'santi, o aveste paura, vi dich'io che ella vi potrebbe gittare o
percuotere in parte che vi putirebbe; e per ciò, se non vi dà il
cuore d'esser ben sicuro, non vi venite, ché voi fareste danno a voi, senza
fare a noi pro veruno.
Allora il medico disse:
- Voi non mi conoscete
ancora; voi guardate forse per ché io porto i guanti in mano e'panni lunghi. Se
voi sapeste quello che io ho già fatto di notte a Bologna, quando io
andava talvolta co'miei compagni alle femine, voi vi maravigliereste. In
fè di Dio egli fu tal notte che, non volendone una venir con noi (ed era
una tristanzuola, ch'è peggio, che non era alta un sommesso), io le
diedi in prima di molte pugna, poscia, presala di peso, credo che io la
portassi presso ad una balestrata, e pur convenne, sì feci, che ella ne
venisse con noi. E un'altra volta mi ricorda che io, senza esser meco altri che
un mio fante, colà un poco dopo l'avemaria passai allato al cimitero
de'frati minori, ed eravi il dì stesso stata sotterrata una femina, e
non ebbi paura niuna; e per ciò di questo non vi sfidate; ché sicuro e
gagliardo son io troppo. E dicovi che io, per venirvi bene orrevole, mi
metterò la roba mia dello scarlatto con la quale io fui con ventato, e
vedrete se la brigata si rallegrerà quando mi vedrà, e se io
sarò fatto a mano a man capitano. Vedrete pure come l'opera andrà
quando io vi sarò stato, da che, non avendomi ancor quella contessa
veduto, ella s'è sì innamorata di me che ella mi vol fare cavalier
bagnato; e forse che la cavalleria mi starà così male, e saprolla
così mal mantenere o pur bene? Lascerete pur far me!
Buffalmacco disse:
- Troppo dite bene, ma
guardate che voi non ci faceste la beffa, e non vi veniste o non vi foste
trovato quando per voi manderemo; e questo dico per ciò che egli fa
freddo, e voi signor medici ve ne guardate molto.
- Non piaccia a Dio,- disse
il medico - io non sono di questi assiderati; io non curo freddo; poche volte
è mai che io mi levi la notte così per bisogno del corpo, come
l'uom fa talvolta, che io mi metta altro che il pilliccione mio sopra il
farsetto; e per ciò io vi sarò fermamente.
Partitisi adunque costoro,
come notte si venne faccendo, il maestro trovò sue scuse in casa con la
moglie, e trattane celatamente la sua bella roba, come tempo gli parve,
messalasi in dosso, se n'andò sopra uno de'detti avelli; e sopra quegli
marmi ristrettosi, essendo il freddo grande, cominciò ad aspettar la
bestia.
Buffalmacco, il quale era
grande e atante della persona, ordinò d'avere una di queste maschere che
usare si soleano a certi giuochi li quali oggi non si fanno, e messosi in dosso
un pilliccion nero a rovescio, in quello s'acconciò in guisa che pareva
pure uno orso; se non che la maschera aveva viso di diavolo ed era cornuta. E
così acconcio, venendoli Bruno appresso per vedere come l'opera andasse,
se n'andò nella piazza nuova di Santa Maria Novella. E come egli si fu
accorto che messer lo maestro v'era, così cominciò a saltabellare
e a fare un nabissare grandissimo su per la piazza, e a sufolare e ad urlare e
a stridere a guisa che se imperversato fosse.
Il quale come il maestro
sentì e vide, così tutti i peli gli s'arricciarono addosso, e
tutto cominciò a tremare, come colui che era più che una femina
pauroso; e fu ora che egli vorrebbe essere stato innanzi a casa sua che quivi.
Ma non per tanto pur, poi che andato v'era, si sforzò d'assicurar si,
tanto il vinceva il disidero di giugnere a vedere le maraviglie dettegli da
costoro. Ma poi che Buffalmacco ebbe alquanto imperversato, come è
detto, faccendo sembianti di rappacificarsi, s'accostò allo avello sopra
il quale era il maestro, e stette fermo. Il maestro, sì come quegli che
tutto tremava di paura, non sapeva che farsi, se su vi salisse o se si stesse.
Ultimamente, temendo non gli facesse male se su non vi salisse, con la seconda
paura cacciò la prima, e sceso dello avello, pianamente dicendo, - Iddio
m'aiuti - , su vi salì, e acconciossi molto bene, e sempre tremando
tutto si recò con le mani a star cortese, come detto gli era stato.
Allora Buffalmacco pianamente s'incominciò a dirizzare verso Santa Maria
della Scala, e andando carpone infin presso le donne di Ripole il condusse.
Erano allora per quella
contrada fosse, nelle quali i lavoratori di que'campi facevan votare la
contessa di Civillari, per ingrassare i campi loro. Alle quali come Buffalmacco
fu vicino, accostatosi alla proda d'una e preso tempo, messa la mano sotto
all'un de'piedi del medico e con essa sospintolsi da dosso, di netto col capo
innanzi il gittò in essa, e cominciò a ringhiare forte e a
saltare e ad imperversare e ad andarsene lungo Santa Maria della Scala verso il
prato d'Ognissanti, dove ritrovò Bruno che per non poter tener le risa
fuggito s'era; e amenduni festa faccendosi, di lontano si misero a veder quello
che il medico impastato facesse.
Messer lo medico,
sentendosi in questo luogo così abominevole, si sforzò di
rilevare e di volersi aiutare per uscirne, e ora in qua e ora in là
ricadendo, tutto dal capo al piè impastato, dolente e cattivo, avendone
alquante dramme ingozzate, pur n'uscì fuori e lasciovvi il cappuccio; e,
spastandosi con le mani come poteva il meglio, non sappiendo che altro
consiglio pigliarsi, se ne tornò a casa sua, e picchiò tanto che
aperto gli fu.
Nè prima, essendo
egli entrato dentro così putente, fu l'uscio riserrato, che Bruno e
Buffalmacco furono ivi, per udire come il maestro fosse dalla sua donna
raccolto. Li qua li stando ad udir, sentirono alla donna dirgli la maggior
villania che mai si dicesse a niun tristo, dicendo:
- Deh, come ben ti sta! Tu
eri ito a qualche altra femina, e volevi comparire molto orrevole con. la roba
dello scarlatto. Or non ti bastava io? Frate, io sarei sofficiente ad un
popolo, non che a te. Deh, or t'avessono essi affogato, come essi ti gittarono
là dove tu eri degno d'esser gittato. Ecco medico onorato, aver moglie e
andar la notte alle femine altrui!
E con queste e con altre
assai parole, faccendosi il medico tutto lavare, infino alla mezza notte non
rifinò la donna di tormentarlo.
Poi la mattina vegnente
Bruno e Buffalmacco, avendosi tutte le carni dipinte soppanno di lividori a
guisa che far sogliono le battiture, se ne vennero a casa del medico, e
trovaron lui già levato; ed entrati dentro a lui, sentirono ogni cosa
putirvi; ché ancora non s'era sì ogni cosa potuta nettare, che non vi
putisse. E sentendo il medico costor venire a lui, si fece loro incontro,
dicendo che Iddio desse loro il buon dì. Al quale Bruno e Buffalmacco,
sì come proposto aveano, risposero con turbato viso:
- Questo non diciam noi a
voi, anzi preghiamo Iddio che vi dea tanti malanni che voi siate morto a
ghiado, sì come il più disleale e il maggior traditor che viva;
per ciò che egli non è rimaso per voi, ingegnandoci noi di farvi
onore e piacere, che noi non siamo stati morti come cani. E per la vostra
dislealtà abbiamo stanotte avute tante busse, che di meno andrebbe uno
asino a Roma; senza che noi siamo stati a pericolo d'essere stati cacciati
della compagnia nella quale noi avavamo ordinato di farvi ricevere. E se voi
non ci credete, ponete mente le carni nostre come elle stanno.- E ad un cotal
barlume apertisi i panni dinanzi, gli mostrarono i petti loro tutti dipinti, e
richiusongli senza indugio.
Il medico si volea scusare
e dir delle sue sciagure, e come e dove egli era stato gittato. Al quale
Buffalmacco disse:
- Io vorrei che egli
v'avesse gittato dal ponte in Arno: perché ricordavate voi o Dio o'santi? Non
vi fu egli detto dinanzi?
Disse il medico:
- In fè di Dio non
ricordava.
- Come,- disse Buffalmacco-
non ricordavate! Voi ve ne ricordate molto, ché ne disse il messo nostro che
voi tremavate come verga, e non sapavate dove voi vi foste. Or voi ce l'avete
ben fatta; ma mai più persona non la ci farà, e a voi ne faremo
ancora quello onore che vi se ne conviene.
Il medico cominciò a
chieder perdono, e a pregargli per Dio che nol dovessero vituperare; e con le
miglior parole che egli potè, s'ingegnò di pacificargli. E per
paura che essi questo suo vitupero non palesassero, se da indi a dietro onorati
gli avea, molto più gli onorò e careggiò con conviti e
altre cose da indi innanzi.
Così adunque, come
udito avete, senno s'insegna a chi tanto non n'apparò a Bologna.
Giornata ottava - Novella
decima
Una ciciliana
maestrevolmente toglie ad un mercatante ciò che in Palermo ha portato;
il quale, sembiante faccendo d'esservi tornato con molta più mercatantia
che prima, da lei accattati denari, le lascia acqua e capecchio.
Quanto la novella della
reina in diversi luoghi facesse le donne ridere, non è da domandare:
niuna ve n'era a cui per soperchio riso non fossero dodici volte le lagrime
venute in su gli occhi. Ma poi che ella ebbe fine, Dioneo, che sapeva che a lui
toccava la volta, disse.
Graziose donne, manifesta
cosa è tanto più l'arti piacere, quanto più sottile
artefice è per quelle artificiosamente beffato. E per ciò,
quantunque bellissime cose tutte raccontate abbiate, io intendo dl raccontarne
una? tanto più che alcuna altra dettane da dovervi aggradire, quanto
colei che beffata fu era maggior maestra di beffare altrui, che alcuno altro
beffato fosse di quegli o di quelle che avete contate.
Soleva essere, e forse che
ancora oggi è, una usanza in tutte le terre marine che hanno porto,
così fatta, che tutti i mercatanti che in quelle con mercatantie capitano,
faccendole scaricare, tutte in un fondaco il quale in molti luoghi è
chiamato dogana, tenuta per lo comune o per lo signor della terra, le portano.
E quivi, dando a coloro che sopra ciò sono per iscritto tutta la
mercatantia e il pregio di quella, è dato per li detti al mercatante un
magazzino, nel quale esso la sua mercatantia ripone e serralo con la chiave; e
li detti doganieri poi scrivono in sul libro della dogana a ragione del
mercatante tutta la sua mercatantia, faccendosi poi del lor diritto pagare al
mercatante, o per tutta o per parte della mercatantia che egli della dogana
traesse. E da questo libro della dogana assai volte s'informano i sensali e
delle qualità e delle quantità delle mercatantie che vi sono, e
ancora chi sieno i mercatanti che l'hanno, con li quali poi essi, secondo che
lor cade per mano, ragionano di cambi, di baratti e di vendite e d'altri
spacci.
La quale usanza, sì
come in molti altri luoghi, era in Palermo in Cicilia, dove similmente erano e
ancor sono assai femine del corpo bellissime, ma nimiche della onestà;
le quali, da chi non le conosce, sarebbono e son tenute grandi e onestissime
donne. Ed essendo, non a radere, ma a scorticare uomini date del tutto, come un
mercatante forestiere riveggono, così dal libro della dogana s'informano
di ciò che egli v'ha e di quanto può fare; e appresso con lor
piacevoli e amorosi atti e con parole dolcissime questi cotali mercatanti
s'ingegnano d'adescare e di trarre nel loro amore; e già molti ve
n'hanno tratti, a'quali buona parte della lor mercatantia hanno delle mani
tratta, e d'assai tutta; e di quelli vi sono stati che la mercatantia e
'navilio e le polpe e l'ossa lasciate v'hanno, sì ha soavemente la
barbiera saputo menare il rasoio.
Ora, non è ancora
molto tempo, avvenne che quivi, da'suoi maestri mandato, arrivò un
giovane nostro fiorentino detto Nicolò da Cignano, come che Salabaetto
fosse chiamato, con tanti pannilani che alla fiera di Salerno gli erano
avanzati, che potevan valere un cinquecento fiorin d'oro; e dato il legaggio di
quegli a'doganieri, gli mise in un magazzino, e senza mostrar troppo gran
fretta dello spaccio, s'incominciò ad andare alcuna volta a sollazzo per
la terra.
Ed essendo egli bianco e
biondo e leggiadro molto, e standogli ben la vita, avvenne che una di queste
barbiere, che si faceva chiamare madonna Jancofiore, avendo alcuna cosa sentita
de'fatti suoi, gli pose l'occhio addosso. Di che egli accorgendosi, estimando
che ella fosse una gran donna, s'avvisò che per la sua bellezza le
piacesse, e pensossi di volere molto cautamente menar questo amore; e senza
dirne cosa alcuna a persona, incominciò a far le passate dinanzi alla
casa di costei. La quale accortasene, poi che alquanti dì l'ebbe ben con
gli occhi acceso, mostrando ella di consumarsi per lui, segretamente gli
mandò una sua femina la quale ottimamente l'arte sapeva del
ruffianesimo. La quale, quasi con le lagrime in su gli occhi, dopo molte
novelle, gli disse che egli con la bellezza e con la piacevolezza sua aveva
sì la sua donna presa, che ella non trovava luogo né dì né notte;
e per ciò, quando a lui piacesse, ella disiderava più che altra
cosa di potersi con lui ad un bagno segretamente trovare; e appresso questo,
trattosi uno anello dì borsa, da parte della sua donna gliele
donò.
Salabaetto, udendo questo,
fu il più lieto uomo che mai fosse, e preso l'anello e fregatoselo agli
occhi e poi baciatolo sel mise in dito, e rispose alla buona femina che, se
madonna Jancofiore l'amava, che ella n'era ben cambiata, per ciò che
egli amava più lei che la sua propia vita, e che egli era disposto
d'andare dovunque a lei fosse a grado, e ad ogn'ora.
Tornata adunque la
messaggiera alla sua donna con questa risposta, a Salabaetto fu a mano a man
detto a qual bagno il dì seguente passato vespro la dovesse aspettare.
Il quale, senza dirne cosa del mondo a persona, prestamente all'ora impostagli
v'andò, e trovò il bagno per la donna esser preso. Dove egli non
stette guari che due schiave venner cariche: l'una aveva un materasso di
bambagia bello e grande in capo, e l'altra un grandissimo paniere pien di cose;
e steso questo materasso in una camera del bagno sopra una lettiera, vi miser
su un paio di lenzuola sottilissime listate di seta, e poi una coltre di
bucherame cipriana bianchissima con due origlieri lavorati a maraviglie. E
appresso questo spogliatesi ed entrate nel bagno, quello tutto lavarono e
spazzarono ottima mente.
Né stette guari che la
donna con due sue altre schiave appresso al bagno venne; dove ella, come prima
ebbe agio, fece .a Salabaetto grandissima festa; e dopo i maggiori sospiri del
mondo, poi che molto e abbracciato e baciato l'ebbe, gli disse:
- Non so chi mi s'avesse a
questo potuto conducere, altro che tu; tu m'hai miso lo foco all'arma, toscano
acanino.
Appresso questo, come a lei
piacque, ignudi amenduni se n'entrarono nel bagno, e con loro due delle
schiave. Quivi, senza lasciargli por mano addosso ad altrui,. ella medesima con
sapone moscoleato e con garofanato maravigliosamente e bene tutto lavò
Salabaetto; e appresso sé fece e lavare e strapicciare alle schiave.
E fatto questo, recaron le
schiave de lenzuoli bianchissimi e sottili, de'quali veniva sì grande
odor di rose che ciò che v'era pareva rose; e l'una inviluppò
nell'uno Salabaetto e l'altra nell'altro la donna, e in collo levatigli,
amenduni nel letto fatto ne gli portarono. E quivi, poi che di sudare furono
restati, dalle schiave fuor di que'lenzuoli tratti, rimasono ignudi negli
altri. E tratti del paniere oricanni d'ariento bellissimi e pieni qual d'acqua
rosa, qual d'acqua di fior d'aranci, qual d'acqua di fior di gelsomino e qual
d'acqua nanfa, tutti costoro di queste acque spruzzano; e appresso tratte fuori
scatole di confetti e preziosissimi vini, alquanto si confortarono.
A Salabaetto pareva essere
in paradiso, e mille volte aveva riguardata costei, la quale era per certo
bellissima, e cento anni gli pareva ciascuna ora che queste schiave se
n'andassero e che egli nelle braccia di costei si ritrovasse. Le quali poi che
per comandamento della donna, lasciato un torchietto acceso nella camera,
andate se ne furono fuori, costei abbracciò Salabaetto ed egli lei, e
con grandissimo piacer di Salabaetto, al quale pareva che costei tutta si
struggesse per suo amore, dimorarono una lunga ora.
Ma poi che tempo parve di
levarsi alla donna, fatte venire le schiave, si vestirono, e un'altra volta
bevendo e confettando si riconfortarono alquanto, e il viso e le mani di quelle
acque odorifere lavatisi e volendosi partire, disse la donna a Salabaetto:
- Quando a te fosse a
grado, a me sarebbe grandissima grazia che questa sera te ne venissi a cenare e
ad albergo meco.
Salabaetto, il qual
già e dalla bellezza e dalla artificiosa piacevolezza di costei era
preso, credendosi fermamente da lei essere come il cuor del corpo amato,
rispose:
- Madonna, ogni vostro
piacere m'è sommamente a grado, e per ciò e istasera e sempre
intendo di far quello che vi piacerà e che per voi mi fia comandato.
Tornatasene adunque la
donna a casa, e fatta bene di sue robe e di suoi arnesi ornar la camera sua, e
fatto splendidamente far da cena, aspettò Salabaetto. Il quale, come
alquanto fu fatto oscuro, là se n'andò, e lietamente ricevuto,
con gran festa e ben servito cenò. Poi, nella camera entratisene,
sentì quivi maraviglioso odore di legno aloè, e d'uccelletti
cipriani vide il letto ricchissimo, e molte belle robe su per le stanghe.
Le quali cose tutte
insieme, e ciascuna per sé, gli fecero stimare costei dovere essere una grande
e ricca donna. E quantunque in contrario avesse della vita di lei udito
bucinare, per cosa del mondo nol voleva credere; e se pure alquanto ne credeva
lei già alcuno aver beffato, per cosa del mondo non poteva credere
questo dovere a lui intervenire. Egli giacque con grandissimo suo piacere la
notte con essolei, sempre più accendendosi.
Venuta la mattina, ella gli
cinse una bella e leggiadra cinturetta d'argento con una bella bora, e
sì gli disse:
- Salabaetto mio dolce, io
mi ti raccomando; e così come la mia persona è al piacer tuio,
così è ciò che ci è e ciò che per me si
può è allo comando tuio.
Salabaetto lieto
abbracciatala e baciatala, s'uscì di casa costei e vennesene là
dove usavano gli altri mercatanti. E usando una volta e altra con costei senza
costargli cosa del mondo, e ogni ora più invescandosi, avvenne che egli
vendé i panni suoi a contanti e guadagnonne bene; il che la buona donna non da
lui, ma da altrui sentì incontanente.
Ed essendo Salabaetto da
lei andato una sera, costei incominciò a cianciare e a ruzzare con lui,
a baciarlo e abbracciarlo, mostrandosi sì forte di lui infiammata, che
pareva che ella gli volesse d'amor morir nelle braccia; e volevagli pur donare
due bellissimi nappi d'argento che ella aveva, li quali Salabaetto non voleva
torre, sì come colui che da lei tra una volta e altra aveva avuto quello
che valeva ben trenta fiorin d'oro, senza aver potuto fare che ella da lui
prendesse tanto che valesse un grosso.
Alla fine, avendol costei
bene acceso col mostrar sé accesa e liberale, una delle sue schiave, sì
come ella aveva ordinato, la chiamò; per che ella, uscita della camera e
stata alquanto, tornò dentro piagnendo, e sopra il letto gittatasi
boccone, cominciò a fare il più doloroso lamento che mai facesse
femina.
Salabaetto,
maravigliandosi, la si recò in braccio, e cominciò a piagner con
lei e a dire:
- Deh, cuor del corpo mio,
che avete voi così subitamente? Che è la cagione di questo
dolore? Deh! ditemelo, anima mia.
Poi che la donna s'ebbe
assai fatta pregare, ed ella disse:
- Ohimè, signor mio
dolce, io non so né che mi far né che mi dire: io ho testé ricevute lettere da
Messina, e scrivemi mio fratello, che, se io dovessi vendere e impegnare
ciò che ci è, che senza alcun fallo io gli abbia fra qui e otto
dì mandati mille fiorin d'oro, se non che gli sarà tagliata la testa;
e io non so quello che io mi debba fare, che io gli possa così
prestamente avere; ché, se io avessi spazio pur quindici dì, io
troverrei modo d'accivirne d'alcun luogo donde io ne debbo avere molti
più, o io venderei alcuna delle nostre possessioni; ma, non potendo, io
vorrei esser morta prima che quella mala novella mi venisse -. E detto questo,
forte mostrandosi tribolata, non restava di piagnere.
Salabaetto, al quale
l'amorose fiamme avevan gran parte del debito conoscimento tolto, credendo
quelle verissime lagrime e le parole ancor più vere, disse:
- Madonna, io non vi potrei
servire di mille, ma di cinquecento fiorin d'oro sì bene, dove voi
crediate potermegli rendere di qui a quindici dì; e questa è
vostra ventura che pure ieri mi vennero venduti i panni miei, ché, se così
non fosse, io non vi potrei prestare un grosso.
- Ohimè! - disse la
donna - dunque hai tu patito disagio di denari? O perché non me ne richiedevi
tu? Perché io non n'abbia mille, io ne aveva ben cento e anche dugento da
darti; tu m'hai tolta tutta la baldanza da dovere da te ricevere il servigio
che tu mi profferi Salabaetto, vie più che preso da queste parole,
disse:
- Madonna, per questo non
voglio io che voi lasciate; ché, se fosse così bisogno a me come egli fa
a voi, io v'avrei ben richiesta.
- Ohimè! - disse la
donna- Salabaetto mio, ben conosco che il tuo è vero e perfetto amore
verso di me, quando, senza aspettar d'esser richiesto di così gran
quantità di moneta, in così fatto bisogno liberamente mi
sovvieni. E per certo io era tutta tua senza questo, e con questo sarò
molto maggior mente; né sarà mai che io non riconosca da te la testa di
mio fratello. Ma sallo Iddio che io mal volentier gli prendo, considerando che
tu se'mercatante, e i mercatanti fanno co'denari tutti i fatti loro; ma per
ciò che il bisogno mi strigne e ho ferma speranza di tosto rendergliti,
io gli pur prenderò, e per l'avanzo, se più presta via non
troverrò, impegnerò tutte queste mie cose- ; e così detto
lagrimando, sopra il viso di Salabaetto si lasciò cadere.
Salabaetto la cominciò
a confortare; e stato la notte con lei, per mostrarsi bene liberalissimo suo
servidore, senza alcuna richiesta di lei aspettare, le portò cinquecento
be'fiorin d'oro, li quali ella, ridendo col cuore e piagnendo con gli occhi,
prese, attenendosene Salabaetto alla sua semplice promessione.
Come la donna ebbe i
denari, così s'incominciarono le 'ndizioni a mutare; e dove prima era
libera l'andata alla donna ogni volta che a Salabaetto era in piacere,
così incominciaron poi a sopravvenire delle cagioni, per le quali non
gli veniva delle sette volte l'una fatto il potervi entrare, né quel viso né
quelle carezze né quelle feste più gli eran fatte che prima.
E passato d'un mese e di
due il termine, non che venuto, al quale i suoi danari riaver dovea, richiedendogli,
gli eran date parole in pagamento. Laonde, avvedendosi Salabaetto dell'arte
della malvagia femina e del suo poco senno, e conoscendo che di lei niuna cosa
più che le si piacesse di questo poteva dire, sì come colui che
di ciò non aveva né scritta né testimonio, e vergognandosi di
ramarricarsene con alcuno, sì perché n'era stato fatto avveduto dinanzi,
e sì per le beffe le quali meritamente della sua bestialità
n'aspettava, dolente oltre modo, seco medesimo la sua sciocchezza piagnea. E
avendo da'suoi maestri più lettere avute che egli quegli denari
cambiasse e mandassegli loro; acciò che, non faccendolo egli, quivi non
fosse il suo difetto scoperto, diliberò di partirsi; e in su un legnetto
montato, non a Pisa, come dovea, ma a Napoli se ne venne.
Era quivi in quei tempi
nostro compar Pietro dello Canigiano, tresorier di madama la 'mperatrice di
Costantinopoli, uomo di grande intelletto e di sottile ingegno, grandissimo
amico e di Salabaetto e de'suoi; col quale, sì come con discretissimo
uomo, dopo alcuno giorno Salabaetto dolendosi, raccontò ciò che
fatto aveva e il suo misero accidente, e domandogli aiuto e consiglio in fare
che esso quivi potesse sostentar la sua vita, affermando che mai a Firenze non
intendeva di ritornare.
Canigiano, dolente di queste
cose, disse:
- Male hai fatto; mal ti
se'portato; male hai i tuoi maestri ubbiditi; troppi denari ad un tratto hai
spesi in dolcitudine; ma che? fatto è, vuolsi vedere altro . E,
sì come avveduto uomo, prestamente ebbe pensato quello che era da fare,
e a Salabaetto il disse; al quale piacendo il fatto, si mise in avventura di
volerlo seguire. E avendo alcun denaio, e il Canigiano avendonegli alquanti
prestati, fece molte balle ben legate e ben magliate, e comperate da venti
botti da olio ed empiutele, e caricato ogni cosa, se ne tornò in
Palermo; e il legaggio delle balle dato a` doganieri e similmente il costo
delle botti, e fatto ogni cosa scrivere a sua ragione, quelle mise
ne'magazzini, dicendo che, infino che altra mercatantia la quale egli aspettava
non veniva, quelle non voleva toccare.
Jancofiore, avendo sentito
questo e udendo che ben duemilia fiorin d'oro valeva o più quello che al
presente aveva recato, senza quello che egli aspettava, che valeva più
di tre milia, parendole aver tirato a pochi, pensò di restituirgli i
cinquecento, per potere avere la maggior parte de'cinque milia, e mandò
per lui.
Salabaetto divenuto
malizioso v'andò. Al quale ella faccendo vista di niente sapere di
ciò che recato s'avesse, fece maravigliosa festa e disse:
- Ecco, se tu fossi
crucciato meco perché io non ti rende'così al termine i tuoi denari...
Salabaetto cominciò
a ridere e disse:
- Madonna, nel vero egli mi
dispiacque bene un poco sì come a colui che mi trarrei il cuor per
darlovi, se io credessi piacervene; ma io voglio che voi udiate come io son
crucciato con voi. Egli è tanto e tale l'amor che io vi porto, che io ho
fatto vendere la maggior parte delle mie possessioni, e ho al presente recata
qui tanta mercatantia che vale oltre a duomilia fiorini, e aspettone di ponente
tanta che varrà oltre a tremilia, e intendo di fare in questa terra un
fondaco e di starmi qui, per esservi sempre presso, parendomi meglio stare del
vostro amore che io creda che stia alcuno innamorato dei suo.
A cui la donna disse:
- Vedi, Salabaetto, ogni
tuo acconcio mi piace forte, sì come di quello di colui il quale io amo
più che la vita mia, e piacemi forte che tu con intendimento di starci
tornato ci sii, però che spero d'avere ancora assai di buon tempo con
teco; ma io mi ti voglio un poco scusare ch'e, di quei tempi che tu te
n'andasti, alcune volte ci volesti venire e non potesti, e alcune ci venisti e
non fosti così lietamente veduto come solevi; e oltre a questo, di
ciò che io al termine promesso non ti rende'i tuoi denari.
Tu dei sapere che io era
allora in grandissimo dolore e in grandissima afflizione, e chi è in
così fatta disposizione, quantunque egli ami molto altrui, non gli
può far così buon viso né attendere tuttavia a lui come colui
vorrebbe; e appresso dei sapere ch'egli è molto malagevole ad una donna
il poter trovar mille fiorin d'oro, e sonci tutto il dì dette delle
bugie e non c'è attenuto quello che ci è promesso, e per questo
conviene che noi altressì mentiamo altrui; e di quinci venne, e non da
altro difetto, che io i tuoi denari non ti rendei; ma io gli ebbi poco appresso
la tua partita, e se io avessi saputo dove mandargliti, abbi per certo che io
te gli avrei mandati; ma perché saputo non l'ho, gli t'ho guardati.
E fattasi venire una borsa
dove erano quegli medesimi che esso portati l'avea, gliele pose in mano e
disse:
- Annovera se son
cinquecento. Salabaetto non fu mai sì lieto, e annoveratigli e
trovatigli cinquecento e ripostigli, disse:
- Madonna, io conosco che
voi dite vero, ma voi n'avete fatto assai; e dicovi che per questo e per lo
amore che io vi porto, voi non ne vorreste da me per niun vostro bisogno quella
quantità che io potessi fare, che io non ve ne servissi; e come io ci
sarò acconcio, voi ne potrete essere alla pruova.
E in questa guisa
reintegrato con lei l'amore in parole, rincominciò Salabaetto
vezzatamente ad usar con lei, ed ella a fargli i maggiori piaceri e i maggiori
onori del mondo, e a mostrargli il maggiore amore. Ma Salabaetto, volendo col
suo inganno punire lo 'nganno di lei, avendogli ella il dì mandato che
egli a cena e ad albergo con lei andasse, v'andò tanto malinconoso e
tanto tristo, che egli pareva che volesse morire.
Jancofiore, abbracciandolo
e baciandolo, lo 'ncominciò a domandare perché egli questa malinconia
avea.
Egli, poi che una buona
pezza s'ebbe fatto pregare, disse:
- Io son diserto per
ciò che il legno, sopra il quale e la mercatantia che io aspettava,
è stato preso da'corsari di Monaco e riscattasi diecimilia fiorin d'oro,
de'quali ne tocca a pagare a me mille, e io non ho un denaio, per ciò
che li cinquecento che mi rendesti incontanente mandai a Napoli ad investire in
tele per far venir qui; e se io vorrò al presente vendere la mercatantia
la quale ho qui, per ciò che non è tempo, appena che io abbia
delle due derrate un denaio, e io non ci sono sì ancora conosciuto che
io ci trovassi chi di questo mi sovvenisse, e per ciò io non so che mi
fare né che mi dire; e se io non mando tosto i denari, la mercatantia ne fia
portata a Monaco; e non ne riavrò mai nulla.
La donna, forte crucciosa
di questo, sì come colei alla quale tutto il pareva perdere, avvisando
che modo ella dovesse tenere acciò che a Monaco non andasse, disse:
- Dio il sa che ben me ne
incresce per tuo amore; ma che giova il tribolarsene tanto? Se io avessi questi
denari, sallo Iddio che io gli ti presterrei incontanente; ma io non gli ho. E
il vero che egli ci è alcuna persona, il quale l'altrieri mi
servì de'cinquecento che mi mancavano, ma grossa usura ne vuole; ché egli
non ne vuol meno che a ragion di trenta per centinaio; se da questa cotal
persona tu gli volessi, converrebbesi far sicuro di buon pegno, e io per me
sono acconcia d'impegnar per te tutte queste robe e la persona per tanto quanto
egli ci vorrà su prestare, per poterti servire, ma del rimanente come il
sicurerai tu?
Conobbe Salabaetto la
cagione che moveva costei a fargli questo servigio, e accorsesi che di lei
dovevan essere i denari prestati; il che piacendogli, prima la
ringraziò, e appresso disse che già per pregio ingordo non
lascerebbe, strignendolo il bisogno; e poi disse che egli il sicurerebbe della
mercatantia la quale aveva in dogana, faccendola scrivere in colui che i denar
gli prestasse; ma che egli voleva guardar la chiave de'magazzini, sì per
poter mostrar la sua mercatantia, se richiesta gli fosse, e sì
acciò che niuna cosa gli potesse esser tocca o tramutata o scambiata.
La donna disse che questo
era ben detto, ed era assai buona sicurtà. E per ciò, come il
dì fu venuto, ella mandò per un sensale di cui ella si canfidava
molto, e ragionato con lui questo fatto, gli diè mille fiorin d'oro li
quali il sensale prestò a Salabaetto, e fece in suo nome scrivere alla
dogana ciò che Salabaetto dentro v'avea; e fattesi loro scritte e
contrascritte insieme, e in concordia rimasi, attesero a'loro altri fatti.
Salabaetto, come più
tosto potè, montato in su un legnetto con mille cinquecento fiorin
d'oro, a Pietro dello Canigiano se ne tornò a Napoli, e di quindi buona
e intera ragione rimandò a Firenze a'suoi maestri che co'panni l'avevan
mandato; e pagato Pietro e ogni altro a cui alcuna cosa doveva, più di
col Canigiano si diè buon tempo dello inganno fatto alla ciciliana. Poi
di quindi, non volendo più mercatante essere, se ne venne a Ferrara.
Jancofiore, non trovandosi
Salabaetto in Palermo, s'incominciò a maravigliare e divenne sospettosa;
e poi che ben due mesi aspettato l'ebbe, veggendo che non veniva, fece che 'l
sensale fece schiavare i magazzini. E primieramente tastate le botti, che si credeva
che piene d'olio fossero, trovò quelle esser piene d'acqua marina,
avendo in ciascuna forse un barile d'olio di sopra vicino al cocchiume. Poi,
sciogliendo le balle, tutte, fuor che due che panni erano, piene le
trovò di capecchio; e in brieve, tra ciò che v'era, non valeva
oltre a dugento fiorini.
Di che Jancofiore tenendosi
scornata, lungamente pianse i cinquecento renduti e troppo più i mille
prestati, spesse volte dicendo: - Chi ha a far con tosco, non vuole esser losco
- . E così, rimasasi col danno e colle beffe, trovò che tanto
seppe altri quanto altri.
Giornata ottava -
Conclusione
Come Dioneo ebbe la sua
novella finita, così Lauretta, conoscendo il termine esser venuto oltre
al quale più regnar non dovea, commendato il consiglio di Pietro
Canigiano che apparve dal suo effetto buono, e la sagacità di Salabaetto
che non fu minore a mandarlo ad esecuzione, levatasi la laurea di capo, in
testa ad Emilia la pose, donnescamente dicendo:
- Madonna, io non so come
piacevole reina noi avrem di voi, ma bella la pure avrem noi; fate adunque che
alle vostre bellezze l'opere sien rispondenti- ; e tornossi a sedere.
Emilia, non tanto
dell'esser reina fatta, quanto dell'udirsi così in pubblico commendare
di ciò che le donne sogliono essere più vaghe, un pochetto si
vergognò, e tal nel viso divenne qual in su l'aurora son le novelle
rose. Ma pur, poi che avendo alquanto gli occhi tenuti bassi ebbe il rossore
dato luogo, avendo col suo siniscalco de'fatti pertinenti alla brigata
ordinato, così cominciò a parlare:
- Dilettose donne, assai
manifestamente veggiamo che, poi che i buoi per alcuna parte del giorno hanno
faticato sotto il giogo ristretti, quegli esser dal giogo alleviati e
disciolti, e liberamente, dove lor più piace, per li boschi lasciati
sono andare alla pastura; e veggiamo ancora non esser men belli, ma molto
più, i giardini di varie piante fronzuti, che i boschi ne'quali
solamente querce veggiamo; per le quali cose io estimo, avendo riguardo quanti
giorni sotto certa legge ristretti ragionato abbiamo, che, sì come a
bisognosi, di vagare alquanto, e vagando riprender forze a rientrar sotto il
giogo, non sola mente sia utile ma opportuno.
E per ciò quello che
domane, seguendo il vostro dilettevole ragionare, sia da dire, non intendo di
ristrigneni sotto alcuna spezialità, ma voglio che ciascun secondo che
gli piace ragioni, fermamente tenendo che la varietà delle cose che si
diranno non meno graziosa ne fia che l'avrete pur d'una parlato; e così
avendo fatto, chi appresso di me nel reame verrà, sì come
più forti, con maggior sicurtà ne potrà nelle usate leggi
ristrignere.
E detto questo, infino
all'ora della cena libertà concedette a ciascuno.
Commendò ciascun la
reina delle cose dette, sì come savia; e in piè drizzatisi, chi
ad un diletto e chi ad un altro si diede: le donne a far ghirlande e a
trastullarsi, i giovani a giucare e a cantare, e così infino all'ora
della cena passarono; la quale venuta, intorno alla bella fontana con festa e
con piacer cenarono; e dopo la cena al modo usato cantando e ballando un gran
pezzo si trastullarono.
Alla fine la reina, per
seguire de'suoi predecessori lo stilo, non ostanti quelle che volontariamente
da più di loro erano state dette, comandò a Panfilo che una ne
dovesse cantare. Il quale così liberamente cominciò:
Tanto è, Amore, il
bene
ch'io per te sento e
l'allegrezza e 'l gioco
ch'io son felice ardendo
nel tuo foco.
L'abbondante allegrezza
ch'è nel core
dell'alta gioia e cara,
nella qual m'ha'recato,
non potendo capervi, esce
di fore,
e nella faccia chiara
mostra'l mio lieto stato;
ché essendo innamorato
in così alto e
ragguardevol loco,
lieve mi fa lo star dov'io
mi coco.
Io non so col mio canto
dimostrare,
né disegnar col dito,
Amore, il ben ch'io sento;
e s'io sapessi, me'l
convien celare;
ché s'el fosse sentito,
torneria in tormento;
ma io son sì
contento
ch'ogni parlar sarebbe
corto e fioco,
pria n'avessi mostrato pure
un poco.
Chi potrebbe estimar che le
mie braccia
aggiugnesser giammai
là dov'io l'ho
tenute,
e ch'io dovessi giunger la
mia faccia
là dov'io l'accostai
per grazia e per salute?
Non mi sarien credute
le mie fortune; ond'io
tutto m'infoco,
quel nascondendo ond'io
m'allegro e gioco.
La canzone di Panfilo aveva
fine, alla quale quantunque per tutti fosse compiutamente risposto, niun ve
n'ebbe che, con più attenta sollecitudine che a lui non apparteneva, non
notasse le parole di quella, ingegnandosi di quello volersi indovinare che egli
di convenirgli tener nascoso cantava. E quantunque vari varie cose andassero
imaginando, niun per ciò alla verità del fatto pervenne. Ma la
reina, poi che vide la canzone di Panfilo finita, e le giovani donne e gli
uomini volentier riposarsi, comandò che ciascuno se n'andasse a dormire.
Finisce l'ottava giornata
del Decameron
Incomincia la nona giornata
nella quale sotto il reggimento d'Emilia, si ragiona ciascuno secondo che gli
piace e di quello che più gli aggrada
Giornata nona -
Introduzione
La luce, il cui splendore
la notte fugge, aveva già l'ottavo cielo d'azzurrino in color cilestro
mutato tutto, e cominciavansi i fioretti per li prati a levar suso, quando
Emilia, levatasi, fece le sue compagne e i giovani parimente chiamare. Li quali
venuti, e appresso alli lenti passi della reina avviatisi, infino ad un
boschetto, non guari al palagio lontano, se n'andarono; e per quello entrati,
videro gli animali, sì come cavriuoli, cervi e altri, quasi sicuri
da'cacciatori per la sopra stante pistolenzia, non altramente aspettargli che
se senza te ma o dimestichi fossero divenuti. E ora a questo e ora a
quell'altro appressandosi, quasi giugnere gli dovessero, faccendogli correre e
saltare, per alcuno spazio sollazzo presero. Ma già inalzando il sole,
parve a tutti di ritornare.
Essi eran tutti di frondi
di quercia inghirlandati, con le mani piene o d'erbe odorifere o di fiori; e
chi scontrati gli avesse, niun'altra cosa avrebbe potuto dire se non: - O
costor non saranno dalla morte vinti, o ella gli ucciderà lieti -.
Così adunque, piede
innanzi piede venendosene, cantando e cianciando e motteggiando, pervennero al
palagio, do ve ogni cosa ordinatamente disposta e li lor famigliari lieti e
festeggianti trovarono. Quivi riposatisi alquanto, non prima a tavola andarono
che sei canzonette, più lieta l'una che l'altra, da'giovani e dalle
donne cantate furono; appresso alle quali, data l'acqua alle mani, tutti
secondo il piacer . della reina gli mise il siniscalco a tavola, dove le
vivande . venute, allegri tutti mangiarono; e da quello levati, al carolare e
al sonare si dierono per alquanto spazio, e poi, co mandandolo la reina, chi
volle s'andò a riposare. Ma già l'ora usitata venuta, ciascuno
nel luogo usato s'adunò a ragionare; dove la reina, a Filomena guardando,
disse che principio desse alle novelle del presente giorno, la qual sorridendo
cominciò in questa guisa.
Giornata nona - Novella
prima
Madonna Francesca, amata da
uno Rinuccio e da uno Alessandro, e niuno amandone, col fare entrare l'un per
morto in una sepoltura, e l'altro quello trarne per morto, non potendo essi
venire al fine imposto, cautamente se gli leva da dosso
Madonna, assai m'aggrada,
poi che vi piace, che per questo campo aperto e libero, nel quale la vostra
magnificenzia n'ha messi, del novellare, d'esser colei che corra il primo
aringo, il quale se ben farò, non dubito che quegli che appresso
verranno non facciano bene e meglio.
Molte volte s'è, o
vezzose donne, ne'nostri ragionamenti mostrato quante e quali sieno le forze
d'amore; né però credo che pienamente se ne sia detto, né sarebbe
ancora, se di qui ad uno anno d'altro che di ciò non parlassimo; e per
ciò che esso non solamente a vari dubbi di dover morire gli amanti
conduce, ma quegli ancora ad entrare nelle case de'morti per morti tira,
m'aggrada di ciò raccontarvi, oltre a quelle che dette sono, una
novella, nella quale non solamente la potenzia d'amore comprenderete, ma il
senno da una valorosa donna usato a torsi da dosso due che contro al suo
piacere l'amavan, cognoscerete.
Dico adunque che nella
città di Pistoia fu già una bellissima donna vedova, la quale due
nostri fiorentini, che per aver bando di Firenze a Pistoia dimoravano, chiamati
l'uno Rinuccio Palermini e l'altro Alessandro Chiarmontesi, senza sapere l'un
dell'altro, per caso di costei presi, sommamente amavano, operando cautamente
ciascuno ciò che per lui si poteva, a dover l'amor di costei acquistare.
Ed essendo questa gentil
donna, il cui nome fu madonna Francesca de'Lazzari, assai sovente stimolata da
ambasciate e da prieghi di ciascun di costoro, e avendo ella ad esse men
saviamente più volte gli orecchi porti, e volendosi saviamente ritrarre
e non potendo, le venne, acciò che la lor seccaggine si levasse da
dosso, un pensiero; e quel fu di volergli richiedere d'un servigio il quale
ella pensò niuno dovergliele fare, quantunque egli fosse possibile,
acciò che, non faccendolo essi, ella avesse onesta o colorata ragione di
più non volere le loro ambasciate udire; e 'pensiero fu questo.
Era, il giorno che questo
pensier le venne, morto in Pistoia uno, il quale, quantunque stati fossero i
suoi passati gentili uomini, era reputato il piggiore uomo che, non che in
Pistoia, ma in tutto il mondo fosse; e oltre a questo vivendo era sì
contraffatto e di sì divisato viso, che chi conosciuto non l'avesse,
vedendol da prima, n'avrebbe avuto paura; ed era stato sotterrato in uno avello
fuori della chiesa dei frati minori; il quale ella avvisò dovere in
parte essere grande acconcio del suo proponimento.
Per la qual cosa ella disse
ad una sua fante:
- Tu sai la noia e
l'angoscia la quale io tutto il dì ricevo dall'ambasciate di questi due
fiorentini, da Rinuccio e da Alessandro; ora io non son disposta a dover loro
del mio amore compiacere; e per torglimi da dosso, m'ho posto in cuore, per le
grandi profferte che fanno, di volergli in cosa provare, la quale io son certa
che non faranno, e così questa seccaggine torrò via: e odi come.
Tu sai che stamane fu
sotterrato al luogo de'frati minori lo Scannadio (così era chiamato quel
reo uomo di cui dl sopra dicemmo), del quale, non che morto, ma vivo, i
più sicuri uomini di questa terra, vedendolo, avevan paura; e
però tu te n'andrai segretamente prima ad Alessandro, e sì gli
dirai: - Madonna Francesca ti manda dicendo che ora è venuto il tempo
che tu puoi avere il suo amore, il qual tu hai cotanto disiderato, ed esser con
lei, dove tu vogli, in questa forma. A lei dee, per alcuna cagione che tu poi
saprai, questa notte essere da un suo parente recato a casa il corpo di
Scannadio che stamane fu sepellito, ed ella, sì come quel la che ha di
lui, così morto come egli è, paura, nol vi vorrebbe; per che ella
ti priega in luogo di gran servigio, che ti debbia piacere d'andare stasera in
su il primo sonno ed entrare in quella sepoltura dove Scannadio è
sepellito, e metterti i suoi panni in dosso, e stare come se tu desso fossi,
infino a tanto che per te sia venuto, e senza alcuna cosa dire o motto fare, di
quella trarre ti lasci e recare a casa sua, dove ella ti riceverà, e con
lei poi ti starai, e a tua posta ti potrai partire, lasciando del rimanente il
pensiero a lei - . E, se egli dice di volerlo fare, bene sta; dove dicesse di
non volerlo fare sì gli di'da mia parte che più dove io sia non
apparisca, e come egli ha cara la vita, si guardi che più né messo né
ambasciata mi mandi.
E appresso questo te
n'andrai a Rinuccio Palermini, e sì gli dirai: - Madonna Francesca dice
che è presta di volere ogni tuo piacer fare, dove tu a lei facci un gran
servigio, cioè che tu stanotte in su la mezza notte te ne vadi allo
avello dove fu stamane sotterrato Scannadio, e lui, senza dire alcuna parola di
cosa che tu oda o senta, tragghi di quello soavemente e rechigliele a casa.
Quivi perché ella il voglia vedrai, e di lei avrai il piacer tuo; e dove questo
non ti piaccia di fare ella infino ad ora t'impone che tu mai più non le
mandi né messo né ambasciata - .
La fante n'andò ad
amenduni, e ordinatamente a ciascuno, secondo che imposto le fu, disse. Alla
quale risposto fu da ognuno, che non che in una sepoltura, ma in inferno
andrebber, quando le piacesse. La fante fe'la risposta alla donna, la quale
aspettò di vedere se sì fosser pazzi che essi il facessero.
Venuta adunque la notte,
essendo già primo sonno, Alessandro Chiarmontesi spogliatosi in
farsetto, uscì di casa sua per andare a stare in luogo di Scannadio
nello avello, e andando gli venne un pensier molto pauroso nell'animo, e
cominciò a dir seco: - Deh, che bestia sono io? Dove vo io? che so io se
i parenti di costei, forse avvedutisi che io l'amo, credendo essi quel che non
è, le fanno far questo per uccidermi in quello avello? Il che se
avvenisse, io m'avrei il danno, né mai cosa del mondo se ne saprebbe che lor
nocesse. che so io se forse alcun mio nimico que sto m'ha procacciato, il quale
ella forse amando, di questo il vuol servire? -
E poi dicea: - Ma pognam
che niuna di queste cose sia, e che pure i suoi parenti a casa di lei portar mi
debbano io debbo credere che essi il corpo di Scannadio non vogliono per doverlosi
tenere in braccio, o metterlo in braccio a lei; anzi si dee credere che essi ne
voglian far qualche strazio, sì come di colui che forse già
d'alcuna cosa gli diservì. Costei dice che di cosa che io senta io non
faccia motto. se essi mi cacciasser gli occhi o mi traessero i denti o
mozzasermi le mani o facessermi alcuno altro così fatto giuoco, a che
sare'io? Come potre'io star cheto? E se io favello, e'mi conosceranno e per
avventura mi faranno male; ma come che essi non me ne facciano, io non
avrò fatto nulla, ché essi non mi lasceranno con la donna; e la donna
dirà poi che io abbia rotto il suo comandamento e non farà mai
cosa che mi piaccia -.
E così dicendo, fu
tutto che tornato a casa; ma pure il grande amore il sospinse innanzi con
argomenti contrari a questi e di tanta forza, che allo avello il condussero. Il
quale egli aperse, ed entratovi dentro e spogliato Scannadio e sé rivestito e
l'avello sopra sé richiuso e nel luogo di Scannadio postosi,
gl'incominciò a tornare a mente chi costui era stato, e le cose che
già aveva udite dire che di notte erano intervenute, non che nelle
sepolture de'morti, ma ancora altrove; e tutti i peli gli s'incominciarono ad
arricciare ad dosso, e parevagli tratto tratto che Scannadio si dovesse levar
ritto e quivi scannar lui. Ma da fervente amore aiutato, questi e gli altri
paurosi pensier vincendo, stando come se egli il morto fosse, cominciò
ad aspettare che di lui dovesse intervenire.
Rinuccio, appressandosi la
mezza notte, uscì di casa sua per far quello che dalla sua donna gli era
stato mandato a dire; e andando, in molti e vari pensieri entrò delle
cose possibili ad intervenirgli; sì come di poter col corpo sopra le
spalle di Scannadio venire alle mani della signoria ed esser come malioso
condennato al fuoco; o di dovere, se egli si risapesse, venire in odio de'suoi
parenti; e d'altri simili, da'quali tutto che rattenuto fu.
Ma poi, rivolto, disse: -
Deh! dirò io di no della prima cosa che questa gentil donna, la quale io
ho cotanto amata e amo, m'ha richiesto, e spezialmente dovendone la sua grazia
acquistare? Non, ne dovess'io di certo morire, che io non me ne metta a fare
ciò che promesso l'ho -; e andato avanti giunse alla sepoltura e quella
leggermente aperse.
Alessandro, sentendola
aprire, ancora che gran paura avesse, stette pur cheto. Rinuccio, entrato
dentro, credendosi il corpo di Scannadio prendere, prese Alessandro pe'piedi e
lui fuor ne tirò, e in su le spalle levatoselo, verso la casa della
gentil donna cominciò ad andare; e così andando e non riguardandolo
altramenti, spesse volte il percoteva ora in un canto e ora in un altro
d'alcune panche che allato alla via erano; e la notte era sì buia e
sì oscura che egli non poteva discernere ove s'andava.
Ed essendo già
Rinuccio a piè dell'uscio della gentil donna, la quale alle finestre con
la sua fante stava per sentire se Rinuccio Alessandro recasse, già da sé
armata in modo da mandargli amenduni via, avvenne che la famiglia della
signoria, in quella contrada ripostasi e chetamente standosi aspettando di dover
pigliare uno sbandito, sentendo lo scalpiccio che Rinuccio coi piè
faceva, subitamente tratto fuori un lume per veder che si fare e dove andarsi,
e mossi i pavesi e le lance, gridò:
- Chi è là?
La quale Rinuccio
conoscendo, non avendo tempo da troppa lunga diliberazione, lasciatosi cadere
Alessandro, quanto le gambe nel poteron portare andò via. Alessandro,
levatosi prestamente, con tutto che i panni del morto avesse in dosso, li quali
erano molto lunghi, pure andò via altressì.
La donna, per lo lume tratto
fuori dalla famiglia, ottimamente veduto aveva Rinuccio con Alessandro dietro
alle spalle, e similmente aveva scorto Alessandro esser vestito dei panni di
Scannadio, e maravigliossi molto del grande ardire di ciascuno; ma con tutta la
maraviglia rise assai del veder gittar giuso Alessandro, e del vedergli poscia
fuggire. Ed essendo di tale accidente molto lieta e lodando Iddio che dallo
'mpaccio di costoro tolta l'avea, se ne tornò dentro e andossene in
camera, affermando con la fante senza alcun dubbio ciascun di costoro amarla
molto, poscia quello avevan fatto, sì come appariva, che ella loro aveva
imposto.
Rinuccio, dolente e
bestemmiando la sua sventura, non se ne tornò a casa per tutto questo,
ma, partita di quella contrada la famiglia, colà tornò dove
Alessandro aveva gittato, e cominciò brancolone a cercare se egli il
ritrovasse, per fornire il suo servigio, ma non trovandolo, e avvisando la
famiglia quindi averlo tolto, dolente a casa se ne tornò.
Alessandro, non sappiendo
altro che farsi, sena aver conosciuto chi portato se l'avesse, dolente di tale
sciagura, similmente a casa sua se n'andò.
La mattina, trovata aperta
la sepoltura di Scannadio né dentro vedendovisi, perciò che nel fondo
l'aveva Alessandro voltato, tutta Pistoia ne fu in vari ragionamenti, estimando
gli sciocchi lui da'diavoli essere stato portato via.
Nondimeno ciascun de'due
amanti, significato alla donna ciò che fatto avea e quello che era
intervenuto, e con questo scusandosi se fornito non avean pienamente il suo
comandamento, la sua grazia e il suo amore addimandava. La qual mostrando a
niun ciò voler credere, con recisa risposta di mai per lor niente voler
fare, poi che essi ciò che essa ad dimandato avea non avean fatto, se
gli tolse da dosso
Giornata nona - Novella
seconda
Levasi una badessa in
fretta e al buio per trovare una sua monaca, a lei accusata, col suo amante nel
letto; ed essendo con lei un prete, credendosi il saltero de'veli aver posto in
capo, le brache del prete vi si pose; le quali vedendo l'accusata e fattalane
accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo amante.
Già si tacea
Filomena, e il senno della donna a torsi da dosso coloro li quali amar non
volea da tutti era stato commendato, e così in contrario non amor ma
pazzia era stata tenuta da tutti l'ardita presunzione degli amanti, quando la
reina ad Elissa vezzosamente disse:
- Elissa, segui.
La quale prestamente
incominciò.
Carissime donne, saviamente
si seppe madonna Francesca, come detto è, liberar dalla noia sua; ma una
giovane monaca, aiutandola la fortuna, sé da un soprastante pericolo,
leggiadramente parlando, diliberò. E, come voi sapete, assai sono li
quali, essendo stoltissimi, maestri degli altri si fanno e gastigatori, li
quali, sì come voi potrete com prendere per la mia novella, la fortuna
alcuna volta e meritamente vitupera; e ciò addivenne alla badessa, sotto
la cui obbedienza era la monaca della quale debbo dire.
Sapere adunque dovete in
Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione, nel
quale, tra l'altre donne monache che v'erano, v'era una giovane di sangue
nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo
un dì ad un suo parente alla grata venuta, d'un bel giovane che con lui
era s'innamorò. Ed esso, lei veggendo bellissima, già il suo
disidero avendo con gli occhi concetto, similmente di lei s'accese; e non senza
gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto sostennero.
Ultimamente, essendone
ciascun sollicito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca
occultissimamente andare; di che ella contentandosi, non una volta ma molte,
con gran piacer di ciascuno, la visitò. Ma continuandosi questo, avvenne
una notte che egli da una delle donne di là entro fu veduto, senza
avvedersene egli o ella, dall'Isabetta partirsi e andarsene. Il che costei con
alquante altre comunicò. E prima ebber consiglio d'accusarla alla
badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna secondo la
oppinione delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono,
acciò che la negazione non avesse luogo, di volerla far cogliere col
giovane alla badessa. E così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie
segretamente partirono per incoglier costei.
Or, non guardandosi
l'Isabetta da questo, né alcuna cosa sappiendone, avvenne che ella una notte
vel fece venire; il che tantosto sepper quelle che a ciò badavano. Le
quali, quando a loro parve tempo, essendo già buona pezza di notte, in
due si divisero, e una parte se ne mise a guardia del l'uscio della cella
dell'Isabetta, e un'altra n'andò correndo alla camera della badessa; e
picchiando l'uscio, a lei che già rispondeva, dissero:
- Su, madonna, levatevi
tosto, ché noi abbiam trovato che l'Isabetta ha un giovane nella cella.
Era quella notte la badessa
accompagnata d'un prete, il quale ella spesse volte in una cassa si faceva
venire. La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta
o troppo volonterose, tanto l'uscio sospignessero che egli s'aprisse,
spacciatamente si levò suso, e come il meglio seppe si vestì al
buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamanli
il saltero, le venner tolte le brache del prete; e tanta fu la fretta, che,
senza avvedersene, in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì
fuori, e prestamente l'uscio si riserrò dietro, dicendo:
- Dove è questa
maladetta da Dio? - e con l'altre, che sì focose e sì attente
erano a dover far trovare in fallo l'Isabetta, che di cosa che la badessa in
capo avesse non s'avvedieno, giunse all'uscio della cella, e quello, dall'altre
aiutata, pinse in terra; ed entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti
abbracciati, li quali, da cosi subito soprapprendimento storditi, non sappiendo
che farsi, stettero fermi.
La giovane fu incontanente
dall'altre monache presa, e per comandamento della badessa menata in capitolo.
Il giovane s'era rimaso; e vestitosi, aspettava di veder che fine la cosa
avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne potesse, se
alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco.
La badessa, postasi a
sedere in capitolo, in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla
colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che mai a
femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità,
l'onestà e la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli
opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea; e dietro alla villania
aggiugneva gravissime minacce.
La giovane, vergognosa e
timida, sì come colpevole, non sapeva che si rispondere, ma tacendo, di
sé metteva compassion nell'altre; e, multiplicando pur la badessa in novelle,
venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in
capo, e gli usolieri che di qua e di là pendevano.
Di che ella, avvisando
ciò che era, tutta rassicurata disse:
- Madonna, se Iddio
v'aiuti, annodatevi la cuffia, e poscia mi dite ciò che voi volete.
La badessa, che non la
intendeva, disse:
- Che cuffia, rea femina?
Ora hai tu viso di motteggiare? Parti egli aver fatta cosa che i motti ci
abbian luogo?
Allora la giovane un'altra
volta disse:
- Madonna, io vi priego che
voi v'annodiate la cuffia, poi dite a me ciò che vi piace. Laonde molte
delle monache levarono il viso al capo della badessa, ed ella similmente
ponendovisi le mani, s'accorsero perché l'Isabetta così diceva. Di che
la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era
né aveva ricoperta, mutò sermone, e in tutta altra guisa che fatto non
avea cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il
potersi dagli stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come
infino a quel dì fatto s'era, disse che ciascuna si desse buon tempo
quando potesse.
E liberata la giovane, col
suo prete si tornò a dormire, e l'Isabetta col suo amante. Il qual poi
molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fe'venire.
L'altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente
procacciaron lor ventura.
Giornata nona - Novella
terza
Maestro Simone, ad
instanzia di Bruno e di Buffalmacco e di Nello, fa credere a Calandrino che
egli è pregno; il quale per medicine dà a'predetti capponi e
denari, e guarisce della pregnezza senza partorire.
Poi che Elissa ebbe la sua
novella finita, essendo da tutte rendute grazie a Dio che la giovane monaca
aveva con lieta uscita tratta dei morsi delle invidiose compagne, la reina a
Filostrato comandò che seguitasse; il quale, senza più
comandamento aspettare, incominciò.
Bellissime donne, lo
scostumato giudice marchigiano, di cui ieri vi novellai, mi trasse di bocca una
novella di Calandrino, la quale io era per dirvi. E per ciò che
ciò che di lui si ragiona non può altro che multiplicare la
festa, benché di lui e de'suoi compagni assai ragionato si sia, ancor pur
quella che ieri aveva in animo vi dirò.
Mostrato è di sopra
assai chiaro chi Calandrin fosse e gli altri de'quali in questa novella
ragionar debbo; e per ciò, senza più dirne, dico che egli avvenne
che una zia di Calandrin si morì e lasciogli dugento lire di piccioli
con tanti; per la qual cosa Calandrino cominciò a dire che egli voleva
comperare un podere; e con quanti sensali aveva in Firenze, come se da spendere
avesse avuti diecimila fiorin d'oro, teneva mercato, il quale sempre si
guastava quando al prezzo del poder domandato si perveniva.
Bruno e Buffalmacco, che
queste cose sapevano, gli avevan più volte detto che egli farebbe il
meglio a goderglisi con loro insieme, che andar comperando terra, come se egli
avesse avuto a far pallottole; ma, non che a questo, essi non l'aveano mai
potuto conducere che egli loro una volta desse mangiare.
Per che un dì
dolendosene, ed essendo a ciò sopravenuto un lor compagno, che aveva
nome Nello, dipintore, di liberar tutti e tre di dover trovar modo da ugnersi
il grifo alle spese di Calandrino; e senza troppo indugio darvi, avendo tra sé
ordinato quello che a fare avessero, la seguente mattina appostato quando
Calandrino di casa uscisse, non essendo egli guari andato, gli si fece incontro
Nello e disse:
- Buon dì,
Calandrino.
Calandrino gli rispose che
Iddio gli desse il buon dì e 'l buono anno. Appresso questo, Nello
rattenutosi un poco, lo 'ncominciò a guardar nel viso. A cui Calandrino
disse:
- Che guati tu?
E Nello disse a lui:
- Haiti tu sentita sta
notte cosa niuna? Tu non mi par desso.
Calandrino incontanente
incominciò a dubitare e disse:
- Ohimè, come! Che
ti pare egli che io abbia?
Disse Nello:
- Deh! io nol dico per
ciò; ma tu mi pari tutto cambiato; fia forse altro -; e lasciollo
andare.
Calandrino tutto
sospettoso, non sentendosi per ciò cosa del mondo, andò avanti.
Ma Buffalmacco, che guari non era lontano, vedendol partito da Nello, gli si
fece incontro, salutatolo il domandò se egli si sentisse niente.
Calandrino rispose:
- Io non so, pur testé mi
diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe egli essere che io
avessi nulla?
Disse Buffalmacco:
- Sì, potrestu aver
cavelle, non che nulla: tu par mezzo morto.
A Calandrino pareva
già aver la febbre. Ed ecco Bruno sopravvenne, e prima che altro
dicesse, disse:
- Calandrino, che viso
è quello? E'par che tu sia morto: che ti senti tu?
Calandrino, udendo ciascun
di costor così dire, per certissimo ebbe seco medesimo d'esser malato; e
tutto sgomentato gli domandò:
- Che fo?
Disse Bruno:
- A me pare che tu te ne
torni a casa a vaditene in su 'l letto e facciti ben coprire, e che tu mandi il
segnal tuo al maestro Simone, che è così nostra cosa come tu sai.
Egli ti dirà incontanente ciò che tu avrai a fare, e noi ne
verrem teco, e se bisognerà far cosa niuna, noi la faremo.
E con loro aggiuntosi
Nello, con Calandrino se ne tornarono a casa sua, ed egli entratosene tutto
affaticato nella camera, disse alla moglie:
- Vieni e cuoprimi bene,
ché io mi sento un gran male.
Essendo adunque a giacer
posto, il suo segnale per una fanticella mandò al maestro Simone, il
quale allora a bottega stava in Mercato Vecchio alla 'nsegna del mellone.
E Bruno disse a'compagni:
- Voi vi rimarrete qui con
lui, e io voglio andare a sapere che il medico dirà; e, se bisogno
sarà, a menarloci.
Calandrino allora disse:
- Deh! sì, compagno
mio, vavvi e sappimi ridire come il fatto sta, ché io mi sento non so che
dentro.
Bruno, andatosene al
maestro Simone, vi fu prima che la fanticella che il segno portava, ed ebbe
informato maestro Simone del fatto. Per che, venuta la fanticella e il maestro
veduto il segno, disse alla fanticella:
- Vattene, e di'a
Calandrino che egli si tenga ben caldo, e io verrò a lui incontanente e
dirogli ciò che egli ha, e ciò che egli avrà a fare.
La fanticella così
rapportò: né stette guari che il maestro e Brun vennero, e postoglisi il
medico a sedere allato, gli 'ncominciò a toccare il polso, e dopo
alquanto, essendo ivi presente la moglie, disse:
- Vedi, Calandrino, a
parlarti come ad amico, tu non hai altro male se non che tu se'pregno.
Come Calandrino udì
questo, dolorosamente cominciò a gridare e a dire:
- Ohimè! Tessa,
questo m'hai fatto tu, che non vuogli stare altro che di sopra: io il ti diceva
bene.
La donna, che assai onesta
persona era, udendo così dire al marito, tutta di vergogna arrossò,
e abbassata la fronte, senza risponder parola s'uscì della camera.
Calandrino, continuando il
suo ramarichio, diceva:
- Ohimè, tristo me!
Come farò io? Come partorirò io questo figliuolo? Onde
uscirà egli? Ben veggo che io son morto per la rabbia di questa mia
moglie, che tanto la faccia Iddio trista quanto io voglio esser lieto; ma,
così foss'io sano come io non sono, ché io mi leverei e dare'le tante
busse, che io la romperei tutta, avvegna che egli mi stea molto bene, ché io
non la doveva mai lasciar salir di sopra; ma per certo, se io scampo di questa,
ella se ne potrà ben prima morir di voglia.
Bruno e Buffalmacco e Nello
avevan sì gran voglia di ridere che scoppiavano, udendo le parole di
Calandrino, ma pur se ne tenevano; ma il maestro Scimmione rideva sì
squaccheratamente, che tutti i denti gli si sarebber potuti trarre. Ma pure al
lungo andare, raccomandandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo
gli dovesse dar consiglio e aiuto, gli disse il maestro:
- Calandrino, io non voglio
che tu ti sgomenti, ché, lodato sia Iddio, noi ci siamo sì tosto accorti
del fatto, che con poca fatica e in pochi dì ti dilibererò; ma
conviensi un poco spendere.
Disse Calandrino:
- Ohimè! maestro
mio, sì per l'amor di Dio. Io ho qui dugento lire di che io voleva
comperare un podere; se tutti bisognano, tutti gli togliete, purché io non
abbia a partorire, ché io non so come io mi facessi, ché io odo fare alle
femine un sì gran romore quando son per partorire, con tutto che elle
abbian buon cotal grande donde farlo, che io credo, se io avessi quel dolore,
che io mi morrei prima che io partorissi.
Disse il medico:
- Non aver pensiero. Io ti
farò fare una certa bevanda stillata molto buona e molto piacevole. a
bere, che in tre mattine risolverà ogni cosa, e rimarrai più sano
che pesce; ma farai che tu sii poscia savio e più non incappi in queste
sciocchezze. Ora ci bisogna per quella acqua tre paia di buon capponi e grossi,
e per altre cose che bisognano darai ad un di costoro cinque lire di piccioli,
che le comperi, e fara'mi ogni cosa recare alla bottega, e io al nome di Dio
domattina ti manderò di quel beveraggio stillato, e comincera'ne a bere un
buon bicchiere grande per volta.
Calandrino, udito questo,
disse:
- Maestro mio, ciò
siane in voi -; e date cinque lire a Bruno e denari per tre paia di capponi, il
pregò che in suo servigio in queste cose durasse fatica.
Il medico, partitosi, gli
fece fare un poco di chiarea e mandogliele. Bruno, comperati i capponi e altre
cose necessarie al godere, insieme col medico e co'compagni suoi se li
mangiò.
Calandrino bevve tre
mattine della chiarea, e il medico venne a lui, e i suoi compagni, e toccatogli
il polso gli disse:
- Calandrino, tu se'guerito
senza fallo; e però sicuramente oggimai va a fare ogni tuo fatto, né per
questo star più in casa.
Calandrino lieto levatosi
s'andò a fare i fatti suoi, lodando molto, ovunque con persona a parlar
s'avveniva, la bella cura che di lui il maestro Simone aveva fatta, d'averlo
fatto in tre dì senza pena alcuna spregnare. E Bruno e Buffalmacco e
Nello rimaser contenti d'aver con ingegni saputo schernire l'avarizia di
Calandrino, quantunque monna Tessa, avvedendosene, molto col marito ne
brontolasse.
Giornata nona - Novella
quarta
Cecco di messer Fortarrigo
giuoca a Buonconvento ogni sua cosa e i denari di Cecco di messer Angiulieri, e
in camicia correndogli dietro e dicendo che rubato l'avea, il fa pigliare
a'villani e i panni di lui si veste e monta sopra il pallafreno, e lui,
venendosene, lascia in camicia.
Con grandissime risa di
tutta la brigata erano state ascoltate le parole da Calandrino dette della sua
moglie; ma, tacendosi Filostrato, Neifile, sì come la reina volle,
incominciò.
Valorose donne, se egli non
fosse più malagevole agli uomini il mostrare altrui il senno e la
virtù loro, che sia la sciocchezza e 'l vizio, invano si faticherebber
molti in porre freno alle lor parole; e questo v'ha assai manifestato la
stoltizia di Calandrino, al quale di niuna necessità era, a voler
guerire del male che la sua simplicità gli faceva accredere, che egli
avesse i segreti diletti della sua donna in pubblico a dimostrare. La qual cosa
una a sé contraria nella mente me n'ha recata, cioè come la malizia
d'uno il senno soperchiasse d'un altro, con grave danno e scorno del
soperchiato; il che mi piace di raccontarvi.
Erano, non sono molti anni
passati, in Siena due già per età compiuti uomini, ciascuno
chiamato Cecco, ma l'uno di messer Angiulieri, e l'altro di messer Fortarrigo.
Li quali quantunque in molte altre cose male insieme di costumi si
convenissero, in uno, cioè che amenduni li lor padri odiavano, tanto si
convenivano, che amici n'erano divenuti e spesso n'usavano insieme.
Ma parendo all'Angiulieri,
il quale e bello e costumato uomo era, mal dimorare in Siena della provesione
che dal padre donata gli era, sentendo nella Marca d'Ancona esser per legato
del papa venuto un cardinale che molto suo signore era, si dispose a volersene
andare a lui, credendone la sua condizion migliorare. E fatto questo al padre
sentire, con lui ordinò d'avere ad una ora ciò che in sei mesi
gli dovesse dare, acciò che vestir si potesse e fornir di cavalcatura e
andare orrevole.
E cercando d'alcuno, il
qual seco menar potesse al suo servigio, venne questa cosa sentita al
Fortarrigo, il qual di presente fu all'Angiulieri, e cominciò, come il
meglio seppe, a pregarlo che seco il dovesse menare, e che egli voleva es sere
e fante e famiglio e ogni cosa, e senza alcun salario sopra le spese. Al quale
l'Angiulieri rispose che menar nol voleva, non perché egli nol conoscesse bene
ad ogni servigio sufficiente, ma per ciò che egli giucava e oltre a
ciò s'innebbriava alcuna volta. A che il Fortarrigo rispose che dell'uno
e dell'altro senza dubbio si guarderebbe, e con molti saramenti gliele
affermò, tanti prieghi sopraggiugnendo, che l'Angiulieri, sì come
vinto, disse che era contento.
Ed entrati una mattina in
cammino amenduni, a desinar n'andarono a Buonconvento. Dove avendo l'Angiulier
desinato, ed essendo il caldo grande, fatto acconciare un letto nello albergo e
spogliatosi, dal Fortarrigo aiutato s'andò a dormire, e dissegli che
come nona sonasse il chiamasse.
Il Fortarrigo, dormendo
l'Angiulieri, se n'andò in su la taverna, e quivi, alquanto avendo
bevuto, cominciò con alcuni a giucare, li quali, in poca d'ora alcuni
denari che egli avea avendogli vinti, similmente quanti panni egli aveva in
dosso gli vinsero; onde egli, disideroso di riscuotersi, così in camicia
come era, se n'andò là dove dormiva l'Angiulieri, e vedendol
dormir forte, di borsa gli trasse quanti denari egli avea, e al giuoco
tornatosi, così gli perdè come gli altri.
L'Angiulieri, destatosi, si
levò e vestissi e domandò del Fortarrigo, il quale non
trovandosi, avvisò l'Angiulieri lui in alcuno luogo ebbro dormirsi,
sì come altra volta era usato di fare. Per che, diliberatosi di
lasciarlo stare, fatta mettere la sella e la valigia ad un suo pallafreno,
avvisando di fornirsi d'altro famigliare a Corsignano, volendo, per andarsene,
l'oste pagare, non si trovò danaio; di che il rumore fu grande e tutta
la casa dell'oste fu in turbazione, dicendo l'Angiulieri che egli là
entro era stato rubato e minacciando egli di farnegli tutti presi andare a
Siena. Ed ecco venire in camicia il Fortarrigo, il quale per torre i panni,
come fatto aveva i denari, veniva. E veggendo l'Angiulieri in concio di
cavalcar, disse:
- Che è questo,
Angiulieri? Vogliancene noi andare ancora? Deh aspettati un poco: egli dee
venire qui testeso uno che ha pegno il mio farsetto per trentotto soldi; son
certo, che egli cel renderà per trentacinque, pagandol testé.
E duranti ancora le parole,
sopravvenne uno il quale fece certo l'Angiulieri il Fortarrigo essere stato
colui che i suoi denar gli aveva tolti, col mostrargli la quantità di
quegli che egli aveva perduti. Per la qual cosa l'Angiulier turbatissimo disse
al Fortarrigo una grandissima villania, e se più d'altrui che di Dio
temuto non avesse, gliele avrebbe fatta; e, minacciandolo di farlo impiccar per
la gola o fargli dar bando delle forche di Siena, montò a cavallo.
Il Fortarrigo, non come se
l'Angiulieri a lui, ma ad un altro dicesse, diceva:
- Deh! Angiulieri, in buona
ora lasciamo stare ora co stette parole che non montan cavelle; intendiamo a
questo; noi il riavrem per trentacinque soldi, ricogliendol testé, ché,
indugiandosi pure di qui a domane, non ne vorrà meno di trentotto come
egli me ne prestò; e fammene questo piacere, perché io gli misi a suo
senno. Deh! perché non ci miglioriam noi questi tre soldi?
L'Angiulieri, udendol
così parlare, si disperava, e massimamente veggendosi guatare a quegli
che v'eran dintorno, li quali parea che credessono non che il Fortarrigo i
denari dello Angiulieri avesse giucati, ma che l'Angiulieri ancora avesse dei
suoi, e dicevagli:
- Che ho io a fare di tuo
farsetto? Che appiccato sia tu per la gola, che non solamente m'hai rubato e
giucato il mio, ma sopra ciò hai impedita la mia andata, e anche ti fai
beffe di me.
Il Fortarrigo stava pur
fermo come se a lui non dicesse, e diceva:
- Deh, perché non mi vuo'tu
migliorar que'tre soldi? Non credi tu che io te li possa ancor servire? Deh,
fallo, se ti cal di me: per che hai tu questa fretta? Noi giugnerem bene ancora
stasera a Torrenieri. Fa truova la borsa: sappi che io potrei cercar tutta
Siena, e non ve ne troverre'uno che così mi stesse ben come questo; e a
dire che io il lasciassi a costui per trentotto soldi! Egli vale ancor quaranta
o più, sì che tu mi piggiorresti in due modi.
L'Angiulier, di gravissimo
dolor punto, veggendosi rubare da costui e ora tenersi a parole, senza
più rispondergli, voltata la testa del pallafreno, prese il cammin verso
Torrenieri. Al quale il Fortarrigo, in una sottil malizia entrato, così
in camicia cominciò a trottar dietro; ed essendo già ben due
miglia andato pur del farsetto pregando, andandone l'Angiulieri forte per
levarsi quella seccaggine dagli orecchi, venner veduti al Fortarrigo lavoratori
in un campo vicino alla strada dinanzi all'Angiulieri, ai quali il Fortarrigo,
gridando forte, incominciò a dire:
- Pigliatel, pigliatelo.
Per che essi chi con vanga
e chi con marra nella strada paratisi dinanzi all'Angiulieri, avvisandosi che
rubato avesse colui che in camincia dietro gli venia gridando, il ritennero e
presono. Al quale per dir loro chi egli fosse e come il fatto stesse, poco
giovava.
Ma il Fortarrigo, giunto
là, con un mal viso disse:
- Io non so come io non
t'uccido, ladro disleale, che ti fuggivi col mio. - E a'villani rivolto disse:
- Vedete, signori, come
egli m'aveva, nascostamente partendosi, avendo prima ogni sua cosa giucata,
lasciato nello albergo in arnese! Ben posso dire che per Dio e per voi io abbia
questo cotanto racquistato, di che io sempre vi sarò tenuto.
L'Angiulieri diceva egli
altressì, ma le sue parole non erano ascoltate. Il Fortarrigo con
l'aiuto de'villani il mise in terra del pallafreno, e spogliatolo, de'suoi
panni si rivestì, e a caval montato, lasciato l'Angiulieri in camicia e
scalzo, a Siena se ne tornò, per tutto dicendo sé il pallafreno e'panni
aver vinto all'Angiulieri.
L'Angiulieri, che ricco si
credeva andare al cardinal nella Marca, povero e in camicia si tornò a
Buonconvento, né per vergogna a que'tempi ardì di tornare a Siena, ma
statigli panni prestati, in sul ronzino che cavalcava il Fortarrigo se
n'andò a'suoi parenti a Corsignano, co'quali si stette tanto che da capo
dal padre fu sovvenuto.
E così la malizia
del Fortarrigo turbò il buono avviso dello Angiulieri, quantunque da lui
non fosse a luogo e a tempo lasciata impunita.
Giornata nona - Novella
quinta
Calandrino s'innamora d'una
giovane, al quale Bruno fa un brieve, col quale come egli la tocca, ella va con
lui, e dalla moglie trovato, ha gravissima e noiosa quistione
Finita la non lunga novella
di Neifile, senza troppo rider ne o parlarne passatasene la brigata, la reina
verso la Fiammetta rivolta, che ella seguitasse le comandò, la quale
tutta lieta rispose che volentieri, e cominciò.
Gentilissime donne,
sì come io credo che voi sappiate, niuna cosa è di cui tanto si
parli, che sempre più non piaccia; dove il tempo e il luogo che quella
cotal cosa richiede si sappi per colui, che parlar ne vuole, debitamente
eleggere. E per ciò, se io riguardo quello per che noi siam qui (ché per
aver festa e buon tempo, e non per altro, ci siamo) stimo che ogni cosa che
festa e piacer possa porgere qui abbia e luogo e tempo debito; e benché mille
volte ragionato ne fosse, altro che dilettar non debbia altrettanto parlandone.
Per la qual cosa, posto che
assai volte de'fatti di Calandrino detto si sia tra noi, riguardando, sì
come poco avanti disse Filostrato, che essi son tutti piacevoli, ardirò,
oltre alle dette, di dirvene una novella, la quale, se io dalla verità
del fatto mi fossi scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e saprei sotto
altri nomi comporla e raccontarla; ma per ciò che il partirsi dalla
verità delle cose state nel novellare è gran diminuire di diletto
negli 'ntendenti, in propia forma, dalla ragion di sopra detta aiutata, la vi
dirò.
Niccolò Cornacchini
fu nostro cittadino e ricco uomo, e tra l'altre sue possessioni una bella
n'ebbe in Camerata, sopra la quale fece fare uno orrevole e bello casamento, e
con Bruno e con Buffalmacco che tutto gliele dipignessero si convenne; li
quali, per ciò che il lavorio era molto, seco aggiunsero e Nello e
Calandrino, e cominciarono a lavorare. Dove, benché alcuna camera fornita di
letto e dell'altre co se opportune fosse, e una fante vecchia dimorasse
sì come guardiana del luogo, per ciò che altra famiglia non
v'era, era usato un figliuolo del detto Niccolò, che avea nome Filippo,
sì come giovane e senza moglie, di menar talvolta alcuna femina a suo
diletto, e tenervela un dì o due e poscia mandarla via.
Ora tra l'altre volte
avvenne che egli ve ne menò una, che aveva nome la Niccolosa, la quale
un tristo, che era chiamato il Mangione, a sua posta tenendola in una casa a
Camaldoli, prestava a vettura.
Aveva costei bella persona
ed era ben vestita, e, secondo sua pari, assai costumata e ben parlante. Ed
essendo ella un dì di meriggio della camera uscita in un guarnello
bianco e co'capelli ravvolti al capo, e ad un pozzo che nella corte era del
casamento lavandosi le mani e 'viso, avvenne che Calandrino quivi venne per acqua,
e dimesticamente la salutò.
Ella, rispostogli, il
cominciò a guatare, più perché Calandrino le pareva un nuovo uomo
che per altra vaghezza. Calandrino cominciò a guatar lei, e parendogli
bella, cominciò a trovar sue cagioni, e non tornava a'compagni con l'acqua;
ma, non conoscendola, niuna cosa ardiva di dirle. Ella, che avveduta s'era del
guatar di costui, per uccellarlo alcuna volta guatava lui, alcun sospiretto
gittando; per la qual cosa Calandrino subitamente di lei s'imbardò, né
prima si partì della corte che ella fu da Filippo nella camera
richiamata.
Calandrino, tornato a
lavorare, altro che soffiare non faceva; di che Bruno accortosi, per ciò
che molto gli poneva mente alle mani, sì come quegli che gran diletto
prendeva de'fatti suoi, disse:
- Che diavolo hai tu, sozio
Calandrino? Tu non fai altro che soffiare.
A cui Calandrino disse:
- Sozio, se io avessi chi
m'aiutassi, io starei bene.
- Come? - disse Bruno.
A cui Calandrino disse:
- E'non si vuol dire a
persona: egli è una giovane quaggiù, che è più
bella che una lammia, la quale è sì forte innamorata di me, che
ti parrebbe un gran fatto; io me n'avvidi testé quando io andai per l'acqua.
- Ohimè! - disse
Bruno - guarda che ella non sia la moglie di Filippo.
Disse Calandrino:
- Io il credo, per
ciò che egli la chiamò, ed ella se n'andò a lui nella
camera; ma che vuol per ciò dir questo? Io la fregherei a Cristo di
così fatte cose, non che a Filippo. Io ti vo'dire il vero, sozio: ella
mi piace tanto, che io nol ti potrei dire.
Disse allora Bruno:
- Sozio, io ti
spierò chi ella è; e se ella è la moglie di Filippo, io
acconcierò i fatti tuoi in due parole, per ciò che ella è
molto mia domestica. Ma come farem noi che Buffalmacco nol sappia? Io non le
posso mai favellare ch'e'non sia meco.
Disse Calandrino:
- Di Buffalmacco non mi
curo io, ma guardianci di Nello, ché egli è parente della Tessa e
guasterebbeci ogni cosa.
Disse Bruno:
- Ben di'.
Or sapeva Bruno chi costei
era, sì come colui che veduta l'avea venire, e anche Filippo gliele
aveva detto. Per che, essendosi Calandrino un poco dal lavorio partito e andato
per vederla, Bruno disse ogni cosa a Nello e a Buffalmacco, e insieme
tacitamente ordinarono quello che fare gli dovessero di questo suo
innamoramento.
E come egli ritornato fu,
disse Bruno pianamente:
- Vedestila?
Rispose Calandrino:
- Ohimè! sì,
ella m'ha morto.
Disse Bruno:
- Io voglio andare a vedere
se ella è quella che io credo; e se così sarà, lascia
poscia far me.
Sceso adunque Bruno giuso,
e trovato Filippo e costei, ordinatamente disse loro chi era Calandrino, e
quello che egli aveva lor detto, e con loro ordinò quello che ciascun di
loro dovesse fare e dire, per avere festa e piacere dello innamoramento di
Calandrino. E a Calandrino tornatosene disse:
- Bene è dessa; e
per ciò si vuol questa cosa molto saviamente fare, per ciò che,
se Filippo se ne avvedesse, tutta l'acqua d'Arno non ci laverebbe. Ma che
vuo'tu che io le dica da tua parte, se egli avvien che io le favelli?
Rispose Calandrino:
- Gnaffe! tu le dirai
imprima imprima che io le voglio mille moggia di quel buon bene da impregnare;
e poscia, che io son suo servigiale, e se ella vuol nulla; ha'mi bene inteso?
Disse Bruno:
- Sì, lascia far me.
Venuta l'ora della cena, e
costoro avendo lasciata opera e giù nella corte discesi, essendovi
Filippo e la Niccolosa, alquanto in servigio di Calandrino ivi si posero a
stare. Dove Calandrino incominciò a guardare la Niccolosa e a fare i
più nuovi atti del mondo, tali e tanti che se ne sarebbe avveduto un
cieco. Ella d'altra parte ogni cosa faceva per la quale credesse bene
accenderlo, e secondo la informazione avuta da Bruno, il miglior tempo del
mondo prendendo de'modi di Calandrino; Filippo con Buffalmacco e con gli altri
faceva vista di ragionare e di non avvedersi di questo fatto.
Ma pur dopo alquanto, con
grandissima noia di Calandrino, si partirono; e venendosene verso Firenze,
disse Bruno a Calandrino:
- Ben ti dico che tu la fai
struggere come ghiaccio al sole; per lo corpo di Dio, se tu ci rechi la ribeba
tua e canti un poco con essa di quelle tue canzoni innamorate, tu la farai
gittare a terra delle finestre per venire a te.
Disse Calandrino:
- Parti, sozio? Parti che
io la rechi?
- Sì, - rispose
Bruno.
A cui Calandrino disse:
- Tu non mi credevi oggi,
quando io il ti diceva; per certo, sozio, io m'avveggio che io so meglio che
altro uomo far ciò che io voglio. Chi avrebbe saputo, altri che io, far
così tosto innamorare una così fatta donna come è costei?
A buona otta l'avrebber saputo fare questi giovani di tromba marina, che tutto
'l dì vanno in giù e in su, e in mille anni non saprebbero
accozzare tre man di noccioli. Ora io vorrò che tu mi vegghi un poco con
la ribeba; vedrai bel giuoco! E intendi sanamente che io non son vecchio come
io ti paio, ella se n'è bene accorta ella; ma altramenti ne la
farò io accorgere se io le pongo la branca addosso; per lo verace corpo
di Cristo, che io le farò giuoco, che ella mi verrà dietro come
va la pazza al figliuolo.
- Oh, - disse Bruno - tu te
la griferai: e'mi par pur vederti morderle con cotesti tuoi denti fatti a
bischeri quella sua bocca vermigliuzza e quelle sue gote che paion due rose, e
poscia manicarlati tutta quanta.
Calandrino, udendo queste
parole, gli pareva essere a'fatti, e andava cantando e saltando tanto lieto,
che non capeva nel cuoio.
Ma l'altro dì recata
la ribeba, con gran diletto di tutta la brigata cantò più canzoni
con essa. E in brieve in tanta sista entrò dello spesso veder costei,
che egli non lavorava punto, ma mille volte il dì ora alla finestra, ora
alla porta e ora nella corte correa per veder costei; la quale astutamente
secondo l'ammaestramento di Bruno adoperando, molto bene ne gli dava cagione.
Bruno d'altra parte gli
rispondeva alle sue ambasciate e da parte di lei ne gli faceva talvolte; quando
ella non v'era, che era il più del tempo, gli faceva venir lettere da
lei, nelle quali esso gli dava grande speranza de'desideri suoi, mostrando che
ella fosse a casa di suoi parenti là dove egli allora non la poteva
vedere.
E in questa guisa Bruno e
Buffalmacco, che tenevano mano al fatto, traevano de'fatti di Calandrino il
maggior piacer del mondo, faccendosi talvolta dare, sì come domandato
dalla sua donna, quando un pettine d'avorio e quando una borsa e quando un
coltellino e cotali ciance, allo 'ncontro recandogli cotali anelletti
contraffatti di niun valore, de'quali Calandrino faceva maravigliosa festa. E
oltre a questo n'avevan da lui di buone merende e d'altri onoretti,
acciò che solliciti fossero a'fatti suoi.
Ora, avendol tenuto costoro
ben due mesi in questa forma senza più aver fatto, vedendo Calandrino
che il lavorio si veniva finendo, e avvisando che, se egli non recasse ad effetto
il suo amore prima che finito fosse il lavorio, mai più fatto non gli
potesse venire, cominciò molto a strignere e a sollicitare Bruno. Per la
qual cosa, essendovi la giovane venuta, avendo Bruno prima con Filippo e con
lei ordinato quello che fosse da fare, disse a Calandrino:
- Vedi, sozio, questa donna
m'ha ben mille volte promesso di dover far ciò che tu vorrai, e poscia
non ne fa nulla, e parmi che ella ci meni per lo naso; e per ciò, poscia
che ella nol fa come ella promette, noi gliele farem fare o voglia ella o no,
se tu vorrai.
Rispose Calandrino:
- Deh! sì, per
l'amor di Dio, facciasi tosto.
Disse Bruno:
- Daratti egli il cuore di
toccarla con un brieve che io ti darò?
Disse Calandrino:
- Sì bene.
- Adunque,- disse Bruno -
fa che tu mi rechi un poco di carta non nata e un vispistrello vivo e tre
granella d'incenso e una candela benedetta, e lascia far me.
Calandrino stette tutta la
sera vegnente con suoi artifici per pigliare un vispistrello, e alla fine
presolo, con l'altre cose il portò a Bruno. Il quale, tiratosi in una
camera, scrisse in su quella carta certe sue frasche con alquante cateratte, e
portogliele e disse:
Calandrino, sappi che se tu
la toccherai con questa scritta, ella ti verrà incontanente dietro e
farà quello che tu vorrai. E però, se Filippo va oggi in niun
luogo, accostaleti in qualche modo e toccala, e vattene nella casa della paglia
ch'è qui dallato, che è il miglior luogo che ci sia, per
ciò che non vi bazzica mai persona; tu vedrai che ella vi verrà;
quando ella v'è, tu sai ben ciò che tu t'hai a fare.
Calandrino fu il più
lieto uomo del mondo, e presa la scritta, disse:
- Sozio, lascia far me.
Nello, da cui Calandrino si
guardava, avea di questa cosa quel diletto che gli altri, e con loro insieme
teneva mano a beffarlo; e per ciò, sì come Bruno gli aveva
ordinato, se n'andò a Firenze alla moglie di Calandrino, e dissele:
- Tessa, tu sai quante
busse Calandrino ti diè senza ragione il dì che egli ci
tornò con le pietre di Mugnone, e per ciò io intendo che tu te ne
vendichi, e se tu nol fai, non m'aver mai né per parente né per amico. Egli si
s'è innamorato d'una donna colassù, ed ella è tanto trista
che ella si va rinchiudendo assai spesso con essolui: e poco fa si dieder la
posta d'essere insieme via via, e per ciò io voglio che tu vi venga e
vegghilo e castighil bene.
Come la donna udì
questo, non le parve giuoco, ma levatasi in piè cominciò a dire:
- Ohimè! ladro
piuvico, fa'mi tu questo? Alla croce di Dio, ella non andrà così,
che io non te ne paghi.
E preso suo mantello e una
feminetta in compagnia, vie più che di passo insieme con Nello
lassù n'andò. La qual come Bruno vide venire di lontano, disse a
Filippo:
-Ecco l'amico nostro.
Per la qual cosa Filippo
andato colà dove Calandrino e gli altri lavoravano, disse:
- Maestri, a me conviene
andare testé a Firenze: lavorate di forza. - E partitosi, s'andò a
nascondere in parte che egli poteva, senza esser veduto, veder ciò che
facesse Calandrino.
Calandrino, come credette
che Filippo alquanto dilungato fosse, così se ne scese nella corte, dove
egli trovò sola la Niccolosa, ed entrato con lei in novelle, ed ella,
che sapeva ben ciò che a fare aveva, accostataglisi, un poco di
più dimestichezza che usata non era gli fece. Donde Calandrino la toccò
con la scritta; e come tocca l'ebbe, senza dir nulla volse i passi ver so la
casa della paglia, dove la Niccolosa gli andò dietro; e, come dentro fu,
chiuso l'uscio, abbracciò Calandrino, e in su la paglia che era ivi in
terra il gittò, e saligli addosso a cavalcione, e tenendogli le mani in
su gli omeri, senza lasciarlosi appressare al viso, quasi come un suo gran
disidero il guardava dicendo:
- O Calandrino mio dolce,
cuor del corpo mio, anima mia, ben mio, riposo mio, quanto tempo ho io
desiderato d'averti e di poterti tenere a mio senno! Tu m'hai con la
piacevolezza tua tratto il filo della camicia; tu m'hai aggratigliato il cuore
colla tua ribeba; può egli esser vero che io ti tenga?
Calandrino, appena
potendosi muover, diceva:
- Deh! anima mia dolce,
lasciamiti baciare.
La Niccolosa diceva:
- O tu hai la gran fretta!
lasciamiti prima vedere a mio senno; lasciami saziar gli occhi di questo tuo
viso dolce!
Bruno e Buffalmacco n'erano
andati da Filippo, e tutti e tre vedevano e udivano questo fatto. Ed essendo
già Calandrino per voler pur la Niccolosa baciare, ed ecco giugner Nello
con monna Tessa, il quale come giunse, disse:
- Io fo boto a Dio che sono
insieme -; e all'uscio della casa pervenuti, la donna, che arrabbiava, datovi
delle mani, il mandò oltre, ed entrata dentro vide la Niccolosa addosso
a Calandrino; la quale, come la donna vide, subitamente levatasi, fuggì
via e andossene là dove era Filippo.
Monna Tessa corse con
l'unghie nel viso a Calandrino, che ancora levato non era, e tutto gliele
graffiò e presolo per li capelli, e in qua e in là tirandolo,
cominciò a dire:
- Sozzo can vituperato,
dunque mi fai tu questo? Vecchio impazzato, che maladetto sia il ben che io
t'ho voluto; dunque non ti pare avere tanto a fare a casa tua, che ti vai
innamorando per l'altrui? Ecco bello innamorato! Or non ti conosci tu, tristo?
Non ti conosci tu, dolente, che premenloti tutto, non uscirebbe tanto sugo che
bastasse ad una salsa? Alla fè di Dio, egli non era ora la Tessa quella
che ti 'mpregnava, che Dio la faccia trista chiunque ella è, che ella
dee ben sicuramente esser cattiva cosa ad aver vaghezza di così bella
gioia come tu se'.
Calandrino, vedendo venir
la moglie, non rimase né morto né vivo, né ebbe ardire di far contro di lei
difesa alcuna; ma pur così graffiato e tutto pelato e rabbuffato,
ricolto il cappuccio suo e levatosi, cominciò umilmente a pregar la
moglie che non gridasse, se ella non volesse che egli fosse tagliato tutto a
pezzi, per ciò che colei che con lui era, era moglie del signor della
casa. La donna disse:
- Sia, che Iddio le dea il
mal anno.
Bruno.e Buffalmacco, che
con Filippo e con la Niccolosa avevan di questa cosa riso a lor senno, quasi al
romor venendo, colà trassero, e dopo molte novelle rappacificata la
donna, dieron per consiglio a Calandrino che a Firenze se n'andasse e
più non vi tornasse, acciò che Filippo, se niente di questa cosa
sentisse, non gli facesse male.
Così adunque
Calandrino tristo e cattivo, tutto pelato e tutto graffiato a Firenze
tornatosene, più colassù non avendo ardir d'andare, il dì e
la notte molestato e afflitto dai rimbrotti della moglie, al suo fervente amor
pose fine, avendo molto dato da ridere a'suoi compagni e alla Niccolosa e a
Filippo.
Giornata nona - Novella
sesta
Due giovani albergano con
uno, de'quali l'uno si va a giacere con la figliuola, e la moglie di lui
disavvedutamente si giace con l'altro. Quegli che era con la figliuola, si
corica col padre di lei e dicegli ogni cosa, credendosi dire al compagno. Fanno
romore insieme. La donna, ravvedutasi, entra nel letto della figliuola, e
quindi con certe parole ogni cosa pacefica.
Calandrino, che altre volte
la brigata aveva fatta ridere, similmente questa volta la fece; de'fatti del
quale poscia che le donne si tacquero, la reina impose a Panfilo che dicesse,
il qual disse:
Laudevoli donne, il nome
della Niccolosa amata da Calandrino m'ha nella memoria tornata una novella
d'un'altra Niccolosa, la quale di raccontarvi mi piace, per ciò che in
essa vedrete un subito avvedimento d'una buona donna avere un grande scandalo
tolto via.
Nel pian di Mugnone fu, non
ha guari, un buon uomo, il quale a'viandanti dava pe'lor danari mangiare e
bere; e come che povera persona fosse e avesse piccola casa, alcuna volta per
un bisogno grande, non ogni persona, ma alcun conoscente albergava.
Ora aveva costui una sua
moglie assai bella femina, della quale aveva due figliuoli; e l'uno era una
giovanetta bella e leggiadra, d'età di quindici o di sedici anni, che
ancora marito non avea; l'altro era un fanciul piccolino, che ancora non aveva
uno anno, il quale la madre stessa allattava.
Alla giovane aveva posto
gli occhi addosso un giovanetto leggiadro e piacevole e gentile uomo della
nostra città, il quale molto usava per la contrada, e focosamente
l'amava. Ed ella, che d'esser da un così fatto giovane amata forte si
gloriava, mentre di ritenerlo con piacevoli sembianti nel suo amor si sforzava,
di lui similmente s'innamorò; e più volte per grado di ciascuna
delle parti avrebbe tale amore avuto effetto, se Pinuccio (che così aveva
nome il giovane non avesse schifato il biasimo della giovane e 'l suo.
Ma pur, di giorno in giorno
multiplicando l'ardore, venne disidero a Pinuccio di doversi pur con costei
ritrovare, e caddegli nel pensiero di trovar modo di dover col padre albergare,
avvisando, sì come colui che la disposizion della casa della giovane
sapeva, che, se questo facesse, gli potrebbe venir fatto d'esser con lei, senza
avvedersene persona; e co me nell'animo gli venne, così senza indugio
mandò ad effetto.
Esso, insieme con un suo
fidato compagno chiamato Adriano, il quale questo amor sapeva, tolti una sera
al tardi due ronzini a vettura e postevi su due valigie, forse piene di paglia,
di Firenze uscirono, e presa una lor volta, sopra il pian di Mugnone cavalcando
pervennero, essendo già notte; e di quindi, come se di Romagna
tornassero, data la volta, verso le case se ne vennero, e alla casa del buon
uom picchiarono; il quale, sì come colui che molto era dimestico di
ciascuno, aperse la porta prestamente.
Al quale Pinuccio disse:
- Vedi, a te conviene
stanotte albergarci: noi ci credemmo dover potere entrare in Firenze, e non ci
siamo sì saputi studiare, che noi non siam qui pure a così fatta
ora, come tu vedi, giunti.
A cui l'oste rispose:
- Pinuccio, tu sai bene
come io sono agiato di poter così fatti uomini come voi siete albergare;
ma pur, poi che questa ora v'ha qui sopraggiunti, né tempo ci è da
potere andare altrove, io v'albergherò volentieri com'io potrò.
Ismontati adunque i due
giovani e nello alberghetto entrati, primieramente i loro ronzini adagiarono, e
appresso, avendo ben seco portato da cena, insieme con l'oste cenarono. Ora non
avea l'oste che una cameretta assai piccola, nella quale eran tre letticelli
messi come il meglio l'oste avea saputo, né v'era per tutto ciò tanto di
spazio rimaso, essendone due dall'una delle facce della camera e 'l terzo di
rincontro a quegli dall'altra, che altro che strettamente andar vi si potesse.
Di questi tre letti fece l'oste il men cattivo acconciar per li due compagni, e
fecegli coricare; poi dopo alquanto, non dormendo alcun di loro, come che di
dormir mostrassero, fece l'oste nell'un de'due che rimasi erano coricar la
figliuola, e nell'altro s'entrò egli e la donna sua; la quale allato del
letto dove dormiva pose la culla nella quale il suo piccolo figlioletto teneva.
Ed essendo le cose in
questa guisa disposte, e Pinuccio avendo ogni cosa veduta, dopo alquanto
spazio, parendogli che ogn'uomo addormentato fosse, pianamente levatosi se
n'andò al letticello dove la giovane amata da lui si giaceva, e miselesi
a giacere allato; dalla quale, ancora che paurosamente il facesse, fu
lietamente raccolto, e con essolei di quel piacere che più disideravano
prendendo si stette.
E standosi così
Pinuccio con la giovane, avvenne che una gatta fece certe cose cadere, le quali
la donna destatasi sentì; per che levatasi temendo non fosse altro,
così al buio come era, se n'andò là dove sentito avea il
romore.
Adriano, che a ciò
non avea l'animo, per avventura per alcuna opportunità natural si
levò, alla quale espedire andando, trovò la culla postavi dalla
donna, e non potendo senza levarla oltre passare, presala la levò del
luogo dove era, e posela allato al letto dove esso dormiva; e fornito quello per
che levato s'era e tornandosene, senza della culla curarsi, nel letto se
n'entrò.
La donna, avendo cerco e
trovato che quello che caduto era non era tal cosa, non si curò
d'altrimenti accender lume per vederlo, ma, garrito alla gatta, nella cameretta
se ne tornò, e a tentone dirittamente al letto dove il marito dormiva se
n'andò. Ma, non trovandovi la culla, disse se co stessa: - Ohimè,
cattiva me, vedi quel che io faceva! In fè di Dio, che io me n'andava
dirittamente nel letto degli osti miei -. E, fattasi un poco più avanti
e trovando la culla, in quello letto al quale ella era allato insieme con
Adriano si coricò. credendosi col marito coricare. Adriano, che ancora
raddormentato non era, sentendo questo, la ricevette e bene e lietamente, e
senza fare altramenti motto, da una volta in su caricò l'orza con gran
piacer della donna.
E così stando,
temendo Pinuccio non il sonno con la sua giovane il soprapprendesse, avendone
quel piacer preso che egli desiderava, per tornar nel suo letto a dormire le si
levò dallato, e là venendone, trovando la culla, credette quello
essere quel dell'oste; per che, fattosi un poco più avanti insieme con
l'oste si coricò, il quale per la venuta di Pinuccio si destò.
Pinuccio, credendosi essere allato ad Adriano, disse:
- Ben ti dico che mai
sì dolce cosa non fu come è la Niccolosa: al corpo di Dio, io ho
avuto con lei il maggior diletto che mai uomo avesse con femina, e dicoti che
io sono andato da sei volte in su in villa, poscia che io mi partii quinci.
L'oste, udendo queste
novelle e non piacendogli troppo, prima disse seco stesso: - Che diavol fa
costui qui? - Poi, più turbato che consigliato, disse:
- Pinuccio, la tua è
stata una gran villania, e non so perché tu mi t'abbi a far questo; ma, per lo
corpo di Dio, io te ne pagherò.
Pinuccio, che non era il più
savio giovane del mondo, avveggendosi del suo errore, non ricorse ad emendare
come meglio avesse potuto, ma disse:
- Di che mi pagherai? Che
mi potrestu fare tu?
La donna dell'oste, che col
marito si credeva essere, disse ad Adriano:
- Ohimè! Odi gli osti
nostri che hanno non so che parole insieme.
Adriano ridendo disse:
- Lasciali fare, che Iddio
gli metta in mal anno: essi bevver troppo iersera.
La donna, parendole avere
udito il marito garrire e udendo Adriano, incontanente conobbe là dove
stata era e con cui; per che, come savia, senza alcuna parola dire, subitamente
si levò, e presa la culla del suo figlioletto, come che punto lume nella
camera non si vedesse, per avviso la portò allato al letto dove dormiva
la figliuola, e con lei si coricò; e quasi desta fosse per lo rumore del
marito, il chiamò e domandollo che parole egli avesse con Pinuccio. Il
marito rispose: - Non odi tu ciò ch'e'dice che ha fatto stanotte alla
Niccolosa?
La donna disse:
- Egli mente bene per la
gola, ché con la Niccolosa non è egli giaciuto, ché io mi ci coricai io
in quel punto, che io non ho mai poscia potuto dormire; e tu se'una bestia che
egli credi. Voi bevete tanto la sera, che poscia sognate la notte e andate in
qua e in là senza sentirvi, e parvi far maraviglie: egli è gran
peccato che voi non vi fiaccate il collo! Ma che fa egli costì Pinuccio?
Perché non si sta egli nel letto suo?
D'altra parte Adriano,
veggendo che la donna saviamente la sua vergogna e quella della figliuola
ricopriva, disse:
- Pinuccio, io te l'ho detto
cento volte che tu non va da attorno, ché questo tuo vizio del levarti in sogno
e di dire le favole che tu sogni per vere ti daranno una volta la mala ventura:
torna qua, che Dio ti dea la mala notte!
L'oste, udendo quello che
la donna diceva e quello che diceva Adriano, cominciò a creder troppo
bene che Pinuccio sognasse; per che, presolo per la spalla, lo
'ncominciò a dimenare e a chiamar, dicendo:
- Pinuccio, destati;
tornati al letto tuo.
Pinuccio, avendo raccolto
ciò che detto s'era, cominciò a guisa d'uom che sognasse ad
entrare in altri farnetichi; di che l'oste faceva le maggior risa del mondo.
Alla fine, pur sentendosi dimenare, fece sembiante di destarsi, e chiamando
Adrian, disse:
- E' egli ancora dì,
che tu mi chiami?
Adriano disse:
- Sì, vienne qua.
Costui, infignendosi e
mostrandosi ben sonnocchioso, al fine si levò d'allato all'oste e
tornossi al letto con Adriano. E, venuto il giorno e levatisi, l'oste
incominciò a ridere e a farsi beffe di lui e de'suoi sogni. E
così d'uno in altro motto acconci i duo giovani i lor ronzini e messe le
lor valigie e bevuto con l'oste, rimontati a cavallo se ne vennero a Firenze,
non meno contenti del modo in che la cosa avvenuta era, che dello effetto
stesso della cosa.
E poi appresso, trovati
altri modi, Pinuccio con la Niccolosa si ritrovò, la quale alla madre
affermava lui fermamente aver sognato. Per la qual cosa la donna, ricordandosi
dell'abbracciar d'Adriano, sola seco diceva d'aver vegghiato.
Giornata nona - Novella
settima
Talano d'Imolese sogna che
uno lupo squarcia tutta la gola e 'l viso alla moglie; dicele che se ne guardi;
ella nol fa, e avvienle.
Essendo la novella di
Panfilo finita e l'avvedimento della donna commendato da tutti, la reina a
Pampinea disse che dicesse la sua, la quale allora cominciò:
Altra volta, piacevoli
donne, delle verità dimostrate da'sogni, le quali molte scherniscono,
s'è fra noi ragionato; e però, come che detto ne sia, non
lascerò io che con una novelletta assai brieve io non vi narri quello
che ad una mia vicina, non è ancor guari, addivenne, per non crederne
uno di lei dal marito veduto.
Io non so se voi vi
conosceste Talano d'Imolese, uomo assai onorevole. Costui, avendo una giovane
chiamata Margarita, bella tra tutte l'altre, per moglie presa, ma sopra ogni
altra bizzarra, spiacevole e ritrosa, intanto che a senno di niuna persona
voleva fare alcuna cosa, né altri far la poteva a suo; il che quantunque
gravissimo fosse a comportare a Talano, non potendo altro fare, se 'l
sofferiva.
Ora avvenne una notte, essendo
Talano con questa sua Margarita in contado ad una lor possessione, dormendo
egli, gli parve in sogno vedere la donna sua andar per un bosco assai bello, il
quale essi non guari lontano alla lor casa avevano; e mentre così andar
la vedeva, gli parve che d'una parte del bosco uscisse un grande e fiero lupo,
il quale prestamente s'avventava alla gola di costei e tiravala in terra, e lei
gridante aiuto si sforzava di tirar via, e poi di bocca uscitagli, tutta la
gola e 'l viso pareva l'avesse guasto. Il quale, la mattina appresso levatosi,
disse alla moglie:
- Donna, ancora che la tua
ritrosia non abbia mai sofferto che io abbia potuto avere un buon dì con
teco, pur sarei dolente quando mal t'avvenisse; e per ciò, se tu
crederrai al mio consiglio, tu non uscirai oggi di casa -; e domandato da lei
del perché, ordinatamente le contò il sogno suo.
La donna, crollando il
capo, disse:
- Chi mal ti vuol, mal ti
sogna; tu ti fai molto di me pietoso, ma tu sogni di me quello che tu vorresti
vedere; e per certo io me ne guarderò e oggi e sempre di non farti né di
questo né d'altro mio male mai allegro.
Disse allora Talano:
- Io sapeva bene che tu
dovevi dir così, per ciò che tal grado ha chi tigna pettina; ma
credi che ti piace; io per me il dico per bene, e ancora da capo te ne
consiglio, che tu oggi ti stea in casa o almeno ti guardi d'andare nel nostro
bosco.
La donna disse:
- Bene, io il farò
-; e poi seco stessa cominciò a dire: - Hai veduto come costui
maliziosamente si crede avermi messa paura d'andare oggi al bosco nostro?
là dove egli per certo dee aver data posta a qualche cattiva, e non vuol
che io il vi truovi. Oh, egli avrebbe buon manicar co'ciechi, e io sarei bene
sciocca se io nol conoscessi e se io il credessi! Ma per certo e'non gli verrà
fatto: e'convien pur che io vegga, se io vi dovessi star tutto dì, che
mercatantia debba esser questa che egli oggi far vuole -.
E come questo ebbe detto,
uscito il marito da una parte della casa, ed ella uscì dall'altra, e
come più nascosamente poté, senza alcuno indugio, se n'andò nel
bosco, e in quello nella più folta parte che v'era si nascose, stando
attenta e guardando or qua or là, se alcuna persona venir vedesse.
E mentre in questa guisa
stava senza alcun sospetto di lupo, ed ecco vicino a lei uscir d'una macchia
folta un lupo grande e terribile, né poté ella, poi che veduto l'ebbe, appena
dire - Domine, aiutami -, che il lupo le si fu avventato alla gola, e presala
forte, la cominciò a portar via come se stata fosse un piccolo
agnelletto.
Essa non poteva gridare,
sì aveva la gola stretta, né in altra maniera aiutarsi; per che,
portandosenela il lupo, senza fallo strangolata l'avrebbe, se in certi pastori
non si fosse scontrato, li quali sgridandolo a lasciarla il costrinsero; ed
essa misera e cattiva, da'pastori riconosciuta e a casa portatane, dopo lungo
studio da'medici fu guarita, ma non sì, che tutta la gola e una parte
del viso non avesse per sì fatta maniera guasta, che, dove prima era
bella, non paresse poi sempre sozzissima e contraffatta. Laonde ella, vergognandosi
d'apparire dove veduta fosse, assai volte miseramente pianse la sua ritrosia e
il non avere, in quello che niente le costava, al vero sogno del marito voluto
dar fede.
Giornata nona - Novella
ottava
Biondello fa una beffa a
Ciacco d'un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica, faccendo lui
sconciamente battere.
Universalmente ciascuno
della lieta compagnia disse quello che Talano veduto avea dormendo non essere
stato sogno ma visione, sì appunto, senza alcuna cosa mancarne, era
avvenuto. Ma, tacendo ciascuno, impose la reina alla Lauretta che seguitasse,
la qual disse.
Come costoro, soavissime
donne, che oggi davanti a me hanno parlato, quasi tutti da alcuna cosa
già detta mossi sono stati a ragionare, così me muove la rigida
vendetta ieri raccontata da Pampinea, che fe'lo scolare, a dover dire d'una
assai grave a colui che la sostenne, quantunque non fosse per ciò tanto
fiera. E per ciò dico che, essendo in Firenze uno da tutti chiamato Ciacco,
uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai, e non possendo la sua
possibilità sostenere le spese che la sua ghiottornia richiedea, essendo
per altro assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti, si diede
ad essere, non del tutto uom di corte, ma morditore, e ad usare con coloro che
ricchi erano e di mangiare delle buone cose si dilettavano; e con questi a
desinare e a cena, ancor che chiamato non fosse ogni volta, andava assai
sovente.
Era similmente in quei
tempi in Firenze uno, il quale era chiamato Biondello, piccoletto della
persona, leggiadro molto e più pulito che una mosca, con sua cuffia in
capo, con una zazzerina bionda e per punto senza un capel torto avervi, il
quale quel medesimo mestiere usava che Ciacco.
Il quale essendo una
mattina di quaresima andato là do ve il pesce si vende, e comperando due
grossissime lamprede per messer Vieri de'Cerchi, fu veduto da Ciacco; il quale,
avvicinatosi a Biondello, disse:
- Che vuol dir questo?
A cui Biondello rispose:
- Iersera ne furono mandate
tre altre, troppo più belle che queste non sono e uno storione a messer
Corso Donati, le quali non bastandogli per voler dar mangiare a certi gentili
uomini, m'ha fatte comperare quest'altre due: non vi verrai tu?
Rispose Ciacco:
- Ben sai che io vi
verrò.
E quando tempo gli parve, a
casa messer Corso se n'andò, e trovollo con alcuni suoi vicini che
ancora non era andato a desinare. A quale egli, essendo da lui domandato che
andasse faccendo, rispose:
- Messere, io vengo a
desinar con voi e con la vostra brigata.
A cui messer Corso disse:
- Tu sie 'l ben venuto, e
per ciò che egli è tempo, andianne.
Postisi dunque a tavola,
primieramente ebbero del cece e della sorra, e appresso del pesce d'Arno
fritto, senza più Ciacco, accortosi dello 'nganno di Biondello e in sé
non poco turbatosene, propose di dovernel pagare; né passar molti dì che
egli in lui si scontrò, il qual già molti aveva fatti ridere di
questa beffa.
Biondello, vedutolo, il
salutò, e ridendo il domandò chenti la fosser state le lamprede
di messer Corso; a cui Ciacco rispondendo disse:
- Avanti che otto giorni
passino tu il saprai molto meglio dir di me.
E senza mettere indugio al
fatto, partitosi da Biondello, con un saccente barattiere si convenne del
prezzo, e datogli un bottaccio di vetro, il menò vicino della loggia
de'Cavicciuli, e mostrogli in quella un cavaliere chiamato messer Filippo
Argenti, uomo grande e nerboruto e forte, sdegnoso, iracundo e bizzarro
più che altro, e dissegli:
- Tu te ne andrai a lui con
questo fiasco in mano, e dira'gli così: - Messere, a voi mi manda
Biondello, e mandavi pregando che vi piaccia d'arrubinargli questo fiasco del
vostro buon vin vermiglio, ch'e'si vuole alquanto sollazzar con suoi zanzeri -;
e sta bene accorto che egli non ti ponesse le mani addosso, per ciò che
egli ti darebbe il mal dì, e avresti guasti i fatti miei.
Disse il barattiere:
- Ho io a dire altro?
Disse Ciacco:
- No; va pure; e come tu
hai questo detto, torna qui a me col fiasco, e io ti pagherò.
Mossosi adunque il
barattiere, fece a messer Filippo l'ambasciata.
Messer Filippo, udito
costui, come colui che piccola levatura avea, avvisando che Biondello, il quale
egli conosceva, si facesse beffe di lui, tutto tinto nel viso, dicendo: Che
"arrubinatemi" e che "zanzeri" son questi? Che nel mal anno
metta Iddio te e lui -, si levò in piè e distese il braccio per
pigliar con la mano il barattiere; ma il barattiere, come colui che attento
stava, fu presto e fuggì via, e per altra parte ritornò a Ciacco,
il quale ogni cosa veduta avea, e dissegli ciò che messer Filippo aveva
detto.
Ciacco contento pagò
il barattiere, e non riposò mai ch'egli ebbe ritrovato Biondello, al
quale egli disse:
- Fostu a questa pezza
dalla loggia de'Cavicciuli?
Rispose Biondello:
- Mai no; perché me ne
domandi tu?
Disse Ciacco:
- Per ciò che io ti
so dire che messer Filippo ti fa cercare, non so quel ch'e'si vuole.
Disse allora Biondello:
- Bene, io vo verso
là, io gli farò motto.
Partitosi Biondello, Ciacco
gli andò appresso per vedere come il fatto andasse. Messer Filippo, non
avendo potuto giugnere il barattiere, era rimaso fieramente turbato e tutto in
sé medesimo si rodea, non potendo dalle parole dette dal barattiere cosa del
mondo trarre altro, se non che Biondello, ad instanzia di cui che sia, si
facesse beffe di lui. E in questo che egli così si rodeva, e Biondel
venne.
Il quale come egli vide,
fattoglisi incontro, gli diè nel viso un gran punzone.
- Ohimè! messer, -
disse Biondel - che è questo?
Messer Filippo, presolo per
li capelli e stracciatagli la cuffia in capo e gittato il cappuccio per terra e
dandogli tuttavia forte, diceva:
- Traditore, tu il vedrai
bene ciò che questo è. Che "arrubinatemi" e che
"zanzeri" mi mandi tu dicendo a me? Paiot'io fanciullo da dovere
essere uccellato?
E così dicendo, con
le pugna, le quali aveva che parevan di ferro, tutto il viso gli ruppe, né gli
lasciò in capo capello che ben gli volesse, e convoltolo per lo fango,
tutti i panni in dosso gli stracciò; e sì a questo fatto si
studiava, che pure una volta dalla prima innanzi non gli potè Biondello
dire una parola, né domandar perché questo gli facesse. Aveva egli bene inteso
dello "arrubinatemi" e de' "zanzeri", ma non sapeva che
ciò si volesse dire.
Alla fine, avendol messer
Filippo ben battuto, ed essendogli molti dintorno, alla maggior fatica del
mondo gliele trasser di mano così rabbuffato e malconcio come era; e
dissergli perché messer Filippo questo avea fatto, riprendendolo di ciò
che mandato gli avea dicendo, e dicendogli ch'egli doveva bene oggimai
cognoscer messer Filippo e che egli non era uomo da motteggiar con lui.
Biondello piagnendo si
scusava e diceva che mai a messer Filippo non aveva mandato per vino. Ma poi
che un poco si fu rimesso in assetto, tristo e dolente se ne tornò a
casa, avvisando questa essere stata opera di Ciacco. E poi che dopo molti
dì, partiti i lividori del viso, cominciò di casa ad uscire,
avvenne che Ciacco il trovò, e ridendo il domandò:
- Biondello, chente ti
parve il vino di messer Filippo?
Rispose Biondello:
- Tali fosser parute a te
le lamprede di messer Corso!
Allora disse Ciacco:
- A te sta oramai: qualora
tu mi vuogli così ben dare da mangiar come facesti, io darò a te
così ben da bere come avesti.
Biondello, che conoscea che
contro a Ciacco egli poteva più aver mala voglia che opera, pregò
Iddio della pace sua, e da indi innanzi si guardò di mai più non
beffarlo.
Giornata nona - Novella
nona
Due giovani domandano
consiglio a Salamone, l'uno come possa essere amato, l'altro come gastigar
debba la moglie ritrosa. All'un risponde che ami, all'altro che vada al Ponte
all'oca.
Niuno altro che la reina,
volendo il privilegio servare a Dioneo, restava a dover novellare, la qual, poi
che le donne ebbero assai riso dello sventurato Biondello, lieta
cominciò così a parlare.
Amabili donne, se con sana
mente sarà riguardato l'ordine delle cose, assai leggiermente si
conoscerà tutta la universal moltitudine delle femine dalla natura e
da'costumi e dalle leggi essere agli uomini sottomessa, e secondo la discrezion
di quegli convenirsi reggere e governare; e per ciò ciascuna che quiete,
consolazione e riposo vuole con quegli uomini avere a'quali s'appartiene, dee
essere umile, paziente e ubidiente, oltre all'essere onesta: il che è
sommo e spezial tesoro di ciascuna savia.
E quando a questo le leggi,
le quali il ben comune riguardano in tutte le cose, non ci ammaestrassono, e
l'usanza o costume che vogliam dire, le cui forze son grandissime e reverende,
la natura assai apertamente cel mostra, la quale ci ha fatte ne'corpi dilicate
e morbide, negli animi timide e paurose, nelle menti benigne e pietose, e hacci
date le corporali forze leggieri, le voci piacevoli e i movimenti de'membri
soavi: cose tutte testificanti noi avere dell'altrui governo bisogno. E chi ha
bisogno d'essere aiutato e governato ogni ragion vuol lui dovere essere
ubidiente e subietto e reverente all'aiutatore e al governator suo. E cui
abbiam noi governatori e aiutatori, se non gli uomini? Dunque agli uomini
dobbiamo, sommamente onorandogli, soggiacere; e qual da questo si parte, estimo
che degnissima sia non solamente di riprension grave, ma d'aspro gastigamento.
E a così fatta
considerazione, come che altra volta avuta l'abbia, pur poco fa mi ricondusse
ciò che Pampinea della ritrosa moglie di Talano raccontò, alla
quale Iddio quel gastigamento mandò che il marito dare non aveva saputo;
e però nel mio giudicio cape tutte quelle esser degne, come già
dissi, di rigido e aspro gastigamento, che dall'esser piacevoli, benivole e
pieghevoli, come la natura, l'usanza e le leggi voglion, si partono.
Per che m'aggrada di
raccontarvi un consiglio renduto da Salamone, sì come utile medicina a
guerire quelle che così son fatte da cotal male. Il quale niuna, che di
tal medicina degna non sia, reputi ciò esser detto per lei, come che gli
uomini un cotal proverbio usino: - Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone, e
buona femina e mala femina vuol bastone -. Le quali parole chi volesse
sollazzevolmente interpretare, di leggieri si concederebbe da tutte così
esser vero; ma pur vogliendole moralmente intendere, dico che è da
concedere.
Sono naturalmente le femine
tutte labili e inchinevoli, e per ciò a correggere la iniquità di
quelle che troppo fuori de'termini posti loro si lasciano andare, si conviene
il bastone che le punisca; e a sostentar la virtù dell'altre che
trascorrere non si lascino, si conviene il bastone che le sostenga e che le
spaventi.
Ma, lasciando ora stare il
predicare, a quel venendo che di dire ho nello animo, dico che, essendo
già quasi per tutto il mondo l'altissima fama del miracoloso senno di
Salamone discorsa, e il suo essere di quello liberalissimo mostratore a
chiunque per esperienzia ne voleva certezza, molti di diverse parti del mondo a
lui per loro strettissimi e ardui bisogni con correvano per consiglio; e tra
gli altri che a ciò andavano, si partì un giovane, il cui nome fu
Melisso, nobile e ricco molto, della città di Laiazzo, là onde
egli era e dove egli abitava.
E verso Jerusalem
cavalcando, avvenne che uscendo d'Antioccia con un altro giovane chiamato
Giosefo, il qual quel medesimo cammin teneva che faceva esso, cavalcò
per alquanto spazio, e, come costume è de'camminanti, con lui
cominciò ad entrare in ragionamento.
Avendo Melisso già
da Giosefo di sua condizione e donde fosse saputo, dove egli andasse e per che
il domandò; al quale Giosefo disse che a Salamone andava, per aver
consiglio da lui che via tener dovesse con una sua moglie più che altra
femina ritrosa e perversa, la quale egli né con prieghi né con lusinghe né in alcuna
altra guisa dalle sue ritrosie ritrar poteva. E appresso lui similmente, donde
fosse e dove andasse e per che, domandò; al quale Melisso rispose:
- Io son di Laiazzo, e
sì come tu hai una disgrazia, così n'ho io un'altra: io sono
ricco giovane e spendo il mio in mettere tavola e onorare i miei cittadini, ed
è nuova e strana cosa a pensare che per tutto questo io non posso
trovare uom che ben mi voglia; e per ciò io vado dove tu vai, per aver
consigli come addivenir possa che io amato sia.
Camminarono adunque i due compagni
insieme, e in Jerusalem pervenuti per introdotto d'uno de'baroni di Salamone,
davanti da lui furon messi, al qual brievemente Melisso disse la sua bisogna. A
cui Salamone rispose: - Ama.
E detto questo prestamente
Melisso fu messo fuori, e Giosefo disse quello per che v'era. Al quale Salamone
null'altro rispose, se non: - Va al Ponte all'oca -; il che detto, similmente
Giosefo fu senza indugio dalla presenza del re levato, e ritrovò Melisso
il quale aspettava, e dissegli ciò che per risposta avea avuto.
Li quali a queste parole
pensando e non potendo d'esse comprendere né intendimento né frutto alcuno per
la loro bisogna, quasi scornati, a ritornarsi indietro entrarono in cammino. E
poi che alquante giornate camminati furono, pervennero ad un fiume sopra il
quale era un bel ponte; e per ciò che una gran carovana di some sopra
muli e sopra cavalli passavano, convenne lor sofferir di passar tanto che
quelle passate fossero.
Ed essendo già quasi
che tutte passate, per ventura v'ebbe un mulo il quale adombrò,
sì come sovente gli veggiam fare, né volea per alcuna maniera avanti
passare; per la qual cosa un mulattiere presa una stecca, prima assai temperata
mente lo 'ncominciò a battere perché passasse. Ma il mulo ora da questa
parte della via e ora da quella attraversandosi, e talvolta indietro tornando,
per niun partito passar volea; per la qual cosa il mulattiere oltre modo
adirato gl'incominciò con la stecca a dare i maggiori colpi del mondo,
ora nella testa e ora nei fianchi e ora sopra la groppa; ma tutto era nulla.
Per che Melisso e Giosefo,
li quali questa cosa stavano a vedere, sovente dicevano al mulattiere:
- Deh! cattivo, che farai?
Vuo'l tu uccidere? Perché non t'ingegni tu di menarlo bene e pianamente? Egli
verrà più tosto che a bastonarlo come tu fai.
A'quali il mulattiere
rispose:
- Voi conoscete i vostri
cavalli e io conosco il mio mulo; lasciate far me con lui.- E questo detto
rincominciò a bastonarlo, e tante d'una parte e d'altra ne gli
diè, che il mulo passò avanti, sì che il mulattiere vinse
la pruova.
Essendo adunque i due
giovani per partirsi, domandò Giosefo un buono uomo, il quale a capo del
ponte sedeva, come quivi si chiamasse. Al quale il buono uomo rispose:
- Messere, qui si chiama il
Ponte all'oca.
Il che come Giosefo ebbe
udito, così si ricordò delle parole di Salamone, e disse verso
Melisso:
- Or ti dico io, compagno,
che il consiglio datomi da Salamone potrebbe esser buono e vero, per ciò
che assai manifestamente conosco che io non sapeva battere la donna mia, ma
questo mulattiere m'ha mostrato quello che io abbia a fare.
Quindi, dopo alquanti
dì divenuti ad Antioccia, ritenne Giosefo Melisso seco a riposarsi alcun
dì; ed essendo assai ferialmente dalla donna ricevuto, le disse che
così facesse far da cena come Melisso divisasse; il quale, poi vide che
a Giosefo piaceva, in poche parole se ne diliberò. La donna, sì
come per lo passato era usata, non come Melisso divisato avea, ma quasi tutto
il contrario fece; il che Giosefo vedendo, a turbato disse:
- Non ti fu egli detto in
che maniera tu facessi questa cena fare?
La donna, rivoltasi con
orgoglio, disse:
- Ora che vuol dir questo?
Deh! ché non ceni, se tu vuoi cenare? Se mi fu detto altramenti, a me pare da
far così; se ti piace, sì ti piaccia; se non, sì te ne
sta.
Maravigliossi Melisso della
risposta della donna, e biasimolla assai. Giosefo, udendo questo, disse: -
Donna, ancor se'tu quel che tu suogli; ma credimi che io ti farò mutar
modo.- E a Melisso rivolto disse: - Amico, tosto vedremo chente sia stato il
consiglio di Salamone; ma io ti priego non ti sia grave lo stare a vedere, e di
reputare per un giuoco quello che io farò. E acciò che tu non
m'impedischi, ricorditi della risposta che ci fece il mulattiere quando del suo
mulo c'increbbe.
Al quale Melisso disse:
- Io sono in casa tua, dove
dal tuo piacere io non intendo di mutarmi.
Giosefo, trovato un baston
tondo d'un querciuolo giovane, se n'andò in camera, dove la donna, per
istizza da tavola levatasi, brontolando se n'era andata; e presala per le
treccie, la si gittò a'piedi e cominciolla fieramente a battere con
questo bastone.
La donna cominciò
prima a gridare e poi a minacciare; ma veggendo che per tutto ciò
Giosefo non ristava, già tutta rotta cominciò a chiedere mercé
per Dio che egli non l'uccidesse, dicendo oltre a ciò mai dal suo piacer
non partirsi.
Giosefo per tutto questo
non rifinava, anzi con più furia l'una volta che l'altra, or per lo
costato, or per l'anche e ora su per le spalle, battendola forte, l'andava le
costure ritrovando, né prima ristette che egli fu stanco; e in brieve niuno
osso né alcuna parte rimase nel dosso della buona donna, che macerata non
fosse.
E questo fatto, ne venne a
Melisso e dissegli:
- Doman vedrem che pruova
avrà fatto il consiglio del - Va al Ponte all'oca -; e riposatosi
alquanto e poi lavatesi le mani, con Melisso cenò, e quando fu tempo,
s'andarono a riposare.
La donna cattivella a gran
fatica si levò di terra, e in sul letto si gittò, dove, come
potè il meglio, riposatasi, la mattina vegnente per tempissimo levatasi,
fe'domandar Giosefo quello che voleva si facesse da desinare.
Egli, di ciò insieme
ridendosi con Melisso, il divisò, e poi, quando fu ora, tornati,
ottimamente ogni cosa e secondo l'ordine dato trovaron fatta; per la qual cosa
il consiglio prima da loro male inteso sommamente lodarono.
E dopo alquanti dì
partitosi Melisso da Giosefo e tornato a casa sua, ad alcun, che savio uomo
era, disse ciò che da Salamone avuto avea. Il quale gli disse:
- Niuno più vero
consiglio né migliore ti potea dare. Tu sai che tu non ami persona, e gli onori
e'servigi li quali tu fai, gli fai, non per amore che tu ad altrui porti, ma
per pompa. Ama adunque, come Salamon ti disse, e sarai amato.
Così adunque fu
gastigata la ritrosa, e il giovane amando fu amato.
Giornata nona - Novella
decima
Donno Gianni ad istanzia di
compar Pietro fa lo 'ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e
quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda,
guasta tutto lo 'ncantamento.
Questa novella dalla reina
detta diede un poco da mormorare alle donne e da ridere a'giovani; ma poi che
ristate furono, Dioneo così cominciò a parlare.
Leggiadre donne, infra
molte bianche colombe aggiugne più di bellezza uno nero corvo, che non
farebbe un candido cigno; e così tra molti savi alcuna volta un men
savio è non solamente un accrescere splendore e bellezza alla lor
maturità, ma ancora diletto e sollazzo.
Per la qual cosa, essendo
voi tutte discretissime e moderate, io, il qual sento anzi dello scemo che no,
faccendo la vostra virtù più lucente col mio difetto, più
vi debbo esser caro che se con più valore quella facessi divenir
più oscura; e per conseguente più largo arbitrio debbo avere in
dimostrarmi tal qual io sono, e più pazientemente dee da voi esser
sostenuto che non dovrebbe se io più savio fossi, quel dicendo che io
dirò. Dirovvi adunque una novella non troppo lunga, nella quale
comprenderete quanto diligentemente si convengano osservare le cose imposte da
coloro che alcuna cosa per forza d'incantamento fanno, e quanto piccol fallo in
quelle commesso ogni cosa guasti dallo incantator fatta.
L'altr'anno fu a Barletta
un prete, chiamato donno Gianni di Barolo, il qual, per ciò che povera
chiesa avea, per sostentar la vita sua, con una cavalla cominciò a
portar mercatantia in qua e in là per le fiere di Puglia e a comperare e
a vendere. E così andando, prese stretta dimestichezza con uno che si
chiamava Pietro da Tresanti, che quello medesimo mestiere con uno suo asino
faceva, e in segno d'amorevolezza e d'amistà, alla guisa pugliese, nol
chiamava se non compar Pietro; e quante volte in Barletta arrivava, sempre alla
chiesa sua nel menava, e quivi il teneva seco ad albergo, e come poteva
l'onorava.
Compar Pietro d'altra
parte, essendo poverissimo e avendo una piccola casetta in Tresanti, appena
bastevole a lui e ad una sua giovane e bella moglie e all'asino suo, quante
volte donno Gianni in Tresanti capitava tante sel menava a casa, e come poteva,
in riconoscimento dell'onor che da lui in Barletta riceveva, l'onorava. Ma
pure, al fatto dello albergo, non avendo compar Pietro se non un piccol
letticello, nel quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva come
voleva, ma conveniva che, essendo in una sua stalletta allato all'asino suo
allogata la cavalla di donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di
paglia si giacesse.
La donna, sappiendo l'onor
che il prete al marito faceva a Barletta, era più volte, quando il prete
vi veniva, volutasene andare a dormire con una sua vicina, che avea nome zita
Carapresa di Giudice Leo, acciò che il prete col marito dormisse nel
letto, e avevalo molte volte al prete detto, ma egli non aveva mai voluto; e
tra l'altre volte, una le disse:
- Comar Gemmata, non ti tribolar
di me, ché io sto, bene, per ciò che quando mi piace io fo questa mia
cavalla diventare una bella zitella e stommi con essa, e poi quando voglio la
fo diventar cavalla, e perciò da lei non mi partirei.
La giovane si
maravigliò e credettelo, e al marito il disse, aggiugnendo:
- Se egli è
così tuo come tu di', ché non ti fai tu insegnare quello incantesimo,
ché tu possa far cavalla di me e fare i fatti tuoi con l'asino e con la
cavalla, e guadagneremo due cotanti, e quando a casa fossimo tornati, mi potresti
rifar femina come io sono.
Compar Pietro, che era anzi
grossetto uom che no, credette questo fatto e accordossi al consiglio, e come
meglio seppe, cominciò a sollicitar donno Gianni, che questa cosa gli
dovesse insegnare. Donno Gianni s'ingegnò assai di trarre costui di
questa sciocchezza, ma pur non potendo, disse:
- Ecco, poi che voi pur
volete, domattina ci leveremo, come noi sogliamo, anzi dì, e io vi
mosterrò come si fa. E' il vero che quello che più è
malagevole in questa cosa si è l'appiccar la coda, come tu vedrai.
Compar Pietro e comar
Gemmata, appena avendo la notte dormito (con tanto desidero questo fatto
aspettavano), come vicino a dì fu, si levarono e chiamarono donno
Gianni, il quale, in camicia levatosi, venne nella cameretta di compar Pietro e
disse:
- Io non so al mondo
persona a cui io questo facessi, se non a voi, e per ciò, poi che vi pur
piace, io il farò; vero è che far vi conviene quello che io vi
dirò, se voi volete che venga fatto.
Costoro dissero di far
ciò che egli dicesse. Per che donno Gianni, preso un lume, il pose in
mano a compar Pietro e dissegli:
- Guata ben come io
farò, e che tu tenghi bene a men te come io dirò, e guardati,
quanto tu hai caro di non guastare ogni cosa, che per cosa che tu oda o veggia,
tu non dica una parola sola; e priega Iddio che la coda s'appicchi bene.
Compar Pietro, preso il
lume, disse che ben lo farebbe.
Appresso donno Gianni fece
spogliare ignuda nata comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co'piedi in
terra, a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola similmente che di cosa che
avvenisse motto non facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso e la
testa, cominciò a dire: - Questa sia bella testa di cavalla -; e
toccandole i capelli, disse: - Questi sieno belli crini di cavalla -; e poi
toccandole le braccia, disse: - E queste sieno belle gambe e belli piedi di
cavalla -; poi toccandole il petto e trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi
tale che non era chiamato e su levandosi, disse: - E questo sia bel petto di
cavalla -; e così fece alla schiena e al ventre e alle groppe e alle
coscie e alle gambe. E ultimamente, niuna cosa restandogli a fare se non la
coda, levata la camicia e preso il piuolo col quale egli piantava gli uomini e
prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse: - E questa sia bella
coda di cavalla.
Compar Pietro, che
attentamente infino allora aveva ogni cosa guardata, veggendo questa ultima e
non parendonegli bene, disse:
- O donno Gianni, io non vi
voglio coda, io non vi voglio coda.
Era già l'umido
radicale, per lo quale tutte le piante s'appiccano, venuto, quando donno Gianni
tiratolo indietro, disse:
- Ohimè, compar
Pietro, che hai tu fatto? Non ti diss'io, che tu non facessi motto di cosa che
tu vedessi? La cavalla era per esser fatta, ma tu favellando hai guasto ogni
cosa, né più ci ha modo di poterla rifare oggimai.
Compar Pietro disse:
- Bene sta, io non vi
voleva quella coda io. Perché non diciavate voi a me -
Falla tu -? E anche
l'appiccavate troppo bassa.
Disse donno Gianni:
- Perché tu non l'avresti
per la prima volta saputa appiccar sì com'io.
La giovane, queste parole
udendo, levatasi in piè, di buona fè disse al marito:
- Deh, bestia che tu se',
perché hai tu guasti li tuoi fatti e'miei? Qual cavalla vedestu mai senza coda?
Se m'aiuti Iddio, tu se'povero, ma egli sarebbe ragione che tu fossi molto
più.
Non avendo adunque
più modo a dover fare della giovane cavalla, per le parole che dette
avea compar Pietro, ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar
Pietro con uno asino, come usato era, attese a fare il suo mestiere antico, e
con donno Gianni insieme n'andò alla fiera di Bitonto, né mai più
di tal servigio il richiese.
Giornata nona - Conclusione
Quanto di questa novella si
ridesse, meglio dalle donne intesa che Dioneo non voleva, colei sel pensi che
ancora ne riderà. Ma, essendo le novelle finite e il sole già
cominciando ad intiepidire, e la reina, conoscendo il fine della sua signoria
esser venuto, in piè levatasi e trattasi la corona, quella in capo mise
a Panfilo, il quale solo di così fatto onore restava ad onorare; e
sorridendo disse:
- Signor mio, gran carico
ti resta, sì come è l'avere il mio difetto e degli altri che il
luogo hanno tenuto che tu tieni, essendo tu l'ultimo, ad ammendare, di che
Iddio ti presti grazia, come a me l'ha prestata di farti re.
Panfilo, lietamente l'onor
ricevuto, rispose:
- La vostra virtù e
degli altri miei sudditi farà sì che io, come gli altri sono
stati, sarò da lodare -. E secondo il costume de'suoi predecessori col
siniscalco delle cose opportune avendo disposto, alle donne aspettanti si
rivolse e disse:
- Innamorate donne, la
discrezion d'Emilia, nostra reina stata questo giorno, per dare alcun riposo
alle vostre forze, arbitrio vi diè di ragionare quel che più vi
piacesse. Per che, già riposati essendo, giudico che sia da ritornare
alla legge usata; e per ciò voglio che domane ciascuna di voi pensi di
ragionare sopra questo, cioè: di chi liberalmente ovvero magnificamente
alcuna cosa operasse intorno a'fatti d'amore o d'altra cosa. Queste cose e
dicendo e udendo, senza dubbio niuno gli animi vostri ben disposti a
valorosamente adoperare accenderà; ché la vita nostra, che altro che
brieve esser non puote nel mortal corpo, si perpetuerà nella laudevole
fama; il che ciascuno che al ventre solamente, a guisa che le bestie fanno, non
serve, dee, non solamente desiderare, ma con ogni studio cercare e operare.
La tema piacque alla lieta
brigata, la quale con licenzia del nuovo re tutta levatasi da sedere, agli
usati di letti si diede, ciascuno secondo quello a che più dal desidero
era tirato; e così fecero insino all'ora della cena. Alla quale con
festa venuti, e serviti diligentemente e con ordine, dopo la fine di quella si
levarono a'balli costumati, e forse mille canzonette più sollazzevoli di
parole che di canto maestrevoli, avendo cantate, comandò il re a Neifile
che una ne cantasse a suo nome. La quale, con voce chiara e lieta, così
piacevolmente e senza indugio incominciò:
Io mi son giovinetta, e
volentieri
m'allegro e canto en la
stagion novella,
merzé d'amore e de'dolci
pensieri.
Io vo pe'verdi prati
riguardando
i bianchi fiori e'gialli e
i vermigli
le rose in su le spine e i
bianchi gigli
e tutti quanti gli vo
somigliando
al viso di colui che me,
amando,
ha presa e terrà
sempre, come quella
ch'altro non ha in disio
ch'e'suoi piaceri.
De'quai quand'io ne truovo
alcun che sia,
al mio parer, ben simile di
lui,
il colgo e bacio e parlomi
con lui,
e com'io so, così
l'anima mia
tutta gli apro, e
ciò che 'l cor disia;
quindi con altri il metto
in ghirlandella
legato co'miei crin biondi
e leggieri.
E quel piacer, che di
natura il fiore
agli occhi porge, quel
simil mel dona
che s'io vedessi la propia
persona
che m'ha accesa del suo
dolce amore,
quel che mi faccia
più il suo odore
esprimer nol potrei con la
favella,
ma i sospir ne son testimon
veri.
Li quai non escon
già mai del mio petto,
come dell'altre donne,
aspri né gravi,
ma se ne vengon fuor caldi
e soavi,
e al mio amor sen vanno nel
cospetto,
il qual come gli sente, a
dar diletto
di sé a me si muove e viene
in quella
ch'i'son per dir: Deh vien,
ch'i'non disperi
Assai fu e dal re e da
tutte le donne commendata la canzonetta di Neifile; appresso alla quale, per
ciò che già molta notte andata n'era, comandò il re che
ciascuno per infino al giorno s'andasse a riposare.
Finisce la nona giornata
del Decameron
Incomincia la decima e
ultima giornata nella quale, sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi
liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a fatti d'amore
o d'altra cosa.
Giornata decima -
Introduzione
Ancora eran vermigli certi
nuvoletti nell'occidente, essendo già quegli dello oriente nelle loro
estremità simili ad oro lucentissimi divenuti, per li solari raggi che
molto loro avvicinandosi li ferieno, quando Panfilo levatosi, le donne e'suoi
compagni fece chiamare. E venuti tutti, con loro insieme diliberato del dove
andar potessero al lor diletto, con lento passo si mise innanzi, accompagnato
da Filomena e da Fiammetta, tutti gli altri appresso seguendogli; e molte cose
della loro futura vita insieme parlando e dicendo e rispondendo, per lungo
spazio s'andaron diportando; e data una volta assai lunga, cominciando il sole
già troppo a riscaldare, al palagio si ritornarono. E quivi dintorno
alla chiara fonte fatti risciacquare i bicchieri, chi volle alquanto bevve, e
poi fra le piacevoli ombre del giardino infino ad ora di mangiare s'andarono
sollazzando. E poi ch'ebber mangiato e dormito, come far soleano, dove al re
piacque si ragunarono, e quivi il primo ragionamento comandò il re a
Neifile, la quale lietamente così cominciò.
Giornata decima - Novella
prima
Un cavaliere serve al re di
Spagna; pargli male esser guiderdonato, per che il re con esperienzia
certissima gli mostra non esser colpa di lui, ma della sua malvagia fortuna,
altamente donandogli poi.
Grandissima grazia,
onorabili donne, reputar mi debbo, che il nostro re me a tanta cosa, come
è a raccontar della magnificenzia, m'abbia preposta, la quale, come il
sole è di tutto il cielo bellezza e ornamento, è chiarezza e lume
di ciascuna altra virtù. Dironne adunque una novelletta, assai leggiadra
al mio parere, la quale rammemorarsi per certo non potrà esser se non
utile.
Dovete adunque sapere che,
tra gli altri valorosi cavalieri che da gran tempo in qua sono stati nella
nostra città, fu un di quegli e forse il più da bene, messer
Ruggieri de Figiovanni; il quale essendo e ricco e di grande animo, e veggendo
che, considerata la qualità del vivere e de'costumi di Toscana, egli, in
quella dimorando, poco o niente potrebbe del suo valor dimostrare, prese per
partito di volere un tempo essere appresso ad Anfonso re d'Ispagna, la fama del
valore del quale quella di ciascun altro signor trapassava a que'tempi. E assai
onorevolmente in arme e in cavalli e in compagnia a lui se n'andò in
Ispagna, e graziosamente fu dal re ricevuto.
Quivi adunque dimorando
messer Ruggieri, e splendidamente vivendo, e in fatti d'arme maravigliose cose
faccendo, assai tosto si fece per valoroso cognoscere.
Ed essendovi già
buon tempo dimorato, e molto alle maniere del re riguardando, gli parve che
esso ora ad uno e ora ad un altro donasse castella e città e baronie
assai poco discretamente, sì come dandole a chi nol valea; e per ciò
che a lui, che da quello che egli era si teneva, niente era donato,
estimò che molto ne diminuisse la fama sua; per che di partirsi
diliberò, e al re domandò commiato. Il re gliele concedette, e
donogli una delle miglior mule che mai si cavalcasse e la più bella, la
quale per lo lungo cammino che a fare avea, fu cara a messer Ruggieri.
Appresso questo, commise il
re ad un suo discreto famigliare che, per quella maniera che miglior gli
paresse, s'ingegnasse di cavalcare la prima giornata con messer Ruggieri, in
guisa che egli non paresse dal re mandato, e ogni cosa che egli dicesse di lui
raccogliesse, sì che ridire gliele sapesse, e l'altra mattina appresso
gli comandasse che egli indietro al re tornasse.
Il famigliare, stato
attento, come messer Ruggieri uscì della terra, così assai
acconciamente con lui si fu accompagnato, dandogli a vedere che egli veniva
verso Italia.
Cavalcando adunque messer
Ruggieri sopra la mula dal re datagli, e con costui d'una cosa e d'altra
parlando, essendo vicino ad ora di terza, disse:
- Io credo che sia ben
fatto che noi diamo stalla a queste bestie -; ed entrati in una stalla, tutte
l'altre, fuor che la mula, stallarono. Per che cavalcando avanti, stando sempre
il famiglio attento alle parole del cavaliere, vennero ad un fiume, e quivi abbeverando
le lor bestie, la mula stallò nel fiume. Il che veggendo messer
Ruggieri, disse:
- Deh! dolente ti faccia
Dio, bestia, ché tu se'fatta come il signore che a me ti donò.
Il famigliare questa parola
ricolse, e come che molte ne ricogliesse camminando tutto il dì seco,
niun'altra, se non in somma lode del re, dirne gli udì; per che la
mattina seguente, montati a cavallo e volendo cavalcare verso Toscana, il famigliare
gli fece il comandamento del re, per lo quale messer Ruggieri incontanente
tornò addietro.
E avendo già il re
saputo quello che egli della mula aveva detto, fattolsi chiamar con lieto viso
il ricevette, e domandollo perché lui alla sua mula avesse assomigliato, ovvero
la mula a lui.
Messer Ruggieri con aperto
viso gli disse:
- Signor mio, per
ciò ve l'assomigliai, perché, come voi donate dove non si conviene, e
dove si converrebbe non date, così ella dove si conveniva non
stallò, e dove non si convenia sì.
Allora disse il re:
- Messer Ruggieri, il non
avervi donato, come fatto ho a molti, li quali a comparazion di voi da niente
sono, non è avvenuto perché io non abbia voi valorosissimo cavalier
conosciuto e degno d'ogni gran dono, ma la vostra fortuna, che lasciato non
m'ha, in ciò ha peccato e non io; e che io dica vero, io il vi
mosterrò manifestamente.
A cui messer Ruggieri
rispose:
- Signor mio, io non mi
turbo di non aver dono ricevuto da voi, per ciò che io nol desiderava
per esser più ricco, ma del non aver voi in alcuna cosa testimonianza
renduta alla mia virtù; nondimeno io ho la vostra per buona scusa e per
onesta, e son presto di veder ciò che vi piacerà, quantunque io
vi creda senza testimonio.
Menollo adunque il re in
una sua gran sala, dove, sì come egli davanti aveva ordinato, erano due
gran forzieri serrati, e in presenzia di molti gli disse:
- Messer Ruggieri, nell'uno
di questi forzieri è la mia corona, la verga reale e 'l pomo, e molte
mie belle cinture, fermagli, anella e ogn'altra cara gioia che io ho; l'altro
è pieno di terra: prendete adunque l'uno, e quello che preso avrete
sì sia vostro, e potrete vedere chi è stato verso il vostro
valore ingrato, o io o la vostra fortuna.
Messer Ruggieri, poscia che
vide così piacere al re, prese l'uno, il quale il re comandò che
fosse aperto, e trovossi esser quello che era pien di terra. Laonde il re
ridendo disse:
- Ben potete vedere, messer
Ruggieri, che quello è vero che io vi dico della fortuna; ma certo il
vostro valor merita che io m'opponga alle sue forze. Io so che voi non avete
animo di divenire spagnuolo, e per ciò non vi voglio qua donare né
castel né città, ma quel forziere che la fortuna vi tolse, quello in
dispetto di lei voglio che sia vostro, acciò che nelle vostre contrade
nel possiate portare, e della vostra virtù con la testimonianza de'miei
doni meritamente gloriar vi possiate co'vostri vicini.
Messer Ruggieri presolo, e
quelle grazie rendute al re che a tanto dono si confaceano, con esso lieto se
ne ritornò in Toscana.
Giornata decima - Novella
seconda
Ghino di Tacco piglia
l'abate di Clignì e medicalo del male dello stomaco e poi il lascia
quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa e fallo
friere dello Spedale.
Lodata era già stata
da tutti la magnificenzia del re Anfonso nel fiorentin cavaliere usata, quando
il re, al quale molto era piaciuta, ad Elissa impose che seguitasse, la quale
prestamente incominciò.
Dilicate donne, l'essere
stato un re magnifico, e l'avere la sua magnificenzia usata verso colui che
servito l'avea, non si può dire che laudevole e gran cosa non sia; ma
che direm noi se si racconterà un cherico aver mirabil magnificenzia
usata verso persona che, se inimicato l'avesse, non ne sarebbe stato biasimato
da persona? Certo non altro se non che quella del re fosse virtù, e
quella del cherico miracolo, con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi
troppo più che le femine sieno, e d'ogni liberalità nimici a
spada tratta. E quantunque ogn'uomo naturalmente appetisca vendetta delle
ricevute offese, i cherici, come si vede, quantunque la pazienzia predichino e
sommamente la remission delle offese commendino, più focosamente che gli
altri uomini a quella discorrono. La qual cosa, cioè come un cherico
magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere aperto.
Ghino di Tacco, per la sua
fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e
nimico de'conti di Santa Fiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma,
e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva
a'suoi masnadieri.
Ora, essendo Bonifazio papa
ottavo in Roma, venne a corte l'abate di Clignì, il quale si crede
essere un de'più ricchi prelati del mondo, e quivi guastatoglisi lo
stomaco, fu da'medici consigliato che egli andasse a'bagni di Siena, e
guerirebbe senza fallo. Per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar
della fama di Ghino, con grandissima pompa d'arnesi e di some e di cavalli e di
famiglia entrò in cammino.
Ghino di Tacco, sentendo la
sua venuta, tese le reti, e, senza perderne un sol ragazzetto, l'abate con
tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse. E questo
fatto, un de'suoi, il più saccente, bene accompagnato mandò allo
abate; il qual da parte di lui assai amorevolmente gli disse, che gli dovesse
piacere d'andare a smontare con esso Ghino al castello. Il che l'abate udendo,
tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sì come quegli
che con Ghino niente aveva a fare; ma che egli andrebbe avanti, e vorrebbe
veder chi l'andar gli vietasse.
Al quale l'ambasciadore
umilmente parlando disse:
- Messere, voi siete in
parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e
dove le scomunicazioni e gl'interdetti sono scomunicati tutti; e per ciò
piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo.
Era già, mentre
queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circundato; per che l'abate,
co'suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l'ambasciadore prese la via
verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui; e smontato,
come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d'un palagio assai
oscura e disagiata, e ogn'altro uomo secondo la sua qualità per lo
castello fu assai bene adagiato, e i cavalli e tutto l'arnese messo in salvo,
senza alcuna cosa toccarne.
E questo fatto, se
n'andò Ghino all'abate e dissegli:
- Messere, Ghino, di cui
voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significarli dove voi
andavate, e per qual cagione.
L'abate, che, come savio,
aveva l'altierezza giù posta, gli significò dove andasse e
perché. Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire
senza bagno; e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben
guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina; e allora in una
tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran
bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dello abate medesimo, e
sì disse all'abate:
- Messer, quando Ghino era
più giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò
niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi
farà, della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento; e
per ciò prendetele e confortatevi.
L'abate, che maggior fame
aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, si
mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e di
molte domandò e molte ne consigliò, e in ispezieltà chiese
di poter veder Ghino.
Ghino, udendo quelle, parte
ne lasciò andar sì come vane, e ad alcuna assai cortesemente
rispose, affermando che come Ghino più tosto potesse il visiterebbe; e
questo detto, da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente
dì con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia; e
così il tenne più giorni, tanto che egli s'accorse l'abate aver
mangiate fave secche, le quali egli studiosamente e di nascoso portate v'aveva
e lasciate.
Per la qual cosa egli il
domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale
l'abate rispose:
- A me parrebbe star bene,
se io fossi fuori delle sue mani; e appresso questo, niun altro talento ho
maggiore che di mangiare, sì ben m'hanno le sue medicine guerito.
Ghino adunque avendogli
de'suoi arnesi medesimi e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera,
e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello
fu tutta la famiglia dello abate, a lui se n'andò la mattina seguente e
dissegli:
- Messere, poi che voi ben
vi sentite, tempo è d'uscire d'infermeria -; e per la man presolo, nella
camera apparecchiatagli nel menò, e in quella co'suoi medesimi
lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese.
L'abate co'suoi alquanto si
ricreò, e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in
contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino. Ma
l'ora del mangiar venuta, l'abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone
vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all'abate
conoscere.
Ma poi che l'abate alquanti
dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti li suoi
arnesi fatti venire, e in una corte, che di sotto a quella era, tutti i suoi
cavalli in fino al più misero ronzino allo abate se n'andò e
domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare. A
cui l'abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che
starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino.
Menò allora Ghino
l'abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo
ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse:
- Messer l'abate, voi
dovete sapere che l'esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, e avere
molti e possenti nimici, hanno, per potere la sua vita e la sua nobiltà
difendere, e non malvagità d'animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io
sono, ad essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma. Ma per
ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco
guerito, come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui,
quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi
farei che mi paresse; ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato,
quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono
interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta
finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte e il tutto come vi
piace prendete, a da questa ora innanzi sia e l'andare e lo stare nel piacer
vostro.
Maravigliossi l'abate che
in un rubator di strada fosser parole sì libere, e piacendogli molto,
subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenzia mutatisi, col
cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo:
- Io giuro a Dio che, per
dover guadagnar l'amistà d'uno uomo fatto come omai io giudico che tu
sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a
qui paruta m'è che tu m'abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a
sì dannevole mestier ti costrigne! E appresso questo, fatto delle sue
molte cose pochissime e opportune prendere, e de'cavalli similmente, e l'altre
lasciategli tutte, a Roma se ne tornò.
Aveva il papa saputa la
presura dello abate e, come che molto gravata gli fosse, veggendolo il
domandò come i bagni fatto gli avesser pro. Al quale l'abate sorridendo
rispose:
- Santo Padre, io trovai
più vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito
m'ha; e contogli il modo; di che il papa rise. Al quale l'abate, seguitando il
suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia.
Il papa, credendo lui dover
domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse. Allora
l'abate disse:
- Santo Padre, quello che
io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di
Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto
che io accontai mai, egli è per certo un de'più; e quel male il
quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo; la
qual se voi con alcuna cosa dandogli, donde egli possa secondo lo stato suo
vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi
quello che a me ne pare.
Il papa, udendo questo,
sì come colui che di grande animo fu e vago de'valenti uomini, disse di
farlo volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse
sicuramente venire.
Venne adunque Ghino fidato,
come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del papa fu, che egli il
reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di
quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere. La quale egli, amico
e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse.
Giornata decima - Novella
terza
Mitridanes, invidioso della
cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da
lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto, come ordinato avea,
il quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene.
Simil cosa a miracolo per
certo pareva a tutti avere udito, cioè che un cherico alcuna cosa
magnificamente avesse operata; ma riposandosene già il ragionare delle
donne, comandò il re a Filostrato che procedesse, il quale prestamente
incominciò.
Nobili donne, grande fu la
magnificenzia del re di Spagna, e forse cosa più non udita giammai
quella dell'abate di Clignì; ma forse non meno maravigliosa cosa vi
parrà l'udire che uno, per liberalità usare ad un altro che il
suo sangue, anzi il suo spirito, disiderava, cautamente a dargliele si
disponesse; e fatto l'avrebbe, se colui prender l'avesse voluto, sì come
io in una mia novelletta intendo di dimostrarvi.
Certissima cosa è
(se fede si può dare alle parole d'alcuni genovesi e d'altri uomini che
in quelle contrade stati sono) che nelle parti del Cattaio fu già uno
uomo di legnaggio nobile e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan; il
quale, avendo un suo ricetto vicino ad una strada per la qual quasi di
necessità passava ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o
di Levante venire in Ponente, e avendo l'animo grande e liberale e disideroso
che fosse per opera conosciuto, quivi, avendo molti maestri, fece in piccolo
spazio di tempo fare un de'più belli e de'maggiori e de'più
ricchi palagi che mai fosse stato veduto, e quello di tutte quelle cose che
opportune erano a dovere gentili uomini ricevere e onorare, fece ottimamente
fornire; e avendo grande e bella famiglia, con piacevolezza e con festa
chiunque andava e veniva faceva ricevere e onorare. E in tanto perseverò
in questo laudevol costume, che già, non solamente il Levante, ma quasi
tutto il Ponente per fama il conoscea.
Ed essendo egli già
d'anni pieno, né però del corteseggiar divenuto stanco, avvenne che la
sua fama agli orecchi pervenne d'un giovane chiamato Mitridanes, di paese non
guari al suo lontano; il quale, sentendosi non meno ricco che Natan fosse,
divenuto della sua fama e della sua virtù invidioso, seco propose con
maggior liberalità quella o annullare o offuscare. E fatto fare un
palagio simile a quello di Natan, cominciò a fare le più
smisurate cortesie che mai facesse alcuno altro, a chi andava o veniva per
quindi, e senza dubbio in piccol tempo assai divenne famoso.
Ora avvenne un giorno che
dimorando il giovane tutto g solo nella corte del suo palagio, una feminella,
entrata dentro per una delle porti del palagio, gli domandò limosina ed
ebbela; e ritornata per la seconda porta pure a lui, ancora l'ebbe, e
così successivamente insino alla duodecima; e la tredecima volta
tornata, disse Mitridanes:
- Buona femina, tu se'assai
sollicita a questo tuo dimandare -; e nondimeno le fece limosina.
La vecchierella, udita
questa parola, disse:
- O liberalità di
Natan, quanto se'tu maravigliosa! ché per trentadue porti che ha il suo
palagio, sì come questo, entrata, e domandatagli limosina, mai da lui,
che egli mostrasse, riconosciuta non fui, e sempre l'ebbi; e qui non venuta ancora
se non per tredici, e riconosciuta e proverbiata sono stata -. E così
dicendo, senza più ritornarvi si dipartì.
Mitridanes, udite le parole
della vecchia, come colui che ciò che della fama di Natan udiva
diminuimento della sua estimava, in rabbiosa ira acceso, cominciò a
dire:
- Ahi lasso a me! Quando
aggiugnerò io alla liberalità delle gran cose di Natan, non che
io il trapassi, come io cerco, quando nelle piccolissime io non gli mi posso
avvicinare? Veramente io mi fatico invano, se io di terra nol tolgo; la qual
cosa, poscia che la vecchiezza nol porta via, convien senza alcuno indugio che
io faccia con le mie mani.
E con questo impeto
levatosi, senza comunicare il suo consiglio ad alcuno, con poca compagnia
montato a cavallo, dopo il terzo dì dove Natan dimorava pervenne; e
a'compagni imposto che sembianti facessero di non esser con lui né di
conoscerlo, e che distanzia si procacciassero infino che da lui altro avessero,
quivi adunque in sul fare della sera pervenuto e solo rimaso, non guari lontano
al bel palagio trovò Natan tutto solo, il quale senza alcuno abito
pomposo andava a suo diporto; cui egli, non conoscendolo, domandò se
insegnar gli sapesse dove Natan dimorasse.
Natan lietamente rispose:
- Figliuol mio, niuno
è in questa contrada che meglio di me cotesto ti sappia mostrare, e per
ciò, quando ti piaccia, io vi ti menerò.
Il giovane disse che questo
gli sarebbe a grado assai; ma che, dove esser potesse, egli non voleva da Natan
esser veduto né conosciuto. Al quale Natan disse:
- E cotesto ancora
farò, poi che ti piace.
Ismontato adunque
Mitridanes con Natan, che in piacevolissimi ragionamenti assai tosto il mise,
infino al suo bel palagio n'andò.
Quivi Natan fece ad un
de'suoi famigliari prendere il caval del giovane, e accostatoglisi agli orecchi
gl'impose che egli prestamente con tutti quegli della casa facesse che niuno al
giovane dicesse lui esser Natan; e così fu fatto.
Ma poi che nel palagio
furono, mise Mitridanes in una bellissima camera dove alcuno nol vedeva, se non
quegli che egli al suo servigio diputati avea, e sommamente faccendolo onorare,
esso stesso gli tenea compagnia.
Col quale dimorando
Mitridanes, ancora che in reverenzia come padre l'avesse, pur lo domandò
chi el fosse. Al quale Natan rispose:
- Io sono un picciol
servidor di Natan, il quale dalla mia fanciullezza con lui mi sono invecchiato,
né mai ad altro che tu mi vegghi mi trasse, per che, come che ogni altro uomo
molto di lui si lodi, io me ne posso poco lodare io.
Queste parole porsero
alcuna speranza a Mitridanes di potere con più consiglio e con
più salvezza dare effetto al suo perverso intendimento. Il qual Natan
assai cortesemente domandò chi egli fosse, e qual bisogno per quindi il
portasse, offerendo il suo consiglio e il suo aiuto in ciò che per lui
si potesse.
Mitridanes soprastette
alquanto al rispondere, e ultimamente diliberando di fidarsi di lui, con una
lunga circuizion di parole la sua fede richiese, e appresso il consiglio e
l'aiuto, e chi egli era e per che venuto e da che mosso, interamente gli
discoperse.
Natan, udendo il ragionare
e il fiero proponimento di Mitridanes, in sé tutto si cambiò, ma senza
troppo stare, con forte animo e con fermo viso gli rispose:
- Mitridanes, nobile uomo
fu il tuo padre, dal quale tu non vuogli degenerare, sì alta impresa
avendo fatta come hai, cioè d'essere liberale a tutti, e molto la
invidia che alla virtù di Natan porti commendo, per ciò che, se
di così fatte fossero assai, il mondo, che è miserissimo, tosto
buon diverrebbe. Il tuo proponimento mostratomi senza dubbio sarà occulto,
al quale io più tosto util consiglio che grande aiuto posso donare, il
quale è questo. Tu puoi di quinci vedere forse un mezzo miglio vicin di
qui un boschetto, nel quale Natan quasi ogni mattina va tutto solo, prendendo
diporto per ben lungo spazio; quivi leggier cosa ti fia il trovarlo e farne il
tuo piacere. Il quale se tu uccidi, acciò che tu possa senza impedimento
a casa tua ritornare, non per quella via donde tu qui venisti, ma per quella
che tu vedi a sinistra uscir fuor del bosco n'andrai, per ciò che,
ancora che un poco più salvatica sia, ella è più vicina a
casa tua e per te più sicura.
Mitridanes, ricevuta la
informazione, e Natan da lui essendo partito, cautamente a'suoi compagni, che
similmente là entro erano, fece sentire dove aspettare il dovessero il
dì seguente. Ma, poi che il nuovo dì fu venuto, Natan, non avendo
animo vario al consiglio dato a Mitridanes, né quello in parte alcuna mutato,
solo se n'andò al boschetto a dover morire.
Mitridanes, levatosi e
preso il suo arco e la sua spada, ché altra arme non avea, e montato a cavallo,
n'andò al boschetto, e di lontano vide Natan tutto soletto andar
passeggiando per quello, e diliberato, avanti che l'assalisse, di volerlo
vedere e d'udirlo parlare, corse verso lui, e presolo per la benda la quale in
capo avea, disse:
- Vegliardo, tu se'morto.
Al quale niuna altra cosa
rispose Natan, se non:
- Dunque, l'ho io meritato.
Mitridanes, udita la voce e
nel viso guardatolo, subitamente riconobbe lui esser colui che benignamente
l'avea ricevuto e familiarmente accompagnato e fedelmente consigliato; per che
di presente gli cadde il furore e la sua ira si convertì in vergogna.
Laonde egli, gittata via la spada, la qual già per ferirlo aveva tirata
fuori, da caval dismontato, piagnendo corse a'piè di Natan e disse:
- Manifestamente conosco,
carissimo padre, la vostra liberalità, riguardando con quanta cautela
venuto siate per darmi il vostro spirito, del quale io, niuna ragione avendo, a
voi medesimo disideroso mostra'mi; ma Iddio, più al mio dover sollicito
che io stesso, a quel punto che maggior bisogno è stato gli occhi m'ha
aperto dello 'ntelletto, li quali misera invidia m'avea serrati. E per
ciò quanto voi più pronto stato siete a compiacermi, tanto
più mi cognosco debito alla penitenzia del mio errore; prendete adunque
di me quella vendetta che convenevole estimate al mio peccato.
Natan fece levar Mitridanes
in piede, e teneramente l'abbracciò e baciò, e gli disse:
- Figliuol mio, alla tua
impresa, chente che tu la vogli chiamare o malvagia o altrimenti, non bisogna
di domandar né di dar perdono, per ciò che non per odio la seguivi, ma
per potere essere tenuto migliore. Vivi adunque di me sicuro, e abbi di certo
che niuno altro uom vive, il quale te quant'io ami, avendo riguardo all'altezza
dello animo tuo, il quale non ad ammassar denari, come i miseri fanno, ma ad
ispender gli ammassati se'dato. Né ti vergognare d'avermi voluto uccidere per
divenir famoso, né credere che io me ne maravigli. I sommi imperadori e i
grandissimi re non hanno quasi con altra arte che d'uccidere, non uno uomo come
tu volevi fare, ma infiniti, e ardere paesi e abbattere le città, li
loro regni ampliati, e per conseguente la fama loro; per che, se tu per
più farti famoso me solo uccider volevi, non maravigliosa cosa né nuova
facevi, ma molto usata.
Mitridanes, non iscusando
il suo disidero perverso, ma commendando l'onesta scusa da Natan trovata ad
esso, ragionando pervenne a dire sé oltre modo maravigliarsi come a ciò
si fosse Natan potuto disporre e a ciò dargli modo e consiglio. Al quale
Natan disse:
- Mitridanes, io non voglio
che tu del mio consiglio e della mia disposizione ti maravigli, per ciò
che, poi che io nel mio albitrio fui, e disposto a fare quello medesimo che tu
hai a fare impreso, niun fu che mai a casa mia capitasse, che io nol
contentasse a mio potere di ciò che da lui mi fu domandato. Venistivi tu
vago della mia vita, per che, sentendolati domandare, acciò che tu non
fossi solo colui che senza la sua dimanda di qui si partisse, prestamente
diliberai di donarlati, e acciò che tu l'avessi, quel consiglio ti diedi
che io credetti che buon ti fosse ad aver la mia e non perder la tua; e per
ciò ancora ti dico e priego che, s'ella ti piace, che tu la prenda e te
medesimo ne sodisfaccia: io non so come io la mi possa meglio spendere. Io l'ho
adoperata già ottanta anni, e ne'miei diletti e nelle mie consolazioni
usata; e so che, seguendo il corso della natura, come gli altri uomini fanno e
generalmente tutte le cose, ella mi può omai piccol tempo esser
lasciata; per che io giudico molto meglio esser quella donare, come io ho
sempre i miei tesori donati e spesi, che tanto volerla guardare, che ella mi
sia contro a mia voglia tolta dalla natura.
Piccol dono è donare
cento anni; quanto adunque è minor donarne sei o otto che io a star ci
abbia? Prendila adunque, se ella t'aggrada, io te ne priego; per ciò
che, mentre vivuto ci sono, niuno ho ancor trovato che disiderata l'abbia, né
so quando trovar me ne possa veruno, se tu non la prendi che la dimandi. E se
pure avvenisse che io ne dovessi alcun trovare, conosco che, quanto più
la guarderò, di minor pregio sarà; e però, anzi che ella
divenga più vile, prendila, io te ne priego.
Mitridanes, vergognandosi
forte, disse:
- Tolga Iddio che
così cara cosa come la vostra vita è, non che io, da voi
dividendola, la prenda, ma pur la disideri, come poco avanti faceva; alla quale
non che io diminuissi gli anni suoi, ma io l'aggiugnerei volentier de'miei, se
io potessi.
A cui prestamente Natan
disse:
- E, se tu puoi, vuo'nele
tu aggiugnere, e farai a me fare verso di te quello che mai verso alcuno altro
non feci, cioè delle tue cose pigliare, che mai dell'altrui non pigliai?
- Sì, - disse
subitamente Mitridanes.
- Adunque, - disse Natan -
farai tu come io ti dirò. Tu ti rimarrai, giovane come tu se', qui nella
mia casa, e avrai nome Natan, e io me n'andrò nella tua e farommi sempre
chiamar Mitridanes.
Allora Mitridanes rispose:
- Se io sapessi così
bene operare come voi sapete e avete saputo, io prenderei senza troppa
diliberazione quello che m'offerete; ma per ciò che egli mi pare esser
molto certo che le mie opere sarebbon diminuimento della fama di Natan, e io
non intendo di guastare in altrui quello che in me io non acconciare nol
prenderò.
Questi e molti altri
piacevoli ragionamenti stati tra Natan e Mitridanes, come a Natan piacque,
insieme verso il palagio se ne tornarono, dove Natan più giorni
sommamente onorò Mitridanes, e lui con ogni ingegno e saper
confortò nel suo alto e grande proponimento. E volendosi Mitridanes con
la sua compagnia ritornare a casa, avendogli Natan assai ben fatto conoscere
che mai di liberalità nol potrebbe avanzare, il licenziò.
Giornata decima - Novella
quarta
Messer Gentil de'Carisendi,
venuto da Modona, trae della sepoltura una donna amata da lui, sepellita per
morta, la quale riconfortata partorisce un figliuol maschio, e Messer Gentile
lei e 'l figliuolo restituisce a Niccoluccio Caccianimico, marito di lei.
Maravigliosa cosa parve a
tutti che alcuno del propio sangue fosse liberale; e veramente affermaron Natan
aver quella del re di Spagna e dello abate di Clignì trapassata. Ma poi
che assai e una cosa e altra detta ne fu, il re, verso Lauretta riguardando, le
dimostrò che egli desiderava che ella dicesse; per la qual cosa Lauretta
prestamente incominciò.
Giovani donne, magnifiche
cose e belle sono state le raccontate, né mi pare che alcuna parte restata sia
a noi che abbiamo a dire, per la qual novellando vagar possiamo, sì son
tutte dall'altezza delle magnificenzie raccontate occupate, se noi ne'fatti
d'amore già non mettessimo mano, li quali ad ogni materia prestano
abbondantissima copia di ragionare; e per ciò, sì per questo e sì
per quello a che la nostra età principalmente ci dee inducere, una
magnificenzia da uno innamorato fatta mi piace di raccontarvi, la quale, ogni
cosa considerata, non vi parrà per avventura minore che alcune delle
mostrate, se quello è vero che i tesori si donino, le inimicizie si
dimentichino, e pongasi la propia vita, l'onore e la fama, ch'è molto
più, in mille pericoli, per potere la cosa amata possedere.
Fu adunque in Bologna,
nobilissima città di Lombardia, un cavaliere per virtù e per
nobiltà di sangue ragguardevole assai, il qual fu chiamato messer Gentil
Carisendi, il qual giovane d'una gentil donna chiamata madonna Catalina, moglie
d'un Niccoluccio Caccianimico, s'innamorò; e perché male dello amor
della donna era, quasi disperatosene, podestà chiamato di Modona, v'andò.
In questo tempo, non
essendo Niccoluccio a Bologna, e la donna ad una sua possessione, forse tre
miglia alla terra vicina, essendosi, per ciò che gravida era, andata a
stare, avvenne che subitamente un fiero accidente la soprapprese, il quale fu
tale e di tanta forza, che in lei spense ogni segno di vita, e per ciò
eziandio da alcun medico morta giudicata fu; e per ciò che le sue
più congiunte parenti dicevan sé avere avuto da lei non essere ancora di
tanto tempo gravida, che perfetta potesse essere la creatura, senza altro
impaccio darsi, quale ella era, in uno avello d'una chiesa ivi vicina dopo
molto pianto la sepellirono.
La qual cosa subitamente da
un suo amico fu significata a messer Gentile, il qual di ciò, ancora che
della sua grazia fosse poverissimo, si dolfe molto, ultimamente seco dicendo:
- Ecco, madonna Catalina,
tu se'morta; io, mentre che vivesti, mai un solo sguardo da te aver non potei;
per che, ora che difender non ti potrai, convien per certo che, così
morta come tu se'io alcun bacio li tolga.
E questo detto, essendo
già notte, dato ordine come la sua andata occulta fosse, con un suo
famigliare montato a cavallo, senza ristare colà pervenne dove sepellita
era la donna, e aperta la sepoltura, in quella diligentemente entrò, e
postolesi a giacere allato, il suo viso a quello della donna accostò, e
più volte con molte lagrime piagnendo il baciò. Ma, sì
come noi veggiamo l'appetito degli uomini a niun termine star contento, ma
sempre più avanti desiderare, e spezialmente quello degli amanti, avendo
costui seco diliberato di più non starvi, disse: - Deh! perché non le
tocco io, poi che io son qui, un poco il petto? Io non la debbo mai più
toccare, né mai più la toccai.
Vinto adunque da questo
appetito, le mise la mano in seno, e per alquanto spazio tenutalavi, gli parve
sentire alcuna cosa battere il cuore a costei. Il quale, poi che ogni paura
ebbe cacciata da sé, con più sentimento cercando, trovò costei
per certo non esser morta, quantunque poca e debole estimasse la vita; per che
soavemente quanto più potè, dal suo famigliare aiutato, del
monimento la trasse, e davanti al caval messalasi, segretamente in casa sua la
condusse in Bologna.
Era quivi la madre di lui,
valorosa e savia donna, la qual, poscia che dal figliuolo ebbe distesamente
ogni cosa udita, da pietà mossa, chetamente con grandissimi fuochi e con
alcun bagno in costei rivocò la smarrita vita. La quale come rivenne,
così la donna gittò un gran sospiro e disse:
- Ohimè! ora ove
sono io?
A cui la valente donna
rispose:
- Confortati, tu se'in buon
luogo.
Costei, in sé tornata e
dintorno guardandosi, non bene conoscendo dove ella fosse e veggendosi davanti
messer Gentile, piena di maraviglia la madre di lui pregò che le dicesse
in che guisa ella quivi venuta fosse; alla quale messer Gentile ordinatamente
contò ogni cosa. Di che ella, dolendosi, dopo alquanto quelle grazie gli
rendè che ella potè e appresso il pregò per quello amore
il quale egli l'aveva già portato, e per cortesia di lui, che in casa
sua ella da lui non ricevesse cosa che fosse meno che onor di lei e del suo
marito, e come il dì venuto fosse, alla sua propria casa la lasciasse
tornare.
Alla quale messer Gentile
rispose:
- Madonna, chente che il
mio disiderio si sia stato ne'tempi passati, io non intendo al presente né mai
per innanzi (poi che Iddio m'ha questa grazia conceduta che da morte a vita mi
v'ha renduta, essendone cagione l'amore che io v'ho per addietro portato) di
trattarvi né qui né altrove, se non come cara sorella; ma questo mio beneficio,
operato in voi questa notte, merita alcun guiderdone; e per ciò io
voglio che voi non mi neghiate una grazia la quale io vi domanderò.
Al quale la donna
benignamente rispose sé essere apparecchiata, solo che ella potesse, e onesta
fosse. Messer Gentile allora disse:
- Madonna, ciascun vostro
parente e ogni bolognese credono e hanno per certo voi esser morta, per che
niuna persona è la quale più a casa v'aspetti; e per ciò
io voglio di grazia da voi, che vi debbia piacere di dimorarvi tacitamente qui
con mia madre infino a tanto che io da Modona torni, che sarà tosto. E
la cagione per che io questo vi cheggio è per ciò che io intendo
di voi, in presenzia de'migliori cittadini di questa terra, fare un caro e uno
solenne dono al vostro marito.
La donna, conoscendosi al cavaliere
obbligata, e che la domanda era onesta, quantunque molto disiderasse di
rallegrare della sua vita i suoi parenti, si dispose a far quello che messer
Gentile domandava; e così sopra la sua fede gli promise.
E appena erano le parole
della sua risposta finite, che ella sentì il tempo del partorire esser
venuto; per che, teneramente dalla madre di messer Gentile aiutata, non molto
stante partorì un bel figliuol maschio; la qual cosa in molti doppi
moltiplicò la letizia di messer Gentile e di lei. Messer Gentile
ordinò che le cose opportune tutte vi fossero, e che così fosse
servita costei come se sua propia moglie fosse, e a Modona segretamente se ne
tornò.
Quivi fornito il tempo del
suo uficio e a Bologna dovendosene tornare, ordinò, quella mattina che
in Bologna entrar doveva, di molti e gentili uomini di Bologna, tra'quali fu
Niccoluccio Caccianimico, un grande e bel convito in casa sua; e tornato e
ismontato e con lor trovatosi, avendo similmente la donna ritrovata più
bella e più sana che mai, e il suo figlioletto star bene, con allegrezza
incomparabile i suoi forestieri mise a tavola, e quegli fece di più
vivande magnificamente servire.
Ed essendo già
vicino alla sua fine il mangiare, avendo egli prima alla donna detto quello che
di fare intendeva e con lei ordinato il modo che dovesse tenere, così
cominciò a parlare:
- Signori, io mi ricordo
avere alcuna volta inteso in Persia essere, secondo il mio giudicio, una
piacevole usanza, la quale è che, quando alcuno vuole sommamente onorare
il suo amico, egli lo 'nvita a casa sua e quivi gli mostra quella cosa, o
moglie o amica o figliuola o che che si sia, la quale egli ha più cara,
affermando che, se egli potesse, così come questo gli mostra, molto
più volentieri gli mosterria il cuor suo; la quale io intendo di volere
osservare in Bologna.
Voi, la vostra mercé, avete
onorato il mio convito, e io intendo onorar voi alla persesca, mostrandovi la
più cara cosa che io abbia nel mondo o che io debbia aver mai. Ma prima
che io faccia questo, vi priego mi diciate quello che sentite d'un dubbio il
quale io vi moverò. Egli è alcuna persona la quale ha in casa un
suo buono e fedelissimo servidore, il quale inferma gravemente; questo cotale,
senza attendere il fine del servo infermo, il fa portare nel mezzo della strada,
né più ha cura di lui; viene uno strano, è mosso a compassione
dello 'nfermo, e sel reca a casa, e con gran sollicitudine e con ispesa il
torna nella prima sanità. Vorrei io ora sapere se, tenendolsi e usando i
suoi servigi, il primo signore si può a buona equità dolere o
ramaricare del secondo, se egli, raddomandandolo, rendere nol volesse.
I gentili uomini, fra sé
avuti vari ragionamenti, e tutti in una sentenzia concorrendo, a Niccoluccio
Caccianimico, per ciò che bello e ornato favellatore era, commisero la
risposta. Costui, commendata primieramente l'usanza di Persia, disse sé con gli
altri insieme essere in questa oppinione, che il primo signore niuna ragione
avesse più nel suo servidore, poi che in sì fatto caso non
solamente abbandonato, ma gittato l'avea; e che, per li benefici del secondo
usati, giustamente parea di lui il servidore divenuto, per che, tenendolo,
niuna noia, niuna forza, niuna ingiuria faceva al primiero. Gli altri tutti che
alle tavole erano, ché v'avea di valenti uomini, tutti insieme dissono sé tener
quello che da Niccoluccio era stato risposto.
Il cavaliere, contento di
tal risposta e che Niccoluccio l'avesse fatta, affermò sé essere in
quella oppinione altressì, e appresso disse:
- Tempo è omai che
io secondo la promessa v'onori.- E chiamati due de'suoi famigliari, gli
mandò alla donna, la quale egli egregiamente avea fatta vestire e
ornare, e mandolla pregando che le dovesse piacere di venire a far lieti i
gentili uomini della sua presenzia. La qual, preso in braccio il figliolin suo
bellissimo, da'due famigliari accompagnata, nella sala venne, e come al
cavalier piacque, appresso ad un valente uomo si pose a sedere; ed egli disse:
- Signori, questa è
quella cosa che io ho più cara e intendo d'avere, che alcun'altra;
guardate se egli vi pare che io abbia ragione.
I gentili uomini, onoratola
e commendatola molto, e al cavaliere affermato che cara la doveva avere, la
cominciarono a riguardare; e assai ve n'eran che lei avrebbon detto colei chi
ella era, se lei per morta non avessero avuta. Ma sopra tutti la riguardava
Niccoluccio, il quale, essendosi alquanto partito il cavaliere, sì come
colui che ardeva di sapere chi ella fosse, non potendosene tenere, la
domandò se bolognese fosse o forestiera.
La donna, sentendosi al suo
marito domandare, con fatica di risponder si tenne; ma pur, per servare
l'ordine postole, tacque. Alcun altro la domandò se suo era quel
figlioletto, e alcuno se moglie fosse di messer Gentile, o in altra maniera sua
parente; a'quali niuna risposta fece.
Ma, sopravvegnendo messer
Gentile, disse alcun de'suoi forestieri:
- Messere, bella cosa
è questa vostra, ma ella ne par mutola; è ella così?
- Signori,- disse messer
Gentile - il non avere ella al presente parlato è non piccolo argomento
della sua virtù.
- Diteci adunque voi,-
seguitò colui - chi ella è.
Disse il cavaliere:
- Questo farò io
volentieri, sol che voi mi promettiate, per cosa che io dica, niuno doversi
muovere del luogo suo fino a tanto che io non ho la mia novella finita.
Al quale avendol promesso
ciascuno, ed essendo già levate le tavole, messer Gentile allato alla
donna sedendo, disse:
- Signori, questa donna
è quel leale e fedel servo, del quale io poco avanti vi fe' la dimanda;
la quale da'suoi poco avuta cara, e così come vile e più non utile
nel mezzo della strada gittata, da me fu ricolta, e con la mia sollicitudine e
opera delle mani la trassi alla morte, e Iddio, alla mia buona affezion
riguardando, di corpo spaventevole così bella divenir me l'ha fatta. Ma
acciò che voi più apertamente intendiate come questo avvenuto mi
sia, brievemente vel farò chiaro.
E cominciatosi dal suo
innamorarsi di lei, ciò che avvenuto era infino allora distintamente
narrò con gran maraviglia degli ascoltanti, e poi soggiunse:
- Per le quali cose, se
mutata non avete sentenzia da poco in qua, e Niccoluccio spezialmente, questa
donna meritamente è mia, né alcuno con giusto titolo me la può
raddomandare.
A questo niun rispose, anzi
tutti attendevan quello che egli più avanti dovesse dire. Niccoluccio e
degli altri che v'erano e la donna, di compassion lagrimavano; ma messer
Gentile, levatosi in piè e preso nelle sue braccia il picciol
fanciullino e la donna per la mano, e andato verso Niccoluccio, disse:
- Leva su, compare, io non
ti rendo tua mogliere, la quale i tuoi parenti e suoi gittarono via; ma io ti
voglio donare questa donna mia comare con questo suo figlioletto, il quale io
son certo che fu da te generato, e il quale io a battesimo tenni e nomina'lo
Gentile; e priegoti che, perch'ella sia nella mia casa vicin di tre mesi stata,
che ella non ti sia men cara; ché io ti giuro per quello Iddio, che forse
già di lei innamorar mi fece acciò che il mio amore fosse,
sì come stato è, cagion della sua salute, che ella mai o col
padre o con la madre o con teco più onestamente non visse, che ella
appresso di mia madre ha fatto nella mia casa.
E questo detto, si rivolse
alla donna e disse:
- Madonna, omai da ogni
promessa fatami io v'assolvo, e libera vi lascio di Niccoluccio -; e rimessa la
donna e 'l fanciul nelle braccia di Niccoluccio, si tornò a sedere.
Niccoluccio disiderosamente
ricevette la sua donna e 'l figliuolo, tanto più lieto quanto più
n'era di speranza lontano, e, come meglio potè e seppe, ringraziò
il cavaliere; e gli altri che tutti di compassion lagrimavano, di questo il
commendaron molto, e commendato fu da chiunque l'udì.
La donna con maravigliosa
festa fu in casa sua ricevuta, e quasi risuscitata con ammirazione fu
più tempo guatata da'bolognesi; e messer Gentile sempre amico visse di
Niccoluccio e de'suoi parenti e di quei della donna.
Che adunque qui, benigne
donne, direte? Estimerete l'aver donato un re lo scettro e la corona, e uno
abate senza suo costo aver riconciliato un malfattore al papa, o un vecchio
porgere la sua gola al coltello del nimico, essere stato da agguagliare al
fatto di messer Gentile? Il quale giovane e ardente, e giusto titolo parendogli
avere in ciò che la traccutaggine altrui aveva gittato via ed egli per
la sua buona fortuna aveva ricolto, non solo temperò onestamente il suo
fuoco, ma liberalmente quello che egli soleva con tutto il pensier disiderare e
cercar di rubare, avendolo, restituì. Per certo niuna delle già
dette a questa mi par simigliante.
Giornata decima - Novella
quinta
Madonna Dianora domanda a
messer Ansaldo un giardino di gennaio bello come di maggio. Messer Ansaldo con
l'obligarsi ad uno nigromante gliele dà. Il marito le concede che ella
faccia il piacere di messer Ansaldo, il quale, udita la liberalità del
marito, l'assolve della promessa, e il nigromante, senza volere alcuna cosa del
suo, assolve messer Ansaldo
Per ciascuno della lieta
brigata era già stato messer Gentile con somme lode tolto infino al
cielo, quando il re impose ad Emilia che seguisse, la qual baldanzosamente,
quasi di dire disiderosa, così cominciò.
Morbide donne, niun con
ragione dirà messer Gentile non aver magnificamente operato, ma il voler
dire che più non si possa, il più potersi non fia forse
malagevole a mostrarsi; il che io avviso in una mia novelletta di raccontarvi.
In Frioli, paese,
quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare
fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella
e nobile donna, chiamata madonna Dianora, e moglie d'un gran ricco uomo
nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria. E meritò questa
donna per lo suo valore d'essere amata sommamente da un nobile e gran barone,
il quale aveva nome messer Ansaldo Gradense, uomo d'alto affare, e per arme e
per cortesia conosciuto per tutto. Il quale, ferventemente amandola e ogni cosa
faccendo che per lui si poteva per essere amato da lei, e a ciò spesso
per sue ambasciate sollicitandola, invano si faticava. Ed essendo alla donna
gravi le sollicitazioni del cavaliere, e veggendo che, per negare ella ogni
cosa da lui domandatole, esso per ciò d'amarla né di sollicitarla si
rimaneva, con una nuova e al suo giudicio impossibil domanda si pensò di
volerlosi torre da dosso. E ad una femina che a lei da parte di lui spesse volte
veniva, disse un dì così:
- Buona femina, tu m'hai
molte volte affermato che messer Ansaldo sopra tutte le cose m'ama e
maravigliosi doni m'hai da sua parte proferti, li quali voglio che si rimangano
a lui, per ciò che per quegli mai ad amar lui né a compiacergli mi recherei;
e se io potessi esser certa che egli cotanto m'amasse quanto tu di', senza
fallo io mi recherei ad amar lui e a far quello che egli volesse; e per
ciò, dove di ciò mi volesse far fede con quello che io
domanderò, io sarei a'suoi comandamenti presta.
Disse la buona femina:
- Che è quello,
madonna, che voi disiderate che el faccia?
Rispose la donna:
- Quello che io disidero
è questo. Io voglio del mese di gennaio che viene, appresso di questa
terra un giardino pieno di verdi erbe, di fiori e di fronzuti albori, non
altrimenti fatto che se di maggio fosse; il quale dove egli non faccia, né te
né altri mi mandi mai più; per ciò che, se più mi
stimolasse, come io infino a qui del tutto al mio marito e a'miei parenti
tenuto ho nascoso, così dolendomene loro, di levarlomi da dosso
m'ingegnerei.
Il cavaliere, udita la
domanda e la proferta della sua donna, quantunque grave cosa e quasi
impossibile a dover fare gli paresse e conoscesse per niun'altra cosa
ciò essere dalla donna addomandato, se non per torlo dalla sua speranza,
pur seco propose di voler tentare quantunque fare se ne potesse; e in
più parti per lo mondo mandò cercando se in ciò alcun si
trovasse che aiuto o consiglio gli desse; e vennegli uno alle mani il quale,
dove ben salariato fosse, per arte nigromantica profereva di farlo. Col quale
messer Ansaldo per grandissima quantità di moneta convenutosi, lieto
aspettò il tempo postogli. Il qual venuto, essendo i freddi grandissimi
e ogni cosa piena di neve e di ghiaccio, il valente uomo in un bellissimo prato
vicino alla città con sue arti fece sì, la notte alla quale il
calendi gennaio seguitava, che la mattina apparve, secondo che color che 'l
vedevan testimoniavano, un de'più be'giardini che mai per alcun fosse
stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d'ogni maniera. Il quale come
messere Ansaldo lietissimo ebbe veduto, fatto cogliere de'più be'frutti
e de più be'fior che v'erano, quegli occultamente fe'presentare alla sua
donna, e lei invitare a vedere il giardino da lei addomandato, acciò che
per quel potesse lui amarla conoscere, e ricordarsi della promission fattagli e
con saramento fermata, e come leal donna poi procurar d'attenergliele.
La donna, veduti i fiori
e'frutti, e già da molti del maraviglioso giardino avendo udito dire,
s'incominciò a pentere della sua promessa. Ma, con tutto il pentimento,
sì come vaga di veder cose nuove, con molte altre donne della
città andò il giardino a vedere, e non senza maraviglia
commendatolo assai, più che altra femina dolente a casa se ne
tornò, a quel pensando a che per quello era obbligata. E fu il dolore
tale, che non potendol ben dentro nascondere, convenne che, di fuori apparendo,
il marito di lei se n'accorgesse, e volle del tutto da lei di quello saper la
cagione. La donna per vergogna il tacque molto; ultimamente, costretta,
ordinatamente gli aperse ogni cosa.
Gilberto primieramente,
ciò udendo, si turbò forte; poi, considerata la pura
ìntenzion della donna, con miglior consiglio, cacciata via l'ira. disse:
- Dianora, egli non
è atto di savia né d'onesta donna d'ascoltare alcuna ambasciata delle
così fatte né di pattovire sotto alcuna condizione con alcuno la sua
castità. Le parole per gli orecchi dal cuore ricevute hanno maggior
forza che molti non stimano, e quasi ogni cosa diviene agli amanti possibile.
Male adunque facesti prima ad ascoltare e poscia a pattovire; ma per ciò
che io conosco la purità dello animo tuo, per solverti dal legame della
promessa, quello ti concederò che forse alcuno altro non farebbe;
inducendomi ancora la paura del nigromante, al qual forse messer Ansaldo, se tu
il beffassi, far ci farebbe dolenti. Voglio io che tu a lui vada, e, se per
modo alcun puoi, t'ingegni di far che, servata la tua onestà, tu sii da
questa promessa disciolta; dove altramenti non si potesse, per questa volta il
corpo, ma non l'animo, gli concedi.
La donna, udendo il marito,
piagneva e negava sé cotal grazia voler da lui. A Gilberto, quantunque la donna
il negasse molto, piacque che così fosse. Per che, venuta la seguente
mattina, in su l'aurora, senza troppo ornarsi, con due suoi famigliari innanzi
e con una cameriera appresso, n'andò la donna a casa messere Ansaldo. Il
quale, udendo la sua donna a lui esser venuta, si maravigliò forte, e
levatosi e fatto il nigromante chiamare, gli disse:
- Io voglio che tu vegghi
quanto di bene la tua arte m'ha fatto acquistare -. E incontro andatile, senza
alcun disordinato appetito seguire, con reverenza onestamente la ricevette, e
in una bella camera ad un gran fuoco se n'entrar tutti; e fatto lei porre a seder,
disse:
- Madonna, io vi priego, se
il lungo amore il quale io v'ho portato merita alcun guiderdone, che non vi sia
noia d'aprirmi la vera cagione che qui a così fatta ora v'ha fatta
venire e con cotal compagnia.
La donna, vergognosa e
quasi con le lagrime sopra gli occhi, rispose:
- Messere, né amor che io
vi porti né promessa fede mi menan qui, ma il comandamento del mio marito; il
quale, avuto più rispetto alle fatiche del vostro disordinato amore che
al suo e mio onore, mi ci ha fatta venire; e per comandamento di lui disposta
sono per questa volta ad ogni vostro piacere.
Messer Ansaldo, se prima si
maravigliava, udendo la donna molto più s'incominciò a
maravigliare; e dalla liberalità di Gilberto commosso, il suo fervore in
compassione cominciò a cambiare, e disse:
- Madonna, unque a Dio non
piaccia, poscia che così è come voi dite, che io sia guastatore
dello onore di chi ha compassione al mio amore; e per ciò l'esser qui
sarà, quanto vi piacerà, non altramenti che se mia sorella foste,
e, quando a grado vi sarà, liberamente vi potrete partire, sì
veramente che voi al vostro marito di tanta cortesia, quanta la sua è
stata, quelle grazie renderete che convenevoli crederete, me sempre per lo
tempo avvenire avendo per fratello e per servidore.
La donna, queste parole
udendo, più lieta che mai, disse:
- Niuna cosa mi potè
mai far credere, avendo riguardo a'vostri costumi, che altro mi dovesse seguir
della mia venuta che quello che io veggio che voi ne fate, di che io vi
sarò sempre obbligata -; e preso commiato, onorevolmente accompagnata si
tornò a Gilberto e raccontogli ciò che avvenuto era; di che
strettissima e leale amistà lui e messer Ansaldo congiunse.
Il nigromante, al quale
messer Ansaldo di dare il promesso premio s'apparecchiava, veduta la
liberalità di Gilberto verso messer Ansaldo e quella di messer Ansaldo
verso la donna, disse:
- Già Dio non
voglia, poi che io ho veduto Gilberto liberale del suo onore e voi del vostro
amore, che io similmente non sia liberale del mio guiderdone; e per ciò,
conoscendo quello a voi star bene, intendo che vostro sia.
Il cavaliere si
vergognò e ingegnossi a suo potere di fargli o tutto o parte prendere;
ma poi che in vano si faticava, avendo il nigromante dopo il terzo dì
tolto via il suo giardino, e piacendogli di partirsi, il comandò a Dio;
e spento del cuore il concupiscibile amore verso la donna, acceso d'onesta
carità si rimase.
Che direm qui, amorevoli
donne? Preporremo la quasi morta donna e il già rattiepidito amore per
la spossata speranza, a questa liberalità di messer Ansaldo, più
ferventemente che mai amando ancora e quasi da più speranza acceso e
nelle sue mani tenente la preda tanto seguita? Sciocca cosa mi parrebbe a dover
creder che quella liberalità a questa comparar si potesse.
Giornata decima - Novella
sesta
Il re Carlo vecchio,
vittorioso, d'una giovinetta innamoratosi, vergognandosi del suo folle
pensiero, lei e una sua sorella onorevolmente marita.
Chi potrebbe pienamente
raccontare i vari ragionamenti tra le donne stati, qual maggior
liberalità usasse o Gilberto o messer Ansaldo o il nigromante, intorno
a'fatti di madonna Dianora? troppo sarebbe lungo. Ma poi che il re alquanto
disputare ebbe conceduto, alla Fiammetta guardando, comandò che
novellando traesse lor di quistione; la quale, niuno indugio preso,
incominciò.
Splendide donne, io fui
sempre in oppinione che nelle brigate, come la nostra è, si dovesse
sì largamente ragionare che la troppa strettezza della intenzion delle
cose dette non fosse altrui materia di disputare. Il che molto più si
conviene nelle scuole tra gli studianti che tra noi, le quali appena alla rocca
e al fuso bastiamo. E per ciò io, che in animo alcuna cosa dubbiosa
forse avea, veggendovi per le già dette alla mischia, quella
lascerò stare, e una ne dirò, non mica d'uomo di poco affare, ma
d'un valoroso re, quello che egli cavallerescamente operasse, in nulla mancando
il suo onore.
Ciascuna di voi molte volte
può avere udito ricordare il re Carlo vecchio, ovver primo, per la cui
magnifica impresa e poi per la gloriosa vittoria avuta del re Manfredi furon di
Firenze i ghibellin cacciati e ritornaronvi i guelfi. Per la qual cosa un
cavalier, chiamato messer Neri degli Uberti, con tutta la sua famiglia e con
molti denari uscendone, non si volle altrove che sotto le braccia del re Carlo
riducere; e per essere in solitario luogo e quivi finire in riposo la vita sua,
a Castello a mare di Stabia se n'andò; e ivi forse una balestrata
rimosso dall'altre abitazioni della terra, tra ulivi e nocciuoli e castagni,
de'quali la contrada è abondevole, comperò una possessione, sopra
la quale un bel casamento e agiato fece, e allato a quello un dilettevole
giardino, nel mezzo del quale, a nostro modo, avendo d'acqua viva copia, fece
un bel vivaio e chiaro, e quello di molto pesce riempiè leggiermente.
E a niun'altra cosa
attendendo che a fare ogni dì più bello il suo giardino, avvenne
che il re Carlo, nel tempo caldo, per riposarsi alquanto, a Castello a mar se
n'andò; dove udita la bellezza del giardino di messer Neri,
disiderò di vederlo. E avendo udito di cui era, pensò che, per
ciò che di parte avversa alla sua era il cavaliere, più
familiarmente con lui si volesse fare, e mandogli a dire che con quattro
compagni chetamente la seguente sera con lui voleva cenare nel suo giardino.
Il che a messer Neri fu
molto caro, e magnificamente avendo apparecchiato e con la sua famiglia avendo
ordinato ciò che far si dovesse, come più lietamente potè
e seppe, il re nel suo bel giardino ricevette. Il qual, poi che il giardin
tutto e la casa di messer Neri ebbe veduta e commendata, essendo le tavole
messe allato al vivaio, ad una di quelle, lavato, si mise a sedere, e al conte
Guido di Monforte, che l'un de'compagni era, comandò che dall'un de'lati
di lui sedesse, e messer Neri dall'altro, e ad altri tre, che con lui eran
venuti, comandò che servissero secondo l'ordine posto da messer Neri.
Le vivande vi vennero
dilicate, e i vini vi furono ottimi e preziosi, e l'ordine bello e laudevole
molto senza alcun sentore e senza noia; il che il re commendò molto.
E mangiando egli
lietamente, e del luogo solitario giovandogli, e nel giardino entrarono due
giovinette d'età forse di quattordici anni l'una, bionde come fila
d'oro, e co'capelli tutti inanellati e sopr'essi sciolti una leggiera
ghirlandetta di provinca, e nelli lor visi più tosto agnoli parevan che
altra cosa, tanto gli avevan dilicati e belli; ed eran vestite d'un vestimento
di lino sottilissimo e bianco come neve in su le carni, il quale dalla cintura
in su era strettissimo e da indi giù largo a guisa d'un padiglione e
lungo infino a'piedi. E quella che dinanzi veniva recava in su le spalle un
paio di vangaiole, le quali con la sinistra man tenea, e nella destra aveva un
baston lungo. L'altra che veniva appresso aveva sopra la spalla sinistra una
padella, e sotto quel braccio medesimo un fascetto di legne, e nella mano un
treppiede, e nell'altra mano uno utel d'olio e una facellina accesa. Le quali il
re vedendo si maravigliò, e sospeso attese quello che questo volesse
dire.
Le giovinette, venute
innanzi onestamente e vergognose, fecero la reverenzia al re; e appresso
là andatesene onde nel vivaio s'entrava, quella che la padella aveva,
postala giù e l'altre cose appresso, prese il baston che l'altra portava
e amendune nel vivaio, l'acqua del quale loro infino al petto aggiugnea, se
n'entrarono.
Uno de'famigliari di messer
Neri prestamente quivi accese il fuoco, e posta la padella sopra il
treppiè e dell'olio messovi, cominciò ad aspettare che le giovani
gli gittasser del pesce. Delle quali, l'una frugando in quelle parti dove
sapeva che i pesci si nascondevano e l'altra le vangaiole parando, con
grandissimo piacere del re, che ciò attentamente guardava, in piccolo
spazio di tempo presero pesce assai; e al famigliar gittatine che quasi vivi
nella padella gli metteva, sì come ammaestrate erano state, cominciarono
a prendere de'più belli e a gittare su per la tavola davanti al re e al
conte Guido e al padre.
Questi pesci su per la
mensa guizzavano, di che il re aveva maraviglioso piacere, e similmente egli
prendendo di questi, alle giovani cortesemente gli gittava indietro; e
così per alquanto spazio cianciarono, tanto che il famigliare quello
ebbe cotto che dato gli era stato, il qual più per uno intramettere, che
per molto cara o dilettevol vivanda, avendol messer Neri ordinato, fu messo
davanti al re.
Le fanciulle, veggendo il
pesce cotto e avendo assai pescato, essendosi tutto il bianco vestimento e sottile
loro appiccato alle carni, né quasi cosa alcuna del dilicato lor corpo celando,
usciron del vivaio, e ciascuna le cose recate avendo riprese, davanti al re
vergognosamente passando, in casa se ne tornarono.
Il re e 'l conte e gli
altri che servivano, avevano molto queste giovinette considerate, e molto in sé
medesimo l'avea lodate ciascuno per belle e per ben fatte, e oltre a ciò
per piacevoli e per costumate, ma sopra ad ogn'altro erano al re piaciute. Il
quale sì attentamente ogni parte del corpo loro aveva considerata,
uscendo esse dell'acqua, che chi allora l'avesse punto non si sarebbe sentito.
E più a loro ripensando, senza sapere chi si fossero né come, si
sentì nel cuor destare un ferventissimo disidero di piacer loro, per lo
quale assai ben conobbe sé divenire innamorato, se guardia non se ne prendesse,
né sapeva egli stesso qual di lor due si fosse quella che più gli
piacesse, sì era di tutte cose l'una simiglievole all'altra.
Ma, poi che alquanto fu
sopra questo pensier dimorato, rivolto a messer Neri, il domandò chi
fossero le due damigelle; a cui messer Neri rispose:
- Monsignore, queste son
mie figliuole ad un medesimo parto nate, delle quali l'una ha nome Ginevra la
bella e l'altra Isotta la bionda .- A cui il re le commendò molto,
confortandolo a maritarle. Dal che messer Neri, per più non poter, si
scusò.
E in questo, niuna cosa
fuor che le frutte restando a dar nella cena, vennero le due giovinette in due
giubbe di zendado bellissime con due grandissimi piattelli d'argento in mano
pieni di vari frutti, secondo che la stagion portava, e quegli davanti al re
posarono sopra la tavola. E questo fatto, alquanto indietro tiratesi,
cominciarono a cantare un suono, le cui parole cominciano:
Là ov'io son giunto,
Amore,
non si poria contare
lungamente,
con tanta dolcezza e
sì piacevolmente, che al re, che con diletto le riguardava e ascoltava,
pareva che tutte le gerarchie degli angeli quivi fossero discese a cantare. E
quel detto, inginocchiatesi, reverentemente commiato domandarono al re, il
quale, ancora che la lor partita gli gravasse, pure in vista lietamente il
diede.
Fornita adunque la cena e
il re co'suoi compagni rimontati a cavallo e messer Neri lasciato, ragionando
d'una cosa e d'altra, al reale ostiere se ne tornarono. Quivi, tenendo il re la
sua affezion nascosa, né per grande affare che sopravvenisse potendo dimenticar
la bellezza e la piacevolezza di Ginevra la bella, per amor di cui la sorella a
lei simigliante ancor amava, sì nell'amorose panie s'invescò, che
quasi ad altro pensar non poteva; e altre cagioni dimostrando, con messer Neri
teneva una stretta dimestichezza e assai sovente il suo bel giardin visitava
per veder la Ginevra.
E già più
avanti sofferir non potendo, ed essendogli non sappiendo altro modo vedere, nel
pensier caduto di dover, non solamente l'una, ma amendune le giovinette al
padre torre, e il suo amore e la sua intenzione fe'manifesta al conte Guido, il
quale, per ciò che valente uomo era, gli disse:
- Monsignore, io ho gran
maraviglia di ciò che voi mi dite, e tanto ne l'ho maggiore che un altro
non avrebbe, quanto mi par meglio dalla vostra fanciullezza infino a questo
dì avere i vostri costumi conosciuti, che alcun altro. E non essendomi
paruto giammai nella vostra giovanezza, nella quale amor più
leggiermente doveva i suoi artigli ficcare, aver tal passion conosciuta,
sentendovi ora che già siete alla vecchiezza vicino, m'è
sì nuovo e sì strano che voi per amore amiate, che quasi un
miracol mi pare; e se a me di ciò cadesse il riprendervi, io so bene
ciò che io ve ne direi, avendo riguardo che voi ancora siete con l'arme
in dosso nel regno nuovamente acquistato, tra nazion non conosciuta e piena
d'inganni e di tradimenti, e tutto occupato di grandissime sollicitudini e
d'alto affare, né ancora vi siete potuto porre a sedere, e intra tante cose
abbiate fatto luogo al lusinghevole amore.
Questo non è atto di
re magnanimo, anzi d'un pusillanimo giovinetto. E oltre a questo, che è
molto peggio, dite che diliberato avete di dovere le due figliuole torre al
povero cavaliere, il quale, in casa sua, oltre al poter suo v'ha onorato, e,
per più onorarvi, quelle quasi ignude v'ha dimostrate, testificando per
quello quanta sia la fede che egli ha in voi, e che esso fermamente creda voi
essere re e non lupo rapace.
Ora evvi così tosto
della memoria caduto le violenze fatte alle donne da Manfredi avervi l'entrata
aperta in questo regno? Qual tradimento si commise giammai più degno
d'etterno supplicio, che saria questo, che voi a colui che v'onora togliate il
suo onore e la sua speranza e la sua consolazione? Che si direbbe di voi, se
voi il faceste? Voi forse estimate che sufficiente scusa fosse il dire: - Io il
feci per ciò che egli è ghibellino -. Ora è questo della
giustizia dei re, che coloro che nelle lor braccia ricorrono in cotal forma,
chi che essi si sieno, in così fatta guisa si trattino? Io vi ricordo,
re, che grandissima gloria v'è aver vinto Manfredi e sconfitto
Corradino, ma molto maggiore è sé medesimo vincere; e per ciò
voi, che avete gli altri a correggere, vincete voi medesimo e questo appetito
raffrenate, né vogliate con così fatta macchia ciò che
gloriosamente acquistato avete guastare.
Queste parole amaramente
punsero l'animo del re, e tanto più l'afflissero quanto più vere
le conoscea; per che, dopo alcun caldo sospiro, disse:
- Conte, per certo
ogn'altro nimico, quantunque forte estimo che sia al bene ammaestrato guerriere
assai debole e agevole a vincere a rispetto del suo medesimo appetito; ma,
quantunque l'affanno sia grande e la forza bisogni inestimabile, sì
m'hanno le vostre parole spronato, che conviene, avanti che troppi giorni
trapassino, che io vi faccia per opera vedere che, come io so altrui vincere,
così similmente so a me medesimo soprastare.
Né molti giorni appresso a
queste parole passarono, che tornato il re a Napoli, sì per torre a sé
stesso materia d'operar vilmente alcuna cosa e sì per premiare il
cavaliere dello onore ricevuto da lui, quantunque duro gli fosse il fare altrui
possessor di quello che egli sommamente per sé disiderava, nondimen si dispose
di voler maritare le due giovani, e non come figliuole di messer Neri, ma come
sue. E con piacer di messer Neri, senza niuno indugio magnificamente dotatele,
Ginevra la bella diede a messer Maffeo da Palizzi, e Isotta la bionda a messer
Guiglielmo della Magna, nobili cavalieri e gran baron ciascuno; e loro
assegnatele, con dolore inestimabile in Puglia se n'andò, e con fatiche
continue tanto e sì macerò il suo fiero appetito, che spezzate e
rotte l'amorose catene, per quanto viver dovea libero rimase da tal passione.
Saranno forse di quei che
diranno piccola cosa essere ad un re l'aver maritate due giovinette; e io il
consentirò; ma molto grande e grandissima la dirò, se diremo un
re innamorato questo abbia fatto, colei maritando cui egli amava, senza aver
preso a pigliare del suo amore fronda o fiore o frutto. Così adunque il
magnifico re operò, il nobile cavaliere altamente premiando, l'amate
giovinette laudevolmente onorando, e sé medesimo fortemente vincendo.
Giornata decima - Novella
settima
Il re Piero, sentito il
fervente amore portatogli dalla Lisa inferma, le conforta, e appresso ad un
gentil giovane la marita, e lei nella fronte baciata, sempre poi si dice suo
cavaliere.
Venuta era la Fiammetta al
fin della sua novella, e commendata era stata molto la virile magnificenzia del
re Carlo (quantunque alcuna, che quivi era ghibellina, commendar nol volesse),
quando Pampinea, avendogliele il re imposto, incominciò.
Niun discreto,
ragguardevoli donne, sarebbe, che non dicesse ciò che voi dite del buon
re Carlo, se non costei che gli vuol mal per altro; ma, per ciò che a me
va per la memoria una cosa non meno commendevole forse che questa, fatta da un
suo avversario ancora in una nostra giovane fiorentina, quella mi piace di
raccontarvi.
Nel tempo che i franceschi
di Cicilia furon cacciati, era in Palermo un nostro fiorentino speziale,
chiamato Bernardo Puccini, ricchissimo uomo, il quale d'una sua donna senza
più aveva una figliuola bellissima e già da marito. Ed essendo il
re Pietro di Raona signor della isola divenuto, faceva in Palermo maravigliosa
festa co'suoi baroni. Nel la qual festa armeggiando egli alla catalana, avvenne
che la figliuola di Bernardo, il cui nome era Lisa, da una finestra dove ella
era con altre donne, il vide correndo egli, e sì maravigliosamente le
piacque, che, una volta e altra poi riguardandolo, di lui ferventemente
s'innamorò. E cessata la festa, ed ella in casa del padre standosi, a
niun'altra cosa poteva pensare se non a questo suo magnifico e alto amore. E
quello che intorno a ciò più l'offendeva, era il cognoscimento
della sua infima condizione, il quale niuna speranza appena le lasciava
pigliare di lieto fine; ma non per tanto da amare il re indietro si voleva tirare,
e per paura di maggior noia a manifestar non l'ardiva.
Il re di questa cosa non
s'era accorto né si curava; di che ella, oltre a quello che si potesse
estimare, portava intollerabil dolore.
Per la qual cosa avvenne
che, crescendo in lei amor continuamente e una malinconia sopr'altra
aggiugnendosi, la bella giovane più non potendo infermò, ed
evidentemente di giorno in giorno, come la neve al sole, si consumava.
Il padre di lei e la madre,
dolorosi di questo accidente, con conforti continui e con medici e con medicine
in ciò che si poteva l'atavano; ma niente era, per ciò che ella,
sì come del suo amore disperata, aveva eletto di più non volere
vivere. Ora avvenne che, offerendole il padre di lei ogni suo piacere, le venne
in pensiero, se acconciamente potesse, di volere il suo amore e il suo
proponimento, prima che morisse, fare al re sentire; e per ciò un
dì il pregò che egli le facesse venire Minuccio d'Arezzo.
Era in que'tempi Minuccio
tenuto un finissimo cantatore e sonatore, e volentieri dal re Pietro veduto, il
quale Bernardo avvisò che la Lisa volesse per udirlo alquanto e sonare e
cantare; per che, fattogliele dire, egli, che piacevole uomo era, incontanente
a lei venne; e poi che alquanto con amorevoli parole confortata l'ebbe, con una
sua vivuola dolcemente sonò alcuna stampita e cantò appresso
alcuna canzone; le quali allo amor della giovane erano fuoco e fiamma,
là dove egli la credea consolare.
Appresso questo disse la
giovane che a lui solo alquante parole voleva dire; per che, partitosi ciascun
altro ella gli disse:
- Minuccio, io ho eletto te
per fidissimo guardatore d'un mio segreto, sperando primieramente che tu quello
a niuna persona, se non a colui che io ti dirò, debbi manifestar
giammai; e appresso, che in quello che per te si possa tu mi debbi aiutare:
così ti priego.
Dei adunque sapere,
Minuccio mio, che il giorno che il nostro signor re Pietro fece la gran festa
della sua esaltazione, mel venne, armeggiando egli, in sì forte punto
veduto, che dello amor di lui mi s'accese un fuoco nell'anima, che al partito
m'ha recata che tu mi vedi; e conoscendo io quanto male il mio amore ad un re
si convenga, e non potendolo non che cacciare ma diminuire, ed egli essendomi
oltre modo grave a comportare, ho per minor doglia eletto di voler morire, e
così farò.
E' il vero che io
fieramente n'andrei sconsolata, se prima egli nol sapesse; e non sappiendo per
cui potergli questa mia disposizion fargli sentire più acconciamente che
per te, a te commettere la voglio, e priegoti che non rifiuti di farlo, e
quando fatto l'avrai assapere mel facci, acciò che io, consolata
morendo, mi sviluppi da queste pene -: e questo detto piagnendo, si tacque.
Maravigliossi Minuccio
dell'altezza dello animo di costei e del suo fiero proponimento, e
increbbenegli forte, e subitamente nello animo corsogli come onestamente la
poteva servire, le disse:
- Lisa, io t'obbligo la mia
fede, della quale vivi sicura che mai ingannata non ti troverrai, e appresso
commendandoti di sì alta impresa, come è aver l'animo posto a
così gran re, t'offero il mio aiuto, col quale io spero, dove tu
confortar ti vogli, sì adoperare, che, avanti che passi il terzo giorno
ti credo recar novelle che sommamente ti saran care; e per non perder tempo,
voglio andare a cominciare.
La Lisa, di ciò da
capo pregatol molto e promessogli di confortarsi, disse che s'andasse con Dio.
Minuccio partitosi,
ritrovò un Mico da Siena assai buon dicitore in rima a quei tempi, e con
prieghi lo strinse a far la canzonetta che segue:
Muoviti, Amore, e vattene a
messere,
e contagli le pene ch'io
sostegno;
digli ch'a morte vegno,
celando per temenza il mio
volere.
Merzede, Amore, a man
giunte ti chiamo,
ch'a messer vadi là
dove dimora.
Di'che sovente lui disio e
amo,
sì dolcemente lo cor
m'innamora;
e per lo foco, ond'io tutta
m'infiamo,
temo morire, e già
non saccio l'ora
ch'i'parta da sì
grave pena dura,
la qual sostegno per lui
disiando,
temendo e vergognando.
Deh! il mal mio, per Dio,
fagli assapere.
Poi che di lui, Amor,
fu'innamorata,
non mi donasti ardir quanto
temenza
che io potessi sola una
fiata
lo mio voler dimostrare in
parvenza
a quegli che mi tien tanto
affannata;
così morendo il
morir m'è gravenza.
Forse che non gli saria
spiacenza,
se el sapesse quanta pena
i'sento,
s'a me dato ardimento
avesse in fargli mio stato
sapere.
Poi che 'n piacere non ti
fu, Amore,
ch'a me donassi tanta
sicuranza,
ch'a messer far savessi lo
mio core
lasso, per messo mai o per
sembianza,
mercé ti chero, dolce mio
signore,
che vadi a lui, e donagli
membranza
del giorno ch'io il vidi a
scudo e lanza
con altri cavalieri arme
portare:
presilo a riguardare
innamorata sì che 'l
mio cor pere!
Le quali parole Minuccio
prestamente intonò d'un suono soave e pietoso, sì come la materia
di quelle richiedeva, e il terzo dì se n'andò a corte, essendo
ancora il re Pietro a mangiare, dal quale gli fu detto che egli alcuna cosa
cantasse con la sua viuola. Laonde egli cominciò sì dolcemente
sonando a cantar questo suono, che quanti nella real sala n'erano parevano
uomini adombrati, sì tutti stavano taciti e sospesi ad ascoltare, e il
re per poco più che gli altri.
E avendo Minuccio il suo
canto fornito, il re il domandò donde questo venisse che mai più
non gliele pareva avere udito.
- Monsignore, - rispose
Minuccio - e'non sono ancora tre giorni che le parole si fecero e 'l suono -.
Il quale, avendo il re domandato per cui, rispose:
- Io non l'oso scovrir se
non a voi.
Il re, disideroso d'udirlo,
levate le tavole, nella camera sel fe'venire, dove Minuccio ordinatamente ogni
cosa udita gli raccontò. Di che il re fece gran festa, e commendò
la giovane assai, e disse che di sì valorosa giovane si voleva aver
compassione; e per ciò andasse da sua parte a lei e la confortasse, e le
dicesse che senza fallo quel giorno in sul vespro la verrebbe a visitare.
Minuccio, lietissimo di
portare così piacevole novella, alla giovane senza ristare con la sua
viuola n'andò, e con lei sola parlando, ogni cosa stata raccontò,
e poi la canzone cantò con la sua viuola.
Di questo fu la giovane
tanto lieta e tanto contenta, che evidentemente senza alcuno indugio apparver
segni grandissimi della sua sanità; e con disidero, senza sapere o
presummere alcun della casa che ciò si fosse, cominciò ad aspettare
il vespro, nel quale il suo signor veder dovea.
Il re, il qual liberale e
benigno signore era, avendo poi più volte pensato alle cose udite da
Minuccio e conoscendo ottimamente la giovane e la sua bellezza, divenne ancora
più che non era di lei pietoso; e in sull'ora del vespro montato a
cavallo, sembiante faccendo d'andare a suo diporto, pervenne là dov'era
la casa dello speziale; e quivi fatto domandare che aperto gli fosse un
bellissimo giardino il quale lo speziale avea, in quello smontò, e dopo
alquanto domandò Bernardo che fosse della figliuola, se egli ancora
maritata l'avesse.
Rispose Bernardo:
- Monsignore, ella non
è maritata, anzi è stata e ancora è forte malata; è
il vero che da nona in qua ella è maravigliosamente migliorata.
Il re intese prestamente
quello che questo miglioramento voleva dire, e disse:
- In buona fè danno
sarebbe che ancora fosse tolta al mondo sì bella cosa; noi la vogliamo
venire a visitare.
E con due compagni
solamente e con Bernardo nella camera di lei poco appresso se n'andò, e
come là entro fu, s'accostò al letto dove la giovane alquanto
sollevata con disio l'aspettava, e lei per la man prese dicendo:
- Madonna, che vuol dir
questo? Voi siete giovane e dovreste l'altre confortare, e voi vi lasciate aver
male: noi vi vogliam pregare che vi piaccia, per amor di noi, di confortarvi in
maniera che voi siate tosto guerita.
La giovane, sentendosi
toccare alle mani di colui il quale ella sopra tutte le cose amava, come che
ella alquanto si vergognasse, pur sentiva tanto piacer nell'animo, quanto se
stata fosse in paradiso; e, come potè, gli rispose:
- Signor mio, il volere io
le mie poche forze sottoporre a gravissimi pesi, m'è di questa
infermità stata cagione, dal la quale voi, vostra buona mercé, tosto
libera mi vedrete.
Solo il re intendeva il
coperto parlare della giovane, e da più ogn'ora la reputava, e
più volte seco stesso maladisse la fortuna, che di tale uomo l'aveva
fatta figliuola; e poi che alquanto fu con lei dimorato e più ancora
confortatala, si partì.
Questa umanità del
re fu commendata assai, e in grande onor fu attribuita allo speziale e alla
figliuola; la quale tanto contenta rimase, quanto altra donna di suo amante
fosse giammai; e da migliore speranza aiutata, in pochi giorni guerita,
più bella diventò che mai fosse.
Ma poi che guerita fu,
avendo il re con la reina diliberato qual merito di tanto amore le volesse
rendere, montato un dì a cavallo con molti de'suoi baroni a casa dello
spezial se n'andò, e nel giardino entratosene, fece lo spezial chiamare
e la sua figliuola; e in questo venuta la reina con molte donne, e la giovane
tra lor ricevuta, cominciarono maravigliosa festa.
E dopo alquanto il re
insieme con la reina chiamata la Lisa, le disse il re:
- Valorosa giovane, il
grande amor che portato n'avete v'ha grande onore da noi impetrato, del quale
noi vogliamo che per amor di noi siate contenta; e l'onore è questo,
che, con ciò sia cosa che voi da marito siate, noi vogliamo che colui
prendiate per marito che noi vi daremo, intendendo sempre, non ostante questo,
vostro cavaliere appellarci, senza più di tanto amor voler da voi che un
sol bacio.
La giovane, che di vergogna
tutta era nel viso divenuta vermiglia, faccendo suo il piacer del re, con bassa
voce così rispose:
- Signor mio, io son molto
certa che, se egli si sapesse che io di voi innamorata mi fossi, la più
della gente me ne reputerebbe matta, credendo forse che io a me medesima fossi
uscita di mente e che io la mia condizione e oltre a questo la vostra non
conoscessi; ma come Iddio sa, che solo i cuori de'mortali vede, io nell'ora che
voi prima mi piaceste, conobbi voi essere re e me figliuola di Bernardo
speziale, e male a me convenirsi in sì alto luogo l'ardore dello animo
dirizzare. Ma, sì come voi molto meglio di me conoscete, niuno secondo
debita elezione ci s'innamora, ma secondo l'appetito e il piacere; alla qual
legge più volte s'opposero le forze mie, e più non potendo,
v'amai e amo e amerò sempre. E' il vero che, com'io ad amore di voi mi
sentii prendere, così mi disposi di far sempre, del vostro, voler mio, e
per ciò, non che io faccia questo di prender volentier marito e d'aver
caro quello il quale vi piacerà di donarmi, che mio onore e stato
sarà, ma se voi diceste che io dimorassi nel fuoco, credendovi io
piacere mi sarebbe diletto. Avere uno re per cavaliere, sapete quanto mi si
conviene, e per ciò più a ciò non rispondo; né il bacio
che solo del mio amor volete, senza licenzia di madama la reina vi sarà
per me conceduto. Nondimeno di tanta benignità verso me, quanta è
la vostra e quella di madama la reina che è qui, Iddio per me vi renda e
grazie e merito; ché io da render non l'ho -. E qui si tacque.
Alla reina piacque molto la
risposta della giovane, e parvele così savia come il re l'aveva detto.
Il re fece chiamare il padre della giovane e la madre, e sentendogli contenti
di ciò che fare intendeva, si fece chiamare un giovane, il quale era
gentile uomo ma povero, ch'avea nome Perdicone, e postegli certe anella in
mano, a lui, non recusante di farlo, fece sposare la Lisa.
A'quali incontanente il re,
oltre a molte gioie e care che egli e la reina alla giovane donarono, gli
donò Ceffalù e Calatabellotta, due bonissime terre e di gran
frutto, dicendo:
- Queste ti doniamo noi per
dote della donna; quello che noi vorremo fare a te, tu tel vedrai nel tempo
avvenire.
E questo detto, rivolto
alla giovane, disse:
- Ora vogliam noi prender
quel frutto che noi del vostro amor aver dobbiamo -, e presole con amendune le
mani il capo, le baciò la fronte.
Perdicone e 'l padre e la
madre della Lisa ed ella altressì contenti, grandissima festa fecero e
liete nozze.
E secondo che molti
affermano, il re molto bene servò alla giovane il convenente; per
ciò che mentre visse sempre s'appellò suo cavaliere, né mai in
alcun fatto d'arme andò, che egli altra sopransegna portasse che quella
che dalla giovane mandata gli fosse.
Così adunque
operando si pigliano gli animi dei suggetti; dassi altrui materia di bene
operare, e le fame etterne s'acquistano. Alla qual cosa oggi pochi o niuno ha
l'arco teso dello 'ntelletto, essendo li più de'signori divenuti crudeli
tiranni.
Giornata decima - Novella
ottava
Sofronia, credendosi esser
moglie di Gisippo, è moglie di Tito Quinzio Fulvo, e con lui se ne va a
Roma, dove Gisippo in povero stato arriva, e credendo da Tito esser disprezzato,
sé avere uno uomo ucciso, per morire, afferma. Tito, riconosciutolo, per
iscamparlo, dice sé averlo morto; il che colui che fatto l'avea vedendo, sé
stesso manifesta; per la qual cosa da Ottaviano tutti sono liberati, e Tito
dà a Gisippo la sorella per moglie e con lui comunica ogni suo bene.
Filomena, per comandamento
del re, essendo Pampinea di parlar ristata, e già avendo ciascuna
commendato il re Pietro, e più la ghibellina che l'altre,
incominciò.
Magnifiche donne, chi non
sa li re poter, quando vogliono, ogni gran cosa fare, e loro altressì
spezialissimamente richiedersi l'esser magnifichi? Chi adunque, possedendo, fa
quello che a lui s'appartiene, fa bene; ma non se ne dee l'uomo tanto
maravigliare, né alto con somme lode levarlo, come un altro si converria che il
facesse, a cui per poca possa meno si richiedesse. E per ciò, se voi con
tante parole l'opere de're essaltate e paionvi belle, io non dubito punto che
molto più non vi debbian piacere ed esser da voi commendate quelle
de'nostri pari, quando sono a quelle de're simiglianti o maggiori; per che una
laudevole opera e magnifica usata tra due cittadini amici ho proposto in una
novella di raccontarvi.
Nel tempo adunque che
Ottavian Cesare, non ancora s chiamato Augusto, ma nello uficio chiamato
triumvirato lo 'mperio di Roma reggeva, fu in Roma un gentile uomo chiamato
Publio Quinzio Fulvo, il quale, avendo un suo figliuolo, Tito Quinzio Fulvo
nominato, di maraviglioso ingegno, ad imprender filosofia il mandò ad
Atene, e quantunque più potè il raccomandò ad un nobile
uomo della terra chiamato Cremete, il quale era antichissimo suo amico. Dal
quale Tito nelle propie case di lui fu allogato in compagnia d'un suo figliuolo
nominato Gisippo; e sotto la dottrina d'un filosofo chiamato Aristippo, e Tito
e Gisippo furon parimente da Cremete posti ad imprendere.
E venendo i due giovani
usando insieme, tanto si trovarono i costumi loro esser conformi, che una
fratellanza e una amicizia sì grande ne nacque tra loro, che mai poi da
altro caso che da morte non fu separata. Niun di loro aveva né ben né riposo,
se non tanto quanto erano insieme. Essi avevano cominciati gli studi, e
parimente ciascuno d'altissimo ingegno dotato saliva alla gloriosa altezza
della filosofia con pari passo e con maravigliosa laude; e in cotal vita con
grandissimo piacer di Cremete, che quasi l'un più che l'altro non avea
per figliuolo, perseveraron ben tre anni. Nella fine de'quali, sì come
di tutte le cose addiviene, addivenne che Cremete, già vecchio, di
questa vita passò; di che essi pari compassione, sì come di comun
padre, portarono, né si discernea per gli amici né per li parenti di Cremete,
qual più fosse per lo sopravvenuto caso da racconsolar di lor due.
Avvenne, dopo alquanti
mesi, che gli amici di Gisippo e i parenti furon con lui, e insieme con Tito il
confortarono a tor moglie, e trovarongli una giovane di maravigliosa bellezza e
di nobilissimi parenti discesa, e cittadina d'Atene, il cui nome era Sofronia,
d'età forse di quindici anni. E appressandosi il termine delle future
nozze, Gisippo pregò un dì Tito che con lui andasse a vederla,
ché veduta ancora non l'avea; e nella casa di lei venuti, ed essa sedendo in
mezzo d'amenduni, Tito, quasi consideratore della bellezza della sposa del suo
amico, la cominciò attentissimamente a riguardare, e ogni parte di lei
smisuratamente piacendogli mentre quelle seco sommamente lodava, sì
fortemente, senza alcun sembiante mostrarne, di lei s'accese, quanto di donna alcuno
amante s'accendesse giammai. Ma poi che alquanto con lei stati furono,
partitisi, a casa se ne tornarono.
Quivi Tito, solo nella sua
camera entratosene, alla piaciuta giovane cominciò a pensare, tanto
più accendendosi quanto più nel pensiero si stendea. Di che
accorgendosi, dopo molti caldi sospiri, seco cominciò a dire: - Ahi!
misera la vita tua, Tito! Dove e in che pon tu l'animo e l'amore e la speranza
tua? Or non conosci tu, sì per li ricevuti onori da Cremete e dalla sua
famiglia, e sì per la intera amicizia la quale è tra te e
Gisippo, di cui costei è sposa, questa giovane convenirsi avere in
quella reverenza che sorella? Che dunque ami? Dove ti lasci trasportare allo
'ngannevole amore? Dove alla lusinghevole speranza? Apri gli occhi dello 'ntelletto,
e te medesimo, o misero, riconosci; dà luogo alla ragione, raffrena il
concupiscibile appetito, tempera i disideri non sani, e ad altro dirizza i tuoi
pensieri; contrasta in questo cominciamento alla tua libidine, e vinci te
medesimo, mentre che tu hai tempo. Questo non si conviene che tu vuogli, questo
non è onesto; questo a che tu seguir ti disponi, eziandio essendo certo
di giugnerlo (che non se'), tu il dovresti fuggire, se quello riguardassi che
la vera amistà richiede e che tu dei. Che dunque farai, Tito? Lascerai
il non convenevole amore, se quello vorrai fare che si conviene -.
E poi, di Sofronia
ricordandosi, in contrario volgendo, ogni cosa detta dannava, dicendo: - Le
leggi d'Amore sono di maggior potenzia che alcune altre: elle rompono, non che
quelle della amistà, ma le divine. Quante volte ha già il padre
la figliuola amata? il fratello la sorella? la matrigna il figliastro? Cose
più mostruose che l'uno amico amar la moglie dell'altro, già
fattosi mille volte. Oltre a questo io son giovane, e la giovanezza è
tutta sottoposta all'amorose forze. Quello adunque che ad Amor piace a me
convien che piaccia. L'oneste cose s'appartengono a'più maturi; io non
posso volere se non quello che Amor vuole. La bellezza di costei merita d'essere
amata da ciascheduno; e se io l'amo, che giovane sono, chi me ne potrà
meritamente riprendere? Io non l'amo perché ella sia di Gisippo, anzi l'amo che
l'amerei di chiunque ella stata fosse. Qui pecca la Fortuna che a Gisippo mio
amico l'ha conceduta più tosto che ad un altro; e se ella dee essere
amata (ché dee, e meritamente, per la sua bellezza), più dee esser
contento Gisippo, risappiendolo, che io l'ami io che un altro -.
E da questo ragionamento,
faccendo beffe di sé medesimo, tornando in sul contrario, e di questo in
quello, e di quello in questo, non solamente quel giorno e la notte seguente
consumò, ma più altri, intanto che, il cibo e 'l sonno perdutone,
per debolezza fu costretto a giacere.
Gisippo, il qual più
dì l'avea veduto di pensier pieno e ora il vedeva infermo, se ne doleva
forte, e con ogni arte e sollecitudine, mai da lui non partendosi, s'ingegnava
di confortarlo, spesso e con instanzia domandandolo della cagione de'suoi
pensieri e della infermità. Ma, avendogli più volte Tito dato
favole per risposta, e Gisippo avendole conosciute, sentendosi pur Tito
constrignere, con pianti e con sospiri gli rispose in cotal guisa:
- Gisippo, se agli Dii
fosse piaciuto, a me era assai più a grado la morte che il più
vivere, pensando che la fortuna m'abbi condotto in parte che della mia
virtù mi sia convenuto far pruova, e quella con grandissima vergogna di
me truovi vinta; ma certo io n'aspetto tosto quel merito che mi si conviene,
cioè la morte, la qual mi fia più cara che il vivere con rimembranza
della mia viltà, la quale per ciò che a te né posso né debbo
alcuna cosa celare, non senza gran rossor ti scoprirrò.
E, cominciatosi da capo, la
cagion de'suoi pensieri, e la battaglia di quegli, e ultimamente de'quali fosse
la vittoria, e sé per l'amor di Sofronia perire gli discoperse, affermando che,
conoscendo egli quanto questo gli si sconvenisse, per penitenzia n'avea preso
il voler morire, di che tosto credeva venire a capo. Gisippo, udendo questo e
il suo pianto vedendo, alquanto prima sopra sé stette, sì come quegli
che del piacere della bella giovane, avvegna che più temperatamente, era
preso; ma senza indugio diliberò la vita dello amico più che
Sofronia dovergli esser cara; e così, dalle lagrime di lui a lagrimare
invitato, gli rispose piagnendo:
- Tito, se tu non fossi di
conforto bisognoso come tu se', io di te a te medesimo mi dorrei, sì
come d'uomo il quale hai la nostra amicizia violata, tenendomi sì
lungamente la tua gravissima passione nascosa; e come che onesto non ti
paresse, non son per ciò le disoneste cose, se non come l'oneste, da
celare all'amico, per ciò che chi amico è, come delle oneste con
l'amico prende piacere, così le non oneste s'ingegna di torre dello
animo dello amico; ma ristarommene al presente, e a quel verrò che di
maggior bisogno esser conosco. Se tu ardentemente ami Sofronia a me sposata, io
non me ne maraviglio, ma maravigliere'mi io ben se così non fosse,
conoscendo la sua bellezza e la nobiltà dell'animo tuo, atta tanto
più a passion sostenere, quanto ha più d'eccellenza la cosa che
piaccia. E quanto tu ragionevolmente ami Sofronia, tanto ingiustamente della
fortuna ti duoli (quantunque tu ciò non esprimi) che a me conceduta
l'abbia, parendoti il tuo amarla onesto, se d'altrui fosse stata che mia. Ma,
se tu se'savio come suoli, a cui la poteva la fortuna concedere, di cui tu
più l'avessi a render grazie, che d'averla a me conceduta? Qualunque
altro avuta l'avesse, quantunque il tuo amore onesto stato fosse, l'avrebbe
egli a sé amata più tosto che a te, il che di me, se così mi tieni
amico come io ti sono, non dei sperare; e la cagione è questa, che io
non mi ricordo, poi che amici fummo, che io alcuna cosa avessi che così
non fosse tua come mia.
Il che, se tanto fosse la
cosa avanti che altramenti esser non potesse, così ne farei come
dell'altre; ma ella è ancora in sì fatti termini, che di te solo
la posso fare, e così farò; per ciò che io non so quello
che la mia amistà ti dovesse esser cara, se io d'una cosa che
onestamente far si puote, non sapessi d'un mio voler far tuo. Egli è il
vero che Sofronia è mia sposa, e che io l'amava molto e con gran festa
le sue nozze aspettava; ma per ciò che tu, sì come molto
più intendente di me, con più fervor disideri così cara
cosa come ella è, vivi sicuro che non mia ma tua moglie verrà
nella mia camera. E per ciò lascia il pensiero, caccia la malinconia,
richiama la perduta sanità e il conforto e l'allegrezza, e da questa ora
innanzi lieto aspetta i meriti del tuo molto più degno amore che il mio
non era.
Tito, udendo così
parlare a Gisippo, quanto la lusinghevole speranza di quello gli porgeva
piacere, tanto la debita ragion gli recava vergogna, mostrandogli che quanto
più era di Gisippo la liberalità, tanto di lui ad usarla pareva
la sconvenevolezza maggiore. Per che, non ristando di piagnere, con fatica
così gli rispose:
- Gisippo, la tua liberale
e vera amistà assai chiaro mi mostra quello che alla mia s'appartenga di
fare. Tolga via Iddio che mai colei, la quale egli sì come a più
degno ha a te donata, che io da te la riceva per mia. Se egli avesse veduto che
a me si convenisse costei, né tu né altri dee credere che mai a te conceduta
l'avesse. Usa adunque lieto la tua elezione e il discreto consiglio e il suo
dono, e me nelle lagrime, le quali egli, sì come ad indegno di tanto
bene, m'ha apparecchiate, consumar lascia, le quali o io vincerò e
saratti caro, o esse me vinceranno e sarò fuor di pena.
Al quale Gisippo disse:
- Tito, se la nostra
amistà mi può concedere tanto di licenzia, che io a seguire un
mio piacer ti sforzi, e te a doverlo seguire puote inducere, questo fia quello
in che io sommamente intendo d'usarla; e dove tu non condiscenda piacevole
a'prieghi miei, con quella forza che ne'beni dello amico usar si dee,
farò che Sofronia fia tua. Io conosco quanto possono le forze d'amore, e
so che elle, non una volta ma molte, hanno ad infelice morte gli amanti
condotti; e io veggio te sì presso, che tornare addietro né vincere
potresti le lagrime, ma procedendo, vinto verresti meno, al quale io senza
alcun dubbio tosto verrei appresso. Adunque, quando per altro io non t'amassi,
m'è, acciò che io viva, cara la vita tua. Sarà adunque
Sofronia tua, ché di leggiere altra che così ti piacesse non
troverresti; e io il mio amore leggiermente ad un'altra volgendo, avrò
te e me contentato. Alla qual cosa forse così liberal non sarei, se
così rade o con quella difficoltà le mogli si trovasser, che si
truovan gli amici; e per ciò, potend'io leggerissimamente altra moglie
trovare, ma non altro amico, io voglio innanzi (non vo'dir perder lei, ché non
la perderò dandola a te, ma ad un altro me la trasmuterò di bene
in meglio) trasmutarla, che perder te. E per ciò, se alcuna cosa possono
in te i prieghi miei, io ti priego che, di questa afflizion togliendoti, ad una
ora consoli te e me, e con buona speranza ti disponghi a pigliar quella letizia
che il tuo caldo amore della cosa amata disidera.
Come che Tito di consentire
a questo, che Sofronia sua moglie divenisse, si vergognasse, e per questo duro
stesse ancora, tirandolo da una parte amore, e d'altra i conforti di Gisippo
sospignendolo, disse:
- Ecco, Gisippo, io non so
quale io mi dica che io faccia più, o il mio piacere o il tuo, faccendo
quello che tu pregando mi di'che tanto ti piace; e poi che la tua
liberalità è tanta che vince la mia debita vergogna, e io il
farò. Ma di questo ti rendi certo, che io nol fo come uomo che non
conosca me da te ricever non solamente la donna amata, ma con quella la vita
mia. Facciano gl'Iddii, se esser può, che con onore e con ben di te io
ti possa ancora mostrare quanto a grado mi sia ciò che tu verso me,
più pietoso di me che io medesimo, adoperi.
Appresso queste parole
disse Gisippo:
- Tito, in questa cosa, a
volere che effetto abbia, mi par da tener questa via. Come tu sai, dopo lungo
trattato de'miei parenti e di quei di Sofronia, essa è divenuta mia
sposa, e per ciò, se io andassi ora a dire che io per moglie non la
volessi, grandissimo scandalo ne nascerebbe e turberei i suoi e'miei parenti;
di che niente mi curerei, se io per questo vedessi lei dover divenir tua; ma io
temo, se io a questo partito la lasciassi, che i parenti suoi non la dieno
prestamente ad un altro, il qual forse non sarai desso tu, e così tu
avrai perduto quello che io non avrò acquistato. E per ciò mi
pare, dove tu sii contento, che io con quello che cominciato ho seguiti avanti,
e sì come mia me la meni a casa e faccia le nozze, e tu poi
occultamente, sì come noi saprem fare, con lei sì come con tua
moglie ti giacerai. Poi a luogo e a tempo manifesteremo il fatto; il quale, se
lor piacerà, bene starà; se non piacerà, sarà pur
fatto, e non potendo indietro tornare, converrà per forza che sien
contenti.
Piacque a Tito il
consiglio: per la qual cosa Gisippo come sua nella sua casa la ricevette,
essendo già Tito guarito e ben disposto; e fatta la festa grande, come
fu la notte venuta, lasciar le donne la nuova sposa nel letto del suo marito, e
andar via.
Era la camera di Tito a
quella di Gisippo congiunta, e dell'una si poteva nell'altra andare; per che,
essendo Gisippo nella sua camera e ogni lume avendo spento, a Tito tacitamente
andatosene, gli disse che con la sua donna s'andasse a coricare.
Tito vedendo questo, vinto
da vergogna, si volle pentere e recusava l'andata; ma Gisippo, che con intero
animo, come con le parole, al suo piacere era pronto, dopo lunga tencione vel
pur mandò. Il quale, come nel letto giunse, presa la giovane, quasi come
sollazzando, chetamente la domandò se sua moglie esser voleva. Ella,
credendo lui esser Gisippo, rispose del sì; ond'egli un bello e ricco
anello le mise in dito dicendo:
- E io voglio esser tuo
marito.
E quinci consumato il
matrimonio, lungo e amoroso piacer prese di lei, senza che ella o altri mai
s'accorgesse che altri che Gisippo giacesse con lei.
Stando adunque in questi
termini il maritaggio di Sofronia e di Tito, Publio suo padre di questa vita
passò; per la qual cosa a lui fu scritto che senza indugio a vedere i
fatti suoi a Roma se ne tornasse; e per ciò egli d'andarne e di menarne
Sofronia diliberò con Gisippo. Il che, senza manifestarle come la cosa
stesse, far non si dovea né potea acconciamente.
Laonde, un dì nella
camera chiamatala, interamente come il fatto stava le dimostrarono, e di
ciò Tito per molti accidenti tra lor due stati la fece chiara. La qual,
poi che l'uno e l'altro un poco sdegnosetta ebbe guatato, dirottamente
cominciò a piagnere, sé dello inganno di Gisippo ramaricando; e prima
che nella casa di Gisippo nulla parola di ciò facesse, se n'andò
a casa il padre suo, e quivi a lui e alla madre narrò lo 'nganno il
quale ella ed eglino da Gisippo ricevuto avevano; affermando sé esser moglie di
Tito, e non di Gisippo come essi credevano.
Questo fu al padre di
Sofronia gravissimo, e co'suoi parenti e con que'di Gisippo ne fece una lunga e
gran querimonia, e furon le novelle e le turbazioni molte e grandi. Gisippo era
a'suoi e a que'di Sofronia in odio, e ciascun diceva lui degno, non solamente
di riprensione, ma d'aspro gastigamento. Ma egli sé onesta cosa aver fatta
affermava e da dovernegli essere rendute grazie da'parenti di Sofronia, avendola
a miglior di sé maritata.
Tito d'altra parte ogni
cosa sentiva e con gran noia sosteneva; e conoscendo costume esser de'greci
tanto innanzi sospignersi con romori e con le minacce, quanto penavano a trovar
chi loro rispondesse, e allora non solamente umili ma vilissimi divenire;
pensò più non fossero senza risposta da comportare le lor
novelle; e avendo esso animo romano e senno ateniese, con assai acconcio modo i
parenti di Gisippo e que'di Sofronia in un tempio fe'ragunare, e in quello entrato,
accompagnato da Gisippo solo, così agli aspettanti parlò:
- Credesi per molti
filosofanti, che ciò che s'adopera da' mortali sia degli iddii immortali
disposizione e provvedimento, e per questo vogliono alcuni essere di
necessità ciò che ci si fa o farà mai; quantunque alcuni
altri sieno che questa necessità impongono a quel che è fatto
solamente. Le quali oppinioni se con alcuno avvedimento riguardate
fìeno, assai apertamente si vedrà che il riprender cosa che
frastornar non si possa, niuna altra cosa è a fare se non volersi
più savio mostrare che gl'iddii, li quali noi dobbiam credere che con
ragion perpetua e senza alcuno errore dispongono e governan noi e le nostre
cose; per che, quanto le loro operazioni ripigliare sia matta presunzione e
bestiale, assai leggiermente il potete vedere, e ancora chenti e quali catene
coloro meritino che tanto in ciò si lasciano trasportare dall'ardire.
De'quali, secondo il mio giudicio, voi siete tutti, se quello è vero che
io intendo che voi dovete aver detto e continuamente dite, per ciò che
mia moglie Sofronia è divenuta, dove lei a Gisippo avavate data; non
riguardando che ab etterno disposto fosse che ella non di Gisippo divenisse ma
mia, sì come per effetto si conosce al presente. Ma, per ciò che
'l parlar della segreta provvedenza e intenzion degl'iddii pare a molti duro e
grave a comprendere, presupponendo che essi di niuno nostro fatto s'impaccino,
mi piace di condiscendere a'consigli degli uomini; de'quali dicendo, mi
converrà far due cose molto a'miei costumi contrarie: l'una fia alquanto
me commendare, e l'altra il biasimare alquanto altrui o avvilire. Ma, per
ciò che dal vero né nell'una né nell'altra non intendo partirmi, e la
presente materia il richiede, il pur farò.
I vostri ramarichii,
più da furia che da ragione incitati, con continui mormorii, anzi
romori, vituperano, mordono e dannano Gisippo, per ciò che colei m'ha
data per moglie col suo consiglio, che voi a lui col vostro avevate data,
laddove io estimo che egli sia sommamente da commendare; e le ragioni son queste:
l'una, però che egli ha fatto quello che amico dee fare; l'altra, perché
egli ha più saviamente fatto che voi non avevate. Quello che le sante
leggi della amicizia vogliono che l'uno amico per l'altro faccia, non è
mia intenzion di spiegare al presente, essendo contento d'avervi tanto
solamente ricordato di quelle, che il legame della amistà troppo
più stringa che quel del sangue o del parentado; con ciò sia cosa
che gli amici noi abbiamo quali ce li eleggiamo, e i parenti quali gli ci
dà la fortuna. E per ciò, se Gisippo amò più la mia
vita che la vostra benivolenza, essendo io suo amico, come io mi tengo, niuno
se ne dee maravigliare.
Ma vegnamo alla seconda
ragione, nella quale con più instanzia vi si convien dimostrare lui
più essere stato savio che voi non siete, con ciò sia cosa che
della provvidenzia degli iddii niente mi pare che voi sentiate, e molto men
conosciate della amicizia gli effetti. Dico che il vostro avvedimento, il
vostro consiglio e la vostra diliberazione aveva Sofronia data a Gisippo,
giovane e filosafo; quello di Gisippo la diede a giovane e filosafo; il vostro
consiglio la diede ad ateniese, e quel di Gisippo a romano; il vostro ad un
gentil giovane, quel di Gisippo ad un più gentile; il vostro ad un ricco
giovane, quel di Gisippo ad un ricchissimo; il vostro ad un giovane il quale,
non solamente non l'amava, ma appena la conosceva; quel di Gisippo ad un
giovane, il quale sopra ogni sua felicità e più che la propia
vita l'amava.
E che quello che io dico
sia vero, e più da commendare che quello che voi fatto avavate,
riguardisi a parte a parte. Che io giovane e filosafo sia come Gisippo, il viso
mio e gli studi, senza più lungo sermon farne, il possono dichiarare.
Una medesima età è la sua e la mia, e con pari passo sempre
proceduti siamo studiando. E il vero ch'egli è ateniese e io romano. Se
della gloria della città si disputerà, io dirò che io sia
di città libera ed egli di tributaria; io dirò che io sia di
città donna di tutto 'l mondo, ed egli di città obbediente alla
mia; io dirò che io sia di città fiorentissima d'arme, d'imperio
e di studi, dove egli non potrà la sua se non di studi commendare.
Oltre a questo, quantunque
voi qui scolar mi veggiate assai umile, io non son nato della feccia del
popolazzo di Roma; le mie case e i luoghi publichi di Roma son pieni d'antiche
imagini de'miei maggiori, e gli annali romani si troveranno pieni di molti
triumfi menati da'Quinzi in sul romano Capitolio, né è per vecchiezza
marcita, anzi oggi più che mai fiorisce la gloria del nostro nome.
Io mi taccio, per vergogna,
delle mie ricchezze, nella mente avendo che l'onesta povertà sia antico
e larghissimo patrimonio de'nobili cittadini di Roma; la quale, se dalla
oppinione de'volgari è dannata e son commendati i tesori, io ne sono, non
come cupido, ma come amato dalla fortuna, abbondante. E assai conosco che egli
v'era qui, e dovea essere e dee, caro d'aver per parente Gisippo; ma io non vi
debbo per alcuna cagione meno essere a Roma caro, considerando che di me
là avrete ottimo oste, e utile e sollicito e possente padrone,
così nelle pubbliche opportunità come ne'bisogni privati.
Chi dunque, lasciata star
la volontà e con ragion riguardando, più i vostri consigli
commenderà che quegli del mio Gisippo? Certo niuno. E adunque Sofronia ben
maritata a Tito Quinzio Fulvo, nobile, antico e ricco cittadin di Roma e amico
di Gisippo; per che chi di ciò si duole o si ramarica, non fa quello che
dee né sa quello che egli si fa. Saranno forse alcuni che diranno non dolersi
Sofronia esser moglie di Tito, ma dolersi del modo nel quale sua moglie
è divenuta, nascosamente, di furto, senza saperne amico o parente alcuna
cosa. E questo non è miraculo, né cosa che di nuovo avvenga.
Io lascio stare volentieri
quelle che già contro a volere de' padri hanno i mariti presi; e quelle
che i sono con li loro amanti fuggite, e prima amiche sono state che mogli; e
quelle che prima con le gravidezze e co'parti hanno i matrimoni palesati che
con la lingua, e hagli fatti la necessità aggradire; quello che di
Sofronia non è avvenuto; anzi ordinatamente, discretamente e onestamente
da Gisippo a Tito è stata data. E altri diranno colui averla maritata a
cui di maritarla non apparteneva. Sciocche lamentanze son queste e femminili, e
da poca considerazion procedenti. Non usa ora la fortuna di nuovo varie vie e
istrumenti nuovi a recare le cose agli effetti diterminati. Che ho io a curare
se il calzolaio più tosto che il filosafo avrà d'un mio fatto
secondo il suo giudicio disposto o in occulto o in palese, se il fine è
buono? Debbomi io ben guardare, se il calzolaio non è discreto, che egli
più non ne possa fare, e ringraziarlo del fatto. Se Gisippo ha ben
Sofronia maritata, l'andarsi del modo dolendo e di lui è una stultizia
superflua. Se del suo senno voi non vi confidate, guardatevi che egli
più maritar non ne possa, e di questa il ringraziate.
Nondimeno dovete sapere che
io non cercai ne con ingegno né con fraude d'imporre alcuna macula
all'onestà e alla chiarezza del vostro sangue nella persona di Sofronia;
e quantunque io l'abbia occultamente per moglie presa, io non venni come
rattore a torle la sua virginità, né come nimico la volli men che
onestamente avere, il vostro parentado rifiutando, ma ferventemente acceso
della sua vaga bellezza e della virtù di lei; conoscendo, se con quello
ordine che voi forse volete dire cercata l'avessi, che, essendo ella molto
amata da voi, per tema che io a Roma menata non ne l'avessi, avuta non l'avrei.
Usai adunque l'arte occulta
che ora vi puote essere aperta, e feci Gisippo, a quello che egli di fare non
era disposto, consentire in mio nome; e appresso, quantunque io ardentemente
l'amassi, non come amante ma come marito i suoi congiugnimenti cercai, non
appressandomi prima a lei, sì come essa medesima può con verità
testimoniare, che io con le debite parole e con l'anello l'ebbi sposata,
domandandola se ella me per marito volea, a che ella rispose del sì. Se
esser le pare ingannata, non io ne son da riprender, ma ella, che me non
domandò chi io fossi. Questo è adunque il gran male, il gran
peccato, il gran fallo adoperato da Gisippo amico e da me amante, che Sofronia
occultamente sia divenuta moglie di Tito Quinzio; per questo il lacerate,
minacciate e insidiate. E che ne fareste voi più, se egli ad un villano,
ad un ribaldo, ad un servo data l'avesse? Quali catene, qual carcere, quali
croci ci basterieno?
Ma lasciamo ora star
questo: egli è venuto il tempo il quale io ancora non aspettava,
cioè che mio padre sia morto e che a me conviene a Roma tornare, per
che, meco volendone Sofronia menare, v'ho palesato quello che io forse ancora
v'avrei nascoso; il che, se savi sarete, lietamente comporterete, per
ciò che, se ingannare o oltraggiare v'avessi voluto, schernita ve la
poteva lasciare; ma tolga Iddio via questo, che in romano spirito tanta
viltà albergar possa giammai.
Ella adunque, cioè
Sofronia, per consentimento degl'iddii e per vigore delle leggi umane, e per lo
laudevole senno del mio Gisippo, e per la mia amorosa astuzia è mia; la
qual cosa voi, per avventura più che gli iddii o che gli altri uomini
savi tenendovi, bestialmente in due maniere forte a me noiose mostra che voi
danniate. L'una è Sofronia tenendovi, nella quale, più che mi
piaccia, alcuna ragion non avete; e l'altra è il trattar Gisippo, al
quale meritamente obligati siete, come nimico. Nelle quali quanto scioccamente
facciate, io non intendo al presente di più aprirvi, ma come amici vi
consigliare che si pongano giuso gli sdegni vostri, e i crucci presi si lascino
tutti, e che Sofronia mi sia restituita, acciò che io lietamente vostro
parente mi parta e viva vostro; sicuri di questo che, o piacciavi o non
piacciavi quel che è fatto, se altramenti operare intendeste, io vi
torrò Gisippo, e senza fallo, se a Roma pervengo, io riavrò colei
che è meritamente mia, malgrado che voi n'abbiate; e quanto lo sdegno
de'romani animi possa, sempre nimicandovi, vi farò per esperienzia
conoscere.
Poi che Tito così
ebbe detto, levatosi in piè tutto nel viso turbato, preso Gisippo per
mano, mostrando d'aver poco a cura quanti nel tempio n'erano, di quello,
crollando la testa e minacciando, s'uscì.
Quegli che là entro
rimasono, in parte dalle ragioni di Tito al parentado e alla sua amistà
indotti, e in parte spaventati dall'ultime sue parole, di pari concordia
diliberarono es sere il miglior d'aver Tito per parente, poi che Gisippo non
aveva esser voluto, che aver Gisippo per parente perduto e Tito nimico
acquistato.
Per la qual cosa andati,
ritrovar Tito e dissero che piaceva lor che Sofronia fosse sua, e d'aver lui
per caro parente e Gisippo per buono amico; e fattasi parentevole e amichevole
festa insieme, si dipartirono e Sofronia gli rimandarono. La qua le, sì
come savia, fatta della necessità virtù, l'amore il quale aveva a
Gisippo prestamente rivolse a Tito; e con lui se n'andò a Roma, dove con
grande onore fu ricevuta.
Gisippo rimasosi in Atene,
quasi da tutti poco a capital tenuto, dopo non molto tempo, per certe brighe
cittadine, con tutti quegli di casa sua, povero e meschino fu d'Atene cacciato
e dannato ad essilio perpetuo. Nel quale stando Gisippo, e divenuto non
solamente povero ma mendico, come potè il men male a Roma se ne venne,
per provare se di lui Tito si ricordasse; e saputo lui esser vivo e a tutti i
romani grazioso, e le sue case apparate, dinanzi ad esse si mise a star tanto
che Tito venne; al quale egli per la miseria nella quale era non ardì di
far motto, ma ingegnossi di farglisi vedere, acciò che Tito
riconoscendolo il facesse chiamare; per che, passato oltre Tito, e a Gisippo
parendo che egli veduto l'avesse e schifatolo, ricordandosi di ciò che
già per lui fatto aveva, sdegnoso e disperato si dipartì.
Ed essendo già notte
ed esso digiuno e senza denari, senza sapere dove s'andasse, più che
d'altro di morir disideroso, s'avvenne in uno luogo molto salvatico della città,
dove veduta una gran grotta, in quella per istarvi quella notte si mise, e
sopra la nuda terra e male in arnese, vinto dal lungo pianto,
s'addormentò. Alla qual grotta due, li quali insieme erano la notte
andati ad imbolare, col furto fatto andarono in sul matutino, e a quistion
venuti, l'uno, che era più forte, uccise altro e andò via.
La qual cosa avendo Gisippo
sentita e veduta, gli parve alla morte molto da lui disiderata, senza uccidersi
egli stesso, aver trovata via; e per ciò, senza partirsi, tanto stette
che i sergenti della corte, che già il fatto aveva sentito, vi vennero e
Gisippo furiosamente ne menarono preso. Il quale essaminato confessò sé
averlo ucciso, né mai poi esser potuto della grotta partirsi; per la qual cosa
il pretore, che Marco Varrone era chiamato, comandò che fosse fatto
morire in croce, sì come allor s'usava.
Era Tito per ventura in
quella ora venuto al pretorio; il quale, guardando nel viso il misero
condennato e avendo udito il perché, subitamente il riconobbe esser Gisippo, e
maravigliossi della sua misera fortuna e come quivi arrivato fosse; e
ardentissimamente disiderando d'aiutarlo, né veggendo alcuna altra via alla sua
salute se non d'accusar sé e di scusar lui, prestamente si fece avanti e
gridò:
- Marco Varrone, richiama
il povero uomo il quale tu dannato hai, per ciò che egli è
innocente. Io ho assai con una colpa offesi gl'iddii, uccidendo colui il quale
i tuoi sergenti questa mattina morto trovarono, senza volere ora con la morte
d'un altro innocente offendergli.
Varrone si
maravigliò, e dolfegli che tutto il pretorio l'avesse udito; e non
potendo con suo onore ritrarsi di far quello che comandavan le leggi, fece
indietro ritornar Gisippo, e in presenzia di Tito gli disse:
- Come fostu sì
folle che, senza alcuna pena sentire, tu confessassi quello che tu non facesti
giammai, andandone la vita? Tu dicevi che eri colui il quale questa notte avevi
ucciso l'uomo, e questi or viene e dice che non tu ma egli l'ha ucciso.
Gisippo guardò e
vide che colui era Tito, e assai ben conobbe lui far questo per la sua salute,
sì come grato del servigio già ricevuto da lui. Per che, di
pietà piagnendo, disse:
- Varrone, veramente io
l'uccisi, e la pietà di Tito alla mia salute è omai troppo tarda.
Tito d'altra parte diceva:
- Pretore, come tu vedi,
costui è forestiere, e senza arme fu trovato allato all'ucciso, e veder
puoi la sua miseria dargli cagione di voler morire; e per ciò liberalo,
e me, che l'ho meritato, punisci.
Maravigliossi Varrone della
instanzia di questi due, e già presummeva niuno dovere essere colpevole,
e pensando al modo della loro assoluzione, ed ecco venire un giovane, chiamato
Publio Ambusto, di perduta speranza e a tutti i Romani notissimo ladrone, il
quale veramente l'omicidio aveva commesso; e conoscendo niuno de'due esser
colpevole di quello che ciascun s'accusava, tanta fu la tenerezza che nel cuor
gli venne per la innocenzia di questi due, che, da grandissima compassion
mosso, venne dinanzi a Varrone, e disse:
- Pretore, i miei fati mi
traggono a dover solvere la dura quistion di costoro, e non so quale iddio
dentro mi stimola e infesta a doverti il mio peccato manifestare; e per
ciò sappi niun di costoro esser colpevole di quello che ciascuno sé
medesimo accusa. Io son veramente colui che quello uomo uccisi istamane in sul
dì, e questo cattivello che qui è, là vid'io che si
dormiva, mentre che io i furti fatti divideva con colui cui io uccisi. Tito non
bisogna che io scusi: la sua fama è chiara per tutto, lui non essere
uomo di tal condizione; adunque liberagli, e di me quella pena piglia che le
leggi m'impongono.
Aveva già Ottaviano
questa cosa sentita, e fattiglisi tutti e tre venire, udir volle che cagion
movesse ciascuno a volere essere il condannato, la quale ciascun narrò.
Ottaviano li due, per ciò che erano innocenti, e il terzo per amor di
loro liberò.
Tito, preso il suo Gisippo,
e molto prima della sua tiepidezza e diffidenzia ripresolo, gli fece
maravigliosa festa, e a casa sua nel menò, là dove Sofronia con
pietose lagrime il ricevette come fratello; e ricreatolo alquanto, e
rivestitolo e ritornatolo nello abito debito alla sua virtù e
gentilezza, primieramente con lui ogni suo tesoro e possessione fece comune, e
appresso, una sua sorella giovinetta, chiamata Fulvia, gli diè per
moglie; e quindi gli disse:
- Gisippo, a te sta omai o
il volere qui appresso di me dimorare, o volerti con ogni cosa che donata t'ho
in Acaia tornare.
Gisippo, costrignendolo da
una parte l'essilio che aveva della sua città e d'altra l'amore il qual
portava debitamente alla grata amistà di Tito, a divenir romano
s'accordò. Dove con la sua Fulvia, e Tito con la sua Sofronia, sempre in
una casa gran tempo e lietamente vissero, più ciascun giorno, se
più potevano essere, divenendo amici.
Santissima cosa adunque
è l'amistà, e non solamente di singular reverenzia degna, ma
d'essere con perpetua laude commendata, sì come discretissima madre di
magnificenzia e d'onestà, sorella di gratitudine e di carità, e
d'odio e d'avarizia nimica, sempre, senza priego aspettar, pronta a quello in
altrui virtuosamente operare che in sé vorrebbe che fosse operato. Li cui
sacratissimi effetti oggi radissime volte si veggono in due, colpa e vergogna
della misera cupidigia de'mortali, la qual solo alla propria utilità
riguardando, ha costei fuor degli estremi termini della terra in essilio
perpetuo re legata.
Quale amore, qual
ricchezza, qual parentado avrebbe il fervore, le lagrime e'sospiri di Tito con
tanta efficacia fatti a Gisippo nel cuor sentire, che egli per ciò la
bella sposa gentile e amata da lui avesse fatta divenir di Tito, se non costei?
Quali leggi, quali minacce, qual paura le giovanili braccia di Gisippo
ne'luoghi solitari, ne'luoghi oscuri, nel letto proprio avrebbe fatto astenere
dagli abbracciamenti della vaga giovane, forse talvolta invitatrice, se non
costei? Quali stati, qua'meriti, quali avanzi avrebbon fatto Gisippo non curar
di perdere i suoi parenti e quei di Sofronia, non curar de'disonesti mormorii
del popolazzo, non curar delle beffe e de gli scherni, per sodisfare all'amico,
se non costei?
E d'altra parte, chi
avrebbe Tito, senza alcuna diliberazione (possendosi egli onestamente infignere
di vedere) fatto prontissimo a procurar la propria morte per levar Gisippo
dalla croce la quale egli stesso si procacciava, se non costei? Chi avrebbe
Tito senza alcuna dilazione fatto liberalissimo a comunicare il suo ampissimo
patrimonio con Gisippo, al quale la fortuna il suo aveva tolto, se non costei?
Chi avrebbe Tito senza alcuna suspizione fatto ferventissimo a concedere la propia
sorella per moglie a Gisippo, il quale vedeva poverissimo e in estrema miseria
posto, se non costei?
Disiderino adunque gli
uomini la moltitudine dei consorti, le turbe de'fratelli, e la gran
quantità de'figliuoli, e con gli lor denari il numero de'servidori
s'accrescano, e non guardino, qualunque s'è l'uno di questi, ogni minimo
suo pericolo più temere, che sollicitudine aver di tor via i grandi del
padre o del fratello o del signore, dove tutto il contrario far si vede
all'amico.
Giornata decima - Novella
nona
Il Saladino in forma di
mercatante è onorato da messer Torello Fassi il passaggio; messer
Torello dà un termine alla donna sua a rimaritarsi; è preso, e
per acconciare uccelli viene in notizia del soldano; il quale, riconosciutolo e
sé fatto riconoscere, sommamente l'onora; messer Torello inferma, e per arte
magica in una notte n'è recato a Pavia, e alle nozze, che della
rimaritata sua moglie si facevano, da lei riconosciuto, con lei a casa sua se
ne torna
Aveva alle sue parole
già Filomena fatta fine, e la magnifica gratitudine di Tito da tutti
parimente era stata commendata molto, quando il re, il deretano luogo
riservando a Dioneo, così cominciò a parlare.
Vaghe donne, senza alcun
fallo Filomena in ciò che del l'amistà dice racconta 'l vero, e
con ragione nel fine delle sue parole si dolfe lei oggi così poco
da'mortali esser gradita. E se noi qui per dover correggere i difetti mondani,
o pur per riprendergli, fossimo, io seguiterei con diffuso sermone le sue
parole; ma per ciò che altro è il nostro fine, a me è
caduto nel animo di dimostrarvi forse con una istoria assai lunga, ma piacevol
per tutto, una delle magnificenzie del Saladino, acciò che per le cose
che nella mia novella udirete, se pienamente l'amicizia d'alcuno non si
può per li nostri vizi acquistare, al meno diletto prendiamo del
servire, sperando che, quando che sia, di ciò merito ci debba seguire.
Dico adunque che, secondo
che alcuni affermano, al tempo dello imperadore Federigo primo a racquistare la
Terra Santa si fece per li cristiani un general passaggio. La qual cosa il
Saladino, valentissimo signore e allora soldano di Babilonia, alquanto dinanzi
sentendo, seco propose di volere personalmente vedere gli apparecchiamenti
de'signori cristiani a quel passaggio, per meglio poter provvedersi. E ordinato
in Egitto ogni suo fatto, sembiante faccendo d'andare in pellegrinaggio, con
due de'suoi maggiori e più savi uomini e con tre famigliari solamente,
in forma di mercatante si mise in cammino. E avendo cerche molte provincie cristiane,
e per Lombardia cavalcando per passare oltre a'monti, avvenne che, andando da
Melano a Pavia, ed essendo già vespro, si scontrarono in un gentile
uomo, il cui nome era messer Torello di Strà da Pavia, il quale con suoi
famigliari e con cani e con falconi se n'andava a dimorare ad un suo bel luogo
il quale sopra 'l Tesino aveva. Li quali come messer Torel vide, avvisò
che gentili uomini e stranier fossero, e disiderò d'onorargli. Per che,
domandando il Saladino un de'suoi famigliari quanto ancora avesse di quivi a
Pavia, e se ad ora giugner potesser d'entrarvi, Torello non lasciò
rispondere al famigliare, ma rispose egli:
- Signori, voi non potrete
a Pavia pervenire ad ora che dentro possiate entrare.
- Adunque, - disse il
Saladino - piacciavi d'insegnarne, per ciò che stranier siamo, dove noi
possiamo meglio albergare.
Messer Torello disse:
- Questo farò io
volentieri; io era testé in pensiero di mandare un di questi miei infin vicin
di Pavia per alcuna cosa; io nel manderò con voi, ed egli vi
conducerà in parte dove voi albergherete assai convenevolmente.
E al più discreto
de'suoi accostatosi, gl'impose quello che egli avesse a fare, e mandol con
loro; ed egli al suo luogo andatosene prestamente, come si potè il
meglio fece ordinare una bella cena e metter le tavole in un suo giardino; e
questo fatto, sopra la porta se ne venne ad aspettargli. Il famigliare,
ragionando co'gentili uomini di diverse cose, per certe strade gli
trasviò, e al luogo del suo signore, senza che essi se n'accorgessero,
condotti gli ebbe.
Li quali come messer Torel
vide, tutto a piè fattosi loro incontro, ridendo disse:
- Signori, voi siate i
molto ben venuti.
Il Saladino, il quale
accortissimo era, s'avvide che questo cavaliere aveva dubitato che essi non
avesser tenuto lo 'nvito, se quando gli trovò invitati gli avesse; per
ciò, acciò che negar non potesser d'esser la sera con lui, con
ingegno a casa sua gli aveva condotti; e risposto al suo saluto, disse:
- Messere, se dei cortesi
uomini l'uom si potesse ramaricare, noi ci dorremmo di voi, il quale, lasciamo
stare del nostro cammino che impedito alquanto avete, ma, senza altro essere
stata da noi la vostra benivolenza meritata che d'un sol saluto, a prender
sì alta cortesia, come la vostra è, n'avete quasi costretti.
Il cavaliere, savio e ben
parlante, disse:
- Signori, questa che voi
ricevete da me, a rispetto di quella che vi si converrebbe, per quello che io
ne'vostri aspetti comprenda, fia povera cortesia; ma nel vero fuor di Pavia voi
non potreste essere stati in luogo alcun che buon fosse; e per ciò non
vi sia grave l'avere alquanto la via traversata, per un poco men disagio avere.
E così dicendo, la
sua famiglia venuta dattorno a costoro, come smontati furono, i cavalli
adagiarono; e messer Torello i tre gentili uomini menò alle camere per
loro apparecchiate, dove gli fece scalzare e rinfrescare alquanto con
freschissimi vini, e in ragionamenti piacevoli infino all'ora di poter cenare
gli ritenne.
Il Saladino e'compagni
e'famigliari tutti sapevan latino, per che molto bene intendevano ed erano
intesi, e pareva a ciascun di loro che questo cavaliere fosse il più
piacevole e 'l più costumato uomo, e quegli che meglio ragionasse che
alcun altro che ancora n'avesser veduto.
A messer Torello d'altra
parte pareva che costoro fossero magnifichi uomini e da molto più che
avanti stimato non avea, per che seco stesso si dolea che di compagnia e di
più solenne convito quella sera non gli poteva onorare; laonde egli
pensò di volere la seguente mattina ristorare, e informato un de'suoi
famigli di ciò che far voleva, alla sua donna, che savissima era e di
grandissimo animo, nel mandò a Pavia assai quivi vicina e dove porta
alcuna non si serrava. E appresso questo menati i gentili uomini nel giardino,
cortesemente gli domandò chi e'fossero e donde e dove andassero; al
quale il Saladino rispose:
- Noi siamo mercatanti
cipriani e di Cipri vegniamo, e per nostre bisogne andiamo a Parigi.
Allora disse messer
Torello:
- Piacesse a Dio che questa
nostra contrada producesse così fatti gentili uomini, chenti io veggio
che Cipri fa mercatanti.
E di questi ragionamenti in
altri stati alquanto, fu di cenar tempo; per che a loro l'onorarsi alla tavola
commise, e quivi, secondo cena sprovveduta, furono assai bene e ordinatamente
serviti. Né guari, dopo le tavole levate, stettero che, avvisandosi messer
Torello loro essere stanchi, in bellissimi letti gli mise a riposare, ed esso
similmente poco appresso s'andò a dormire.
Il famigliare mandato a
Pavia fe'l'ambasciata alla donna, la quale non con feminile animo, ma con
reale, fatti prestamente chiamare degli amici e de'servidori di messer Torello
assai, ogni cosa opportuna a grandissimo convito fece apparecchiare, e a lume
di torchio molti de'più nobili cittadini fece al convito invitare, e
fe'torre panni e drappi e vai, e compiutamente mettere in ordine ciò che
dal marito l'era stato mandato a dire.
Venuto il giorno, i gentili
uomini si levarono, coi quali messer Torello montato a cavallo e fatti venire i
suoi falconi, ad un guazzo vicin gli menò, e mostrò loro come
essi volassero. Ma dimandando il Saladin di alcuno che a Pavia e al migliore
albergo gli conducesse, disse messer Torello:
- Io sarò desso, per
ciò che esser mi vi conviene.
Costoro credendolsi furon
contenti, e insieme con lui entrarono in cammino; ed essendo già terza
ed essi alla città pervenuti, avvisando d'essere al migliore albergo
inviati, con messer Torello alle sue case pervennero, dove già ben
cinquanta de'maggiori cittadini eran venuti per ricevere i gentili uomini, a'quali
subitamente furon dintorno a'freni e alle staffe. La qual cosa il Saladino
e'compagni veggendo, troppo s'avvisaron ciò che era, e dissono:
- Messer Torello, questo
non è ciò che noi v'avam domandato; assai n'avete questa notte
passata fatto, e troppo più che noi non vagliamo, per che acconciamente
ne potevate lasciare andare al cammin nostro.
A'quali messer Torello
rispose:
- Signori, di ciò
che iersera vi fu fatto, so io grado alla fortuna più che a voi, la
quale ad ora vi colse in cammino che bisogno vi fu di venire alla mia piccola
casa; di questo di stamattina sarò io tenuto a voi, e con meco insieme
tutti questi gentili uomini che dintorno vi sono, a'quali, se cortesia vi par
fare il negar di voler con loro desinare, far lo potete se voi volete.
Il Saladino e'compagni
vinti smontarono, e ricevuti da' gentili uomini lietamente furono alle camere
menati, le quali ricchissimamente per loro erano apparecchiate; e posti
giù gli arnesi da camminare e rinfrescatisi alquanto, nella sala, dove
splendidamente era apparecchiato, vennero. E data l'acqua alle mani e a tavola
messi con grandissimo ordine e bello, di molte vivande magnificamente furon
serviti, in tanto che, se lo 'mperadore venuto vi fosse, non si sarebbe
più potuto fargli d'onore. E quantunque il Saladino e'compagni fossero
gran signori e usi di vedere grandissime cose, nondimeno si maravigliarono essi
molto di questa, e lor pareva delle maggiori, avendo rispetto alla
qualità del cavaliere, il qual sapevano che era cittadino e non signore.
Finito il mangiare e le
tavole levate, avendo alquanto d'alte cose parlato, essendo il caldo grande,
come a messer Torel piacque, i gentili uomini di Pavia tutti s'andarono a
riposare, ed esso con li suoi tre rimase, e con loro in una camera entratosene,
acciò che niuna sua cara cosa rimanesse che essi veduta non avessero,
quivi si fece la sua valente donna chiamare. La quale, essendo bellissima e
grande della persona, e di ricchi vestimenti ornata, in mezzo di due suoi
figlioletti, che parevano due agnoli, se ne venne davanti a costoro e
piacevolmente gli salutò. Essi vedendola si levarono in piè, e
con reverenzia la ricevettono, e fattala sedere fra loro, gran festa fecero
de'due belli suoi figlioletti. Ma poi che con loro in piacevoli ragionamenti
entrata fu, essendosi alquanto partito messer Torello, essa piacevolmente donde
fossero e dove andassero gli domandò; alla qual i gentili uomini
così risposero come a messer Torello avevan fatto.
Allora la donna con lieto
viso disse:
- Adunque veggo che il mio
feminile avviso sarà utile, e per ciò vi priego, che di spezial
grazia mi facciate di non rifiutare né avere a vile quel piccioletto dono il
quale io vi farò venire; ma, considerando che le donne secondo il lor
piccol cuore piccole cose danno, più al buono animo di chi dà
riguardando che alla quantità del dono, il prendiate.
E fattesi venire per
ciascuno due paia di robe, l'un foderato di drappo e l'altro di vaio, non miga
cittadine né da mercatanti, ma da signore, e tre giubbe di zendalo e pannilini,
disse:
- Prendete queste: io ho
delle robe il mio signore vestito con voi; l'altre cose, considerando che voi
siete alle vostre donne lontani, e la lunghezza del cammin fatto e quel la di
quel che è a fare, e che i mercatanti son netti e dilicati uomini, ancor
che elle vaglian poco, vi potranno esser care.
I gentili uomini si
maravigliarono, e apertamente conobber messer Torello niuna parte di cortesia
voler lasciare a far loro, e dubitarono, veggendo la nobiltà delle robe
non mercatantesche, di non esser da messer Torello conosciuti; ma pure alla
donna rispose l'un di loro:
- Queste son, madonna,
grandissime cose e da non dover di leggier pigliare, se i vostri prieghi a
ciò non ci strignessero, alli quali dir di no non si puote.
Questo fatto, essendo
già messer Torello ritornato, la donna, accomandatigli a Dio, da lor si
partì, e di simili cose di ciò, quali a loro si convenieno, fece
provvedere a'famigliari. Messer Torello con molti prieghi impetrò da
loro che tutto quel dì dimorasson con lui; per che, poi che dormito ebbero,
vestitisi le robe loro, con messer Torello alquanto cavalcar per la
città, e l'ora della cena venuta, con molti onorevoli compagni
magnificamente cenarono.
E, quando tempo fu,
andatisi a riposare, come il giorno venne su si levarono, e trovarono in luogo
de'loro ronzini stanchi tre grossi pallafreni e buoni, e similmente nuovi
cavalli e forti alli loro famigliari. La qual cosa veggendo il Saladino,
rivolto a'suoi compagni disse:
- Io giuro a Dio, che
più compiuto uomo né più corte se né più avveduto di
costui non fu mai; e se li re cristiani son così fatti re verso di sé
chente costui è cavaliere, al soldano di Babilonia non ha luogo
d'aspettare pure un, non che tanti, quanti, per addosso andargliene, veggiam
che s'apparecchiano -; ma sappiendo che il rinunziargli non avrebbe luogo,
assai cortesemente ringraziandolne, montarono a cavallo.
Messer Torello con molti
compagni gran pezza di via gli accompagnò fuor della città; e
quantunque al Saladino il partirsi da messer Torello gravasse (tanto già
innamorato se n'era), pure, strignendolo l'andata, il pregò che indietro
se ne tornasse. Il quale, quantunque duro gli fosse il partirsi da loro, disse:
- Signori, io il
farò poi che vi piace, ma così vi vo' dire: io non so chi voi vi
siete, né di saperlo, più che vi piaccia, addomando; ma chi che voi vi
siate, che voi siate mercatanti non lascerete voi per credenza a me questa
volta; e a Dio vi comando.
Il Saladino, avendo
già da tutti i compagni di messer Torello preso commiato, gli rispose
dicendo:
- Messere, egli
potrà ancora avvenire che noi vi farem vedere di nostra mercatantia, per
la quale noi la vostra credenza raffermeremo; e andatevi con Dio.
Partissi adunque il
Saladino e'compagni, con grandissimo animo, se vita gli durasse e la guerra la
quale aspettava nol disfacesse, di fare ancora non minore onore a messer
Torello che egli a lui fatto avesse; e molto e di lui e del la sua donna e di
tutte le sue cose e atti e fatti ragionò co'compagni, ogni cosa
più commendando. Ma poi che tutto il Ponente non senza gran fatica ebbe
cercato, entrato in mare, co'suoi compagni se ne tornò in Alessandria, e
pienamente informato si dispose alla difesa. Messer Torello se ne tornò
in Pavia, e in lungo pensier fu chi questi tre esser potessero, né mai al vero
non aggiunse né s'appressò.
Venuto il tempo del
passaggio, e faccendosi l'apparecchiamento grande per tutto, messer Torello,
non ostante i prieghi della sua donna e le lagrime, si dispose ad andarvi del
tutto; e avendo ogni appresto fatto, ed essendo per cavalcare, disse alla sua
donna, la quale egli sommamente amava:
- Donna come tu vedi, io
vado in questo passaggio sì per onor del corpo e sì per salute
dell'anima; io ti raccomando le nostre cose, e 'l nostro onore; e per
ciò che io sono dell'andar certo, e del tornare, per mille casi che
posson sopravvenire, niuna certezza ho, voglio io che tu mi facci una grazia;
che che di me s'avvegna, ove tu non abbi certa novella della mia vita, che tu
m'aspetti uno anno e un mese e un dì senza rimaritarti, incominciando da
questo dì che io mi parto.
La donna, che forte
piagneva, rispose:
- Messer Torello, io non so
come io mi comporterò il dolore nel qual, partendovi voi, mi lasciate;
ma, dove la mia vita sia più forte di lui e altro di voi avvenisse,
vivete e morite sicuro che io viverò e morrò moglie di messer
Torello e della sua memoria.
Alla qual messer Torello
disse:
- Donna, certissimo sono,
che, quanto in te sarà, che questo che tu mi prometti avverrà; ma
tu se'giovane donna, e se'bella e se'di gran parentado, e la tua virtù
è molta ed è conosciuta per tutto; per la qual cosa io non dubito
che molti grandi e gentili uomini, se niente di me si suspicherà, non ti
domandino a'tuoi fratelli e a'parenti; dagli stimoli de'quali, quantunque tu
vogli, non ti potrai difendere, e per forza ti converrà compiacere
a'voler loro; e questa è la cagion per la quale io questo termine, e non
maggiore, ti dimando.
La donna disse:
- Io farò ciò
che io potrò di quello che detto v'ho; e quando pure altro far mi
convenisse, io v'ubidirò, di questo che m'imponete, certamente. Priego
io Iddio che a così fatti termini né voi né me rechi a questi tempi.
Finite le parole, la donna
piagnendo abbracciò messer Torello, e trattosi di dito un anello, gliele
diede dicendo:
- Se egli avviene che io
muoia prima che io vi rivegga, ricordivi di me quando il vedrete.
Ed egli presolo
montò a cavallo, e detto ad ogn'uomo addio, andò a suo viaggio; e
pervenuto a Genova con sua compagnia, montato in galea andò via, e in
poco tempo per venne ad Acri, e con l'altro essercito de'cristiani si
congiunse. Nel quale quasi a mano a man cominciò una grandissima
infermeria e mortalità; la qual durante, qual che si fosse l'arte o la
fortuna del Saladino, quasi tutto il rimaso degli scampati cristiani da lui a
man salva fur presi, e per molte città divisi e imprigionati; fra'quali
presi messer Torello fu uno, e in Alessandria menato in prigione. Dove non
essendo conosciuto e temendo esso di farsi conoscere, da necessità
costretto si diede a conciare uccelli, di che egli era grandissimo maestro, e
per questo a notizia venne del Saladino: laonde egli di prigione il trasse, e
ritennelo per suo falconiere.
Messer Torello, che per
altro nome che il Cristiano dal Saladino non era chiamato, il quale egli non
riconosceva né il soldano lui, solamente in Pavia l'animo avea e più
volte di fuggirsi aveva tentato, né gli era venuto fatto; per che esso, venuti
certi genovesi per ambasciadori al Saladino per la ricompera di certi lor
cittadini, e dovendosi partire, pensò di scrivere alla donna sua come egli
era vivo e a lei come più tosto potesse tornerebbe, e che ella
l'attendesse; e così fece; e caramente pregò un degli
ambasciadori che conoscea, che facesse che quelle alle mani dell'abate di San
Pietro in Ciel d'oro, il qual suo zio era, pervenissero.
E in questi termini stando
messer Torello, avvenne un giorno che, ragionando con lui il Saladino di suoi
uccelli, messer Torello cominciò a sorridere e fece uno atto con la
bocca, il quale il Saladino, essendo a casa sua a Pavia, aveva molto notato.
Per lo quale atto al Saladino tornò alla mente messer Torello, e
cominciò fiso a riguardallo e parvegli desso; per che, lasciato il primo
ragionamento, disse:
- Dimmi, Cristiano, di che
paese se'tu di Ponente?
- Signor mio, - disse
messer Torello - io sono lombardo, d'una città chiamata Pavia, povero
uomo e di bassa condizione.
Come il Saladino udì
questo, quasi certo di quello che dubitava, fra sé lieto disse: - Dato m'ha
Iddio tempo di mostrare a costui quanto mi fosse a grado la sua cortesia -; e
senza altro dire, fattisi tutti i suoi vestimenti in una camera acconciare, vel
menò dentro e disse:
- Guarda, Cristiano, se tra
queste robe n'è alcuna che tu vedessi giammai.
Messer Torello
cominciò a guardare, e vide quelle che al Saladino aveva la sua donna
donate, ma non estimò dover potere essere che desse fossero, ma tuttavia
rispose:
- Signor mio, niuna ce ne
conosco; è ben vero, che quelle due somiglian robe di che io già
con tre mercatanti, che a casa mia capitarono, vestito ne fui.
Allora il Saladino,
più non potendo tenersi, teneramente l'abbracciò, dicendo:
- Voi siete messer Torel di
Strà, e io sono l'uno de'tre mercatanti a'quali la donna vostra
donò queste robe; e ora è venuto il tempo di far certa la vostra
credenza qual sia la mia mercatantia, come nel partirmi da voi dissi che
potrebbe avvenire.
Messer Torello questo
udendo, cominciò ad esser lietissimo e a vergognarsi; ad esser lieto
d'avere avuto così fatto oste; a vergognarsi che poveramente gliele
pareva aver ricevuto. A cui il Saladin disse:
- Messer Torello, poi che
Iddio qui mandato mi v'ha, pensate che non io oramai, ma voi qui siate il
signore.
E fattasi la festa insieme
grande, di reali vestimenti il fe'vestire, e nel cospetto menatolo di tutti i
suoi maggiori baroni, e molte cose in laude del suo valor dette, comandò
che da ciascun che la sua grazia avesse cara, così onorato fosse come la
sua persona. Il che da quindi innanzi ciascun fece, ma molto più che gli
altri i due signori li quali compagni erano stati del Saladino in casa sua.
L'altezza della subita
gloria, nella qual messer Torel si vide, alquanto le cose di Lombardia gli
trassero della mente, e massimamente per ciò che sperava fermamente le
sue lettere dovere essere al zio pervenute.
Era nel campo ovvero
essercito de'cristiani, il dì che dal Saladino furon presi, morto e
sepellito un cavalier provenzale di piccol valore, il cui nome era messer
Torello di Dignes; per la qual cosa, essendo messer Torello di Strà -
per la sua nobiltà per lo essercito conosciuto, chiunque udir dir: -
messer Torello è morto -, credette di messer Torel di Strà, e non
di quel di Dignes; e il caso, che sopravvenne, della presura, non lasciò
sgannar gl'ingannati; per che molti italici tornarono con questa novella,
tra'quali furono de'sì presuntuosi che ardiron di dire sé averlo veduto
morto ed essere stati alla sepoltura. La qual cosa saputa dalla donna e
da'parenti di lui fu di grandissima e inestimabile doglia cagione, non
solamente a loro, ma a ciascuno che conosciuto l'avea.
Lungo sarebbe a mostrare
qual fosse e quanto il dolore e la tristizia e 'pianto della sua donna, la
quale dopo al quanti mesi che con tribulazion continua doluta s'era e a men
dolersi avea cominciato, essendo ella da'maggiori uomini di Lombardia
domandata, da'fratelli e dagli altri suoi parenti fu cominciata a sollicitare
di rimaritarsi. Il che ella molte volte e con grandissimo pianto avendo negato,
costretta, alla fine le convenne far quello che vollero i suoi parenti, con
questa condizione che ella dovesse stare senza a marito andarne tanto quanto
ella aveva promesso a messer Torello.
Mentre in Pavia eran le
cose della donna in questi termini, e già forse otto dì al
termine del doverne ella andare a marito eran vicini, avvenne che messer
Torello in Alessandria vide un dì uno, il qual veduto avea con gli
ambasciadori genovesi montar sopra la galea che a Genova ne venia; per che,
fattolsi chiamare, il domandò che viaggio avuto avessero, e quando a
Genova fosser giunti.
Al quale costui disse:
- Signor mio, malvagio
viaggio fece la galea, sì come in Creti sentii, là dove io
rimasi; per ciò che, essendo ella vicina di Cicilia, si levò una
tramontana pericolosa che nelle secche di Barberia la percosse, né ne
scampò testa, e intra gli altri, due miei fratelli vi perirono.
Messer Torello, dando alle
parole di costui fede, che eran verissime, e ricordandosi che il termine ivi a
pochi dì finiva da lui domandato alla donna, e avvisando niuna cosa di
suo stato doversi sapere a Pavia, ebbe per constante la donna dovere essere
rimaritata; di che egli in tanto dolor cadde, che, perdutone il mangiare e a
giacer postosi, diliberò di morire.
La qual cosa come il
Saladin sentì, che sommamente l'amava, venne da lui; e dopo molti
prieghi e grandi fattigli, saputa la cagion del suo dolore e della sua
infermità, il biasimò molto che avanti non gliele aveva detto, e
appresso il pregò che si confortasse, affermandogli che, dove questo
facesse, egli adopererebbe sì che egli sarebbe in Pavia al termine dato,
e dissegli come.
Messer Torello, dando fede
alle parole del Saladino, e avendo molte volte udito dire che ciò era
possibile e fatto s'era assai volte, si 'ncominciò a confortare, e a
sollicitare il Saladino che di ciò si diliberasse.
Il Saladino ad un suo
nigromante, la cui arte già espermentata aveva, impose che egli vedesse
via come messer Torello sopra un letto in una notte fosse portato a Pavia; a
cui il nigromante rispose che ciò saria fatto, ma che egli per ben di
lui il facesse dormire.
Ordinato questo,
tornò il Saladino a messer Torello, e trovandol del tutto disposto a
volere pure essere in Pavia al termine dato, se esser potesse, e se non
potesse, a voler morire, gli disse così:
- Messer Torello, se voi
affettuosamente amate la donna vostra e che ella d'altrui non divegna dubitate,
sallo Iddio che io in parte alcuna non ve ne so riprendere, per ciò che
di quante donne mi parve veder mai ella è colei li cui costumi, le cui
maniere e il cui abito, lasciamo star la bellezza che è fior caduco,
più mi paion da commendare e da aver care. Sarebbemi stato carissimo,
poi che la fortuna qui v'aveva mandato, che quel tempo che voi e io viver
dobbiamo, nel governo del regno che io tengo, parimente signori vivuti fossimo
insieme; e se questo pur non mi dovea esser conceduto da Dio, dovendovi questo
cader nell'animo, o di morire o di ritrovarvi al termine posto in Pavia,
sommamente avrei disiderato d'averlo saputo a tempo, che io con quello onore,
con quella grandezza, con quella compagnia che la vostra virtù merita,
v'avessi fatto porre a casa vostra; il che poi che conceduto non m'è, e
voi pur disiderate d'esser là di presente, come io posso, nella forma
che detta v'ho, ve ne manderò.
Al qual messer Torello
disse:
- Signor mio, senza le
vostre parole m'hanno gli effetti assai dimostrato della vostra benivolenzia,
la qual mai da me in sì supremo grado non fu meritata, e di ciò
che voi dite, eziandio non dicendolo, vivo e morrò certissimo; ma poi
che così preso ho per partito, io vi priego che quello che mi dite di
fare si faccia tosto, per ciò che domane è l'ultimo dì che
io debbo essere aspettato.
Il Saladino disse che
ciò senza fallo era fornito; e il seguente dì, attendendo di
mandarlo via la veniente notte, fece il Saladin fare in una gran sala un
bellissimo e ricco letto di materassi, secondo la loro usanza, tutti di velluti
e di drappi ad oro, e fecevi por suso una coltre lavorata a certi compassi di
perle grossissime e di carissime pietre preziose, la qual fu poi di qua stimata
infinito tesoro, e due guanciali quali a così fatto letto si
richiedeano. E questo fatto, comandò che a messer Torello, il quale era
già forte, fosse messa in dosso una roba alla guisa saracinesca, la
più ricca e la più bella cosa che mai fosse stata veduta per
alcuno, e in testa alla lor guisa gli fece una del le sue lunghissime bende
ravvolgere.
Ed essendo già l'ora
tarda, il Saladino con molti de'suoi baroni nella camera là dove messer
Torello era, se n'andò, e postoglisi a sedere allato, quasi lagrimando a
dir cominciò:
- Messer Torello, l'ora che
da voi divider mi dee s'appressa, e per ciò che io non posso né
accompagnarvi né far vi accompagnare, per la qualità del cammino che a
fare ave te che nol sostiene, qui in camera da voi mi convien prender commiato,
al qual prendere venuto sono. E per ciò, prima che io a Dio v'accomandi,
vi priego per quello amore e per quella amistà, la qual è tra
noi, che di me vi ricordi; e, se possibile è, anzi che i nostri tempi
finiscano, che voi, avendo in ordine poste le vostre cose di Lombardia, una
volta almeno a veder mi vegniate, acciò che io possa in quella,
essendomi d'avervi veduto rallegrato, quel difetto supplire che ora per la
vostra fretta mi convien commettere; e infino che questo avvenga, non vi sia
grave visitarmi con lettere, e di quelle cose che vi piaceranno richiedermi,
che più volentier per voi che per alcuno uom che viva le farò
certamente.
Messer Torello non
potè le lagrime ritenere, e per ciò da quelle impedito, con poche
parole rispose impossibil dover essere che mai i suoi benefici e il suo valore
di mente gli uscissero, e che senza fallo quello che egli gli domandava
farebbe, dove tempo gli fosse prestato. Per che il Sa ladino, teneramente
abbracciatolo e baciatolo, con molte lagrime gli disse: - Andate con Dio -; e
della camera s'uscì, e gli altri baroni appresso tutti da lui
s'accomiatarono, e col Saladino in quella sala ne vennero, là dove egli
avea fatto il letto acconciare.
Ma, essendo già
tardi e il nigromante aspettando lo spaccio e affrettandolo, venne un medico
con un beveraggio, e fattogli vedere che per fortificamento di lui gliele dava,
gliel fece bere; né stette guari che addormentato fu. E così dormendo fu
portato per comandamento del Saladino in su il bel letto, sopra il quale esso
una grande e bella corona pose di gran valore, e sì la segnò, che
apertamente fu poi compreso quella dal Saladino alla donna di messer Torello
esser mandata. Appresso mise in dito a messer Torello uno anello, nel quale era
legato un carbunculo, tanto lucente che un torchio acceso pareva, il valor del
quale appena si poteva stimare; quindi gli fece una spada cignere, il cui
guernimento non si saria di leggieri apprezzato; e oltre a questo un fermaglio
gli fe'davanti appiccare, nel qual erano perle mai simili non vedute, con altre
care pietre assai; e poi da ciascun de'lati di lui due grandissimi bacin d'oro
pieni di doble fe'porre, e molte reti di perle e anella e cinture e altre cose,
le quali lungo sarebbe a raccontare, gli fece metter da torno. E questo fatto,
da capo baciò messer Torello, e al nigromante disse che si spedisse; per
che incontanente in presenzia del Saladino il letto con tutto messer Torello fu
tolto via, e il Saladino co'suoi baroni di lui ragionando si rimase.
Era già nella chiesa
di San Piero in Ciel d'oro di Pavia, sì come dimandato avea, stato
posato messer Torello con tutti i sopradetti gioielli e ornamenti, e ancor si
dormiva, quando, sonato già il matutino, il sagrestano nella chiesa
entrò con un lume in mano, e occorsogli subitamente di vedere il ricco
letto, non solamente si maravigliò, ma, avuta grandissima paura,
indietro fuggendo si tornò; il quale l'abate e'monaci veggendo fuggire,
si maravigliarono e domandarono della cagione. Il monaco la disse.
- Oh,- disse l'abate e
sì non se'tu oggimai fanciullo né se'in questa chiesa nuovo, che tu
così leggermente spaventar ti debbi; ora andiam noi, veggiamo chi t'ha
fatto baco.
Accesi adunque più
lumi, l'abate con tutti i suoi monaci nella chiesa entrati videro questo letto
così maraviglioso e ricco, e sopra quello il cavalier che dormiva; e
mentre dubitosi e timidi, senza punto al letto accostarsi, le nobili gioie
riguardavano, avvenne che, essendo la virtù del beveraggio consumata,
che messer Torello destatosi gittò un gran sospiro.
Li monaci come questo
videro, e l'abate con loro, spaventati e gridando: - Domine aiutaci -, tutti
fuggirono.
Messer Torello, aperti gli
occhi e dattorno guatatosi, conobbe manifestamente sé essere là dove al
Saladino domandato avea, di che forte fu seco contento; per che, a seder
levatosi e partitamente guardando ciò che dattorno avea, quantunque
prima avesse la magnificenzia del Saladin conosciuta, ora gli parve maggiore e
più la conobbe. Non per tanto, senza altramenti mutarsi, sentendo i
monaci fuggire e avvisatosi il perché, cominciò per nome a chiamar l'abate
e a pregarlo che egli non dubitasse, per ciò che egli era Torel suo
nepote.
L'abate, udendo questo,
divenne più pauroso, come co lui che per morto l'avea di molti mesi
innanzi; ma dopo alquanto, da veri argomenti rassicurato, sentendosi pur
chiamare, fattosi il segno della santa croce, andò a lui.
Al quale messer Torel
disse:
- O padre mio, di che
dubitate voi? Io son vivo, la Dio mercé, e qui d'oltre mar ritornato.
L'abate, con tutto che egli
avesse la barba grande e in abito arabesco fosse, pure dopo alquanto il raffigurò
e, rassicuratosi tutto, il prese per la mano e disse: - Figliuol mio, tu sii il
ben tornato -; e seguitò: - Tu non ti dei maravigliare della nostra
paura, per ciò che in questa terra non ha uomo che non creda fermamente
che tu morto sii, tanto che io ti so dire che madonna Adalieta tua moglie,
vinta dai prieghi e dalle minacce de'parenti suoi, e contro a suo volere,
è rimaritata, e questa mattina ne dee ire al nuovo marito, e le nozze e
ciò che a festa bisogno fa è apparecchiato.
Messer Torello, levatosi
d'in su il ricco letto e fatta all'abate e a'monaci maravigliosa festa, ognun
pregò che di questa sua tornata con alcun non parlasse, infino a tanto
che egli non avesse una sua bisogna fornita. Appresso questo, fatto le ricche
gioie porre in salvo, ciò che avvenuto gli fosse infino a quel punto
raccontò all'abate. L'abate, lieto delle sue fortune, con lui insieme
rendè grazie a Dio. Appresso questo domandò messer Torel l'abate,
chi fosse il nuovo marito della sua donna. L'abate gliele disse.
A cui messer Torel disse:
- Avanti che di mia tornata
si sappia, io intendo di veder che contenenza sia quella di mia mogliere in
queste nozze; e per ciò, quantunque usanza non sia le persone religiose
andare a così fatti conviti, io voglio che per amor di me voi ordiniate
che noi v'andiamo.
L'abate rispose che
volentieri; e come giorno fu fatto, mandò al nuovo sposo dicendo che con
un compagno voleva essere alle sue nozze; a cui il gentile uomo rispose che
molto gli piaceva.
Venuta dunque l'ora del
mangiare, messer Torello, in quello abito che era, con lo abate se
n'andò alla casa del novello sposo, con maraviglia guatato da chiunque
il vedeva, ma riconosciuto da nullo; e l'abate a tutti diceva lui essere un
saracino mandato dal soldano al re di Francia ambasciadore.
Fu adunque messer Torel
messo ad una tavola appunto rimpetto alla donna sua, la quale egli con
grandissimo piacer riguardava, e nel viso gli pareva turbata di queste nozze.
Ella similmente alcuna volta guardava lui; non già per conoscenza alcuna
che ella n'avesse, ché la barba grande e lo strano abito e la ferma credenza
che ella aveva che fosse morto, gliele toglievano, ma per la novità
dell'abito.
Ma poi che tempo parve a
messer Torello di volerla tentare se di lui si ricordasse, recatosi in mano
l'anello che dalla donna nella sua partita gli era stato donato, si fece
chiamare un giovinetto che davanti a lei serviva, e dissegli:
- Di'da mia parte alla
nuova sposa, che nelle mie contrade s'usa quando alcun forestiere, come io son
qui, mangia al convito d'alcuna sposa nuova, come ella è, in segno
d'aver caro che egli venuto vi sia a mangiare, ella la coppa con la quale bee
gli manda piena di vino, con la quale, poi che il forestiere ha bevuto quello
che gli piace, ricoperchiata la coppa, la sposa bee il rimanente.
Il giovinetto
fe'l'ambasciata alla donna, la quale, sì come costumata e savia,
credendo costui essere un gran barbassoro, per mostrare d'avere a grado la sua
venuta, una gran coppa dorata, la qual davanti avea, comandò che lavata
fosse ed empiuta di vino e portata al gentile uomo, e così fu fatto.
Messer Torello, avendosi
l'anello di lei messo in bocca, sì fece che bevendo il lasciò
cadere nella coppa, senza avvedersene alcuno, e poco vino lasciatovi, quella
ricoperchiò e mandò alla donna. La quale presala, acciò
che l'usanza di lui compiesse, scoperchiatala, se la mise a bocca e vide
l'anello, e senza dire alcuna cosa alquanto il riguardò; e riconosciuto
che egli era quello che dato avea nel suo partire a messer Torello, presolo e
fiso guardato colui il qual forestiere credeva, e già conoscendolo,
quasi furiosa divenuta fosse, gittata in terra la tavola che davanti aveva,
gridò:
- Questi è il mio
signore; questi veramente è messer Torello.
E corsa alla tavola alla
quale esso sedeva, senza aver riguardo a'suoi drappi o a cosa che sopra la
tavola fosse, gittatasi oltre quanto potè, l'abbracciò
strettamente, né mai dal suo collo fu potuta, per detto o per fatto d'alcuno
che quivi fosse, levare, infino a tanto che per messer Torello non le fu detto
che alquanto sopra sé stesse, per ciò che tempo da abbracciarlo le
sarebbe ancor prestato assai.
Allora ella dirizzatasi,
essendo già le nozze tutte turbate, e in parte più liete che mai
per lo racquisto d'un così fatto cavaliere, pregandone egli, ogni uomo
stette cheto; per che messer Torello dal dì della sua partita infino a
quel punto ciò che avvenuto gli era a tutti narrò, conchiudendo
che al gentile uomo, il quale, lui morto credendo, aveva la sua donna per
moglie presa, se egli essendo vivo la si ritoglieva, non doveva spiacere.
Il nuovo sposo, quantunque
alquanto scornato fosse, liberamente e come amico rispose che delle sue cose
era nel suo volere quel farne che più gli piacesse. La donna e l'anella
e la corona avute dal nuovo sposo quivi lasciò, e quello che della coppa
aveva tratto si mise, e similmente la corona mandatale dal soldano; e usciti
della casa dove erano, con tutta la pompa delle nozze infino alla casa di
messer Torel se n'andarono; e quivi gli sconsolati amici e parenti e tutti i
cittadini, che quasi per un miracolo il riguardavano, con lunga e lieta festa
racconsolarono.
Messer Torello, fatta delle
sue care gioie parte a colui che avute avea le spese delle nozze e all'abate e
a molti altri, e per più d'un messo significata la sua felice
repatriazione al Saladino, suo amico e suo servidore ritenendosi, più
anni con la sua valente donna poi visse, più cortesia usando che mai.
Cotale adunque fu il fin
delle noie di messer Torello e di quelle della sua cara donna, e il guiderdone
delle lor liete e preste cortesie. Le quali molti si sforzano di fare, che,
benché abbian di che, sì mal far le sanno, che prima le fanno assai
più comperar che non vagliono, che fatte l'abbiano, per che, se loro
merito non ne segue, né essi né altri maravigliar se ne dee.
Giornata decima - Novella
decima
Il marchese di Saluzzo,
da'prieghi de'suoi uomini costretto di pigliar moglie, per prenderla a suo
modo, piglia una figliuola d'un villano, della quale ha due figlioli, li quali
le fa veduto di uccidergli. Poi, mostrando lei essergli rincresciuta e avere
altra moglie presa, a casa faccendosi ritornare la propria figliuola come se
sua moglie fosse, lei avendo in camicia cacciata e ad ogni cosa trovandola
paziente, più cara che mai in casa tornatalasi, i suoi figliuoli grandi
le mostra, e come marchesana l'onora e fa onorare.
Finita la lunga novella del
re, molto a tutti nel sembiante piaciuta, Dioneo ridendo disse:
- Il buono uomo che
aspettava la seguente notte di fare abbassare la coda ritta della fantasima,
avrebbe dati men di due denari di tutte le lode che voi date a messer Torello
-; e appresso, sappiendo che a lui solo restava il dire, incominciò.
Mansuete mie donne, per
quel che mi paia, questo dì d'oggi è stato dato a re e a soldani
e a così fatta gente; e per ciò, acciò che io troppo da
voi non mi scosti, vo'ragionar d'un marchese, non cosa magnifica, ma una matta
bestialità, come che bene ne gli seguisse alla fine. La quale io non
consiglio alcun che segua, per ciò che gran peccato fu che a costui ben
n'avvenisse.
Già è gran
tempo, fu tra'marchesi di Saluzzo il maggior della casa un giovane chiamato
Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra
cosa il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, né di prender moglie
né d'aver figliuoli alcun pensiere avea, di che egli era da reputar molto
savio. La qual cosa a'suoi uomini non piacendo, più volte il pregarono
che moglie prendesse, acciò che egli senza erede né essi senza signor
rimanessero, offerendosi di trovargliele tale e di sì fatto padre e
madre discesa, che buona speranza se ne potrebbe avere, ed esso contentarsene
molto.
A'quali Gualtieri rispose:
- Amici miei, voi mi
strignete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando
quanto grave cosa sia a poter trovare chi co'suoi costumi ben si convenga, e
quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui
che a donna non bene a sé conveniente s'abbatte. E il dire che voi vi crediate
a'costumi de'padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di
darlami tal che mi piacerà, è una sciocchezza; con ciò sia
cosa che io non sappia dove i padri possiate conoscere, né come i segreti delle
madri di quelle; quantunque, pur conoscendoli, sieno spesse volte le figliuole
a'padri e alle madri dissimili. Ma poi che pure in queste catene vi piace
d'annodarmi, e io voglio esser contento; e acciò che io non abbia da
dolermi d'altrui che di me, se mal venisse fatto, io stesso ne voglio essere il
trovatore, affermandovi che, cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna
onorata, voi proverete con gran vostro danno quanto grave mi sia l'aver contra
mia voglia presa mogliere a'vostri prieghi.
I valenti uomini risposon
ch'eran contenti, sol che esso si recasse a prender moglie.
Erano a Gualtieri buona
pezza piaciuti i costumi d'una povera giovinetta che d'una villa vicina a casa
sua era, e parendogli bella assai, estimò che con costei dovesse aver
vita assai consolata; e per ciò, senza più avanti cercare, costei
propose di volere sposare; e fattosi il padre chiamare, con lui, che
poverissimo era, si convenne di torla per moglie.
Fatto questo, fece
Gualtieri tutti i suoi amici della contrada adunare, e disse loro:
- Amici miei, egli
v'è piaciuto e piace che io mi disponga a tor moglie, e io mi vi son
disposto più per compiacere a voi che per disiderio che io di moglie
avessi. Voi sapete quello che voi mi prometteste, cioè d'esser contenti
e d'onorar come donna qualunque quella fosse che io togliessi; e per ciò
venuto è il tempo che io sono per servare a voi la promessa, e che io
voglio che voi a me la serviate. Io ho trovata una giovane secondo il cuor mio,
assai presso di qui, la quale io intendo di tor per moglie e di menarlami fra
qui a pochi dì a casa; e per ciò pensate come la festa delle
nozze sia bella, e come voi onorevolmente ricever la possiate, acciò che
io mi possa della vostra promession chiamar contento, come voi della mia vi
potrete chiamare.
I buoni uomini lieti tutti
risposero ciò piacer loro, e che, fosse chi volesse, essi l'avrebber per
donna e onorerebbonla in tutte cose sì come donna. Appresso questo,
tutti si misero in assetto di far bella e grande e lieta festa, e il
simigliante fece Gualtieri. Egli fece preparare le nozze grandissime e belle, e
invitarvi molti suoi amici e parenti e gran gentili uomini e altri dattorno; e
oltre a questo fece tagliare e far più robe belle e ricche al dosso
d'una giovane, la quale della persona gli pareva che la giovinetta la quale
avea proposto di sposare; e oltre a questo apparecchiò cinture e anella
e una ricca e bella corona, e tutto ciò che a novella sposa si
richiedea.
E venuto il dì che
alle nozze predetto avea, Gualtieri in su la mezza terza montò a
cavallo, e ciascuno altro che ad onorarlo era venuto; e ogni cosa opportuna
avendo disposta, disse:
- Signori, tempo è
d'andare per la novella sposa -; e messosi in via con tutta la compagnia sua
pervennero alla villetta. E giunti a casa del padre della fanciulla, e lei
trovata che con acqua tornava dalla fonte in gran fretta, per andar poi con
altre femine a veder venire la sposa di Gualtieri, la quale come Gualtieri
vide, chiamatala per nome, cioè Griselda, domandò dove il padre
fosse; al quale ella vergognosamente rispose:
- Signor mio, egli è
in casa.
Allora Gualtieri smontato e
comandato ad ogn'uomo che l'aspettasse, solo se n'entrò nella povera
casa, dove trovò il padre di lei che aveva nome Giannucole, e dissegli:
- Io son venuto a sposar la
Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenzia -; e
domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie, s'ingegnerebbe di
compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non turbarsi, e s'ella
sarebbe obbediente, e simili altre cose assai, delle quali ella a tutte rispose
del sì.
Allora Gualtieri, presala
per mano, la menò fuori, e in presenzia di tutta la sua compagnia e
d'ogni altra persona la fece spogliare ignuda, e fattisi quegli vestimenti
venire che fatti aveva fare, prestamente la fece vestire e calzare, e sopra i
suoi capegli così scarmigliati com'egli erano le fece mettere una
corona, e appresso questo, maravigliandosi ogn'uomo di questa cosa, disse:
- Signori, costei è
colei la quale io intendo che mia moglie sia, dove ella me voglia per marito -;
e poi a lei rivolto, che di sé medesima vergognosa e sospesa stava, le disse: -
Griselda, vuo'mi tu per tuo marito?
A cui ella rispose:
- Signor mio, sì.
Ed egli disse:
- E io voglio te per mia
moglie -; e in presenza di tutti la sposò. E fattala sopra un pallafren
montare, onorevolmente accompagnata a casa la si menò.
Quivi furon le nozze belle
e grandi e la festa non altramenti che se presa avesse la figliuola del re di
Francia.
La giovane sposa parve che
co'vestimenti insieme l'animo e i costumi mutasse. Ella era, come già
dicemmo, di persona e di viso bella, e così come bella era, divenne
tanto avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata, che non figliuola di
Giannucole e guardiana di pecore pareva stata, ma d'alcun nobile signore; di
che ella faceva maravigliare ogn'uom che prima conosciuta l'avea. E oltre a
questo era tanto obbediente al marito e tanto servente, che egli si teneva il
più contento e il più appagato uomo del mondo; e similmente verso
i sudditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna, che niun ve n'era che
più che sé non l'amasse e che non l'onorasse di grado, tutti per lo suo
bene e per lo suo stato e per lo suo essaltamento pregando; dicendo, dove dir
solieno Gualtieri aver fatto come poco savio d'averla per moglie presa, che
egli era il più savio e il più avveduto uomo che al mondo fosse;
per ciò che niun altro che egli avrebbe mai potuto conoscere l'alta
virtù di costei nascosa sotto i poveri panni e sotto l'abito villesco.
E in brieve non solamente
nel suo marchesato, ma per tutto, anzi che gran tempo fosse passato, seppe ella
sì fare che ella fece ragionare del suo valore e del suo bene adoperare,
e in contrario rivolgere, se alcuna cosa detta s'era contra 'l marito per lei
quando sposata l'avea. Ella non fu guari con Gualtieri dimorata, che ella
ingravidò, e al tempo partorì una fanciulla, di che Gualtieri
fece gran festa.
Ma poco appresso,
entratogli un nuovo pensier nell'animo, cioè di volere con lunga
esperienzia e con cose intollerabili provare la pazienzia di lei, primieramente
la punse con parole, mostrandosi turbato e dicendo che i suoi uomini
pessimamente si contentavano di lei per la sua bassa condizione, e spezialmente
poi che vedevano che ella portava figliuoli; e della figliuola che nata era
tristissimi, altro che mormorar non facevano.
Le quali parole udendo la
donna, senza mutar viso o buon proponimento in alcuno atto, disse:
- Signor mio, fa di me
quello che tu credi che più tuo onore e consolazion sia, ché io
sarò di tutto contenta, sì come colei che conosco che io sono da
men di loro, e che io non era degna di questo onore al quale tu per tua
cortesia mi recasti.
Questa risposta fu molto
cara a Gualtieri, conoscendo costei non essere in alcuna superbia levata, per
onor che egli o altri fatto l'avesse.
Poco tempo appresso, avendo
con parole generali detto alla moglie che i sudditi non potevan patir quella
fanciulla di lei nata, informato un suo famigliare, il mandò a lei, il
quale con assai dolente viso le disse:
- Madonna, se io non voglio
morire, a me conviene far quello che il mio signor mi comanda. Egli m'ha
comandato che io prenda questa vostra figliuola e ch'io... - e non disse
più.
La donna, udendo le parole
e vedendo il viso del famigliare, e delle parole dette ricordandosi, comprese
che a costui fosse imposto che egli l'uccidesse; per che prestamente presala
della culla e baciatala e benedettala, come che gran noia nel cuor sentisse,
senza mutar viso in braccio la pose al famigliare e dissegli:
- Te': fa compiutamente
quello che il tuo e mio signore t'ha imposto; ma non la lasciar per modo che le
bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse.
Il famigliare, presa la
fanciulla, e fatto a Gualtieri sentire ciò che detto aveva la donna,
maravigliandosi egli della sua costanzia, lui con essa ne mandò a
Bologna ad una sua parente, pregandola che, senza mai dire cui figliuola si
fosse, diligentemente l'allevasse e costumasse.
Sopravenne appresso che la
donna da capo ingravidò, e al tempo debito partorì un figliuol
maschio, il che carissimo fu a Gualtieri; ma, non bastandogli quello che fatto
avea, con maggior puntura trafisse la donna, e con sembiante turbato un
dì le disse:
- Donna, poscia che tu
questo figliuol maschio facesti, per niuna guisa con questi miei viver son
potuto, sì duramente si ramaricano che uno nepote di Giannucole dopo me
debba rimaner lor signore; di che io mi dotto, se io non ci vorrò esser
cacciato, che non mi convenga far di quello che io altra volta feci, e alla
fine lasciar te e prendere un'altra moglie.
La donna con paziente animo
l'ascoltò, né altro rispose se non:
- Signor mio, pensa di
contentar te e di sodisfare al piacer tuo, e di me non avere pensiere alcuno,
per ciò che niuna cosa m'è cara se non quant'io la veggo a te
piacere.
Dopo non molti dì Gualtieri,
in quella medesima maniera che mandato avea per la figliuola, mandò per
lo figliuolo, e similmente dimostrato d'averlo fatto uccidere, a nutricar nel
mandò a Bologna, come la fanciulla aveva mandata; della qual cosa la
donna né altro viso né altre parole fece che della fanciulla fatto avesse; di
che Gualtieri si maravigliava forte e seco stesso affermava niun'altra femina
questo poter fare che ella faceva; e se non fosse che carnalissima
de'figliuoli, mentre gli piacea, la vedea, lei avrebbe creduto ciò fare
per più non curarsene, dove come savia lei farlo cognobbe.
I sudditi suoi, credendo
che egli uccidere avesse fatti i figliuoli, il biasimavan forte e reputavanlo
crudele uomo, e alla donna avevan grandissima compassione; la quale con le
donne, le quali con lei de'figliuoli così morti si condoleano, mai altro
non disse se non che quello ne piaceva a lei che a colui che generati gli avea.
Ma, essendo più anni
passati dopo la natività della fanciulla, parendo tempo a Gualtieri di
fare l'ultima pruova della sofferenza di costei, con molti de'suoi disse che
per niuna guisa più sofferir poteva d'aver per moglie Griselda e che
egli cognosceva che male e giovenilmente aveva fatto quando l'aveva presa, e
per ciò a suo poter voleva procacciar col papa che con lui dispensasse
che un'altra donna prender potesse e lasciar Griselda; di che egli da assai
buoni uomini fu molto ripreso. A che null'altro rispose, se non che convenia
che così fosse.
La donna, sentendo queste
cose e parendole dovere sperare di ritornare a casa del padre e forse a guardar
le pecore come altra volta aveva fatto e vedere ad un'altra donna tener colui
al quale ella voleva tutto il suo bene, forte in sé medesima si dolea; ma pur,
come l'altre ingiurie della fortuna avea sostenute, così con fermo viso
si dispose a questa dover sostenere.
Non dopo molto tempo
Gualtieri fece venire sue lettere contraffatte da Roma, e fece veduto a'suoi
sudditi il papa per quelle aver seco dispensato di poter torre altra moglie e
lasciar Griselda.
Per che, fattalasi venir
dinanzi, in presenza di molti le disse:
- Donna, per concession
fattami dal papa, io posso altra donna pigliare e lasciar te; e per ciò
che i miei passati sono stati gran gentili uomini e signori di queste contrade,
dove i tuoi stati son sempre lavoratori, io intendo che tu più mia
moglie non sia, ma che tu a casa Giannucole te ne torni con la dote che tu mi
recasti, e io poi un'altra, che trovata n'ho convenevole a me, ce ne
menerò.
La donna, udendo queste
parole, non senza grandissima fatica, oltre alla natura delle femine, ritenne
le lagrime, e rispose:
- Signor mio, io conobbi
sempre la mia bassa condizione alla vostra nobilità in alcun modo non
convenirsi, e quello che io stata son con voi, da Dio e da voi il riconoscea,
né mai, come donatolmi, mio il feci o tenni, ma sempre l'ebbi come prestatomi;
piacevi di rivolerlo, e a me dee piacere e piace di renderlovi; ecco il vostro
anello col quale voi mi sposaste, prendetelo. Comandatemi che io quella dote me
ne porti che io ci recai, alla qual cosa fare, né a voi pagator né a me borsa
bisognerà né somiere, per ciò che di mente uscito non m'è
che ignuda m'aveste: e se voi giudicate onesto che quel corpo, nel qual io ho
portati figliuoli da voi generati, sia da tutti veduto, io me n'andrò
ignuda; ma io vi priego, in premio della mia verginità, che io ci recai
e non ne la porto, che almeno una sola camicia sopra la dote mia vi piaccia che
io portar ne possa.
Gualtieri, che maggior
voglia di piagnere avea che d'altro, stando pur col viso duro, disse:
- E tu una camicia ne
porta.
Quanti dintorno v'erano il
pregavano che egli una roba le donasse, ché non fosse veduta colei, che sua
moglie tredici anni e più era stata, di casa sua così poveramente
e così vituperosamente uscire, come era uscirne in camicia; ma in vano
andarono i prieghi; di che la donna, in camicia e scalza e senza alcuna cosa in
capo, accomandatili a Dio, gli uscì di casa, e al padre se ne
tornò con lagrime e con pianto di tutti coloro che la videro.
Giannucole, che creder non
avea mai potuto questo esser vero che Gualtieri la figliuola dovesse tener
moglie, e ogni dì questo caso aspettando guardati l'aveva i panni che
spogliati s'avea quella mattina che Gualtieri la sposò; per che
recatigliele ed ella rivestitiglisi, ai piccoli servigi della paterna casa si
diede, sì come far soleva, con forte animo sostenendo il fiero assalto
della nimica fortuna.
Come Gualtieri questo ebbe
fatto, così fece veduto a'suoi che presa aveva una figliuola d'uno dei
conti da Panago; e faccendo fare l'appresto grande per le nozze, mandò
per Griselda che a lui venisse, alla quale venuta disse:
- Io meno questa donna la
quale io ho nuovamente tolta, e intendo in questa sua prima venuta d'onorarla;
e tu sai che io non ho in casa donne che mi sappiano acconciare le camere né
fare molte cose che a così fatta festa si richeggiono; e per ciò
tu, che meglio che altra persona queste cose di casa sai, metti in ordine
quello che da far ci è, e quelle donne fa invitare che ti pare, e ricevile
come se donna di qui fossi; poi, fatte le nozze, te ne potrai a casa tua
tornare.
Come che queste parole
fossero tutte coltella al cuore di Griselda, come a colei che non aveva
così potuto por giù l'amore che ella gli portava, come fatto avea
la buona fortuna, rispose:
- Signor mio, io son presta
e apparecchiata.
Ed entratasene co'suoi
pannicelli romagnuoli e grossi in quella casa, della qual poco avanti era
uscita in camicia, cominciò a spazzare le camere e ordinarle, e a far
porre capoletti e pancali per le sale, a fare apprestare la cucina, e ad ogni
cosa, come se una piccola fanticella della casa fosse, porre le mani; né mai
ristette che ella ebbe tutto acconcio e ordinato quanto si convenia.
E appresso questo, fatto da
parte di Gualtieri invitare tutte le donne della contrada, cominciò ad
attender la festa; e venuto il giorno delle nozze, come che i panni avesse
poveri in dosso, con animo e con costume donnesco tutte le donne che a quelle
vennero, e con lieto viso, ricevette.
Gualtieri, il quale
diligentemente aveva i figliuoli fatti allevare in Bologna alla sua parente,
che maritata era in casa de'conti da Panago, essendo già la fanciulla
d'età di dodici anni la più bella cosa che mai si vedesse, e il
fanciullo era di sei, avea mandato a Bologna al parente suo, pregandol che gli
piacesse di dovere con questa sua figliuola e col figliuolo venire a Saluzzo, e
ordinare di menare bella e orrevole compagnia con seco, e di dire a tutti che
costei per sua mogliere gli menasse, senza manifestare alcuna cosa ad alcuno
chi ella si fosse altramenti.
Il gentile uomo, fatto
secondo che il marchese il pregava, entrato in cammino, dopo alquanti dì
con la fanciulla e col fratello e con nobile compagnia in su l'ora del desinare
giunse a Saluzzo, dove tutti i paesani e molti altri vicini dattorno
trovò, che attendevan questa novella sposa di Gualtieri.
La quale dalle donne
ricevuta, e nella sala dove erano messe le tavole venuta, Griselda, così
come era, le si fece lietamente incontro dicendo: - Ben venga la mia donna -.
Le donne (che molto avevano, ma invano, pregato Gualtieri che o facesse che la
Griselda si stesse in una camera, o che egli alcuna delle robe che sue erano
state le prestasse, acciò che così non andasse davanti a'suoi
forestieri) furon messe a tavola, e cominciate a servire. La fanciulla era
guardata da ogn'uomo, e ciascun diceva che Gualtieri aveva fatto buon cambio;
ma intra gli altri Griselda la lodava molto, e lei e il suo fratellino.
Gualtieri, al qual pareva
pienamente aver veduto quantunque disiderava della pazienza della sua donna,
veggendo che di niente la novità delle cose la cambiava, ed essendo
certo ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò che savia
molto la conoscea, gli parve tempo di doverla trarre dell'amaritudine, la quale
estimava che ella sotto il forte viso nascosa tenesse. Per che, fattalasi
venire, in presenzia d'ogn'uomo sorridendo le disse:
- Che ti par della nostra
sposa?
- Signor mio, - rispose
Griselda - a me ne par molto bene; e se così è savia come ella
è bella, che 'l credo, io non dubito punto che voi non dobbiate con lei
vivere il più consolato signore del mondo; ma quanto posso vi priego che
quelle punture, le quali all'altra, che vostra fu, già deste, non diate
a questa; ché appena che io creda che ella le potesse sostenere, sì
perché più giovane è, e sì ancora perché in dilicatezze
è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata.
Gualtieri, veggendo che
ella fermamente credeva costei dovere esser sua moglie, né per ciò in
alcuna cosa men che ben parlava, la si fece sedere allato, e disse:
- Griselda, tempo è
omai che tu senta frutto della tua lunga pazienza, e che coloro, li quali me
hanno reputato crudele e iniquo e bestiale, conoscano che ciò che io
faceva, ad antiveduto fine operava, vogliendo a te insegnar d'esser moglie e a
loro di saperla torre e tenere, e a me partorire perpetua quiete mentre teco a
vivere avessi; il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non
mi intervenisse, e per ciò, per prova pigliarne, in quanti modi tu sai
ti punsi e trafissi. E però che io mai non mi sono accorto che in parola
né in fatto dal mio piacer partita ti sii, parendo a me aver di te quella
consolazione che io disiderava, intendo di rendere a te ad una ora ciò
che io tra molte ti tolsi, e con somma dolcezza le punture ristorare che io ti
diedi; e per ciò con lieto animo prendi questa, che tu mia sposa credi,
e il suo fratello: sono i nostri figliuoli, li quali e tu e molti altri
lungamente stimato avete che io crudelmente uccider facessi; e io sono il tuo
marito, il quale sopra ogn'altra cosa t'amo, credendomi poter dar vanto che
niuno altro sia che, sì com'io, si possa di sua moglie contentare.
E così detto,
l'abbracciò e baciò, e con lei insieme, la qual d'allegrezza
piagnea, levatosi, n'andarono là dove la figliuola tutta stupefatta
queste cose ascoltando sedea, e abbracciatala teneramente e il fratello
altressì, lei e molti altri che quivi erano sgannarono.
Le donne lietissime levate
dalle tavole, con Griselda n'andarono in camera, e con migliore augurio
trattile i suoi pannicelli, d'una nobile roba delle sue la rivestirono, e come
donna, la quale ella eziandio negli stracci pareva, nella sala la rimenarono.
E quivi fattasi
co'figliuoli maravigliosa festa, essendo ogn'uomo lietissimo di questa cosa, il
sollazzo e ' festeggiare multiplicarono e in più giorni tirarono; e
savissimo reputaron Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili
l'esperienze prese della sua donna; e sopra tutti savissima tenner Griselda.
Il conte da Panago si
tornò dopo alquanti dì a Bologna, e Gualtieri, tolto Giannucole
dal suo lavorio, come suocero il puose in istato, che egli onoratamente e con
gran consolazione visse e finì la sua vecchiezza. Ed egli appresso,
maritata altamente la sua figliuola, con Griselda, onorandola sempre quanto
più si potea, lungamente e consolato visse.
Che si potrà dir
qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de'divini spiriti,
come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che
d'avere soprauomini signoria? Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso,
non solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più non udite
prove da Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito
d'essersi abbattuto a una, che quando fuor di casa l'avesse in camicia cacciata,
s'avesse sì ad un altro fatto scuotere il pelliccione, che riuscita ne
fosse una bella roba.
Giornata decima -
Conclusione
La novella di Dioneo era
finita, e assai le donne, chi d'una parte e chi d'altra tirando, chi biasimando
una cosa e chi un'altra intorno ad essa lodandone, n'avevan favellato, quando
il re, levato il viso verso il cielo, e vedendo che il sole era già
basso all'ora di vespro, senza da seder levarsi, così cominciò a
parlare:
- Adorne donne, come io
credo che voi conosciate, il senno de'mortali non consiste solamente nell'avere
memoria le cose preterite o conoscere le presenti, ma per l'una e per l'altra
di queste sapere antiveder le future è da'solenni uomini senno grandissimo
reputato.
Noi, come voi sapete,
domane saranno quindici dì, per dovere alcun diporto pigliare a
sostentamento della nostra sanità e della vita, cessando le malinconie
e'dolori e l'angoscie, le quali per la nostra città continuamente, poi
che questo pestilenzioso tempo incominciò, si veggono, uscimmo di
Firenze; il che secondo il mio giudicio noi onestamente abbiam fatto; per
ciò che, se io ho saputo ben riguardare, quantunque liete novelle e
forse attrattive a concupiscenzia dette ci sieno, e del continuo mangiato e
bevuto bene, e sonato e cantato, cose tutte da incitare le deboli menti a cose
meno oneste, niuno atto, niuna parola, niuna cosa né dalla vostra parte né
dalla nostra ci ho conosciuta da biasimare; continua onestà, continua
concordia, continua fraternal dimestichezza mi ci è paruta vedere e
sentire. Il che senza dubbio in onore e servigio di voi e di me m'è
carissimo. E per ciò, acciò che per troppa lunga consuetudine
alcuna cosa che in fastidio si convertisse nascer non ne potesse, e perché alcuno
la nostra troppo lunga dimoranza gavillar non potesse, e avendo ciascun di noi,
la sua giornata, avuta la sua parte dell'onore che in me ancora dimora,
giudicherei, quando piacer fosse di voi, che convenevole cosa fosse omai il
tornarci là onde ci partimmo. Senza che, se voi ben riguardate, la
nostra brigata, già da più altre saputa dattorno, per maniera
potrebbe multiplicare che ogni nostra consolazion ci torrebbe; e per
ciò, se voi il mio consiglio approvate, io mi serverò la corona
donatami per infino alla nostra partita, che intendo che sia domattina; ove voi
altramenti diliberaste, io ho già pronto cui per lo dì seguente
ne debbia incoronare.
I ragionamenti furon molti
tra le donne e tra'giovani, ma ultimamente presero per utile e per onesto il
consiglio del re, e così di fare diliberarono come egli aveva ragionato;
per la qual cosa esso, fattosi il siniscalco chiamare, con lui del modo che a
tenere avesse nella seguente mattina parlò, e licenziata la brigata
infino all'ora della cena, in piè si levò.
Le donne e gli altri
levatisi, non altramenti che usati si fossero, chi ad un diletto e chi ad un
altro si diede. E l'ora del la cena venuta, con sommo piacere furono a quella,
e dopo quella a cantare e a sonare e a carolare cominciarono; e menando la Lauretta
una danza, comandò il re alla Fiammetta che dicesse una canzone, la
quale assai piacevolmente così in cominciò a cantare:
S'amor venisse senza
gelosia,
io non so donna nata
lieta com'io sarei, e qual
vuol sia.
Se gaia giovinezza
in bello amante dee donna
appagare,
o pregio di virtute,
o ardire o prodezza,
senno, costume o ornato
parlare,
o leggiadrie compiute,
io son colei per certo in
cui salute,
essendo innamorata,
tutte le veggio en la
speranza mia.
Ma per ciò ch'io
m'avveggio
che altre donne savie son
com'io,
io triemo di paura,
e pur credendo il peggio,
di quello avviso en l'altre
esser disio
ch'a me l'anima fura,
e così quel che
m'è somma ventura
mi fa isconsolata
sospirar forte e stare in
vita ria.
Se io sentissi fede
nel mio signor, quant'io
sento valore,
gelosa non sarei;
ma tanto se ne vede,
pur che sia chi 'nviti
l'amadore,
ch'io gli ho tutti per rei.
Questo m'accuora, e
volentier morrei,
e di chiunque il guata
sospetto, e temo non mel
porti via.
Per Dio dunque ciascuna
donna pregata sia che non
s'attenti
di farmi in ciò
oltraggio;
ché, se ne fia nessuna
che con parole o cenni o
blandimenti
in questo il mio dannaggio
cerchi o procuri, s'io il
risapraggio,
se io non sia svisata,
piagner farolle amara tal
follia.
Come la Fiammetta ebbe la
sua canzone finita, così Dioneo, che allato l'era, ridendo disse:
- Madonna, voi fareste una
gran cortesia a farlo cognoscere a tutte, acciò che per ignoranza non vi
fosse tolta la possessione, poi che così ve ne dovete adirare.
Appresso questa se ne
cantarono più altre, e già essendo la notte presso che mezza,
come al re piacque, tutti s'andarono a riposare.
E come il nuovo giorno
apparve, levati, avendo già il siniscalco via ogni lor cosa mandata,
dietro alla guida del discreto re verso Firenze si ritornarono. E i tre
giovani, lasciate le sette donne in Santa Maria Novella, donde con loro partiti
s'erano, da esse accommiatatisi, a loro altri piaceri attesero; ed esse, quando
tempo lor parve, se ne tornarono alle loro case.
Conclusione dell'Autore
Nobilissime giovani, a
consolazion delle quali io a così lunga fatica messo mi sono, io mi
credo, aiutantemi la divina grazia, sì come io avviso, per li vostri
pietosi prieghi, non già per li miei meriti, quello compiutamente aver
fornito che io nel principio della presente opera promisi di dover fare; per la
qual cosa Iddio primieramente, e appresso voi ringraziando, è da dare
alla penna e alla man faticata riposo. Il quale prima che io le conceda, brievemente
ad alcune cosette, le quali forse alcuna di voi o altri potrebbe dire (con
ciò sia cosa che a me paia esser certissimo queste non dovere avere
spezial privilegio più che l'altre cose, anzi non averlo mi ricorda nel
principio della quarta giornata aver mostrato), quasi a tacite quistioni mosse,
di rispondere intendo.
Saranno per avventura
alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa
licenzia usata, sì come fare alcuna volta dire alle donne e molte spesso
ascoltare cose non assai convenienti né a dire né ad ascoltare ad oneste donne.
La qual cosa io nego, per ciò che niuna sì disonesta n'è,
che, con onesti vocaboli dicendola, si disdica ad alcuno; il che qui mi pare
assai convenevolmente bene aver fatto.
Ma presupponiamo che
così sia (ché non intendo di piatir con voi, che mi vincereste), dico, a
rispondere perché io abbia ciò fatto, assai ragioni vengon prontissime.
Primieramente se alcuna cosa in alcuna n'è, la qualità delle
novelle l'hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente
persona fien riguardate, assai aperto sarà conosciuto (se io quelle
della lor forma trar non avessi voluto) altramenti raccontar non poterle. E se
forse pure alcuna particella è in quelle, alcuna paroletta più
liberale che forse a spigolistra donna non si conviene, le quali più le
parole pesano che'fatti e più d'apparer s'ingegnano che d'esser buone,
dico che più non si dee a me esser disdetto d'averle scritte, che
generalmente si disdica agli uomini e alle donne di dir tutto dì
"foro e caviglia e mortaio e pestello e salciccia e mortadello",e
tutto pieno di simiglianti cose. Senza che alla mia penna non dee essere meno
d'autorità conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza
alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san
Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia, e a san Giorgio il
dragone dove gli piace; ma egli fa Cristo maschio ed Eva femina, e a Lui
medesimo che volle per la salute della umana generazione sopra la croce morire,
quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella.
Appresso assai ben si
può cognoscere queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con animi
e con vocaboli onestissimi si convien dire (quantunque nelle sue istorie
d'altramenti fatte, che le scritte da me, si truovino assai), né ancora nelle
scuole de'filosofanti, dove l'onestà non meno che in altra par te
è richesta, dette sono, né tra'cherici né tra'filosofi in alcun luogo,
ma ne'giardini, in luogo di sollazzo, tra persone giovani, benché mature e non
pieghevoli per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in capo per
iscampo di sé era alli più onesti non disdicevole, dette sono.
Le quali, chenti che elle
si sieno, e nuocere e giovar possono, sì come possono tutte l'altre cose,
avendo riguardo allo ascoltatore. Chi non sa ch'è il vino ottima cosa
a'viventi, secondo Cinciglione e Scolaio e assai altri, e a colui che ha la
febbre è nocivo? Direm noi, per ciò che nuoce a'febricitanti, che
sia malvagio? Chi non sa che 'l fuoco è utilissimo, anzi necessario
a'mortali? Direm noi, per ciò che egli arde le case e le ville e le
città, che sia malvagio? L'arme similmente la salute difendon di coloro
che pacificamente di viver disiderano, e anche uccidon gli uomini molte volte,
non per malizia di loro, ma di coloro che malvagiamente l'adoperano.
Niuna corrotta mente intese
mai sanamente parola; e così come le oneste a quella non giovano,
così quelle che tanto oneste non sono la ben disposta non posson
contaminare, se non come il loto i solari raggi o le terrene brutture le
bellezze del cielo.
Quali libri, quali parole,
quali lettere son più sante, più degne, più riverende, che
quelle della divina Scrittura? E sì sono egli stati assai che, quelle
perversamente intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa
in sé medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può
essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle. Chi vorrà
da quelle malvagio consiglio o malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno
ad alcuno, se forse in sé l'hanno, e torte e tirate fieno ad averlo; e chi
utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno, né sarà
mai che altro che utili e oneste sien dette o tenute, se a que'tempi o a quelle
persone si leggeranno, per cui s e pe'quali state sono raccontate. Chi ha a dir
paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare:
elle non correranno di dietro a niuna a farsi leggere; benché e le pinzochere
altressì dicono e anche fanno delle cosette otta per vicenda.
Saranno similmente di
quelle che diranno qui esserne alcune, che non essendoci sarebbe stato assai
meglio. Concedasi: ma io non poteva né doveva scrivere se non le raccontate, e
per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle, e io l'avrei scritte
belle. Ma se pur presupporre si volesse che io fossi stato di quelle e lo
'nventore e lo scrittore (che non fui), dico che io non mi vergognerei che
tutte belle non fossero per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio
in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente; e Carlo Magno, che fu il
primo facitore de'Paladini, non ne seppe tanti creare che esso di lor soli
potesse fare oste.
Conviene nella moltitudine
delle cose, diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai
sì ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si
trovasse mescolato tra l'erbe migliori. Senza che, ad avere a favellare a
semplici giovinette come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata
l'andar cercando e faticandosi in trovar cose molto esquisite, e gran cura
porre di molto misuratamente parlare. Tuttavia chi va tra queste leggendo,
lasci star quelle che pungono, e quelle che dilettano legga. Esse, per non
ingannare alcuna personar tutte nella fronte portan segnato quello che esse
dentro dal loro seno nascoso tengono.
E ancora, credo,
sarà tal che dirà che ce ne son di troppo lunghe. Alle quali
ancora dico, che chi ha altra cosa a fare, follia fa a queste leggere, eziandio
se brievi fossero. E come che molto tempo passato sia da poi che io a scriver
cominciai, infino a questa ora che io al fine vengo della mia fatica, non
m'è per ciò uscito di mente me avere questo mio affanno offerto
alle oziose e non all'altre; e a chi per tempo passar legge, niuna cosa puote
esser lunga, se ella quel fa per che egli l'adopera.
Le cose brievi si convengon
molto meglio agli studianti, li quali non per passare ma per utilmente
adoperare il tempo faticano, che a voi, donne, alle quali tanto del tempo
avanza quanto negli amorosi piaceri non ispendete. E oltre a questo, per
ciò che né ad Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di voi non va a
studiare, più distesamente parlar vi si conviene che a quegli che hanno
negli studi gl'ingegni assottigliati.
Né dubito punto che non
sien di quelle ancor che diranno le cose dette esser troppo piene e di motti e
di ciance e mal convenirsi ad uno uom pesato e grave aver così
fattamente scritto. A queste son io tenuto di render grazie e rendo, per
ciò che, da buon zelo movendosi, tenere son della mia fama.
Ma così alla loro
opposizione vo'rispondere: io confesso d'esser pesato, e molte volte de'miei
dì essere stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non
m'hanno, affermo che io non son grave, anzi son io sì lieve che io sto a
galla nell'acqua; e considerato che le prediche fatte da'frati, per rimorder
delle lor colpe gli uomini, il più oggi piene di motti e di ciance e di
scede [sono], estimai che quegli medesimi non stesser male nelle mie novelle,
scritte per cacciar la malinconia delle femine. Tuttavia, se troppo per questo
ridessero, il lamento di Geremia, la passione del Salvatore e il ramarichio
della Maddalena ne le potrà agevolmente guerire.
E chi starà in
pensiero che di quelle ancor non si truovino che diranno che io abbia mala
lingua e velenosa, per ciò che in alcun luogo scrivo il ver de'frati? A
queste che così diranno si vuol perdonare, per ciò che non
è da credere che altra che giusta cagione le muova, per ciò che i
frati son buone persone e fuggono il disagio per l'amor di Dio, e macinano a
raccolta e nol ridicono; e se non che di tutti un poco viene del caprino,
troppo sarebbe più piacevole il piato loro.
Confesso nondimeno le cose
di questo mondo non avere stabilità alcuna, ma sempre essere in
mutamento, e così potrebbe della mia lingua esser intervenuto; la quale,
non credendo io al mio giudicio (il quale a mio potere io fuggo nelle mie cose)
non ha guari mi disse una mia vicina che io l'aveva la migliore e la più
dolce del mondo; e in verità, quando questo fu, egli erano poche a
scrivere delle soprascritte novelle. E per ciò che animosamente ragionan
quelle cotali, voglio che quello che è detto basti lor per risposta.
E lasciando omai a
ciascheduna e dire e credere come le pare, tempo è da por fine alle
parole, Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga fatica col suo
aiuto n'ha al desiderato fine condotto. E voi, piacevoli donne, con la sua
grazia in pace vi rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse alcuna cosa
giova l'averle lette.
Qui finisce la decima e ultima giornata
del libro chiamato Decameron, cognominato prencipe galeotto