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NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
di Cesare
Beccaria
(1764)
[e-text a cura di Claudio Paganelli. Tratto dalla edizione 1973 U.
Mursia & C., a cura di Renato Fabietti, collana GUM Grande Universale
Mursia. ISBN assente ]
Dei delitti e delle pene è il titolo del trattato scritto
dall’illuminista lombardo Cesare Beccaria (1738-1794) nel corso del 1763 e
pubblicato l’anno successivo; un’opera che fu accolta con grande successo in
tutto il continente europeo, ricevendo le lodi dei massimi pensatori
dell’epoca. Il fine, prepostosi dal marchese Beccaria nello scrivere il
trattato, era quello di sottolineare i difetti delle legislazioni giudiziarie a
lui contemporanee, e, nello stesso tempo, di avanzare delle possibili soluzioni
per porre rimedio alle lacune e alle ingiustizie dei vari sistemi penali.
Influenzato dalle teorie esposte da Jean Jacques Rousseau nel suo Contratto
sociale ed ammiratore del pensiero del filosofo inglese John Locke, nel
breve trattato Beccaria parte dal concetto della convivenza comune: gli uomini,
sostiene, hanno sacrificato una parte delle loro libertà, accettando di
vivere secondo le regole della comunità, in cambio di una maggiore
sicurezza e di una maggiore utilità. L’autorità dello Stato e
delle leggi è quindi da considerarsi legittima finché non oltrepassi
certi limiti accettati dai governati in nome del bene comune. Citando
direttamente Montesquieu, l’autore ripete come ogni punizione che non derivi
dall’assoluta necessità sia tirannica. Il sovrano ha il diritto di
punire, ma tale diritto è fondato sull’esigenza di tutelare la
libertà e il benessere pubblici dalle “usurpazioni particolari”: nessun
arbitrio deve essere perpetrato poiché nel decidere l’entità della pena
l’unico criterio da seguire è “l’utile sociale”.
Partendo da questa premessa, le proposte cardine avanzate dal
filosofo sono le seguenti: una decisa battaglia contro l’oscurità delle
leggi, perché questa conduce a una varietà di interpretazioni, spesso
arbitrarie, che favoriscono gli abusi; la necessità di rendere pubblici
i giudizi, per non dar adito a sospetti di ingiustizia e tirannide, e la
necessità di estirpare il sistema delle denuncie anonime, pratica che
alimenta i riprovevoli istinti della vendetta e del tradimento; l’opposizione
netta alla tortura e alla pena di morte. La prima non garantisce l’emergere
della verità, oltre ad essere una pratica disumana, poiché davanti al
dolore fisico chiunque sarebbe disposto a confessare qualsiasi delitto.
Inoltre, seguendo il principio esposto dal Beccaria nei primi capitoli, siccome
il diritto di punire non deve andare oltre la necessità di tutelare i
cittadini dagli elementi più pericolosi, non è giusto accanirsi
sugli accusati prima di aver provato la loro colpevolezza. Riguardo la pena di
morte, essa va abolita in quanto viene meno allo spirito del contratto sociale
(nessun uomo è disposto a dare la propria vita in nome della convivenza
comunitaria), e perché non è un deterrente efficace contro la
criminalità: secondo Beccaria spaventa più l’idea di una lunga
pena detentiva che non l’idea di una pena durissima, ma istantanea. È
importante anche che la pena segua in tempi brevi il reato commesso, per non
lasciare l’indiziato nell’incertezza riguardo la sua sorte e per imprimere
nella mente dei cittadini la consequenzialità di colpa e pena.
Altri due principi fondamentali e innovatori del trattato sono
l’attribuzione di un carattere laico alla pena e l’importanza della prevenzione
dei delitti. Beccaria separa nettamente la nozione di peccato da quella di
crimine, la punizione per essere venuti meno alle leggi non ha niente a che
spartire con l’espiazione di un peccato nel senso cristiano: la pena assegnata
dall’autorità giudiziaria è solo un mezzo per impedire che
avvengano o si ripetano determinate violazioni. Ma soprattutto è
importante cercare di prevenire i crimini, educando alla legalità;
bisogna fare in modo che le leggi siano chiare e facili da comprendere per
tutti, che siano rispettate e temute.
In definitiva, lo scopo della pena è fare in modo che un
danno commesso nei confronti della società non si ripeta e di
scoraggiarne altri: la pena non è più, nella visione di Beccaria,
uno strumento per “raddoppiare con altro male il male prodotto dal delitto
commesso”, ma uno strumento per impedire che al male già arrecato se ne
aggiunga altro ad opera dello stesso criminale o ad opera di altri che dalla
sua impunità potrebbero essere incoraggiati. La pena è un mezzo
di difesa, un mezzo di prevenzione sociale.
La fredda razionalità del pensatore milanese è il
filo che tiene unita l’opera: le sue considerazioni tengono sempre presente
quella che è l’utilità pratica dei provvedimenti presi o da
prendere, resta ben poco spazio a considerazioni di ordine morale, come ben
evidenzia la posizione dell’autore nei confronti della pena di morte. Questa va
abolita perché non consegue gli scopi prefissi, soprattutto per tale motivo va
eliminata: la sua crudeltà, la sua irreparabilità sono marginali,
tanto è vero che Beccaria nel suo trattato indica anche delle eccezioni
nelle quali il ricorso alla pena capitale è ammissibile. Questo tipo di
atteggiamento ha attirato qualche critica al trattato in tempi recenti poiché
il calcolo utilitaristico dei vantaggi e degli svantaggi delle pene non deve
essere la sola base dei sistemi penali, ma in essi deve trovar posto il
rispetto della persona umana, quei diritti inviolabili dell’uomo che ancora
oggi molto fanno dibattere. Va però detto che se è possibile
ravvisare prese di posizione discutibili in alcune pagine de Dei delitti e
delle pene, in altre Beccaria sottolinea come l’imputato debba essere
sempre considerato persona e non cosa e come non possa esistere libertà
laddove questo principio non venga rispettato. Malgrado alcune affermazioni
criticabili agli occhi moderni, l’opera di Cesare Beccaria resta un passo avanti
fondamentale nella storia dello sviluppo civile del mondo occidentale: sia per
il successo che ebbe (dalla Russia di Caterina II che voleva l’illuminista tra
i suoi consiglieri agli Stati Uniti di Jefferson), tale da smuovere le
coscienze su argomenti basilari per la formazione di una società giusta
e democratica, sia per l’utilità pratica che dimostrò visto che
molte delle misure auspicate nel trattato vennero effettivamente messe in
pratica in diversi stati.
Note critiche a cura di Laura Barberi
Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo
conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in
Costantinopoli, frammischiate poscia co' riti longobardi, ed involte in
farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione
di opinioni che da una gran parte dell'Europa ha tuttavia il nome di leggi; ed
è cosa funesta quanto comune al dì d'oggi che una opinione di
Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza
suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro
che tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli uomini. Queste
leggi, che sono uno scolo de' secoli i piú barbari, sono esaminate in questo
libro per quella parte che risguarda il sistema criminale, e i disordini di
quelle si osa esporli a' direttori della pubblica felicità con uno stile
che allontana il volgo non illuminato ed impaziente. Quella ingenua indagazione
della verità, quella indipendenza delle opinioni volgari con cui
è scritta quest'opera è un effetto del dolce e illuminato governo
sotto cui vive l'autore. I grandi monarchi, i benefattori della umanità
che ci reggono, amano le verità esposte dall'oscuro filosofo con un non
fanatico vigore, detestato solamente da chi si avventa alla forza o alla
industria, respinto dalla ragione; e i disordini presenti da chi ben n'esamina
tutte le circostanze sono la satira e il rimprovero delle passate età,
non già di questo secolo e de' suoi legislatori.
Chiunque volesse onorarmi delle sue critiche
cominci dunque dal ben comprendere lo scopo a cui è diretta quest'opera,
scopo che ben lontano di diminuire la legittima autorità, servirebbe ad
accrescerla se piú che la forza può negli uomini la opinione, e se la dolcezza
e l'umanità la giustificano agli occhi di tutti. Le mal intese critiche
pubblicate contro questo libro si fondano su confuse nozioni, e mi obbligano
d'interrompere per un momento i miei ragionamenti agl'illuminati lettori, per
chiudere una volta per sempre ogni adito agli errori di un timido zelo o alle
calunnie della maligna invidia.
Tre sono le sorgenti delle quali derivano i
principii morali e politici regolatori degli uomini. La rivelazione, la legge
naturale, le convenzioni fattizie della società. Non vi è
paragone tra la prima e le altre per rapporto al principale di lei fine; ma si
assomigliano in questo, che conducono tutte tre alla felicità di questa
vita mortale. Il considerare i rapporti dell'ultima non è l'escludere i
rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, benché divine ed immutabili,
furono per colpa degli uomini dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni
di vizio e di virtú in mille modi nelle depravate menti loro alterate, cosí
sembra necessario di esaminare separatamente da ogni altra considerazione
ciò che nasca dalle pure convenzioni umane, o espresse, o supposte per
la necessità ed utilità comune, idea in cui ogni setta ed ogni
sistema di morale deve necessariamente convenire; e sarà sempre lodevole
intrappresa quella che sforza anche i piú pervicaci ed increduli a conformarsi
ai principii che spingon gli uomini a vivere in società. Sonovi dunque
tre distinte classi di virtú e di vizio, religiosa, naturale e politica. Queste
tre classi non devono mai essere in contradizione fra di loro, ma non tutte le
conseguenze e i doveri che risultano dall'una risultano dalle altre. Non tutto
ciò che esige la rivelazione lo esige la legge naturale, né tutto
ciò che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli è
importantissimo di separare ciò che risulta da questa convenzione,
cioè dagli espressi o taciti patti degli uomini, perché tale è il
limite di quella forza che può legittimamente esercitarsi tra uomo e
uomo senza una speciale missione dell'Essere supremo. Dunque l'idea della virtú
politica può senza taccia chiamarsi variabile; quella della virtú
naturale sarebbe sempre limpida e manifesta se l'imbecillità o le
passioni degli uomini non la oscurassero; quella della virtú religiosa è
sempre una costante, perché rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata.
Sarebbe dunque un errore l'attribuire a chi parla
di convenzioni sociali e delle conseguenze di esse principii contrari o alla
legge naturale o alla rivelazione; perché non parla di queste. Sarebbe un
errore a chi, parlando di stato di guerra prima dello stato di società,
lo prendesse nel senso hobbesiano, cioè di nessun dovere e di nessuna
obbligazione anteriore, in vece di prenderlo per un fatto nato dalla corruzione
della natura umana e dalla mancanza di una sanzione espressa. Sarebbe un errore
l'imputare a delitto ad uno scrittore, che considera le emanazioni del patto
sociale, di non ammetterle prima del patto istesso.
La giustizia divina e la giustizia naturale sono
per essenza loro immutabili e costanti, perché la relazione fra due medesimi
oggetti è sempre la medesima; ma la giustizia umana, o sia politica, non
essendo che una relazione fra l'azione e lo stato vario della società,
può variare a misura che diventa necessaria o utile alla società
quell'azione, né ben si discerne se non da chi analizzi i complicati e
mutabilissimi rapporti delle civili combinazioni. Sí tosto che questi principii
essenzialmente distinti vengano confusi, non v'è piú speranza di
ragionar bene nelle materie pubbliche. Spetta a' teologi lo stabilire i confini
del giusto e dell'ingiusto, per ciò che riguarda l'intrinseca malizia o
bontà dell'atto; lo stabilire i rapporti del giusto e dell'ingiusto
politico, cioè dell'utile o del danno della società, spetta al
pubblicista; né un oggetto può mai pregiudicare all'altro, poiché ognun
vede quanto la virtú puramente politica debba cedere alla immutabile virtú
emanata da Dio.
Chiunque, lo ripeto, volesse onorarmi delle sue
critiche, non cominci dunque dal supporre in me principii distruttori o della
virtú o della religione, mentre ho dimostrato tali non essere i miei principii,
e in vece di farmi incredulo o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo logico o
inavveduto politico; non tremi ad ogni proposizione che sostenga gl'interessi
dell'umanità; mi convinca o della inutilità o del danno politico
che nascer ne potrebbe dai miei principii, mi faccia vedere il vantaggio delle
pratiche ricevute. Ho dato un pubblico testimonio della mia religione e della sommissione
al mio sovrano colla risposta alle Note ed osservazioni; il rispondere ad
ulteriori scritti simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque
scriverà con quella decenza che si conviene a uomini onesti e con quei
lumi che mi dispensino dal provare i primi principii, di qualunque carattere
essi siano, troverà in me non tanto un uomo che cerca di rispondere
quanto un pacifico amatore della verità.
Gli uomini lasciano per lo piú in abbandono i piú
importanti regolamenti alla giornaliera prudenza o alla discrezione di quelli,
l'interesse de' quali è di opporsi alle piú provide leggi che per natura
rendono universali i vantaggi e resistono a quello sforzo per cui tendono a
condensarsi in pochi, riponendo da una parte il colmo della potenza e della
felicità e dall'altra tutta la debolezza e la miseria. Perciò se
non dopo esser passati framezzo mille errori nelle cose piú essenziali alla
vita ed alla libertà, dopo una stanchezza di soffrire i mali, giunti
all'estremo, non s'inducono a rimediare ai disordini che gli opprimono, e a
riconoscere le piú palpabili verità, le quali appunto sfuggono per la
semplicità loro alle menti volgari, non avvezze ad analizzare gli
oggetti, ma a riceverne le impressioni tutte di un pezzo, piú per tradizione che
per esame.
Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur
sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo piú che lo
stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera
necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura
umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini,
e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità
divisa nel maggior numero. Felici sono quelle pochissime nazioni, che non
aspettarono che il lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse
succedere all'estremità de' mali un avviamento al bene, ma ne
accelerarono i passaggi intermedi con buone leggi; e merita la gratitudine
degli uomini quel filosofo ch'ebbe il coraggio dall'oscuro e disprezzato suo
gabinetto di gettare nella moltitudine i primi semi lungamente infruttuosi
delle utili verità.
Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano
e i sudditi, e fralle diverse nazioni; il commercio si è animato
all'aspetto delle verità filosofiche rese comuni colla stampa, e si
è accesa fralle nazioni una tacita guerra d'industria la piú umana e la
piú degna di uomini ragionevoli. Questi sono frutti che si debbono alla luce di
questo secolo, ma pochissimi hanno esaminata e combattuta la crudeltà
delle pene e l'irregolarità delle procedure criminali, parte di
legislazione cosí principale e cosí trascurata in quasi tutta l'Europa,
pochissimi, rimontando ai principii generali, annientarono gli errori
accumulati di piú secoli, frenando almeno, con quella sola forza che hanno le
verità conosciute, il troppo libero corso della mal diretta potenza, che
ha dato fin ora un lungo ed autorizzato esempio di fredda atrocità. E
pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele ignoranza ed alla ricca indolenza,
i barbari tormenti con prodiga e inutile severità moltiplicati per
delitti o non provati o chimerici, la squallidezza e gli orrori d'una prigione,
aumentati dal piú crudele carnefice dei miseri, l'incertezza, doveano scuotere
quella sorta di magistrati che guidano le opinioni delle menti umane.
L'immortale Presidente di Montesquieu ha
rapidamente scorso su di questa materia. L'indivisibile verità mi ha
forzato a seguire le tracce luminose di questo grand'uomo, ma gli uomini
pensatori, pe' quali scrivo, sapranno distinguere i miei passi dai suoi. Me
fortunato, se potrò ottenere, com'esso, i segreti ringraziamenti degli
oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò inspirare quel dolce
fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl'interessi della
umanità!
Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini
indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un
continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile
dall'incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il
restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni
di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità
di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed
amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava
difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale
cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma
usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano de' motivi sensibili che
bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere
nell'antico caos le leggi della società. Questi motivi sensibili sono le
pene stabilite contro agl'infrattori delle leggi. Dico sensibili motivi,
perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili
principii di condotta, né si allontana da quel principio universale di
dissoluzione, che nell'universo fisico e morale si osserva, se non con motivi
che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla
mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si
oppongono al bene universale: né l'eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le
piú sublimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni
eccitate dalle vive percosse degli oggetti presenti.
Ogni pena che non derivi dall'assoluta
necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione
che si può rendere piú generale cosí: ogni atto di autorità di
uomo a uomo che non derivi dall'assoluta necessità è tirannico.
Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i
delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica
dalle usurpazioni particolari; e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú
sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il
sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e in esso troveremo i
principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti, poiché
non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella
non sia fondata su i sentimenti indelebili dell'uomo. Qualunque legge devii da
questi incontrerà sempre una resistenza contraria che vince alla fine,
in quella maniera che una forza benché minima, se sia continuamente applicata,
vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo.
Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte
della propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non
esiste che ne' romanzi; se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i
patti che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte
le combinazioni del globo.
La moltiplicazione del genere umano, piccola per se
stessa, ma di troppo superiore ai mezzi che la sterile ed abbandonata natura
offriva per soddisfare ai bisogni che sempre piú s'incrocicchiavano tra di
loro, riuní i primi selvaggi. Le prime unioni formarono necessariamente le
altre per resistere alle prime, e cosí lo stato di guerra trasportossi dall'individuo
alle nazioni.
Fu dunque la necessità che costrinse gli
uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo
che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion
possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L'aggregato
di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di piú
è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto.
Osservate che la parola diritto non è contradittoria alla parola forza,
ma la prima è piuttosto una modificazione della seconda, cioè la
modificazione piú utile al maggior numero. E per giustizia io non intendo altro
che il vincolo necessario per tenere uniti gl'interessi particolari, che
senz'esso si scioglierebbono nell'antico stato d'insociabilità; tutte le
pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono
ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non attaccare a questa parola
giustizia l'idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un
essere esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini,
maniera che influisce infinitamente sulla felicità di ciascuno; nemmeno
intendo quell'altra sorta di giustizia che è emanata da Dio e che ha i
suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire.
La prima conseguenza di questi principii è
che le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e
quest'autorità non può risedere che presso il legislatore, che
rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale; nessun
magistrato (che è parte di società) può con giustizia
infligger pene contro ad un altro membro della società medesima. Ma una
pena accresciuta al di là dal limite fissato dalle leggi è la
pena giusta piú un'altra pena; dunque non può un magistrato, sotto
qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad
un delinquente cittadino.
La seconda conseguenza è che se ogni membro
particolare è legato alla società, questa è parimente
legata con ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga
le due parti. Questa obbligazione, che discende dal trono fino alla capanna,
che lega egualmente e il piú grande e il piú miserabile fra gli uomini, non
altro significa se non che è interesse di tutti che i patti utili al
maggior numero siano osservati. La violazione anche di un solo, comincia ad
autorizzare l'anarchia. Il sovrano, che rappresenta la società medesima,
non può formare che leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non
già giudicare che uno abbia violato il contratto sociale, poiché allora
la nazione si dividerebbe in due parti, una rappresentata dal sovrano, che
asserisce la violazione del contratto, e l'altra dall'accusato, che la nega.
Egli è dunque necessario che un terzo giudichi della verità del
fatto. Ecco la necessità di un magistrato, le di cui sentenze sieno
inappellabili e consistano in mere assersioni o negative di fatti particolari.
La terza conseguenza è che quando si provasse che l'atrocità
delle pene, se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo
d'impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso essa
sarebbe non solo contraria a quelle virtú benefiche che sono l'effetto d'una
ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici piú che a una
greggia di schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida
crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto
sociale medesimo.
Quarta conseguenza. Nemmeno l'autorità
d'interpetrare le leggi penali può risedere presso i giudici criminali
per la stessa ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno ricevuto le
leggi dagli antichi nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento
che non lasciasse ai posteri che la cura d'ubbidire, ma le ricevono dalla
vivente società, o dal sovrano rappresentatore di essa, come legittimo
depositario dell'attuale risultato della volontà di tutti; le ricevono
non come obbligazioni d'un antico giuramento, nullo, perché legava
volontà non esistenti, iniquo, perché riduceva gli uomini dallo stato di
società allo stato di mandra, ma come effetti di un tacito o espresso
giuramento, che le volontà riunite dei viventi sudditi hanno fatto al
sovrano, come vincoli necessari per frenare e reggere l'intestino fermento
degl'interessi particolari. Quest'è la fisica e reale autorità
delle leggi. Chi sarà dunque il legittimo interpetre della legge? Il
sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti, o il
giudice, il di cui ufficio è solo l'esaminare se il tal uomo abbia fatto
o no un'azione contraria alle leggi?
In ogni delitto si deve fare dal giudice un
sillogismo perfetto: la maggiore dev'essere la legge generale, la minore
l'azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena.
Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si
apre la porta all'incertezza.
Non v'è cosa piú pericolosa di quell'assioma
comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine
rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso
alle menti volgari, piú percosse da un piccol disordine presente che dalle
funeste ma rimote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una
nazione, mi sembra dimostrata. Le nostre cognizioni e tutte le nostre idee
hanno una reciproca connessione; quanto piú sono complicate, tanto piú numerose
sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di
vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della
legge sarebbe dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice,
di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue
passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice coll'offeso
e da tutte quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni oggetto
nell'animo fluttuante dell'uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino
cambiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite de'
miserabili essere la vittima dei falsi raziocini o dell'attuale fermento degli
umori d'un giudice, che prende per legittima interpetrazione il vago risultato
di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi
veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in
diversi tempi, per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma
l'errante instabilità delle interpetrazioni.
Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza
della lettera di una legge penale non è da mettersi in confronto coi
disordini che nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo inconveniente
spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che
sono la cagione dell'incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare,
da cui nascono le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di
leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra
incombenza che di esaminare le azioni de' cittadini, e giudicarle conformi o
difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell'ingiusto, che
deve dirigere le azioni sí del cittadino ignorante come del cittadino filosofo,
non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono
soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto piú crudeli quanto è
minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, piú fatali che quelle di
un solo, perché il dispotismo di molti non è correggibile che dal
dispotismo di un solo e la crudeltà di un dispotico è
proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli. Cosí acquistano i cittadini
quella sicurezza di loro stessi che è giusta perché è lo scopo
per cui gli uomini stanno in società, che è utile perché gli
mette nel caso di esattamente calcolare gl'inconvenienti di un misfatto. Egli è
vero altresí che acquisteranno uno spirito d'indipendenza, ma non già
scuotitore delle leggi e ricalcitrante a' supremi magistrati, bensí a quelli
che hanno osato chiamare col sacro nome di virtú la debolezza di cedere alle
loro interessate o capricciose opinioni. Questi principii spiaceranno a coloro
che si sono fatto un diritto di trasmettere agl'inferiori i colpi della
tirannia che hanno ricevuto dai superiori. Dovrei tutto temere, se lo spirito
di tirannia fosse componibile collo spirito di lettura.
Se l'interpetrazione delle leggi è un male,
egli è evidente esserne un altro l'oscurità che strascina seco
necessariamente l'interpetrazione, e lo sarà grandissimo se le leggi
sieno scritte in una lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza
di alcuni pochi, non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l'esito della
sua libertà, o dei suoi membri, in una lingua che formi di un libro
solenne e pubblico un quasi privato e domestico. Che dovremo pensare degli
uomini, riflettendo esser questo l'inveterato costume di buona parte della
colta ed illuminata Europa! Quanto maggiore sarà il numero di quelli che
intenderanno e avranno fralle mani il sacro codice delle leggi, tanto men
frequenti saranno i delitti, perché non v'ha dubbio che l'ignoranza e l'incertezza
delle pene aiutino l'eloquenza delle passioni.
Una conseguenza di quest'ultime riflessioni
è che senza la scrittura una società non prenderà mai una
forma fissa di governo, in cui la forza sia un effetto del tutto e non delle
parti e in cui le leggi, inalterabili se non dalla volontà generale, non
si corrompano passando per la folla degl'interessi privati. L'esperienza e la
ragione ci hanno fatto vedere che la probabilità e la certezza delle
tradizioni umane si sminuiscono a misura che si allontanano dalla sorgente. Che
se non esiste uno stabile monumento del patto sociale, come resisteranno le
leggi alla forza inevitabile del tempo e delle passioni?
Da ciò veggiamo quanto sia utile la stampa,
che rende il pubblico, e non alcuni pochi, depositario delle sante leggi, e
quanto abbia dissipato quello spirito tenebroso di cabala e d'intrigo che
sparisce in faccia ai lumi ed alle scienze apparentemente disprezzate e
realmente temute dai seguaci di lui. Questa è la cagione, per cui
veggiamo sminuita in Europa l'atrocità de' delitti che facevano gemere
gli antichi nostri padri, i quali diventavano a vicenda tiranni e schiavi. Chi
conosce la storia di due o tre secoli fa, e la nostra, potrà vedere come
dal seno del lusso e della mollezza nacquero le piú dolci virtú,
l'umanità, la beneficenza, la tolleranza degli errori umani.
Vedrà quali furono gli effetti di quella che chiamasi a torto antica
semplicità e buona fede: l'umanità gemente sotto l'implacabile
superstizione, l'avarizia, l'ambizione di pochi tinger di sangue umano gli
scrigni dell'oro e i troni dei re, gli occulti tradimenti, le pubbliche stragi,
ogni nobile tiranno della plebe, i ministri della verità evangelica
lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine,
non sono l'opera di questo secolo illuminato, che alcuni chiamano corrotto.
Non solamente è interesse comune che non si
commettano delitti, ma che siano piú rari a proporzione del male che arrecano
alla società. Dunque piú forti debbono essere gli ostacoli che
risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico,
ed a misura delle spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una
proporzione fra i delitti e le pene.
È impossibile di prevenire tutti i disordini
nell'universal combattimento delle passioni umane. Essi crescono in ragione
composta della popolazione e dell'incrocicchiamento degl'interessi particolari
che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità.
All'esattezza matematica bisogna sostituire nell'aritmetica politica il calcolo
delle probabilità. Si getti uno sguardo sulle storie e si vedranno
crescere i disordini coi confini degl'imperi, e, scemando nell'istessa
proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in
ragione dell'interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perciò
la necessità di aggravare le pene si va per questo motivo sempre piú
aumentando.
Quella forza simile alla gravità, che ci
spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che
gli sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle
azioni umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che
io chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo effetto senza
distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima
inseparabile dall'uomo, e il legislatore fa come l'abile architetto di cui
l'officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di
far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell'edificio.
Data la necessità della riunione degli
uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla opposizione medesima
degl'interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo
grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e
l'ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa.
Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte al ben pubblico, che
chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili, decrescendo dal piú
sublime al piú infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure
combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di
pene, che discendesse dalla piú forte alla piú debole: ma basterà al saggio
legislatore di segnarne i punti principali, senza turbar l'ordine, non
decretando ai delitti del primo grado le pene dell'ultimo. Se vi fosse una
scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e
comune misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di
umanità o di malizia delle diverse nazioni.
Qualunque azione non compresa tra i due
sovraccennati limiti non può essere chiamata delitto, o punita
come tale, se non da coloro che vi trovano il loro interesse nel cosí chiamarla.
La incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale che
contradice alla legislazione; piú attuali legislazioni che si escludono
scambievolmente; una moltitudine di leggi che espongono il piú saggio alle pene
piú rigorose, e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di
virtú, e però nata l'incertezza della propria esistenza, che
produce il letargo ed il sonno fatale nei corpi politici. Chiunque
leggerà con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali,
troverà quasi sempre i nomi di vizio e di virtú, di
buon cittadino o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non
in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per
conseguenza sempre conformi all'interesse comune, ma in ragione delle passioni
e degli errori che successivamente agitarono i differenti legislatori.
Vedrà bene spesso che le passioni di un secolo sono la base della morale
dei secoli futuri, che le passioni forti, figlie del fanatismo e
dell'entusiasmo, indebolite e rose, dirò cosí, dal tempo, che riduce
tutti i fenomeni fisici e morali all'equilibrio, diventano a poco a poco la
prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del forte e dell'accorto. In
questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtú, e tali sono perché
si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose,
si cambiano coi fiumi e colle montagne che sono bene spesso i confini, non solo
della fisica, ma della morale geografia.
Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri
sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle piú sublimi
operazioni, furono destinati dall'invisibile legislatore il premio e la pena,
dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno
osservata contradizione, quanto piú comune, che le pene puniscano i delitti che
hanno fatto nascere. Se una pena uguale è destinata a due delitti che
disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un piú
forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito
un maggior vantaggio.
Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di
asserire che l'unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla
nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti
l'intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale
degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in
tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee,
delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non solo
un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni
delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior
male alla società; e alcune altre volte colla piú cattiva volontà
ne fanno il maggior bene.
Altri misurano i delitti piú dalla dignità
della persona offesa che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se
questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all'Essere degli
esseri dovrebbe piú atrocemente punirsi che l'assassinio d'un monarca, la
superiorità della natura essendo un infinito compenso alla differenza
dell'offesa.
Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del
peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione
risalterà agli occhi d'un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra
uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La
sola necessità ha fatto nascere dall'urto delle passioni e dalle
opposizioni degl'interessi l'idea della utilità comune, che
è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza
da un Essere perfetto e creatore, che si è riserbato a sé solo il
diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo, perché egli solo
può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi
disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l'insetto che oserà
supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l'Essere che basta a
se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di
piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La
gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da
esseri finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si
prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli
uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli
uomini possono essere in contradizione coll'Onnipossente nell'offenderlo,
possono anche esserlo col punire.
Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti,
cioè il danno della società. Questa è una di quelle
palpabili verità che, quantunque non abbian bisogno né di quadranti, né
di telescopi per essere scoperte, ma sieno alla portata di ciascun mediocre
intelletto, pure per una maravigliosa combinazione di circostanze non sono con
decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi pensatori, uomini d'ogni
nazione e d'ogni secolo. Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite d'autorità
e di potere hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune
poche per violente impressioni sulla timida credulità degli uomini,
dissipate le semplici nozioni, che forse formavano la prima filosofia delle
nascenti società ed a cui la luce di questo secolo sembra che ci
riconduca, con quella maggior fermezza però che può essere
somministrata da un esame geometrico, da mille funeste sperienze e dagli
ostacoli medesimi. Or l'ordine ci condurrebbe ad esaminare e distinguere tutte
le differenti sorte di delitti e la maniera di punirgli, se la variabile natura
di essi per le diverse circostanze dei secoli e dei luoghi non ci obbligasse ad
un dettaglio immenso e noioso. Mi basterà indicare i principii piú
generali e gli errori piú funesti e comuni per disingannare sí quelli che per
un mal inteso amore di libertà vorrebbono introdurre l'anarchia, come
coloro che amerebbero ridurre gli uomini ad una claustrale regolarità.
Alcuni delitti distruggono immediatamente la
società, o chi la rappresenta; alcuni offendono la privata sicurezza di
un cittadino nella vita, nei beni, o nell'onore; alcuni altri sono azioni
contrarie a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare, o
non fare, in vista del ben pubblico. I primi, che sono i massimi delitti,
perché piú dannosi, son quelli che chiamansi di lesa maestà. La sola
tirannia e l'ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee piú chiare, possono
dar questo nome, e per conseguenza la massima pena, a' delitti di differente
natura, e rendere cosí gli uomini, come in mille altre occasioni, vittime di
una parola. Ogni delitto, benché privato, offende la società, ma ogni
delitto non ne tenta la immediata distruzione. Le azioni morali, come le
fisiche, hanno la loro sfera limitata di attività e sono diversamente
circonscritte, come tutti i movimenti di natura, dal tempo e dallo spazio; e
però la sola cavillosa interpetrazione, che è per l'ordinario la
filosofia della schiavitù, può confondere ciò che
dall'eterna verità fu con immutabili rapporti distinto.
Dopo questi seguono i delitti contrari alla
sicurezza di ciascun particolare. Essendo questo il fine primario di ogni
legittima associazione, non può non assegnarsi alla violazione del
dritto di sicurezza acquistato da ogni cittadino alcuna delle pene piú
considerabili stabilita dalle leggi.
L'opinione che ciaschedun cittadino deve avere di
poter fare tutto ciò che non è contrario alle leggi senza temerne
altro inconveniente che quello che può nascere dall'azione medesima,
questo è il dogma politico che dovrebb'essere dai popoli creduto e dai
supremi magistrati colla incorrotta custodia delle leggi predicato; sacro
dogma, senza di cui non vi può essere legittima società, giusta
ricompensa del sacrificio fatto dagli uomini di quell'azione universale su tutte
le cose che è comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle
proprie forze. Questo forma le libere anime e vigorose e le menti
rischiaratrici, rende gli uomini virtuosi, ma di quella virtú che sa resistere
al timore, e non di quella pieghevole prudenza, degna solo di chi può
soffrire un'esistenza precaria ed incerta. Gli attentati dunque contro la
sicurezza e libertà dei cittadini sono uno de' maggiori delitti, e sotto
questa classe cadono non solo gli assassinii e i furti degli uomini plebei, ma
quelli ancora dei grandi e dei magistrati, l'influenza dei quali agisce ad una
maggior distanza e con maggior vigore, distruggendo nei sudditi le idee di
giustizia e di dovere, e sostituendo quella del diritto del piú forte,
pericoloso del pari in chi lo esercita e in chi lo soffre.
V'è una contradizione rimarcabile fralle
leggi civili, gelose custodi piú d'ogni altra cosa del corpo e dei beni di
ciascun cittadino, e le leggi di ciò che chiamasi onore, che vi
preferisce l'opinione. Questa parola onore è una di quelle che ha
servito di base a lunghi e brillanti ragionamenti, senza attaccarvi veruna idea
fissa e stabile. Misera condizione delle menti umane che le lontanissime e meno
importanti idee delle rivoluzioni dei corpi celesti sieno con piú distinta
cognizione presenti che le vicine ed importantissime nozioni morali, fluttuanti
sempre e confuse secondo che i venti delle passioni le sospingono e l'ignoranza
guidata le riceve e le trasmette! Ma sparirà l'apparente paradosso se si
consideri che come gli oggetti troppo vicini agli occhi si confondono, cosí la
troppa vicinanza delle idee morali fa che facilmente si rimescolino le
moltissime idee semplici che le compongono, e ne confondano le linee di
separazione necessarie allo spirito geometrico che vuol misurare i fenomeni
della umana sensibilità. E scemerà del tutto la maraviglia
nell'indifferente indagatore delle cose umane, che sospetterà non
esservi per avventura bisogno di tanto apparato di morale, né di tanti legami
per render gli uomini felici e sicuri.
Quest'onore dunque è una di quelle
idee complesse che sono un aggregato non solo d'idee semplici, ma d'idee
parimente complicate, che nel vario affacciarsi alla mente ora ammettono ed ora
escludono alcuni de' diversi elementi che le compongono; né conservano che
alcune poche idee comuni, come piú quantità complesse algebraiche
ammettono un comune divisore. Per trovar questo comune divisore nelle varie
idee che gli uomini si formano dell'onore è necessario gettar
rapidamente un colpo d'occhio sulla formazione delle società. Le prime
leggi e i primi magistrati nacquero dalla necessità di riparare ai
disordini del fisico dispotismo di ciascun uomo; questo fu il fine institutore
della società, e questo fine primario si è sempre conservato,
realmente o in apparenza, alla testa di tutti i codici, anche distruttori; ma
l'avvicinamento degli uomini e il progresso delle loro cognizioni hanno fatto
nascere una infinita serie di azioni e di bisogni vicendevoli gli uni verso gli
altri, sempre superiori alla providenza delle leggi ed inferiori all'attuale
potere di ciascuno. Da quest'epoca cominciò il dispotismo della
opinione, che era l'unico mezzo di ottenere dagli altri quei beni, e di
allontanarne quei mali, ai quali le leggi non erano sufficienti a provvedere. E
l'opinione è quella che tormenta il saggio ed il volgare, che ha messo
in credito l'apparenza della virtú al di sopra della virtú stessa, che fa
diventar missionario anche lo scellerato, perché vi trova il proprio interesse.
Quindi i suffragi degli uomini divennero non solo utili, ma necessari, per non
cadere al disotto del comune livello. Quindi se l'ambizioso gli conquista come
utili, se il vano va mendicandoli come testimoni del proprio merito, si vede
l'uomo d'onore esigerli come necessari. Quest'onore è una
condizione che moltissimi uomini mettono alla propria esistenza. Nato dopo la
formazione della società, non poté esser messo nel comune deposito, anzi
è un instantaneo ritorno nello stato naturale e una sottrazione momentanea
della propria persona da quelle leggi che in quel caso non difendono
bastantemente un cittadino.
Quindi e nell'estrema libertà politica e
nella estrema dipendenza spariscono le idee dell'onore, o si confondono
perfettamente con altre: perché nella prima il dispotismo delle leggi rende
inutile la ricerca degli altrui suffragi; nella seconda, perché il dispotismo
degli uomini, annullando l'esistenza civile, gli riduce ad una precaria e
momentanea personalità. L'onore è dunque uno dei principii
fondamentali di quelle monarchie che sono un dispotismo sminuito, e in esse
sono quello che negli stati dispotici le rivoluzioni, un momento di ritorno
nello stato di natura, ed un ricordo al padrone dell'antica uguaglianza.
Da questa necessità degli altrui suffragi
nacquero i duelli privati, ch'ebbero appunto la loro origine nell'anarchia
delle leggi. Si pretendono sconosciuti all'antichità, forse perché gli
antichi non si radunavano sospettosamente armati nei tempii, nei teatri e cogli
amici; forse perché il duello era uno spettacolo ordinario e comune che i
gladiatori schiavi ed avviliti davano al popolo, e gli uomini liberi sdegnavano
d'esser creduti e chiamati gladiatori coi privati combattimenti. Invano gli
editti di morte contro chiunque accetta un duello hanno cercato estirpare
questo costume, che ha il suo fondamento in ciò che alcuni uomini temono
piú che la morte, poiché privandolo degli altrui suffragi, l'uomo d'onore si
prevede esposto o a divenire un essere meramente solitario, stato insoffribile
ad un uomo socievole, ovvero a divenire il bersaglio degl'insulti e
dell'infamia, che colla ripetuta loro azione prevalgono al pericolo della pena.
Per qual motivo il minuto popolo non duella per lo piú come i grandi? Non solo
perché è disarmato, ma perché la necessità degli altrui suffragi
è meno comune nella plebe che in coloro che, essendo piú elevati, si
guardano con maggior sospetto e gelosia.
Non è inutile il ripetere ciò che
altri hanno scritto, cioè che il miglior metodo di prevenire questo
delitto è di punire l'aggressore, cioè chi ha dato occasione al
duello, dichiarando innocente chi senza sua colpa è stato costretto a
difendere ciò che le leggi attuali non assicurano, cioè
l'opinione, ed ha dovuto mostrare a' suoi concittadini ch'egli teme le sole
leggi e non gli uomini.
Finalmente, tra i delitti della terza specie sono
particolarmente quelli che turbano la pubblica tranquillità e la quiete
de' cittadini, come gli strepiti e i bagordi nelle pubbliche vie destinate al
commercio ed al passeggio de' cittadini, come i fanatici sermoni, che eccitano
le facili passioni della curiosa moltitudine, le quali prendono forza dalla
frequenza degli uditori e piú dall'oscuro e misterioso entusiasmo che dalla
chiara e tranquilla ragione, la quale mai non opera sopra una gran massa
d'uomini.
La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie
distribuite ne' differenti quartieri della città, i semplici e morali
discorsi della religione riserbati al silenzio ed alla sacra
tranquillità dei tempii protetti dall'autorità pubblica, le
arringhe destinate a sostenere gl'interessi privati e pubblici nelle adunanze
della nazione, nei parlamenti o dove risieda la maestà del sovrano, sono
tutti mezzi efficaci per prevenire il pericoloso addensamento delle popolari
passioni. Questi formano un ramo principale della vigilanza del magistrato, che
i francesi chiamano della police; ma se questo magistrato operasse con
leggi arbitrarie e non istabilite da un codice che giri fralle mani di tutti i
cittadini, si apre una porta alla tirannia, che sempre circonda tutti i confini
della libertà politica. Io non trovo eccezione alcuna a quest'assioma
generale, che ogni cittadino deve sapere quando sia reo o quando sia innocente.
Se i censori, e in genere i magistrati arbitrari, sono necessari in qualche
governo, ciò nasce dalla debolezza della sua costituzione, e non dalla
natura di governo bene organizzato. L'incertezza della propria sorte ha
sacrificate piú vittime all'oscura tirannia che non la pubblica e solenne
crudeltà. Essa rivolta gli animi piú che non gli avvilisce. Il vero
tiranno comincia sempre dal regnare sull'opinione, che previene il coraggio, il
quale solo può risplendere o nella chiara luce della verità, o
nel fuoco delle passioni, o nell'ignoranza del pericolo.
Ma quali saranno le pene convenienti a questi
delitti? La morte è ella una pena veramente utile e necessaria
per la sicurezza e pel buon ordine della società? La tortura e i
tormenti sono eglino giusti, e ottengon eglino il fine che si
propongono le leggi? Qual è la miglior maniera di prevenire i delitti?
Le medesime pene sono elleno egualmente utili in tutt'i tempi? Qual influenza
hanno esse su i costumi? Questi problemi meritano di essere sciolti con quella
precisione geometrica a cui la nebbia dei sofismi, la seduttrice eloquenza ed
il timido dubbio non posson resistere. Se io non avessi altro merito che quello
di aver presentato il primo all'Italia con qualche maggior evidenza ciò
che altre nazioni hanno osato scrivere e cominciano a praticare, io mi stimerei
fortunato; ma se sostenendo i diritti degli uomini e dell'invincibile
verità contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle angosce della
morte qualche vittima sfortunata della tirannia o dell'ignoranza, ugualmente
fatale, le benedizioni e le lagrime anche d'un solo innocente nei trasporti
della gioia mi consolerebbero dal disprezzo degli uomini.
Dalla semplice considerazione delle verità
fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di
tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto
già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di
agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni
particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento
del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice
richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il
fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi
cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel
metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione,
farà una impressione piú efficace e piú durevole sugli animi degli
uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.
Egli è un punto considerabile in ogni buona
legislazione il determinare esattamente la credibilità dei testimoni e
le prove del reato. Ogni uomo ragionevole, cioè che abbia una certa
connessione nelle proprie idee e le di cui sensazioni sieno conformi a quelle
degli altri uomini, può essere testimonio. La vera misura della di lui
credibilità non è che l'interesse ch'egli ha di dire o non dire
il vero, onde appare frivolo il motivo della debolezza nelle donne, puerile
l'applicazione degli effetti della morte reale alla civile nei condannati, ed
incoerente la nota d'infamia negl'infami quando non abbiano alcun interesse di
mentire. La credibilità dunque deve sminuirsi a proporzione dell'odio, o
dell'amicizia, o delle strette relazioni che passano tra lui e il reo. Piú d'un
testimonio è necessario, perché fintanto che uno asserisce e l'altro
nega niente v'è di certo e prevale il diritto che ciascuno ha d'essere
creduto innocente. La credibilità di un testimonio diviene tanto
sensibilmente minore quanto piú cresce l'atrocità di un delitto o
l'inverisimiglianza delle circostanze; tali sono per esempio la magia e le
azioni gratuitamente crudeli. Egli è piú probabile che piú uomini
mentiscano nella prima accusa, perché è piú facile che si combini in piú
uomini o l'illusione dell'ignoranza o l'odio persecutore di quello che un uomo
eserciti una potestà che Dio o non ha dato, o ha tolto ad ogni essere
creato. Parimente nella seconda, perché l'uomo non è crudele che a
proporzione del proprio interesse, dell'odio o del timore concepito. Non
v'è propriamente alcun sentimento superfluo nell'uomo; egli è
sempre proporzionale al risultato delle impressioni fatte su i sensi. Parimente
la credibilità di un testimonio può essere alcuna volta sminuita,
quand'egli sia membro d'alcuna società privata di cui gli usi e le
massime siano o non ben conosciute o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo ha
non solo le proprie, ma le altrui passioni.
Finalmente è quasi nulla la
credibilità del testimonio quando si faccia delle parole un delitto,
poiché il tuono, il gesto, tutto ciò che precede e ciò che siegue
le differenti idee che gli uomini attaccano alle stesse parole, alterano e
modificano in maniera i detti di un uomo che è quasi impossibile il ripeterle
quali precisamente furon dette. Di piú, le azioni violenti e fuori dell'uso
ordinario, quali sono i veri delitti, lascian traccia di sé nella moltitudine
delle circostanze e negli effetti che ne derivano, ma le parole non rimangono
che nella memoria per lo piú infedele e spesso sedotta degli ascoltanti. Egli
è adunque di gran lunga piú facile una calunnia sulle parole che sulle
azioni di un uomo, poiché di queste, quanto maggior numero di circostanze si
adducono in prova, tanto maggiori mezzi si somministrano al reo per
giustificarsi.
Vi è un teorema generale molto utile a
calcolare la certezza di un fatto, per esempio la forza degl'indizi di un
reato. Quando le prove di un fatto sono dipendenti l'una dall'altra,
cioè quando gl'indizi non si provano che tra di loro, quanto maggiori
prove si adducono tanto è minore la probabilità del fatto, perché
i casi che farebbero mancare le prove antecedenti fanno mancare le susseguenti.
Quando le prove di un fatto tutte dipendono egualmente da una sola, il numero
delle prove non aumenta né sminuisce la probabilità del fatto, perché
tutto il loro valore si risolve nel valore di quella sola da cui dipendono.
Quando le prove sono indipendenti l'una dall'altra, cioè quando gli
indizi si provano d'altronde che da se stessi, quanto maggiori prove si
adducono, tanto piú cresce la probabilità del fatto, perché la fallacia
di una prova non influisce sull'altra. Io parlo di probabilità in
materia di delitti, che per meritar pena debbono esser certi. Ma svanirà
il paradosso per chi considera che rigorosamente la certezza morale non
è che una probabilità, ma probabilità tale che è
chiamata certezza, perché ogni uomo di buon senso vi acconsente necessariamente
per una consuetudine nata dalla necessità di agire, ed anteriore ad ogni
speculazione; la certezza che si richiede per accertare un uomo reo è
dunque quella che determina ogni uomo nelle operazioni piú importanti della
vita. Possono distinguersi le prove di un reato in perfette ed in imperfette.
Chiamo perfette quelle che escludono la possibilità che un tale non sia
reo, chiamo imperfette quelle che non la escludono. Delle prime anche una sola
è sufficiente per la condanna, delle seconde tante son necessarie quante
bastino a formarne una perfetta, vale a dire che se per ciascuna di queste in
particolare è possibile che uno non sia reo, per l'unione loro nel
medesimo soggetto è impossibile che non lo sia. Notisi che le prove
imperfette delle quali può il reo giustificarsi e non lo faccia a dovere
divengono perfette. Ma questa morale certezza di prove è piú facile il
sentirla che l'esattamente definirla. Perciò io credo ottima legge
quella che stabilisce assessori al giudice principale presi dalla sorte, e non
dalla scelta, perché in questo caso è piú sicura l'ignoranza che giudica
per sentimento che la scienza che giudica per opinione. Dove le leggi siano
chiare e precise l'officio di un giudice non consiste in altro che di accertare
un fatto. Se nel cercare le prove di un delitto richiedesi abilità e
destrezza, se nel presentarne il risultato è necessario chiarezza e
precisione, per giudicarne dal risultato medesimo non vi si richiede che un
semplice ed ordinario buon senso, meno fallace che il sapere di un giudice
assuefatto a voler trovar rei e che tutto riduce ad un sistema fattizio
imprestato da' suoi studi. Felice quella nazione dove le leggi non fossero una
scienza! Ella è utilissima legge quella che ogni uomo sia giudicato dai
suoi pari, perché, dove si tratta della libertà e della fortuna di un
cittadino, debbono tacere quei sentimenti che inspira la disuguaglianza; e
quella superiorità con cui l'uomo fortunato guarda l'infelice, e quello
sdegno con cui l'inferiore guarda il superiore, non possono agire in questo
giudizio. Ma quando il delitto sia un'offesa di un terzo, allora i giudici
dovrebbono essere metà pari del reo, metà pari dell'offeso; cosí,
essendo bilanciato ogni interesse privato che modifica anche involontariamente
le apparenze degli oggetti, non parlano che le leggi e la verità. Egli
è ancora conforme alla giustizia che il reo escluder possa fino ad un
certo segno coloro che gli sono sospetti; e ciò concessoli senza
contrasto per alcun tempo, sembrerà quasi che il reo si condanni da se
stesso. Pubblici siano i giudizi, e pubbliche le prove del reato, perché
l'opinione, che è forse il solo cemento delle società, imponga un
freno alla forza ed alle passioni, perché il popolo dica noi non siamo schiavi
e siamo difesi, sentimento che inspira coraggio e che equivale ad un tributo
per un sovrano che intende i suoi veri interessi. Io non accennerò altri
dettagli e cautele che richiedono simili instituzioni. Niente avrei detto, se
fosse necessario dir tutto.
Evidenti, ma consagrati disordini, e in molte
nazioni resi necessari per la debolezza della constituzione, sono le accuse
segrete. Un tal costume rende gli uomini falsi e coperti. Chiunque può
sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico. Gli uomini
allora si avvezzano a mascherare i propri sentimenti, e, coll'uso di
nascondergli altrui, arrivano finalmente a nascondergli a loro medesimi.
Infelici gli uomini quando son giunti a questo segno: senza principii chiari ed
immobili che gli guidino, errano smarriti e fluttuanti nel vasto mare delle
opinioni, sempre occupati a salvarsi dai mostri che gli minacciano; passano il
momento presente sempre amareggiato dalla incertezza del futuro; privi dei
durevoli piaceri della tranquillità e sicurezza, appena alcuni pochi di
essi sparsi qua e là nella trista loro vita, con fretta e con disordine
divorati, gli consolano d'esser vissuti. E di questi uomini faremo noi
gl'intrepidi soldati difensori della patria o del trono? E tra questi troveremo
gl'incorrotti magistrati che con libera e patriottica eloquenza sostengano e
sviluppino i veri interessi del sovrano, che portino al trono coi tributi
l'amore e le benedizioni di tutti i ceti d'uomini, e da questo rendano ai
palagi ed alle capanne la pace, la sicurezza e l'industriosa speranza di
migliorare la sorte, utile fermento e vita degli stati?
Chi può difendersi dalla calunnia quand'ella
è armata dal piú forte scudo della tirannia, il segreto? Qual
sorta di governo è mai quella ove chi regge sospetta in ogni suo suddito
un nemico ed è costretto per il pubblico riposo di toglierlo a ciascuno?
Quali sono i motivi con cui si giustificano le
accuse e le pene segrete? La salute pubblica, la sicurezza e il mantenimento
della forma di governo? Ma quale strana costituzione, dove chi ha per sé la
forza, e l'opinione piú efficace di essa, teme d'ogni cittadino?
L'indennità dell'accusatore? Le leggi dunque non lo difendono
abbastanza. E vi saranno dei sudditi piú forti del sovrano! L'infamia del
delatore? Dunque si autorizza la calunnia segreta e si punisce la pubblica! La
natura del delitto? Se le azioni indifferenti, se anche le utili al pubblico si
chiamano delitti, le accuse e i giudizi non sono mai abbastanza segreti. Vi
possono essere delitti, cioè pubbliche offese, e che nel medesimo tempo
non sia interesse di tutti la pubblicità dell'esempio, cioè
quella del giudizio? Io rispetto ogni governo, e non parlo di alcuno in
particolare; tale è qualche volta la natura delle circostanze che
può credersi l'estrema rovina il togliere un male allora quando ei sia
inerente al sistema di una nazione; ma se avessi a dettar nuove leggi, in
qualche angolo abbandonato dell'universo, prima di autorizzare un tale costume,
la mano mi tremerebbe, e avrei tutta la posterità dinanzi agli occhi.
È già stato detto dal Signor di
Montesquieu che le pubbliche accuse sono piú conformi alla repubblica, dove il
pubblico bene formar dovrebbe la prima passione de' cittadini, che nella
monarchia, dove questo sentimento è debolissimo per la natura medesima del
governo, dove è ottimo stabilimento il destinare de' commissari, che in
nome pubblico accusino gl'infrattori delle leggi. Ma ogni governo, e
repubblicano e monarchico, deve al calunniatore dare la pena che toccherebbe
all'accusato.
Una crudeltà consacrata dall'uso nella
maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il
processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni
nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica
ed incomprensibile purgazione d'infamia, o finalmente per altri delitti di cui
potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato.
Un uomo non può chiamarsi reo prima
della sentenza del giudice, né la società può toglierli la
pubblica protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia violati i patti coi
quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della
forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un
cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo
dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene
altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché
inutile è la confessione del reo; se è incerto, e' non devesi
tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui
delitti non sono provati. Ma io aggiungo di piú, ch'egli è un voler
confondere tutt'i rapporti l'esigere che un uomo sia nello stesso tempo
accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della verità,
quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un
miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e
di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso
criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani,
barbari anch'essi per piú d'un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di
una feroce e troppo lodata virtú.
Qual è il fine politico delle pene? Il
terrore degli altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private
carnificine, che la tirannia dell'uso esercita su i rei e sugl'innocenti? Egli
è importante che ogni delitto palese non sia impunito, ma è
inutile che si accerti chi abbia commesso un delitto, che sta sepolto nelle
tenebre. Un male già fatto, ed a cui non v'è rimedio, non
può esser punito dalla società politica che quando influisce
sugli altri colla lusinga dell'impunità. S'egli è vero che sia
maggiore il numero degli uomini che o per timore, o per virtú, rispettano le
leggi che di quelli che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente
deve valutarsi tanto di piú, quanto è maggiore la probabilità che
un uomo a dati uguali le abbia piuttosto rispettate che disprezzate.
Un altro ridicolo motivo della tortura è la
purgazione dell'infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve
confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest'abuso non
dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo. Si crede che il dolore, che
è una sensazione, purghi l'infamia, che è un mero rapporto
morale. È egli forse un crociuolo? E l'infamia è forse un corpo
misto impuro? Non è difficile il rimontare all'origine di questa
ridicola legge, perché gli assurdi stessi che sono da una nazione intera
adottati hanno sempre qualche relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla
nazione medesima. Sembra quest'uso preso dalle idee religiose e spirituali, che
hanno tanta influenza su i pensieri degli uomini, su le nazioni e su i secoli.
Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte dall'umana debolezza
e che non hanno meritata l'ira eterna del grand'Essere, debbono da un fuoco
incomprensibile esser purgate; ora l'infamia è una macchia civile, e
come il dolore ed il fuoco tolgono le macchie spirituali ed incorporee, perché
gli spasimi della tortura non toglieranno la macchia civile che è
l'infamia? Io credo che la confessione del reo, che in alcuni tribunali si
esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non dissimile, perché
nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei peccati è parte
essenziale del sagramento. Ecco come gli uomini abusano dei lumi piú sicuri
della rivelazione; e siccome questi sono i soli che sussistono nei tempi
d'ignoranza, cosí ad essi ricorre la docile umanità in tutte le
occasioni e ne fa le piú assurde e lontane applicazioni. Ma l'infamia è
un sentimento non soggetto né alle leggi né alla ragione, ma alla opinione
comune. La tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la
vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l'infamia dando l'infamia.
Il terzo motivo è la tortura che si
dà ai supposti rei quando nel loro esame cadono in contradizione, quasi
che il timore della pena, l'incertezza del giudizio, l'apparato e la
maestà del giudice, l'ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e
agl'innocenti, non debbano probabilmente far cadere in contradizione e
l'innocente che teme e il reo che cerca di coprirsi; quasi che le
contradizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, non debbano
moltiplicarsi nella turbazione dell'animo tutto assorbito nel pensiero di
salvarsi dall'imminente pericolo.
Questo infame crociuolo della verità
è un monumento ancora esistente dell'antica e selvaggia legislazione,
quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell'acqua
bollente e l'incerta sorte dell'armi, quasi che gli anelli dell'eterna catena,
che è nel seno della prima cagione, dovessero ad ogni momento essere
disordinati e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La sola differenza
che passa fralla tortura e le prove del fuoco e dell'acqua bollente, è
che l'esito della prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle
seconde da un fatto puramente fisico ed estrinseco: ma questa differenza
è solo apparente e non reale. È cosí poco libero il dire la
verità fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era allora l'impedire
senza frode gli effetti del fuoco e dell'acqua bollente. Ogni atto della nostra
volontà è sempre proporzionato alla forza della impressione
sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni uomo
è limitata. Dunque l'impressione del dolore può crescere a segno
che, occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato che di
scegliere la strada piú corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena.
Allora la risposta del reo è cosí necessaria come le impressioni del
fuoco o dell'acqua. Allora l'innocente sensibile si chiamerà reo, quando
egli creda con ciò di far cessare il tormento. Ogni differenza tra essi
sparisce per quel mezzo medesimo, che si pretende impiegato per ritrovarla.
È superfluo di raddoppiare il lume citando gl'innumerabili esempi
d'innocenti che rei si confessarono per gli spasimi della tortura: non vi
è nazione, non vi è età che non citi i suoi, ma né gli
uomini si cangiano, né cavano conseguenze. Non vi è uomo che abbia
spinto le sue idee di là dei bisogni della vita, che qualche volta non
corra verso natura, che con segrete e confuse voci a sé lo chiama; l'uso, il
tiranno delle menti, lo rispinge e lo spaventa. L'esito dunque della tortura
è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in
proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con
questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo
problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre d'un
innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessar reo di un
dato delitto.
L'esame di un reo è fatto per conoscere la
verità, ma se questa verità difficilmente scuopresi all'aria, al
gesto, alla fisonomia d'un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo
in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto
della maggior parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la
verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime differenze
degli oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso.
Queste verità sono state conosciute dai
romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna tortura che su i
soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità; queste
dall'Inghilterra, nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità
del commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli esempi di
virtú e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi. La
tortura è stata abolita nella Svezia, abolita da uno de' piú saggi
monarchi dell'Europa, che avendo portata la filosofia sul trono, legislatore
amico de' suoi sudditi, gli ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle
leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che possono gli uomini
ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose. La tortura non
è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti composti per la maggior
parte della feccia delle nazioni, che sembrerebbono perciò doversene piú
d'ogni altro ceto servire. Strana cosa, per chi non considera quanto sia grande
la tirannia dell'uso, che le pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi
induriti alle stragi ed al sangue il piú umano metodo di giudicare.
Questa verità è finalmente sentita,
benché confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la
confessione fatta durante la tortura se non è confermata con giuramento
dopo cessata quella, ma se il reo non conferma il delitto è di nuovo
torturato. Alcuni dottori ed alcune nazioni non permettono questa infame
petizione di principio che per tre volte; altre nazioni ed altri dottori la
lasciano ad arbitrio del giudice: talché di due uomini ugualmente innocenti o
ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed
il timido condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io giudice dovea
trovarvi rei di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e
però ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti condanno.
Sento che la confessione strappatavi fra i tormenti non avrebbe alcuna forza,
ma io vi tormenterò di nuovo se non confermerete ciò che avete
confessato.
Una strana conseguenza che necessariamente deriva
dall'uso della tortura è che l'innocente è posto in peggiore
condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo
ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed è
condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita;
ma il reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla
tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena
maggiore in una minore. Dunque l'innocente non può che perdere e il
colpevole può guadagnare.
La legge che comanda la tortura è una legge
che dice: Uomini, resistete al dolore, e se la natura ha creato in voi uno
inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra
difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio
di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi, dicendo la verità
anche fra gli strappamenti dei muscoli e gli slogamenti delle ossa.
Dassi la tortura per discuoprire se il reo lo
è di altri delitti fuori di quelli di cui è accusato, il che
equivale a questo raziocinio: Tu sei reo di un delitto, dunque è
possibile che lo sii di cent'altri delitti; questo dubbio mi pesa, voglio
accertarmene col mio criterio di verità; le leggi ti tormentano, perché
sei reo, perché puoi esser reo, perché voglio che tu sii reo.
Finalmente la tortura è data ad un accusato
per discuoprire i complici del suo delitto; ma se è dimostrato che ella
non è un mezzo opportuno per iscuoprire la verità, come
potrà ella servire a svelare i complici, che è una delle
verità da scuoprirsi? Quasi che l'uomo che accusa se stesso non accusi
piú facilmente gli altri. È egli giusto tormentar gli uomini per
l'altrui delitto? Non si scuopriranno i complici dall'esame dei testimoni,
dall'esame del reo, dalle prove e dal corpo del delitto, in somma da tutti quei
mezzi medesimi che debbono servire per accertare il delitto nell'accusato? I
complici per lo piú fuggono immediatamente dopo la prigionia del compagno,
l'incertezza della loro sorte gli condanna da sé sola all'esilio e libera la
nazione dal pericolo di nuove offese, mentre la pena del reo che è nelle
forze ottiene l'unico suo fine, cioè di rimuover col terrore gli altri
uomini da un simil delitto.
Fu già un tempo nel quale quasi tutte le
pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il patrimonio del principe.
Gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lusso. Chi era
destinato a difenderla aveva interesse di vederla offesa. L'oggetto delle pene
era dunque una lite tra il fisco (l'esattore di queste pene) ed il reo; un
affare civile, contenzioso, privato piuttosto che pubblico, che dava al fisco
altri diritti che quelli somministrati dalla pubblica difesa ed al reo altri
torti che quelli in cui era caduto, per la necessità dell'esempio. Il
giudice era dunque un avvocato del fisco piuttosto che un indifferente
ricercatore del vero, un agente dell'erario fiscale anzi che il protettore ed
il ministro delle leggi. Ma siccome in questo sistema il confessarsi
delinquente era un confessarsi debitore verso il fisco, il che era lo scopo
delle procedure criminali d'allora, cosí la confessione del delitto, e
confessione combinata in maniera che favorisse e non facesse torto alle ragioni
fiscali, divenne ed è tuttora (gli effetti continuando sempre moltissimo
dopo le cagioni) il centro intorno a cui si aggirano tutti gli ordigni
criminali. Senz'essa un reo convinto da prove indubitate avrà una pena
minore della stabilita, senz'essa non soffrirà la tortura sopra altri
delitti della medesima specie che possa aver commessi. Con questa il giudice
s'impadronisce del corpo di un reo e lo strazia con metodiche formalità,
per cavarne come da un fondo acquistato tutto il profitto che può.
Provata l'esistenza del delitto, la confessione fa una prova convincente, e per
rendere questa prova meno sospetta cogli spasimi e colla disperazione del
dolore a forza si esige nel medesimo tempo che una confessione stragiudiziale
tranquilla, indifferente, senza i prepotenti timori di un tormentoso giudizio,
non basta alla condanna. Si escludono le ricerche e le prove che rischiarano il
fatto, ma che indeboliscono le ragioni del fisco; non è in favore della
miseria e della debolezza che si risparmiano qualche volta i tormenti ai rei,
ma in favore delle ragioni che potrebbe perdere quest'ente ora immaginario ed
inconcepibile. Il giudice diviene nemico del reo, di un uomo incatenato, dato
in preda allo squallore, ai tormenti, all'avvenire il piú terribile; non cerca
la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia,
e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quella
infallibilità che l'uomo s'arroga in tutte le cose. Gl'indizi alla
cattura sono in potere del giudice; perché uno si provi innocente deve esser
prima dichiarato reo: ciò chiamasi fare un processo offensivo, e
tali sono quasi in ogni luogo della illuminata Europa nel decimo ottavo secolo
le procedure criminali. Il vero processo, l'informativo, cioè la
ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione comanda, che le leggi
militari adoperano, usato dallo stesso asiatico dispotismo nei casi tranquilli
ed indifferenti, è pochissimo in uso nei tribunali europei. Qual
complicato laberinto di strani assurdi, incredibili senza dubbio alla piú
felice posterità! I soli filosofi di quel tempo leggeranno nella natura
dell'uomo la possibile verificazione di un tale sistema.
Una contradizione fralle leggi e i sentimenti
naturali all'uomo nasce dai giuramenti che si esigono dal reo, acciocché sia un
uomo veridico, quando ha il massimo interesse di esser falso; quasi che l'uomo
potesse giurar da dovero di contribuire alla propria distruzione, quasi che la
religione non tacesse nella maggior parte degli uomini quando parla
l'interesse. L'esperienza di tutt'i secoli ha fatto vedere che essi hanno piú
d'ogni altra cosa abusato di questo prezioso dono del cielo. E per qual motivo
gli scellerati la rispetteranno, se gli uomini stimati piú saggi l'hanno
sovente violata? Troppo deboli, perché troppo remoti dai sensi, sono per il
maggior numero i motivi che la religione contrappone al tumulto del timore ed
all'amor della vita. Gli affari del cielo si reggono con leggi affatto
dissimili da quelle che reggono gli affari umani. E perché comprometter gli uni
cogli altri? E perché metter l'uomo nella terribile contradizione, o di mancare
a Dio, o di concorrere alla propria rovina? talché la legge, che obbliga ad un
tal giuramento, comanda o di esser cattivo cristiano o martire. Il giuramento
diviene a poco a poco una semplice formalità, distruggendosi in questa
maniera la forza dei sentimenti di religione, unico pegno dell'onestà della
maggior parte degli uomini. Quanto sieno inutili i giuramenti lo ha fatto
vedere l'esperienza, perché ciascun giudice mi può esser testimonio che
nessun giuramento ha mai fatto dire la verità ad alcun reo; lo fa vedere
la ragione, che dichiara inutili e per conseguenza dannose tutte le leggi che
si oppongono ai naturali sentimenti dell'uomo. Accade ad esse ciò che
agli argini opposti direttamente al corso di un fiume: o sono immediatamente
abbattuti e soverchiati, o un vortice formato da loro stessi gli corrode e gli mina
insensibilmente.
Quanto la pena sarà piú pronta e piú vicina
al delitto commesso, ella sarà tanto piú giusta e tanto piú utile. Dico
piú giusta, perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti
dell'incertezza, che crescono col vigore dell'immaginazione e col sentimento
della propria debolezza; piú giusta, perché la privazione della libertà
essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità
lo chiede. La carcere è dunque la semplice custodia d'un cittadino
finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve
durare il minor tempo possibile e dev'essere meno dura che si possa. Il minor
tempo dev'esser misurato e dalla necessaria durazione del processo e
dall'anzianità di chi prima ha un diritto di esser giudicato. La
strettezza della carcere non può essere che la necessaria, o per
impedire la fuga, o per non occultare le prove dei delitti. Il processo medesimo
dev'essere finito nel piú breve tempo possibile. Qual piú crudele contrasto che
l'indolenza di un giudice e le angosce d'un reo? I comodi e i piaceri di un
insensibile magistrato da una parte e dall'altra le lagrime, lo squallore d'un
prigioniero? In generale il peso della pena e la conseguenza di un delitto
dev'essere la piú efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per
chi la soffre, perché non si può chiamare legittima società
quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si sian voluti
assoggettare ai minori mali possibili.
Ho detto che la prontezza delle pene è piú
utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la
pena ed il misfatto, tanto è piú forte e piú durevole nell'animo umano
l'associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si
considerano uno come cagione e l'altra come effetto necessario immancabile.
Egli è dimostrato che l'unione delle idee è il cemento che forma
tutta la fabbrica dell'intelletto umano, senza di cui il piacere ed il dolore
sarebbero sentimenti isolati e di nessun effetto. Quanto piú gli uomini si
allontanano dalle idee generali e dai principii universali, cioè quanto
piú sono volgari, tanto piú agiscono per le immediate e piú vicine
associazioni, trascurando le piú remote e complicate, che non servono che agli
uomini fortemente appassionati per l'oggetto a cui tendono, poiché la luce
dell'attenzione rischiara un solo oggetto, lasciando gli altri oscuri. Servono
parimente alle menti piú elevate, perché hanno acquistata l'abitudine di
scorrere rapidamente su molti oggetti in una volta, ed hanno la facilità
di far contrastare molti sentimenti parziali gli uni cogli altri, talché il
risultato, che è l'azione, è meno pericoloso ed incerto.
Egli è dunque di somma importanza la
vicinanza del delitto e della pena, se si vuole che nelle rozze menti volgari,
alla seducente pittura di un tal delitto vantaggioso, immediatamente riscuotasi
l'idea associata della pena. Il lungo ritardo non produce altro effetto che di
sempre piú disgiungere queste due idee, e quantunque faccia impressione il
castigo d'un delitto, la fa meno come castigo che come spettacolo, e non la fa
che dopo indebolito negli animi degli spettatori l'orrore di un tal delitto
particolare, che servirebbe a rinforzare il sentimento della pena.
Un altro principio serve mirabilmente a stringere
sempre piú l'importante connessione tra 'l misfatto e la pena, cioè che
questa sia conforme quanto piú si possa alla natura del delitto. Questa
analogia facilita mirabilmente il contrasto che dev'essere tra la spinta al
delitto e la ripercussione della pena, cioè che questa allontani e
conduca l'animo ad un fine opposto di quello per dove cerca d'incamminarlo la
seducente idea dell'infrazione della legge.
Altri delitti sono attentati contro la persona,
altri contro le sostanze. I primi debbono infallibilmente esser puniti con pene
corporali: né il grande né il ricco debbono poter mettere a prezzo gli
attentati contro il debole ed il povero; altrimenti le ricchezze, che sotto la
tutela delle leggi sono il premio dell'industria, diventano l'alimento della
tirannia. Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono
che in alcuni eventi l'uomo cessi di esser persona e diventi cosa:
vedrete allora l'industria del potente tutta rivolta a far sortire dalla folla
delle combinazioni civili quelle che la legge gli dà in suo favore.
Questa scoperta è il magico segreto che cangia i cittadini in animali di
servigio, che in mano del forte è la catena con cui lega le azioni
degl'incauti e dei deboli. Questa è la ragione per cui in alcuni
governi, che hanno tutta l'apparenza di libertà, la tirannia sta
nascosta o s'introduce non prevista in qualche angolo negletto dal legislatore,
in cui insensibilmente prende forza e s'ingrandisce. Gli uomini mettono per lo
piú gli argini piú sodi all'aperta tirannia, ma non veggono l'insetto
impercettibile che gli rode ed apre una tanto piú sicura quanto piú occulta
strada al fiume inondatore.
Quali saranno dunque le pene dovute ai delitti dei
nobili, i privilegi dei quali formano gran parte delle leggi delle nazioni? Io
qui non esaminerò se questa distinzione ereditaria tra nobili e plebei
sia utile in un governo o necessaria nella monarchia, se egli è vero che
formi un potere intermedio, che limiti gli eccessi dei due estremi, o non
piuttosto formi un ceto che, schiavo di se stesso e di altrui, racchiude ogni
circolazione di credito e di speranza in uno strettissimo cerchio, simile a
quelle feconde ed amene isolette che spiccano negli arenosi e vasti deserti
d'Arabia, e che, quando sia vero che la disuguaglianza sia inevitabile o utile
nelle società, sia vero altresí che ella debba consistere piuttosto nei
ceti che negl'individui, fermarsi in una parte piuttosto che circolare per
tutto il corpo politico, perpetuarsi piuttosto che nascere e distruggersi
incessantemente. Io mi ristringerò alle sole pene dovute a questo rango,
asserendo che esser debbono le medesime pel primo e per l'ultimo cittadino.
Ogni distinzione sia negli onori sia nelle ricchezze perché sia legittima
suppone un'anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che considerano tutti i
sudditi come egualmente dipendenti da esse. Si deve supporre che gli uomini che
hanno rinunziato al naturale loro dispotismo abbiano detto: chi sarà
piú industrioso abbia maggiori onori, e la fama di lui risplenda ne' suoi
successori; ma chi è piú felice o piú onorato speri di piú, ma non tema
meno degli altri di violare quei patti coi quali è sopra gli altri sollevato.
Egli è vero che tali decreti non emanarono in una dieta del genere
umano, ma tali decreti esistono negl'immobili rapporti delle cose, non
distruggono quei vantaggi che si suppongono prodotti dalla nobiltà e ne
impediscono gl'inconvenienti; rendono formidabili le leggi chiudendo ogni
strada all'impunità. A chi dicesse che la medesima pena data al nobile
ed al plebeo non è realmente la stessa per la diversità
dell'educazione, per l'infamia che spandesi su di un'illustre famiglia,
risponderei che la sensibilità del reo non è la misura delle
pene, ma il pubblico danno, tanto maggiore quanto è fatto da chi
è piú favorito; e che l'uguaglianza delle pene non può essere che
estrinseca, essendo realmente diversa in ciascun individuo; che l'infamia di
una famiglia può esser tolta dal sovrano con dimostrazioni pubbliche di
benevolenza all'innocente famiglia del reo. E chi non sa che le sensibili
formalità tengon luogo di ragioni al credulo ed ammiratore popolo?
I furti che non hanno unito violenza dovrebbero
esser puniti con pena pecuniaria. Chi cerca d'arricchirsi dell'altrui dovrebbe
esser impoverito del proprio. Ma come questo non è per l'ordinario che
il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice
parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile, e forse non
necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza, ma come le pene
pecuniarie accrescono il numero dei rei al di sopra di quello de' delitti e che
tolgono il pane agl'innocenti per toglierlo agli scellerati, la pena piú
opportuna sarà quell'unica sorta di schiavitù che si possa
chiamar giusta, cioè la schiavitù per un tempo delle opere e
della persona alla comune società, per risarcirla colla propria e
perfetta dipendenza dell'ingiusto dispotismo usurpato sul patto sociale. Ma
quando il furto sia misto di violenza, la pena dev'essere parimente un misto di
corporale e di servile. Altri scrittori prima di me hanno dimostrato l'evidente
disordine che nasce dal non distinguere le pene dei furti violenti da quelle
dei furti dolosi facendo l'assurda equazione di una grossa somma di denaro
colla vita di un uomo; ma non è mai superfluo il ripetere ciò che
non è quasi mai stato eseguito. Le macchine politiche conservano piú
d'ogni altra il moto concepito e sono le piú lente ad acquistarne un nuovo.
Questi sono delitti di differente natura, ed è certissimo anche in
politica quell'assioma di matematica, che tralle quantità eterogenee vi
è l'infinito che le separa.
Le ingiurie personali e contrarie all'onore,
cioè a quella giusta porzione di suffragi che un cittadino ha dritto di
esigere dagli altri, debbono essere punite coll'infamia. Quest'infamia è
un segno della pubblica disapprovazione che priva il reo de' pubblici voti,
della confidenza della patria e di quella quasi fraternità che la
società inspira. Ella non è in arbitrio della legge. Bisogna
dunque che l'infamia della legge sia la stessa che quella che nasce dai
rapporti delle cose, la stessa che la morale universale, o la particolare
dipendente dai sistemi particolari, legislatori delle volgari opinioni e di
quella tal nazione che inspirano. Se l'una è differente dall'altra, o la
legge perde la pubblica venerazione, o l'idee della morale e della probità
svaniscono, ad onta delle declamazioni che mai non resistono agli esempi. Chi
dichiara infami azioni per sé indifferenti sminuisce l'infamia delle azioni che
son veramente tali. Le pene d'infamia non debbono essere né troppo frequenti né
cadere sopra un gran numero di persone in una volta: non il primo, perché gli
effetti reali e troppo frequenti delle cose d'opinione indeboliscono la forza
della opinione medesima, non il secondo, perché l'infamia di molti si risolve
nella infamia di nessuno.
Le pene corporali e dolorose non devono darsi a
quei delitti che, fondati sull'orgoglio, traggono dal dolore istesso gloria ed
alimento, ai quali convengono il ridicolo e l'infamia, pene che frenano
l'orgoglio dei fanatici coll'orgoglio degli spettatori e dalla tenacità
delle quali appena con lenti ed ostinati sforzi la verità stessa si
libera. Cosí forze opponendo a forze ed opinioni ad opinioni il saggio
legislatore rompa l'ammirazione e la sorpresa nel popolo cagionata da un falso
principio, i ben dedotti conseguenti del quale sogliono velarne al volgo
l'originaria assurdità.
Ecco la maniera di non confondere i rapporti e la
natura invariabile delle cose, che non essendo limitata dal tempo ed operando
incessantemente, confonde e svolge tutti i limitati regolamenti che da lei si
scostano. Non sono le sole arti di gusto e di piacere che hanno per principio
universale l'imitazione fedele della natura, ma la politica istessa, almeno la
vera e la durevole, è soggetta a questa massima generale, poiché ella
non è altro che l'arte di meglio dirigere e di rendere conspiranti i
sentimenti immutabili degli uomini.
Chi turba la tranquillità pubblica, chi non
ubbidisce alle leggi, cioè alle condizioni con cui gli uomini si
soffrono scambievolmente e si difendono, quegli dev'esser escluso dalla
società, cioè dev'essere bandito. Questa è la ragione per
cui i saggi governi non soffrono, nel seno del travaglio e dell'industria, quel
genere di ozio politico confuso dagli austeri declamatori coll'ozio delle ricchezze
accumulate dall'industria, ozio necessario ed utile a misura che la
società si dilata e l'amministrazione si ristringe. Io chiamo ozio
politico quello che non contribuisce alla società né col travaglio né
colla ricchezza, che acquista senza giammai perdere, che, venerato dal volgo
con stupida ammirazione, risguardato dal saggio con isdegnosa compassione per
gli esseri che ne sono la vittima, che, essendo privo di quello stimolo della
vita attiva che è la necessità di custodire o di aumentare i
comodi della vita, lascia alle passioni di opinione, che non sono le meno
forti, tutta la loro energia. Non è ozioso politicamente chi gode dei
frutti dei vizi o delle virtú de' propri antenati, e vende per attuali piaceri
il pane e l'esistenza alla industriosa povertà, ch'esercita in pace la
tacita guerra d'industria colla opulenza, in vece della incerta e sanguinosa
colla forza. E però non l'austera e limitata virtú di alcuni censori, ma
le leggi debbono definire qual sia l'ozio da punirsi.
Sembra che il bando dovrebbe esser dato a coloro i
quali, accusati di un atroce delitto, hanno una grande probabilità, ma
non la certezza contro di loro, di esser rei; ma per ciò fare è
necessario uno statuto il meno arbitrario e il piú preciso che sia possibile,
il quale condanni al bando chi ha messo la nazione nella fatale alternativa o
di temerlo o di offenderlo, lasciandogli però il sacro diritto di
provare l'innocenza sua. Maggiori dovrebbon essere i motivi contro un nazionale
che contro un forestiere, contro un incolpato per la prima volta che contro chi
lo fu piú volte.
Ma chi è bandito ed escluso per sempre dalla
società di cui era membro, dev'egli esser privato dei suoi beni? Una tal
questione è suscettibile di differenti aspetti. Il perdere i beni
è una pena maggiore di quella del bando; vi debbono dunque essere alcuni
casi in cui, proporzionatamente a' delitti, vi sia la perdita di tutto o di
parte dei beni, ed alcuni no. La perdita del tutto sarà quando il bando
intimato dalla legge sia tale che annienti tutt'i rapporti che sono tra la
società e un cittadino delinquente; allora muore il cittadino e resta
l'uomo, e rispetto al corpo politico deve produrre lo stesso effetto che la
morte naturale. Parrebbe dunque che i beni tolti al reo dovessero toccare ai
legittimi successori piuttosto che al principe, poiché la morte ed un tal bando
sono lo stesso riguardo al corpo politico. Ma non è per questa
sottigliezza che oso disapprovare le confische dei beni. Se alcuni hanno
sostenuto che le confische sieno state un freno alle vendette ed alle
prepotenze private, non riflettono che, quantunque le pene producano un bene,
non però sono sempre giuste, perché per esser tali debbono esser
necessarie, ed un'utile ingiustizia non può esser tollerata da quel
legislatore che vuol chiudere tutte le porte alla vigilante tirannia, che
lusinga col bene momentaneo e colla felicità di alcuni illustri,
sprezzando l'esterminio futuro e le lacrime d'infiniti oscuri. Le confische
mettono un prezzo sulle teste dei deboli, fanno soffrire all'innocente la pena
del reo e pongono gl'innocenti medesimi nella disperata necessità di
commettere i delitti. Qual piú tristo spettacolo che una famiglia strascinata
all'infamia ed alla miseria dai delitti di un capo, alla quale la sommissione
ordinata dalle leggi impedirebbe il prevenirgli, quand'anche vi fossero i mezzi
per farlo!
Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono
approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche
piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un'unione di
famiglie che come un'unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia
ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone,
compresovi il capo che la rappresenta: se l'associazione è fatta per le
famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l'associazione
è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo. Nel
primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la
compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle
piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta
gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso,
come le leggi ed i costumi sono l'effetto dei sentimenti abituali dei membri
della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico
s'introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti
saranno frenati soltanto dagl'interessi opposti di ciascuno, ma non già
da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. Lo spirito di famiglia
è uno spirito di dettaglio e limitato a' piccoli fatti. Lo spirito
regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e
gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte.
Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo,
finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza
dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare ed a temere nell'età piú
verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di
esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che
il vizio sempre oppone alla virtú nella languida e cadente età, in cui
anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti?
Quando la repubblica è di uomini, la
famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i
figli, quando l'età gli trae dalla dipendenza di natura, che è
quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa, diventano
liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per
parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società.
Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della
nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame
comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i
necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il
quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una
mal intesa soggezione voluta dalle leggi.
Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le
fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni
fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo
conflitto nell'animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione e timore, la
seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza
ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad
ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un
idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non
è il bene d'alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri
vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio
del fanatismo, che previene l'azione. Tali contrasti fanno che gli uomini si
sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella
lontananza che nasce dall'oscurità degli oggetti sí fisici che morali.
Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di
trovarsi malonesto! A misura che la società si moltiplica, ciascun
membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si
sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo.
Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di
là de' quali crescendo, l'economia ne è necessariamente
disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa
della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l'una e
l'altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel
bene medesimo che hanno prodotto. Una repubblica troppo vasta non si salva dal
dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma
come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla,
e tanto genio d'edificare quant'egli n'ebbe per distruggere. Un tal uomo, se
sarà ambizioso, la gloria di tutt'i secoli lo aspetta, se sarà
filosofo, le benedizioni de' suoi cittadini lo consoleranno della perdita
dell'autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro
ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione
s'indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano,
e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le
virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole. Da
ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della
piú parte dei legislatori.
Ma il corso delle mie idee mi ha trasportato fuori
del mio soggetto, al rischiaramento del quale debbo affrettarmi. Uno dei piú
gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma
l'infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati,
e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un'utile
virtú, dev'essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un
castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non
il timore di un altro piú terribile, unito colla speranza dell'impunità;
perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi
umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne
allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità,
che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza.
L'atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di piú per
ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si
commettano piú delitti, per fuggir la pena di un solo. I paesi e i tempi dei
piú atroci supplicii furon sempre quelli delle piú sanguinose ed inumane
azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore,
reggeva quella del parricida e del sicario. Sul trono dettava leggi di ferro ad
anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità
stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi.
A misura che i supplicii diventano piú crudeli, gli
animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che
gli circondano, s'incalliscono, e la forza sempre viva delle passioni fa che,
dopo cent'anni di crudeli supplicii, la ruota spaventi tanto quanto prima la
prigionia. Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena
ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev'essere
calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il
delitto produrrebbe. Tutto il di piú è dunque superfluo e perciò
tirannico. Gli uomini si regolano per la ripetuta azione dei mali che
conoscono, e non su quelli che ignorano. Si facciano due nazioni, in una delle
quali, nella scala delle pene proporzionata alla scala dei delitti, la pena
maggiore sia la schiavitù perpetua, e nell'altra la ruota. Io dico che
la prima avrà tanto timore della sua maggior pena quanto la seconda; e
se vi è una ragione di trasportar nella prima le pene maggiori della
seconda, l'istessa ragione servirebbe per accrescere le pene di quest'ultima,
passando insensibilmente dalla ruota ai tormenti piú lenti e piú studiati, e
fino agli ultimi raffinamenti della scienza troppo conosciuta dai tiranni.
Due altre funeste conseguenze derivano dalla
crudeltà delle pene, contrarie al fine medesimo di prevenire i delitti.
La prima è che non è sí facile il serbare la proporzione
essenziale tra il delitto e la pena, perché, quantunque un'industriosa
crudeltà ne abbia variate moltissimo le specie, pure non possono
oltrepassare quell'ultima forza a cui è limitata l'organizzazione e la
sensibilità umana. Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe
a' delitti piú dannosi e piú atroci pena maggiore corrispondente, come sarebbe
d'uopo per prevenirgli. L'altra conseguenza è che la impunità
stessa nasce dall'atrocità dei supplicii. Gli uomini sono racchiusi fra
certi limiti, sí nel bene che nel male, ed uno spettacolo troppo atroce per
l'umanità non può essere che un passeggiero furore, ma non mai un
sistema costante quali debbono essere le leggi; che se veramente son crudeli, o
si cangiano, o l'impunità fatale nasce dalle leggi medesime.
Chi nel leggere le storie non si raccapriccia
d'orrore pe' barbari ed inutili tormenti che da uomini, che si chiamavano savi,
furono con freddo animo inventati ed eseguiti? Chi può non sentirsi
fremere tutta la parte la piú sensibile nel vedere migliaia d'infelici che la
miseria, o voluta o tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed
oltraggiato i molti, trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura,
o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla timida ignoranza, o rei
non d'altro che di esser fedeli ai propri principii, da uomini dotati dei
medesimi sensi, e per conseguenza delle medesime passioni, con meditate
formalità e con lente torture lacerati, giocondo spettacolo di una
fanatica moltitudine?
Questa inutile prodigalità di supplicii, che
non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia
veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere
il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non
certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono
che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse
rappresentano la volontà generale, che è l'aggregato delle
particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini
l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di
ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E
se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll'altro, che l'uomo
non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui
questo diritto o alla società intera?
Non è dunque la pena di morte un diritto,
mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra
della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la
distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né
utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità.
La morte di un cittadino non può credersi
necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà
egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della
nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa
nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque
necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel
tempo dell'anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma
durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i
voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla
forza e dalla opinione, forse piú efficace della forza medesima, dove il
comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano
piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di
distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico
freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui
può credersi giusta e necessaria la pena di morte.
Quando la sperienza di tutt'i secoli, nei quali
l'ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall'offendere la
società, quando l'esempio dei cittadini romani, e vent'anni di regno
dell'imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli
quest'illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col
sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il
linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell'autorità,
basta consultare la natura dell'uomo per sentire la verità della mia
assersione.
Non è l'intensione della pena che fa il
maggior effetto sull'animo umano, ma l'estensione di essa; perché la nostra
sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma
replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L'impero
dell'abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l'uomo
parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, cosí l'idee
morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non
è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato,
ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che,
divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società
che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti.
Quell'efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi,
io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione se
commetterò simili misfatti, è assai piú possente che non
l'idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza.
La pena di morte fa un'impressione che colla sua
forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all'uomo anche nelle
cose piú essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni
violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono
atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o
dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono
essere piú frequenti che forti.
La pena di morte diviene uno spettacolo per la
maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue
questi sentimenti occupano piú l'animo degli spettatori che non il salutare
terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il
sentimento dominante è l'ultimo perché è il solo. Il limite che
fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel
sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro
nell'animo degli spettatori d'un supplicio piú fatto per essi che per il reo.
Perché una pena sia giusta non deve avere che quei
soli gradi d'intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non
vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua
perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un
delitto: dunque l'intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita
alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo
determinato; aggiungo che ha di piú: moltissimi risguardano la morte con viso
tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre
accompagna l'uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato
tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la
vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo,
in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli
comincia. L'animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi ma
passeggieri dolori che al tempo ed all'incessante noia; perché egli può
per dir cosí condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma
la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e
ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà
alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol
delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante
che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono
essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti,
dunque perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini
tutta l'impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel
medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa
quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che
sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse
anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta
la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di
schiavitù, che spaventa piú chi la vede che chi la soffre; perché il
primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è
dall'infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i
mali s'ingrandiscono nell'immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e
delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che
sostituiscono la propria sensibilità all'animo incallito dell'infelice.
Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro
o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi
che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo
è un'arte che s'apprende colla educazione; ma perché un ladro non
renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali
sono queste leggi ch'io debbo rispettare, che lasciano un cosí grande
intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa
col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini
ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del
povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli
affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali
alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo
l'ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d'indipendenza
naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio
coraggio e della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del
pentimento, ma sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di
stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero,
correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni
impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto
posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia
alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile
pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto
l'orrore di quell'ultima tragedia.
Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran
numero d'anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella
schiavitù e nel dolore in faccia a' suoi concittadini, co' quali vive
libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un
utile paragone di tutto ciò coll'incertezza dell'esito de' suoi delitti,
colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti. L'esempio continuo
di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una
impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo
indurisce piú che non lo corregge.
Non è utile la pena di morte per l'esempio
di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la
necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le
leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero
esempio, tanto piú funesto quanto la morte legale è data con istudio e
con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione
della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne
commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio,
ordinino un pubblico assassinio. Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei
patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre
tace la voce sempre ascoltata dell'interesse privato o si combina con quello
del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte?
Leggiamoli negli atti d'indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il
carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica
volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo
stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi
soldati al di fuori. Qual è dunque l'origine di questa contradizione? E
perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della
ragione? Perché gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che piú
d'ogn'altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno
sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che
della necessità, che col suo scettro di ferro regge l'universo.
Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi
magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente
tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e
mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale,
passa il giudice con insensibile freddezza, e fors'anche con segreta
compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della
vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della
forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un
linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime
destinate in sacrificio, all'idolo insaziabile del dispotismo. L'assassinio,
che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza
ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell'esempio. Ci pareva la
morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma
lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non
aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali
sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno,
fanno gli uomini disposti a' delitti, ne' quali, come abbiam veduto, l'abuso
della religione può piú che la religione medesima.
Se mi si opponesse l'esempio di quasi tutt'i secoli
e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io
risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro
della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà
l'idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi
intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici furon comuni
a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche
società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la
morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario, perché
ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata
delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa
notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l'epoca fortunata, in
cui la verità, come finora l'errore, appartenga al piú gran numero, e da
questa legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole
verità che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col
rivelarle.
La voce di un filosofo è troppo debole
contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine,
ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco
nell'intimo de' loro cuori; e se la verità potesse, fra gl'infiniti
ostacoli che l'allontanano da un monarca, mal grado suo, giungere fino al suo
trono, sappia che ella vi arriva co' voti segreti di tutti gli uomini, sappia
che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la
giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei
Titi, degli Antonini e dei Traiani.
Felice l'umanità, se per la prima volta le
si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di Europa monarchi
benefici, animatori delle pacifiche virtú, delle scienze, delle arti, padri de'
loro popoli, cittadini coronati, l'aumento dell'autorità de' quali forma
la felicità de' sudditi perché toglie quell'intermediario dispotismo piú
crudele, perché men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre sinceri del
popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico, lascian
sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita
di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò
è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore ardore
il continuo accrescimento della loro autorità.
Un errore non meno comune che contrario al fine
sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare
arbitro il magistrato esecutore delle leggi d'imprigionare un cittadino, di
togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e di lasciare
impunito un amico ad onta degl'indizi piú forti di reità. La prigionia
è una pena che per necessità deve, a differenza d'ogn'altra,
precedere la dichiarazione del delitto, ma questo carattere distintivo non le
toglie l'altro essenziale, cioè che la sola legge determini i casi nei
quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà
gl'indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano
ad un esame e ad una pena. La pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale
confessione, quella d'un compagno del delitto, le minaccie e la costante inimicizia
con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per
catturare un cittadino; ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai
giudici, i decreti de' quali sono sempre opposti alla libertà politica,
quando non sieno proposizioni particolari di una massima generale esistente nel
pubblico codice. A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto
lo squallore e la fame dalle carceri, che la compassione e l'umanità
penetreranno le porte ferrate e comanderanno agl'inesorabili ed induriti
ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d'indizi sempre piú
deboli per catturare. Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed assoluto non
dovrebbe portar seco nota alcuna d'infamia. Quanti romani accusati di
gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di
magistrature onorati! Ma per qual ragione è cosí diverso ai tempi nostri
l'esito di un innocente? Perché sembra che nel presente sistema criminale,
secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea della forza e della prepotenza
a quella della giustizia; perché si gettano confusi nella stessa caverna gli
accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplicio che
una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è
separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite
dovrebbon essere. Cosí la prima sarebbe, per mezzo del comune appoggio delle
leggi, combinata colla facoltà giudicativa, ma non dipendente da quella
con immediata podestà, e la gloria, che accompagna la pompa, ed il fasto
di un corpo militare toglierebbero l'infamia, la quale è piú attaccata
al modo che alla cosa, come tutt'i popolari sentimenti; ed è provato
dall'essere le prigionie militari nella comune opinione non cosí infamanti come
le forensi. Durano ancora nel popolo, ne' costumi e nelle leggi, sempre di piú
di un secolo inferiori in bontà ai lumi attuali di una nazione, durano
ancora le barbare impressioni e le feroci idee dei settentrionali cacciatori
padri nostri.
Alcuni hanno sostenuto che in qualunque luogo
commettasi un delitto, cioè un'azione contraria alle leggi, possa essere
punito; quasi che il carattere di suddito fosse indelebile, cioè
sinonimo, anzi peggiore di quello di schiavo; quasi che uno potesse esser
suddito di un dominio ed abitare in un altro, e che le di lui azioni potessero
senza contradizione esser subordinate a due sovrani e a due codici sovente
contradittori. Alcuni credono parimente che un'azione crudele fatta, per
esempio, a Costantinopoli, possa esser punita a Parigi, per l'astratta ragione
che chi offende l'umanità merita di avere tutta l'umanità inimica
e l'esecrazione universale; quasiché i giudici vindici fossero della
sensibilità degli uomini e non piuttosto dei patti che gli legano tra di
loro. Il luogo della pena è il luogo del delitto, perché ivi solamente e
non altrove gli uomini sono sforzati di offendere un privato per prevenire
l'offesa pubblica. Uno scellerato, ma che non ha rotti i patti di una
società di cui non era membro, può essere temuto, e però
dalla forza superiore della società esiliato ed escluso, ma non punito
colle formalità delle leggi vindici dei patti, non della malizia
intrinseca delle azioni.
Sogliono i rei di delitti piú leggieri esser puniti
o nell'oscurità di una prigione, o mandati a dar esempio, con una
lontana e però quasi inutile schiavitù, a nazioni che non hanno
offeso. Se gli uomini non s'inducono in un momento a commettere i piú gravi
delitti, la pubblica pena di un gran misfatto sarà considerata dalla
maggior parte come straniera ed impossibile ad accaderle; ma la pubblica pena
di delitti piú leggeri, ed a' quali l'animo è piú vicino, farà
un'impressione che, distogliendolo da questi, l'allontani viepiú da quegli. Le
pene non devono solamente esser proporzionate fra loro ed ai delitti nella
forza, ma anche nel modo d'infliggerle. Alcuni liberano dalla pena di un
piccolo delitto quando la parte offesa lo perdoni, atto conforme alla
beneficenza ed all'umanità, ma contrario al ben pubblico, quasi che un
cittadino privato potesse egualmente togliere colla sua remissione la
necessità dell'esempio, come può condonare il risarcimento
dell'offesa. Il diritto di far punire non è di un solo, ma di tutti i
cittadini o del sovrano. Egli non può che rinunziare alla sua porzione
di diritto, ma non annullare quella degli altri.
Conosciute le prove e calcolata la certezza del
delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per
giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della
pena, che abbiamo veduto essere uno de' principali freni de' delitti. Un mal
inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di
tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli
dell'innocenza crescono coi difetti della legislazione.
Ma le leggi devono fissare un certo spazio di
tempo, sí alla difesa del reo che alle prove de' delitti, e il giudice
diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per
provare un delitto. Parimente quei delitti atroci, dei quali lunga resta la
memoria negli uomini, quando sieno provati, non meritano alcuna prescrizione in
favore del reo che si è sottratto colla fuga; ma i delitti minori ed
oscuri devono togliere colla prescrizione l'incertezza della sorte di un
cittadino, perché l'oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i
delitti toglie l'esempio della impunità, rimane intanto il potere al reo
di divenir migliore. Mi basta accennar questi principii, perché non può
fissarsi un limite preciso che per una data legislazione e nelle date
circostanze di una società; aggiungerò solamente che, provata
l'utilità delle pene moderate in una nazione, le leggi che in
proporzione dei delitti scemano o accrescono il tempo della prescrizione, o il
tempo delle prove, formando cosí della carcere medesima o del volontario esilio
una parte di pena, somministreranno una facile divisione di poche pene dolci
per un gran numero di delitti.
Ma questi tempi non cresceranno nell'esatta
proporzione dell'atrocità de' delitti, poiché la probabilità dei
delitti è in ragione inversa della loro atrocità. Dovrà
dunque scemarsi il tempo dell'esame e crescere quello della prescrizione, il
che parrebbe una contradizione di quanto dissi, cioè che possono darsi
pene eguali a delitti diseguali, valutando il tempo della carcere o della
prescrizione, precedenti la sentenza, come una pena. Per ispiegare al lettore
la mia idea, distinguo due classi di delitti: la prima è quella dei
delitti atroci, e questa comincia dall'omicidio, e comprende tutte le ulteriori
sceleraggini; la seconda è quella dei delitti minori. Questa distinzione
ha il suo fondamento nella natura umana. La sicurezza della propria vita
è un diritto di natura, la sicurezza dei beni è un diritto di società.
Il numero de' motivi che spingon gli uomini oltre il naturale sentimento di
pietà è di gran lunga minore al numero de' motivi che per la
naturale avidità di esser felici gli spingono a violare un diritto, che
non trovano ne' loro cuori ma nelle convenzioni della società. La
massima differenza di probabilità di queste due classi esige che si
regolino con diversi principii: nei delitti piú atroci, perché piú rari, deve
sminuirsi il tempo dell'esame per l'accrescimento della probabilità
dell'innocenza del reo, e deve crescere il tempo della prescrizione, perché
dalla definitiva sentenza della innocenza o reità di un uomo dipende il
togliere la lusinga della impunità, di cui il danno cresce
coll'atrocità del delitto. Ma nei delitti minori scemandosi la probabilità
dell'innocenza del reo, deve crescere il tempo dell'esame e, scemandosi il
danno dell'impunità, deve diminuirsi il tempo della prescrizione. Una
tal distinzione di delitti in due classi non dovrebbe ammettersi, se
altrettanto scemasse il danno dell'impunità quanto cresce la
probabilità del delitto. Riflettasi che un accusato, di cui non consti
né l'innocenza né la reità, benché liberato per mancanza di prove,
può soggiacere per il medesimo delitto a nuova cattura e a nuovi esami,
se emanano nuovi indizi indicati dalla legge, finché non passi il tempo della
prescrizione fissata al suo delitto. Tale è almeno il temperamento che
sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertà de'
sudditi, essendo troppo facile che l'una non sia favorita a spese dell'altra,
cosicché questi due beni, che formano l'inalienabile ed ugual patrimonio di
ogni cittadino, non siano protetti e custoditi l'uno dall'aperto o mascherato
dispotismo, l'altro dalla turbolenta popolare anarchia.
In vista di questi principii strano parrà, a
chi non riflette che la ragione non è quasi mai stata la legislatrice
delle nazioni, che i delitti o piú atroci o piú oscuri e chimerici, cioè
quelli de' quali l'improbabilità è maggiore, sieno provati dalle
conghietture e dalle prove piú deboli ed equivoche; quasiché le leggi e il
giudice abbiano interesse non di cercare la verità, ma di provare il
delitto; quasiché di condannare un innocente non vi sia un tanto maggior
pericolo quanto la probabilità dell'innocenza supera la
probabilità del reato. Manca nella maggior parte degli uomini quel
vigore necessario egualmente per i grandi delitti che per le grandi virtú, per
cui pare che gli uni vadan sempre contemporanei colle altre in quelle nazioni
che piú si sostengono per l'attività del governo e delle passioni
cospiranti al pubblico bene che per la massa loro o la costante bontà
delle leggi. In queste le passioni indebolite sembran piú atte a mantenere che
a migliorare la forma di governo. Da ciò si cava una conseguenza importante,
che non sempre in una nazione i grandi delitti provano il suo deperimento.
Vi sono alcuni delitti che sono nel medesimo tempo
frequenti nella società e difficili a provarsi, e in questi la
difficoltà della prova tien luogo della probabilità dell'innocenza,
ed il danno dell'impunità essendo tanto meno valutabile quanto la
frequenza di questi delitti dipende da principii diversi dal pericolo
dell'impunità, il tempo dell'esame e il tempo della prescrizione devono
diminuirsi egualmente. E pure gli adulterii, la greca libidine, che sono
delitti di difficile prova, sono quelli che secondo i principii ricevuti
ammettono le tiranniche presunzioni, le quasi-prove, le semi-prove
(quasi che un uomo potesse essere semi-innocente o semi-reo,
cioè semi-punibile e semi-assolvibile), dove la tortura
esercita il crudele suo impero nella persona dell'accusato, nei testimoni, e
persino in tutta la famiglia di un infelice, come con iniqua freddezza
insegnano alcuni dottori che si danno ai giudici per norma e per legge.
L'adulterio è un delitto che, considerato
politicamente, ha la sua forza e la sua direzione da due cagioni: le leggi
variabili degli uomini e quella fortissima attrazione che spinge l'un sesso
verso l'altro; simile in molti casi alla gravità motrice dell'universo,
perché come essa diminuisce colle distanze, e se l'una modifica tutt'i
movimenti de' corpi, cosí l'altra quasi tutti quelli dell'animo, finché dura il
di lei periodo; dissimile in questo, che la gravità si mette in
equilibrio cogli ostacoli, ma quella per lo piú prende forza e vigore col
crescere degli ostacoli medesimi.
Se io avessi a parlare a nazioni ancora prive della
luce della religione direi che vi è ancora un'altra differenza
considerabile fra questo e gli altri delitti. Egli nasce dall'abuso di un
bisogno costante ed universale a tutta l'umanità, bisogno anteriore,
anzi fondatore della società medesima, laddove gli altri delitti
distruttori di essa hanno un'origine piú determinata da passioni momentanee che
da un bisogno naturale. Un tal bisogno sembra, per chi conosce la storia e
l'uomo, sempre uguale nel medesimo clima ad una quantità costante. Se
ciò fosse vero, inutili, anzi perniciose sarebbero quelle leggi e quei
costumi che cercassero diminuirne la somma totale, perché il loro effetto
sarebbe di caricare una parte dei propri e degli altrui bisogni, ma sagge per
lo contrario sarebbero quelle che, per dir cosí, seguendo la facile
inclinazione del piano, ne dividessero e diramassero la somma in tante eguali e
piccole porzioni, che impedissero uniformemente in ogni parte e
l'aridità e l'allagamento. La fedeltà coniugale è sempre
proporzionata al numero ed alla libertà de' matrimoni. Dove gli
ereditari pregiudizi gli reggono, dove la domestica potestà gli combina
e gli scioglie, ivi la galanteria ne rompe secretamente i legami ad onta della
morale volgare, il di cui officio è di declamare contro gli effetti,
perdonando alle cagioni. Ma non vi è bisogno di tali riflessioni per
chi, vivendo nella vera religione, ha piú sublimi motivi, che correggono la
forza degli effetti naturali. L'azione di un tal delitto è cosí
instantanea e misteriosa, cosí coperta da quel velo medesimo che le leggi hanno
posto, velo necessario, ma fragile, e che aumenta il pregio della cosa in vece
di scemarlo, le occasioni cosí facili, le conseguenze cosí equivoche, che
è piú in mano del legislatore il prevenirlo che correggerlo. Regola
generale: in ogni delitto che, per sua natura, dev'essere il piú delle volte
impunito, la pena diviene un incentivo. Ella è proprietà della
nostra immaginazione che le difficoltà, se non sono insormontabili o
troppo difficili rispetto alla pigrizia d'animo di ciascun uomo, eccitano piú
vivamente l'immaginazione ed ingrandiscono l'oggetto, perché elleno sono quasi
altrettanti ripari che impediscono la vagabonda e volubile immaginazione di
sortire dall'oggetto, e costringendola a scorrere tutt'i rapporti, piú
strettamente si attacca alla parte piacevole, a cui piú naturalmente l'animo
nostro si avventa, che non alla dolorosa e funesta, da cui fugge e si
allontana.
L'attica venere cosí severamente punita dalle leggi
e cosí facilmente sottoposta ai tormenti vincitori dell'innocenza, ha meno il
suo fondamento su i bisogni dell'uomo isolato e libero che sulle passioni
dell'uomo sociabile e schiavo. Essa prende la sua forza non tanto dalla
sazietà dei piaceri, quanto da quella educazione che comincia per render
gli uomini inutili a se stessi per fargli utili ad altri, in quelle case dove
si condensa l'ardente gioventù, dove essendovi un argine insormontabile
ad ogni altro commercio, tutto il vigore della natura che si sviluppa si
consuma inutilmente per l'umanità, anzi ne anticipa la vecchiaia.
L'infanticidio è parimente l'effetto di una
inevitabile contradizione, in cui è posta una persona, che per debolezza
o per violenza abbia ceduto. Chi trovasi tra l'infamia e la morte di un essere
incapace di sentirne i mali, come non preferirà questa alla miseria
infallibile a cui sarebbero esposti ella e l'infelice frutto? La miglior
maniera di prevenire questo delitto sarebbe di proteggere con leggi efficaci la
debolezza contro la tirannia, la quale esagera i vizi che non possono coprirsi
col manto della virtú.
Io non pretendo diminuire il giusto orrore che
meritano questi delitti; ma, indicandone le sorgenti, mi credo in diritto di
cavarne una conseguenza generale, cioè che non si può chiamare
precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto,
finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze
d'una nazione per prevenirlo.
Il suicidio è un delitto che sembra non
poter ammettere una pena propriamente detta, poiché ella non può cadere
che o su gl'innocenti, o su di un corpo freddo ed insensibile. Se questa non
farà alcuna impressione su i viventi, come non lo farebbe lo sferzare
una statua, quella è ingiusta e tirannica, perché la libertà
politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno meramente
personali. Gli uomini amano troppo la vita, e tutto ciò che gli circonda
li conferma in questo amore. La seducente immagine del piacere e la speranza,
dolcissimo inganno de' mortali, per cui trangugiano a gran sorsi il male misto
di poche stille di contento, gli alletta troppo perché temer si debba che la
necessaria impunità di un tal delitto abbia qualche influenza sugli
uomini. Chi teme il dolore ubbidisce alle leggi; ma la morte ne estingue nel
corpo tutte le sorgenti. Qual dunque sarà il motivo che tratterrà
la mano disperata del suicida?
Chiunque si uccide fa un minor male alla
società che colui che ne esce per sempre dai confini, perché quegli vi
lascia tutta la sua sostanza, ma questi trasporta se stesso con parte del suo
avere. Anzi se la forza della società consiste nel numero de' cittadini,
col sottrarre se stesso e darsi ad una vicina nazione fa un doppio danno di
quello che lo faccia chi semplicemente colla morte si toglie alla
società. La questione dunque si riduce a sapere se sia utile o dannoso
alla nazione il lasciare una perpetua libertà di assentarsi a ciascun
membro di essa.
Ogni legge che non sia armata, o che la natura
delle circostanze renda insussistente, non deve promulgarsi; e come sugli animi
regna l'opinione, che ubbidisce alle lente ed indirette impressioni del
legislatore, che resiste alle dirette e violente, cosí le leggi inutili,
disprezzate dagli uomini, comunicano il loro avvilimento alle leggi anche piú
salutari, che sono risguardate piú come un ostacolo da superarsi che il
deposito del pubblico bene. Anzi se, come fu detto, i nostri sentimenti sono
limitati, quanta venerazione gli uomini avranno per oggetti estranei alle leggi
tanto meno ne resterà alle leggi medesime. Da questo principio il saggio
dispensatore della pubblica felicità può trarre alcune utili
conseguenze, che, esponendole, mi allontanerebbono troppo dal mio soggetto, che
è di provare l'inutilità di fare dello stato una prigione. Una
tal legge è inutile perché, a meno che scogli inaccessibili o mare
innavigabile non dividano un paese da tutti gli altri, come chiudere tutti i
punti della circonferenza di esso e come custodire i custodi? Chi tutto
trasporta non può, da che lo ha fatto, esserne punito. Un tal delitto
subito che è commesso non può piú punirsi, e il punirlo prima
è punire la volontà degli uomini e non le azioni; egli è
un comandare all'intenzione, parte liberissima dell'uomo dall'impero delle
umane leggi. Il punire l'assente nelle sostanze lasciatevi, oltre la facile ed
inevitabile collusione, che senza tiranneggiare i contratti non può
esser tolta, arrenerebbe ogni commercio da nazione a nazione. Il punirlo quando
ritornasse il reo, sarebbe l'impedire che si ripari il male fatto alla
società col rendere tutte le assenze perpetue. La proibizione stessa di
sortire da un paese ne aumenta il desiderio ai nazionali di sortirne, ed
è un avvertimento ai forestieri di non introdurvisi.
Che dovremo pensare di un governo che non ha altro
mezzo per trattenere gli uomini, naturalmente attaccati per le prime
impressioni dell'infanzia alla loro patria, fuori che il timore? La piú sicura
maniera di fissare i cittadini nella patria è di aumentare il ben essere
relativo di ciascheduno. Come devesi fare ogni sforzo perché la bilancia del
commercio sia in nostro favore, cosí è il massimo interesse del sovrano
e della nazione che la somma della felicità, paragonata con quella delle
nazioni circostanti, sia maggiore che altrove. I piaceri del lusso non sono i
principali elementi di questa felicità, quantunque questo sia un rimedio
necessario alla disuguaglianza, che cresce coi progressi di una nazione, senza
di cui le ricchezze si addenserebbono in una sola mano. Dove i confini di un
paese si aumentano in maggior ragione che non la popolazione di esso, ivi il
lusso favorisce il dispotismo, sí perché quanto gli uomini sono piú rari tanto è
minore l'industria; e quanto è minore l'industria, è tanto piú
grande la dipendenza della povertà dal fasto, ed è tanto piú
difficile e men temuta la riunione degli oppressi contro gli oppressori, sí
perché le adorazioni, gli uffici, le distinzioni, la sommissione, che rendono
piú sensibile la distanza tra il forte e il debole, si ottengono piú facilmente
dai pochi che dai molti, essendo gli uomini tanto piú indipendenti quanto meno
osservati, e tanto meno osservati quanto maggiore ne è il numero. Ma
dove la popolazione cresce in maggior proporzione che non i confini, il lusso
si oppone al dispotismo, perché anima l'industria e l'attività degli
uomini, e il bisogno offre troppi piaceri e comodi al ricco perché quegli
d'ostentazione, che aumentano l'opinione di dipendenza, abbiano il maggior
luogo. Quindi può osservarsi che negli stati vasti e deboli e spopolati,
se altre cagioni non vi mettono ostacolo, il lusso d'ostentazione prevale a
quello di comodo; ma negli stati popolati piú che vasti il lusso di comodo fa
sempre sminuire quello di ostentazione. Ma il commercio ed il passaggio dei
piaceri del lusso ha questo inconveniente, che quantunque facciasi per il mezzo
di molti, pure comincia in pochi, e termina in pochi, e solo pochissima parte
ne gusta il maggior numero, talché non impedisce il sentimento della miseria,
piú cagionato dal paragone che dalla realità. Ma la sicurezza e la
libertà limitata dalle sole leggi sono quelle che formano la base
principale di questa felicità, colle quali i piaceri del lusso
favoriscono la popolazione, e senza di quelle divengono lo stromento della
tirannia. Siccome le fiere piú generose e i liberissimi uccelli si allontanano
nelle solitudini e nei boschi inaccessibili, ed abbandonano le fertili e
ridenti campagne all'uomo insidiatore, cosí gli uomini fuggono i piaceri
medesimi quando la tirannia gli distribuisce.
Egli è dunque dimostrato che la legge che
imprigiona i sudditi nel loro paese è inutile ed ingiusta. Dunque lo
sarà parimente la pena del suicidio; e perciò, quantunque sia una
colpa che Dio punisce, perché solo può punire anche dopo la morte, non
è un delitto avanti gli uomini, perché la pena, in vece di cadere sul
reo medesimo, cade sulla di lui famiglia. Se alcuno mi opponesse che una tal
pena può nondimeno ritrarre un uomo determinato dall'uccidersi, io
rispondo: che chi tranquillamente rinuncia al bene della vita, che odia
l'esistenza quaggiù, talché vi preferisce un'infelice eternità,
deve essere niente mosso dalla meno efficace e piú lontana considerazione dei
figli o dei parenti.
Il contrabbando è un vero delitto che
offende il sovrano e la nazione, ma la di lui pena non dev'essere infamante,
perché commesso non produce infamia nella pubblica opinione. Chiunque dà
pene infamanti a' delitti che non sono reputati tali dagli uomini, scema il
sentimento d'infamia per quelli che lo sono. Chiunque vedrà stabilita la
medesima pena di morte, per esempio, a chi uccide un fagiano ed a chi assassina
un uomo o falsifica uno scritto importante, non farà alcuna differenza
tra questi delitti, distruggendosi in questa maniera i sentimenti morali, opera
di molti secoli e di molto sangue, lentissimi e difficili a prodursi nell'animo
umano, per far nascere i quali fu creduto necessario l'aiuto dei piú sublimi
motivi e un tanto apparato di gravi formalità.
Questo delitto nasce dalla legge medesima poiché,
crescendo la gabella, cresce sempre il vantaggio, e però la tentazione
di fare il contrabbando e la facilità di commetterlo cresce colla
circonferenza da custodirsi e colla diminuzione del volume della merce
medesima. La pena di perdere e la merce bandita e la roba che l'accompagna
è giustissima, ma sarà tanto piú efficace quanto piú piccola
sarà la gabella, perché gli uomini non rischiano che a proporzione del
vantaggio che l'esito felice dell'impresa produrrebbe.
Ma perché mai questo delitto non cagiona infamia al
di lui autore, essendo un furto fatto al principe, e per conseguenza alla
nazione medesima? Rispondo che le offese che gli uomini credono non poter
essere loro fatte, non l'interessano tanto che basti a produrre la pubblica
indegnazione contro di chi le commette. Tale è il contrabbando. Gli
uomini su i quali le conseguenze rimote fanno debolissime impressioni, non
veggono il danno che può loro accadere per il contrabbando, anzi sovente
ne godono i vantaggi presenti. Essi non veggono che il danno fatto al principe;
non sono dunque interessati a privare dei loro suffragi chi fa un contrabbando,
quanto lo sono contro chi commette un furto privato, contro chi falsifica il
carattere, ed altri mali che posson loro accadere. Principio evidente che ogni
essere sensibile non s'interessa che per i mali che conosce.
Ma dovrassi lasciare impunito un tal delitto contro
chi non ha roba da perdere? No: vi sono dei contrabbandi che interessano
talmente la natura del tributo, parte cosí essenziale e cosí difficile in una
buona legislazione, che un tal delitto merita una pena considerabile fino alla
prigione medesima, fino alla servitù; ma prigione e servitù conforme
alla natura del delitto medesimo. Per esempio la prigionia del contrabbandiere
di tabacco non dev'essere comune con quella del sicario o del ladro, e i lavori
del primo, limitati al travaglio e servigio della regalia medesima che ha
voluto defraudare, saranno i piú conformi alla natura delle pene.
La buona fede dei contratti, la sicurezza del
commercio costringono il legislatore ad assicurare ai creditori le persone dei
debitori falliti, ma io credo importante il distinguere il fallito doloso dal
fallito innocente; il primo dovrebbe esser punito coll'istessa pena che
è assegnata ai falsificatori delle monete, poiché il falsificare un
pezzo di metallo coniato, che è un pegno delle obbligazioni de'
cittadini, non è maggior delitto che il falsificare le obbligazioni
stesse. Ma il fallito innocente, ma colui che dopo un rigoroso esame ha provato
innanzi a' suoi giudici che o l'altrui malizia, o l'altrui disgrazia, o vicende
inevitabili dalla prudenza umana lo hanno spogliato delle sue sostanze, per
qual barbaro motivo dovrà essere gettato in una prigione, privo
dell'unico e tristo bene che gli avanza di una nuda libertà, a provare
le angosce dei colpevoli, e colla disperazione della probità oppressa a
pentirsi forse di quella innocenza colla quale vivea tranquillo sotto la tutela
di quelle leggi che non era in sua balìa di non offendere, leggi dettate
dai potenti per avidità, e dai deboli sofferte per quella speranza che
per lo piú scintilla nell'animo umano, la quale ci fa credere gli avvenimenti
sfavorevoli esser per gli altri e gli avantaggiosi per noi? Gli uomini
abbandonati ai loro sentimenti i piú obvii amano le leggi crudeli, quantunque,
soggetti alle medesime, sarebbe dell'interesse di ciascuno che fossero
moderate, perché è piú grande il timore di essere offesi che la voglia
di offendere. Ritornando all'innocente fallito, dico che se inestinguibile
dovrà essere la di lui obbligazione fino al totale pagamento, se non gli
sia concesso di sottrarvisi senza il consenso delle parti interessate e di
portar sotto altre leggi la di lui industria, la quale dovrebb'esser costretta
sotto pene ad essere impiegata a rimetterlo in istato di soddisfare
proporzionalmente ai progressi, qual sarà il pretesto legittimo, come la
sicurezza del commercio, come la sacra proprietà dei beni, che
giustifichi una privazione di libertà inutile fuori che nel caso di far
coi mali della schiavitù svelare i secreti di un supposto fallito
innocente, caso rarissimo nella supposizione di un rigoroso esame! Credo massima
legislatoria che il valore degl'inconvenienti politici sia in ragione composta
della diretta del danno pubblico, e della inversa della improbabilità di
verificarsi. Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla
leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei
delitti di falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di
libertà, riserbando all'ultima la scelta libera dei mezzi di
ristabilirsi, togliere alla terza la libertà di farlo, lasciandola ai
creditori. Ma le distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca
ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le
fissazioni dei limiti sono cosí necessarie nella politica come nella
matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle
grandezze.
Con quale facilità il provido legislatore
potrebbe impedire una gran parte dei fallimenti colpevoli, e rimediare alle
disgrazie dell'innocente industrioso! La pubblica e manifesta registrazione di
tutt'i contratti, e la libertà a tutt'i cittadini di consultarne i
documenti bene ordinati, un banco pubblico formato dai saggiamente ripartiti
tributi sulla felice mercatura e destinato a soccorrere colle somme opportune
l'infelice ed incolpabile membro di essa, nessun reale inconveniente avrebbero
ed innumerabili vantaggi possono produrre. Ma le facili, le semplici, le grandi
leggi, che non aspettano che il cenno del legislatore per ispandere nel seno
della nazione la dovizia e la robustezza, leggi che d'inni immortali di
riconoscenza di generazione in generazione lo ricolmerebbero, sono o le men
cognite o le meno volute. Uno spirito inquieto e minuto, la timida prudenza del
momento presente, una guardinga rigidezza alle novità s'impadroniscono
dei sentimenti di chi combina la folla delle azioni dei piccoli mortali.
Mi restano ancora due questioni da esaminare:
l'una, se gli asili sieno giusti, e se il patto di rendersi fralle nazioni
reciprocamente i rei sia utile o no. Dentro i confini di un paese non
dev'esservi alcun luogo indipendente dalle leggi. La forza di esse seguir deve
ogni cittadino, come l'ombra segue il corpo. L'impunità e l'asilo non
differiscono che di piú e meno, e come l'impressione della pena consiste piú
nella sicurezza d'incontrarla che nella forza di essa, gli asili invitano piú
ai delitti di quello che le pene non allontanano. Moltiplicare gli asili
è il formare tante piccole sovranità, perché dove non sono leggi
che comandano, ivi possono formarsene delle nuove ed opposte alle comuni, e
però uno spirito opposto a quello del corpo intero della società.
Tutte le istorie fanno vedere che dagli asili sortirono grandi rivoluzioni
negli stati e nelle opinioni degli uomini. Ma se sia utile il rendersi reciprocamente
i rei fralle nazioni, io non ardirei decidere questa questione finché le leggi
piú conformi ai bisogni dell'umanità, le pene piú dolci, ed estinta la
dipendenza dall'arbitrio e dall'opinione, non rendano sicura l'innocenza
oppressa e la detestata virtú; finché la tirannia non venga del tutto dalla
ragione universale, che sempre piú unisce gl'interessi del trono e dei sudditi,
confinata nelle vaste pianure dell'Asia, quantunque la persuasione di non
trovare un palmo di terra che perdoni ai veri delitti sarebbe un mezzo
efficacissimo per prevenirli.
L'altra questione è se sia utile il mettere
a prezzo la testa di un uomo conosciuto reo ed armando il braccio di ciascun
cittadino farne un carnefice. O il reo è fuori de' confini, o al di
dentro: nel primo caso il sovrano stimola i cittadini a commettere un delitto,
e gli espone ad un supplicio, facendo cosí un'ingiuria ed una usurpazione
d'autorità negli altrui dominii, ed autorizza in questa maniera le altre
nazioni a far lo stesso con lui; nel secondo mostra la propria debolezza. Chi
ha la forza per difendersi non cerca di comprarla. Di piú, un tal editto
sconvolge tutte le idee di morale e di virtú, che ad ogni minimo vento
svaniscono nell'animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo
puniscono. Con una mano il legislatore stringe i legami di famiglia, di
parentela, di amicizia, e coll'altra premia chi gli rompe e chi gli spezza;
sempre contradittorio a se medesimo, ora invita alla fiducia gli animi
sospettosi degli uomini, ora sparge la diffidenza in tutt'i cuori. In vece di
prevenire un delitto, ne fa nascer cento. Questi sono gli espedienti delle
nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un
edificio rovinoso che crolla da ogni parte. A misura che crescono i lumi in una
nazione, la buona fede e la confidenza reciproca divengono necessarie, e sempre
piú tendono a confondersi colla vera politica. Gli artificii, le cabale, le
strade oscure ed indirette, sono per lo piú prevedute, e la sensibilità
di tutti rintuzza la sensibilità di ciascuno in particolare. I secoli
d'ignoranza medesimi, nei quali la morale pubblica piega gli uomini ad ubbidire
alla privata, servono d'instruzione e di sperienza ai secoli illuminati. Ma le
leggi che premiano il tradimento e che eccitano una guerra clandestina
spargendo il sospetto reciproco fra i cittadini, si oppongono a questa cosí
necessaria riunione della morale e della politica, a cui gli uomini dovrebbero
la loro felicità, le nazioni la pace, e l'universo qualche piú lungo
intervallo di tranquillità e di riposo ai mali che vi passeggiano sopra.
Perché le leggi non puniscono l'intenzione, non
è però che un delitto che cominci con qualche azione che ne
manifesti la volontà di eseguirlo non meriti una pena, benché minore
all'esecuzione medesima del delitto. L'importanza di prevenire un attentato
autorizza una pena; ma siccome tra l'attentato e l'esecuzione vi può
essere un intervallo, cosí la pena maggiore riserbata al delitto consumato
può dar luogo al pentimento. Lo stesso dicasi quando siano piú complici
di un delitto, e non tutti esecutori immediati, ma per una diversa ragione.
Quando piú uomini si uniscono in un rischio, quant'egli sarà piú grande
tanto piú cercano che sia uguale per tutti; sarà dunque piú difficile
trovare chi si contenti d'esserne l'esecutore, correndo un rischio maggiore
degli altri complici. La sola eccezione sarebbe nel caso che all'esecutore
fosse fissato un premio; avendo egli allora un compenso per il maggior rischio
la pena dovrebbe esser eguale. Tali riflessioni sembreran troppo metafisiche a
chi non rifletterà essere utilissimo che le leggi procurino meno motivi
di accordo che sia possibile tra i compagni di un delitto.
Alcuni tribunali offrono l'impunità a quel
complice di grave delitto che paleserà i suoi compagni. Un tale
spediente ha i suoi inconvenienti e i suoi vantaggi. Gl'inconvenienti sono che
la nazione autorizza il tradimento, detestabile ancora fra gli scellerati,
perché sono meno fatali ad una nazione i delitti di coraggio che quegli di
viltà: perché il primo non è frequente, perché non aspetta che
una forza benefica e direttrice che lo faccia conspirare al ben pubblico, e la
seconda è piú comune e contagiosa, e sempre piú si concentra in se
stessa. Di piú, il tribunale fa vedere la propria incertezza, la debolezza
della legge, che implora l'aiuto di chi l'offende. I vantaggi sono il prevenire
delitti importanti, e che essendone palesi gli effetti ed occulti gli autori intimoriscono
il popolo; di piú, si contribuisce a mostrare che chi manca di fede alle leggi,
cioè al pubblico, è probabile che manchi al privato.
Sembrerebbemi che una legge generale che promettesse la impunità al
complice palesatore di qualunque delitto fosse preferibile ad una speciale
dichiarazione in un caso particolare, perché cosí preverrebbe le unioni col
reciproco timore che ciascun complice avrebbe di non espor che se medesimo; il
tribunale non renderebbe audaci gli scellerati che veggono in un caso particolare
chiesto il loro soccorso. Una tal legge però dovrebbe accompagnare
l'impunità col bando del delatore... Ma invano tormento me stesso per
distruggere il rimorso che sento autorizzando le sacrosante leggi, il monumento
della pubblica confidenza, la base della morale umana, al tradimento ed alla
dissimulazione. Qual esempio alla nazione sarebbe poi se si mancasse
all'impunità promessa, e che per dotte cavillazioni si strascinasse al
supplicio ad onta della fede pubblica chi ha corrisposto all'invito delle
leggi! Non sono rari nelle nazioni tali esempi, e perciò rari non sono
coloro che non hanno di una nazione altra idea che di una macchina complicata,
di cui il piú destro e il piú potente ne muovono a lor talento gli ordigni;
freddi ed insensibili a tutto ciò che forma la delizia delle anime
tenere e sublimi, eccitano con imperturbabile sagacità i sentimenti piú
cari e le passioni piú violente, sí tosto che le veggono utili al loro fine,
tasteggiando gli animi, come i musici gli stromenti.
Le nostre leggi proscrivono le interrogazioni che
chiamansi suggestive in un processo: quelle cioè secondo i
dottori, che interrogano della specie, dovendo interrogare del genere,
nelle circostanze d'un delitto: quelle interrogazioni cioè che, avendo
un'immediata connessione col delitto, suggeriscono al reo una immediata
risposta. Le interrogazioni secondo i criminalisti devono per dir cosí
inviluppare spiralmente il fatto, ma non andare giammai per diritta linea a
quello. I motivi di questo metodo sono o per non suggerire al reo una
risposta che lo metta al coperto dell'accusa, o forse perché sembra contro la
natura stessa che un reo si accusi immediatamente da sé. Qualunque sia di
questi due motivi è rimarcabile la contradizione delle leggi che
unitamente a tale consuetudine autorizzano la tortura; imperocché qual
interrogazione piú suggestiva del dolore? Il primo motivo si verifica
nella tortura, perché il dolore suggerirà al robusto un'ostinata
taciturnità onde cambiare la maggior pena colla minore, ed al debole suggerirà
la confessione onde liberarsi dal tormento presente piú efficace per allora che
non il dolore avvenire. Il secondo motivo è ad evidenza lo stesso,
perché se una interrogazione speciale fa contro il diritto di natura
confessare un reo, gli spasimi lo faranno molto piú facilmente: ma gli uomini
piú dalla differenza de' nomi si regolano che da quella delle cose. Fra gli
altri abusi della grammatica i quali non hanno poco influito su gli affari
umani, è notabile quello che rende nulla ed inefficace la deposizione di
un reo già condannato; egli è morto civilmente,
dicono gravemente i peripatetici giureconsulti, e un morto non è
capace di alcuna azione. Per sostenere questa vana metafora molte vittime si
sono sacrificate, e bene spesso si è disputato con seria riflessione se
la verità dovesse cedere alle formule giudiciali. Purché le deposizioni
di un reo condannato non arrivino ad un segno che fermino il corso della giustizia,
perché non dovrassi concedere, anche dopo la condanna, e all'estrema miseria
del reo e agl'interessi della verità uno spazio congruo, talché
adducendo egli cose nuove, che cangino la natura del fatto, possa giustificar
sé od altrui con un nuovo giudizio? Le formalità e le ceremonie sono
necessarie nell'amministrazione della giustizia, sí perché niente lasciano
all'arbitrio dell'amministratore, sí perché danno idea al popolo di un giudizio
non tumultuario ed interessato, ma stabile e regolare, sí perché sugli uomini
imitatori e schiavi dell'abitudine fanno piú efficace impressione le sensazioni
che i raziocini. Ma queste senza un fatale pericolo non possono mai dalla legge
fissarsi in maniera che nuocano alla verità, la quale, per essere o troppo
semplice o troppo composta, ha bisogno di qualche esterna pompa che le concilii
il popolo ignorante. Finalmente colui che nell'esame si ostinasse di non
rispondere alle interrogazioni fattegli merita una pena fissata dalle leggi, e
pena delle piú gravi che siano da quelle intimate, perché gli uomini non
deludano cosí la necessità dell'esempio che devono al pubblico. Non
è necessaria questa pena quando sia fuori di dubbio che un tal accusato
abbia commesso un tal delitto, talché le interrogazioni siano inutili, nell'istessa
maniera che è inutile la confessione del delitto quando altre prove ne
giustificano la reità. Quest'ultimo caso è il piú ordinario,
perché la sperienza fa vedere che nella maggior parte de' processi i rei sono
negativi.
Chiunque leggerà questo scritto accorgerassi
che io ho ommesso un genere di delitti che ha coperto l'Europa di sangue umano
e che ha alzate quelle funeste cataste, ove servivano di alimento alle fiamme i
vivi corpi umani, quand'era giocondo spettacolo e grata armonia per la cieca
moltitudine l'udire i sordi confusi gemiti dei miseri che uscivano dai vortici
di nero fumo, fumo di membra umane, fra lo stridere dell'ossa incarbonite e il
friggersi delle viscere ancor palpitanti. Ma gli uomini ragionevoli vedranno
che il luogo, il secolo e la materia non mi permettono di esaminare la natura
di un tal delitto. Troppo lungo, e fuori del mio soggetto, sarebbe il provare
come debba essere necessaria una perfetta uniformità di pensieri in uno
stato, contro l'esempio di molte nazioni; come opinioni, che distano tra di
loro solamente per alcune sottilissime ed oscure differenze troppo lontane
dalla umana capacità, pure possano sconvolgere il ben pubblico, quando
una non sia autorizzata a preferenza delle altre; e come la natura delle
opinioni sia composta a segno che mentre alcune col contrasto fermentando e
combattendo insieme si rischiarano, e soprannotando le vere, le false si
sommergono nell'oblio, altre, mal sicure per la nuda loro costanza, debbano
esser vestite di autorità e di forza. Troppo lungo sarebbe il provare
come, quantunque odioso sembri l'impero della forza sulle menti umane, del
quale le sole conquiste sono la dissimulazione, indi l'avvilimento; quantunque
sembri contrario allo spirito di mansuetudine e fraternità comandato
dalla ragione e dall'autorità che piú veneriamo, pure sia necessario ed
indispensabile. Tutto ciò deve credersi evidentemente provato e conforme
ai veri interessi degli uomini, se v'è chi con riconosciuta autorità
lo esercita. Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal
patto sociale, e non dei peccati, de' quali le pene, anche temporali, debbono
regolarsi con altri principii che quelli di una limitata filosofia.
Una sorgente di errori e d'ingiustizie sono le
false idee d'utilità che si formano i legislatori. Falsa idea
d'utilità è quella che antepone gl'inconvenienti particolari
all'inconveniente generale, quella che comanda ai sentimenti in vece di eccitargli,
che dice alla logica: servi. Falsa idea di utilità è quella che
sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di poca
conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l'acqua
perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che
proibiscono di portar le armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che
i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio
di poter violare le leggi piú sacre della umanità e le piú importanti
del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle
quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravenzioni, e l'esecuzione
esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all'uomo,
carissima all'illuminato legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le
vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti,
migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli
accrescono, perché è maggiore la confidenza nell'assalire i disarmati
che gli armati. Queste si chiaman leggi non prevenitrici ma paurose dei
delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari,
non dalla ragionata meditazione degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto
universale. Falsa idea d'utilità è quella che vorrebbe dare a una
moltitudine di esseri sensibili la simmetria e l'ordine che soffre la materia
bruta e inanimata, che trascura i motivi presenti, che soli con costanza e con
forza agiscono sulla moltitudine, per dar forza ai lontani, de' quali
brevissima e debole è l'impressione, se una forza d'immaginazione, non
ordinaria nella umanità, non supplisce coll'ingrandimento alla
lontananza dell'oggetto. Finalmente è falsa idea d'utilità quella
che, sacrificando la cosa al nome, divide il ben pubblico dal bene di tutt'i
particolari. Vi è una differenza dallo stato di società allo
stato di natura, che l'uomo selvaggio non fa danno altrui che quanto basta per
far bene a sé stesso, ma l'uomo sociabile è qualche volta mosso dalle
male leggi a offender altri senza far bene a sé. Il dispotico getta il timore e
l'abbattimento nell'animo de' suoi schiavi, ma ripercosso ritorna con maggior
forza a tormentare il di lui animo. Quanto il timore è piú solitario e
domestico tanto è meno pericoloso a chi ne fa lo stromento della sua
felicità; ma quanto è piú pubblico ed agita una moltitudine piú
grande di uomini tanto è piú facile che vi sia o l'imprudente, o il
disperato, o l'audace accorto che faccia servire gli uomini al suo fine,
destando in essi sentimenti piú grati e tanto piú seducenti quanto il rischio
dell'intrapresa cade sopra un maggior numero, ed il valore che gl'infelici
danno alla propria esistenza si sminuisce a proporzione della miseria che
soffrono. Questa è la cagione per cui le offese ne fanno nascere delle
nuove, che l'odio è un sentimento tanto piú durevole dell'amore, quanto
il primo prende la sua forza dalla continuazione degli atti, che indebolisce il
secondo.
È meglio prevenire i delitti che punirgli.
Questo è il fine principale d'ogni buona legislazione, che è
l'arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo
d'infelicità possibile, per parlare secondo tutt'i calcoli dei beni e
dei mali della vita. Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo piú falsi ed
opposti al fine proposto. Non è possibile il ridurre la turbolenta
attività degli uomini ad un ordine geometrico senza irregolarità
e confusione. Come le costanti e semplicissime leggi della natura non impediscono
che i pianeti non si turbino nei loro movimenti cosí nelle infinite ed
oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono impedirsene dalle
leggi umane i turbamenti ed il disordine. Eppur questa è la chimera
degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano. Il proibire una
moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne
possono nascere, ma egli è un crearne dei nuovi, egli è un
definire a piacere la virtú ed il vizio, che ci vengono predicati eterni ed
immutabili. A che saremmo ridotti, se ci dovesse essere vietato tutto
ciò che può indurci a delitto? Bisognerebbe privare l'uomo
dell'uso de' suoi sensi. Per un motivo che spinge gli uomini a commettere un
vero delitto, ve ne son mille che gli spingono a commetter quelle azioni indifferenti,
che chiamansi delitti dalle male leggi; e se la probabilità dei delitti
è proporzionata al numero dei motivi, l'ampliare la sfera dei delitti
è un crescere la probabilità di commettergli. La maggior parte
delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comodo
di alcuni pochi.
Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian
chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a
difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che le
leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. Fate che
gli uomini le temano, e temano esse sole. Il timor delle leggi è
salutare, ma fatale e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo. Gli
uomini schiavi sono piú voluttuosi, piú libertini, piú crudeli degli uomini
liberi. Questi meditano sulle scienze, meditano sugl'interessi della nazione,
veggono grandi oggetti, e gl'imitano; ma quegli contenti del giorno presente
cercano fra lo strepito del libertinaggio una distrazione dall'annientamento in
cui si veggono; avvezzi all'incertezza dell'esito di ogni cosa, l'esito de'
loro delitti divien problematico per essi, in vantaggio della passione che gli
determina. Se l'incertezza delle leggi cade su di una nazione indolente per
clima, ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza e stupidità. Se cade
in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l'attività in un
infinito numero di piccole cabale ed intrighi, che spargono la diffidenza in
ogni cuore e che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della
prudenza. Se cade su di una nazione coraggiosa e forte, l'incertezza vien tolta
alla fine, formando prima molte oscillazioni dalla libertà alla
schiavitù, e dalla schiavitù alla libertà.
Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi
accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in
ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un
ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di
un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato. Le cognizioni facilitando
i paragoni degli oggetti e moltiplicandone i punti di vista, contrappongono
molti sentimenti gli uni agli altri, che si modificano vicendevolmente, tanto
piú facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le medesime
resistenze. In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione, tace la
calunniosa ignoranza e trema l'autorità disarmata di ragioni, rimanendo
immobile la vigorosa forza delle leggi; perché non v'è uomo illuminato
che non ami i pubblici, chiari ed utili patti della comune sicurezza,
paragonando il poco d'inutile libertà da lui sacrificata alla somma di
tutte le libertà sacrificate dagli altri uomini, che senza le leggi
poteano divenire conspiranti contro di lui. Chiunque ha un'anima sensibile,
gettando uno sguardo su di un codice di leggi ben fatte, e trovando di non aver
perduto che la funesta libertà di far male altrui, sarà costretto
a benedire il trono e chi lo occupa
Non è vero che le scienze sian sempre
dannose all'umanità, e quando lo furono era un male inevitabile agli
uomini. La moltiplicazione dell'uman genere sulla faccia della terra introdusse
la guerra, le arti piú rozze, le prime leggi, che erano patti momentanei che
nascevano colla necessità e con essa perivano. Questa fu la prima
filosofia degli uomini, i di cui pochi elementi erano giusti, perché la loro
indolenza e poca sagacità gli preservava dall'errore. Ma i bisogni si
moltiplicavano sempre piú col moltiplicarsi degli uomini. Erano dunque
necessarie impressioni piú forti e piú durevoli che gli distogliessero dai
replicati ritorni nel primo stato d'insociabilità, che si rendeva sempre
piú funesto. Fecero dunque un gran bene all'umanità quei primi errori
che popolarono la terra di false divinità (dico gran bene politico) e
che crearono un universo invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori
degli uomini quegli che osarono sorprendergli e strascinarono agli altari la
docile ignoranza. Presentando loro oggetti posti di là dai sensi, che
loro fuggivan davanti a misura che credean raggiungerli, non mai disprezzati,
perché non mai ben conosciuti, riunirono e condensarono le divise passioni in
un solo oggetto, che fortemente gli occupava. Queste furono le prime vicende di
tutte le nazioni che si formarono da' popoli selvaggi, questa fu l'epoca della
formazione delle grandi società, e tale ne fu il vincolo necessario e
forse unico. Non parlo di quel popolo eletto da Dio, a cui i miracoli piú
straordinari e le grazie piú segnalate tennero luogo della umana politica. Ma
come è proprietà dell'errore di sottodividersi all'infinito, cosí
le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica moltitudine di
ciechi, che in un chiuso laberinto si urtano e si scompigliano di modo che
alcune anime sensibili e filosofiche regrettarono persino l'antico stato
selvaggio. Ecco la prima epoca, in cui le cognizioni, o per dir meglio le
opinioni, sono dannose.
La seconda è nel difficile e terribil
passaggio dagli errori alla verità, dall'oscurità non conosciuta
alla luce. L'urto immenso degli errori utili ai pochi potenti contro le
verità utili ai molti deboli, l'avvicinamento ed il fermento delle
passioni, che si destano in quell'occasione, fanno infiniti mali alla misera
umanità. Chiunque riflette sulle storie, le quali dopo certi intervalli
di tempo si rassomigliano quanto all'epoche principali, vi troverà piú
volte una generazione intera sacrificata alla felicità di quelle che le
succedono nel luttuoso ma necessario passaggio dalle tenebre dell'ignoranza
alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le
conseguenze. Ma quando, calmati gli animi ed estinto l'incendio che ha purgata
la nazione dai mali che l'opprimono, la verità, i di cui progressi prima
son lenti e poi accelerati, siede compagna su i troni de' monarchi ed ha culto
ed ara nei parlamenti delle repubbliche, chi potrà mai asserire che la
luce che illumina la moltitudine sia piú dannosa delle tenebre, e che i veri e
semplici rapporti delle cose ben conosciute dagli uomini lor sien funesti?
Se la cieca ignoranza è meno fatale che il
mediocre e confuso sapere, poiché questi aggiunge ai mali della prima quegli
dell'errore inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del
vero, l'uomo illuminato è il dono piú prezioso che faccia alla nazione
ed a se stesso il sovrano, che lo rende depositario e custode delle sante
leggi. Avvezzo a vedere la verità e a non temerla, privo della maggior
parte dei bisogni dell'opinione non mai abbastanza soddisfatti, che mettono
alla prova la virtú della maggior parte degli uomini, assuefatto a contemplare
l'umanità dai punti di vista piú elevati, avanti a lui la propria
nazione diventa una famiglia di uomini fratelli, e la distanza dei grandi al
popolo gli par tanto minore quanto è maggiore la massa
dell'umanità che ha avanti gli occhi. I filosofi acquistano dei bisogni
e degli interessi non conosciuti dai volgari, quello principalmente di non
ismentire nella pubblica luce i principii predicati nell'oscurità, ed
acquistano l'abitudine di amare la verità per se stessa. Una scelta di
uomini tali forma la felicità di una nazione, ma felicità
momentanea se le buone leggi non ne aumentino talmente il numero che scemino la
probabilità sempre grande di una cattiva elezione.
Un altro mezzo di prevenire i delitti si è
d'interessare il consesso esecutore delle leggi piuttosto all'osservanza di
esse che alla corruzione. Quanto maggiore è il numero che lo compone
tanto è meno pericolosa l'usurpazione sulle leggi, perché la
venalità è piú difficile tra membri che si osservano tra di loro,
e sono tanto meno interessati ad accrescere la propria autorità, quanto
minore ne è la porzione che a ciascuno ne toccherebbe, massimamente
paragonata col pericolo dell'intrapresa. Se il sovrano coll'apparecchio e colla
pompa, coll'austerità degli editti, col non permettere le giuste e le
ingiuste querele di chi si crede oppresso, avvezzerà i sudditi a temere
piú i magistrati che le leggi, essi profitteranno piú di questo timore di quello
che non ne guadagni la propria e pubblica sicurezza .
Un altro mezzo di prevenire i delitti è
quello di ricompensare la virtú. Su di questo proposito osservo un silenzio
universale nelle leggi di tutte le nazioni del dì d'oggi. Se i premi
proposti dalle accademie ai discuopritori delle utili verità hanno
moltiplicato e le cognizioni e i buoni libri, perché non i premi distribuiti
dalla benefica mano del sovrano non moltiplicherebbeno altresí le azioni
virtuose? La moneta dell'onore è sempre inesausta e fruttifera nelle
mani del saggio distributore.
Finalmente il piú sicuro ma piú difficil mezzo di
prevenire i delitti si è di perfezionare l'educazione, oggetto troppo
vasto e che eccede i confini che mi sono prescritto, oggetto, oso anche dirlo,
che tiene troppo intrinsecamente alla natura del governo perché non sia sempre
fino ai piú remoti secoli della pubblica felicità un campo sterile, e
solo coltivato qua e là da pochi saggi. Un grand'uomo, che illumina
l'umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le
principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cioè
consistere meno in una sterile moltitudine di oggetti che nella scelta e
precisione di essi, nel sostituire gli originali alle copie nei fenomeni sí
morali che fisici che il caso o l'industria presenta ai novelli animi dei
giovani, nello spingere alla virtú per la facile strada del sentimento, e nel
deviarli dal male per la infallibile della necessità e dell'inconveniente,
e non colla incerta del comando, che non ottiene che una simulata e momentanea
ubbidienza.
A misura che le pene divengono piú dolci, la
clemenza ed il perdono diventano meno necessari. Felice la nazione nella quale
sarebbero funesti! La clemenza dunque, quella virtú che è stata talvolta
per un sovrano il supplemento di tutt'i doveri del trono, dovrebbe essere
esclusa in una perfetta legislazione dove le pene fossero dolci ed il metodo di
giudicare regolare e spedito. Questa verità sembrerà dura a chi
vive nel disordine del sistema criminale dove il perdono e le grazie sono
necessarie in proporzione dell'assurdità delle leggi e
dell'atrocità delle condanne. Quest'è la piú bella prerogativa
del trono, questo è il piú desiderabile attributo della
sovranità, e questa è la tacita disapprovazione che i benefici
dispensatori della pubblica felicità danno ad un codice che con tutte le
imperfezioni ha in suo favore il pregiudizio dei secoli, il voluminoso ed imponente
corredo d'infiniti commentatori, il grave apparato dell'eterne formalità
e l'adesione dei piú insinuanti e meno temuti semidotti. Ma si consideri che la
clemenza è la virtú del legislatore e non dell'esecutor delle leggi; che
deve risplendere nel codice, non già nei giudizi particolari; che il far
vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti e che la pena non ne
è la necessaria conseguenza è un fomentare la lusinga
dell'impunità, è un far credere che, potendosi perdonare, le
condanne non perdonate siano piuttosto violenze della forza che emanazioni
della giustizia. Che dirassi poi quando il principe dona le grazie, cioè
la pubblica sicurezza ad un particolare, e che con un atto privato di non
illuminata beneficenza forma un pubblico decreto d'impunità. Siano dunque
inesorabili le leggi, inesorabili gli esecutori di esse nei casi particolari,
ma sia dolce, indulgente, umano il legislatore. Saggio architetto, faccia
sorgere il suo edificio sulla base dell'amor proprio, e l'interesse generale
sia il risultato degl'interessi di ciascuno, e non sarà costretto con
leggi parziali e con rimedi tumultuosi a separare ad ogni momento il ben
pubblico dal bene de' particolari, e ad alzare il simulacro della salute
pubblica sul timore e sulla diffidenza. Profondo e sensibile filosofo, lasci
che gli uomini, che i suoi fratelli, godano in pace quella piccola porzione di
felicità che lo immenso sistema, stabilito dalla prima Cagione, da
quello che è, fa loro godere in quest'angolo dell'universo.
Conchiudo con una riflessione, che la grandezza
delle pene dev'essere relativa allo stato della nazione medesima. Piú forti e
sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un popolo appena
uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone
che si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono
nello stato di società cresce la sensibilità e, crescendo essa,
deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol mantenersi la relazione tra
l'oggetto e la sensazione.
Da quanto si è veduto finora può
cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme all'uso, legislatore
il piú ordinario delle nazioni, cioè: perché ogni pena non sia una
violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev'essere
essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle
date circostanze, proporzionata a' delitti, dettata dalle leggi.