CENACOLO DEI COGITANTI |
DOCUMENTO DEL 28-2-2009 |
COGITAZIONe |
Welby, l’aborto e le
staminali
Roberto Vismara Cogitante
(2007)
Ciò che unisce queste tre
cose, in apparenza senza rapporti evidenti tra loro, è un errore metodologico:
quello del non procedere induttivo in situazioni in cui sarebbe necessario.
Mentre questo ci porta dal generale al particolare, l’altro, il deduttivo
(quello usato da Sherlock Holmes per risolvere i suoi casi) ci conduce dal
particolare al generale, alla Legge da cui il caso particolare discende.
Ora, se si parla di
questioni che sono attinenti alla Vita, bisognerebbe preliminarmente definirla,
stabilire chi ne sia titolare dei diritti, da chi dipenda, e così via per tutte
le sue numerose correlazioni, e poi, da queste premesse, accingersi a trarre,
con rigorosi procedimenti logici, le
conseguenze che ci interessano nella fattispecie.
Le domande, esposte nella
loro nuda semplicità, sono: - Ha Welby il diritto di chiedere che si metta fine
alla sua vita? -E’ lecito l’uso delle
staminali embrionali per la ricerca medica di cure per malattie genetiche? – E’
lecito per una donna gravida liberarsi dell’embrione che alleva in seno? Ed
entro quali limiti?
La Legislazione Italiana ha
dato a queste domande risposte che potrebbero apparire contraddittorie:
1.
Welby
non può essere liberato dalle sue sofferenze, pur avendone fatta libera e
cosciente richiesta, perché si configurerebbe il reato di omicidio di
consenziente.
2.
La
ricerca sulle staminali embrionali è vietata per tutelare la vita dell’embrione
che dovrebbe essere sacrificato, e questo fin dallo stato più precoce di ovulo
fecondato alle prime divisioni cellulari.
3.
La
donna può, con certe modalità, liberarsi del frutto del concepimento entro le
12 settimane, ed in caso di aborto terapeutico entro 22 settimane (5 mesi!)
Se ne potrebbe dedurre che
la Legge tutela l’embrione in certi casi (staminali) ed in altri no (aborto); e
che Welby non sia titolare di diritto pieno e completo sulla sua vita, mentre
la gravida dispone della vita dell’embrione che porta in seno fino ad un
momento alquanto avanzato del suo sviluppo.
Sembra che ci sia una
evidente contraddizione, forse nata dal fatto che il Legislatore ha ritenuto di
dare risposte man mano che si manifestava una esigenza od un problema, senza
rifarsi ad un principio generale da cui tali risposte dovessero conseguire. E,
peggio, rispondendo in maniera diversa a seconda delle circostanze e dei
rapporti di forza del momento, generando così la contraddizione che si notava
all’inizio. Se si fosse seguito un procedimento induttivo, cioè dal Generale al
Particolare, non vi sarebbe stata, probabilmente, alcuna contraddizione.
La questione, ahimé, non è
semplice, e nasce dal fatto che vi sono almeno due principi generali da cui far
discendere le scelte operative conseguenti.
Uno è quello dei Cattolici,
secondo il quale la Vita appartiene unicamente a Dio, ed è concessa all’uomo
solo in uso, e non in proprietà; ne consegue che esso non ha, sulla Vita,
potestà alcuna, non può toglierla a sé stesso né ad altri, e dunque niente
aborto, niente ricerca sulle staminali e Welby si soffra pure il suo calvario
senza altra possibile liberazione che il Miracolo o il naturale corso degli
eventi.
Ma ne esiste un altro, di
Principio Informatore, ed è quello Laico. Secondo il quale ogni Essere Umano,
uomo o donna o bambino, è titolare di Diritti che gli competono per il semplice
fatto di esistere: diritto alla Vita, alla Libertà, alla Proprietà ed a quanti
altri diritti discendono dagli “Immortali principi dell’
Sono piuttosto di questa
opinione, e vorrei esporla un po’ più estesamente, per poi trarne le dovute
conseguenze, e tratteggiare quale potrebbe essere una risposta laica alle
questioni che abbiamo in tavola.
In realtà la scienza ancora
non ha dato una definizione esauriente della vita: sappiamo che ogni vivente si
origina solo da una altra creatura vivente, conosciamo molte sue
caratteristiche, ma, ad esempio, non siamo in grado di riprodurla
artificialmente, né di definirla univocamente. Se poi dobbiamo distinguere tra
una cellula viva, ad esempio un oocita, ed un essere vivente capace di
esistenza autonoma, il problema si complica ulteriormente. Ogni volta che ci si
sottopone ad un intervento chirurgico si sacrificano milioni di cellule vive, da
quelle del sangue a quelle dei tessuti asportati: ma questo non scandalizza
nessuno, né mi risulta che vi siano state polemiche sul sacrificio di
un’appendice o di una prostata. Mi si potrebbe rispondere che il sangue o la
prostata non sono capaci di vita autonoma al di fuori dell’organismo cui
appartengono, e che esse non hanno neppure la potenzialità di divenire un
essere vivente con le caratteristiche dell’essere umano. Ma anche qui si
possono fare due considerazioni: la prima, che oggi la tecnica della clonazione
( che consente di creare un individuo a partire da una qualunque cellula
dell’organismo) fa sì che si possa affermare che ogni cellula, perfino un
semplice leucocita, ha in sé la “Potenzialità” di divenire un essere umano
completo. La seconda è che nessun feto al di sotto dei cinque mesi ( 22
settimane ) ha la minima possibilità di sopravvivenza autonoma fuori
dell’organismo materno anche con tutti i sussidi della moderna tecnologia
medica. Quindi sia l’argomento della potenziale presenza di un essere umano in
ogni embrione, sia quello della peculiarità dell’embrione stesso in quanto tale
diventano ininfluenti.
La domanda che da laici
dovremmo porci è dunque: “ Quando è che un complesso di cellule diventa un
essere vivente, titolare di quelli che comunemente chiamiamo Diritti Umani?”.
E la risposta potrebbe
essere: “Quando un embrione è giunto ad uno stadio del suo sviluppo da essere
capace, sia pure col supporto delle più moderne tecnologie mediche, di vita
autonoma può definirsi come vivente, e diviene ipso facto titolare di quei
diritti”. (E vorrei dire, per inciso, che analogo ragionamento andrebbe fatto
per gli animali, anch’essi titolari di alcuni Diritti loro propri).
Questa proposizione
assolverebbe all’esigenza di procedere induttivamente, (come fanno le Gerarchie
Ecclesiastiche partendo dal “loro” Principio Generale) e nel contempo
consentirebbe al Legislatore, che in uno stato democratico deve essere
laico per garantire egualmente tutte le componenti della cittadinanza a
qualunque confessione o assenza di confessione appartengano, di legiferare in
base a principi certi, fondati sulla scienza e da tutti condivisibili.
E Welby?
A mio parere la questione
non dovrebbe neppure porsi: qui parliamo di un essere umano, titolare di tutti
i suoi diritti, compreso quello alla Vita, che è primo in tutti gli elenchi dei
Diritti Umani fin qui partoriti dall’Umanità, dalla Costituzione Americana alla
Rivoluzione Francese fino alle Carte dell’ O.N.U. e dell’Europa.
Sempre in base
all’induzione, mentre per i credenti la vita appartiene a Dio, e l’uomo non ha
su di essa che diritti “delegati” e parziali, il Principio dei Laici dovrebbe
essere quello della pienezza dei diritti di ogni singolo individuo umano in
quanto tale. Ne discende, per conseguenza, una proposizione di questo tipo:
“Il Cittadino nella
pienezza dei suoi diritti deve poter scegliere liberamente se e quando porre
fine ad una esistenza che gli sia divenuta insopportabile e che non lasci
speranza di altre soluzioni che il miracolo o la morte.”
Per questo ci sarebbe il
suicidio, che ormai è depenalizzato in quasi tutte le legislazioni almeno in
Occidente, e che non può a ragione esser considerato come “rinuncia” al diritto
alla Vita (cosa contro cui insorgerebbe Kant), ma piuttosto come affermazione
di un nuovo Diritto, finora non codificato: il diritto alla Morte.
E qualora il Cittadino non
potesse, per mero impedimento fisico,
darsi la morte, come nel caso di Welby, non dovrebbe essergli garantita la
possibilità di avvalersi di un qualche “Attore” cui delegare l’esecuzione
materiale del procedimento, come si delega al Chirurgo l’esecuzione
dell’intervento necessario per tutelare vita e salute e che il paziente non può
compiere da solo? Risolvere questo aspetto del problema non è, si vede bene, che
un dettaglio tecnico, ancorché importante.
Il Diritto alla morte,
dunque, è forse da considerare come un caso particolare del diritto alla Vita,
intesa però come vita umana e degna, e non come calvario di sofferenza senza
speranza. A ben vedere, tutti gli altri diritti non sono che corollari,
adiuvanti, permittenti del diritto alla Vita: forse il caso di Welby ci dice
che è arrivato il momento di aggiungere ad essi il diritto alla morte.
Inutile dire che, assolto lo Stato democratico i suoi
doveri di legiferare in base a principi di laicità che garantiscano il massimo
dei diritti a tutti i cittadini, quelli che, per aver fede cattolica o per
qualunque altro motivo dovessero dissentire potranno sempre rinunciare ad
usufruire di quei diritti che trovassero
in contraddizione coi propri principii. E quindi il cattolico non fruirà
dell’aborto, cui invece altri, che ne accettino le premesse, potranno
ricorrere; e certo nessuno costringerà all’eutanasia quei cittadini che in base
alle loro fedi o credenze decidano di soffrire pene disumane ed umilianti per
malattie mortali senza rimedio.