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PAOLO VALERA
IL CINQUANTENARIO
NOTE PER LA
RICOSTRUZIONE
DELLA VITA
PUBBLICA ITALIANA
M
CASA EDITRICE
SOCIALE
1945
L'Italia Regia non voleva Roma.
Francesco D. Guerrazzi nei momenti
La fucilazione di Pietro Barsanti.
Signori! la prima legislatura del Parlamento
La riabilitazione dei briganti.
Amilcare Cipriani che mi corregge.
Pietro Bastogi, Balduino, Cristiano Lobbia
Nella storia cinquantenaria non
c'è terreno camminabile. Più mi sforzo a gambate di giungere in
qualche zona sbloccata dalla melma ufficiale, e più sdrucciolo e
più mi inzacchero e più sprofondo e più mi trovo chiuso
nelle tortuosità fangose.
Sono come in un'immensa metropoli di
fango. Luce giallastra, vie limacciose, edifici di loto, monumenti di mota
viscida, personaggi di palta.
Mi pare di avere negli occhi le
pillacchere e sul viso
Sono nel periodo della contaminazione,
nel periodo della fame, nel periodo della corruzione parlamentare, nel periodo
delle atrocità politiche, nel periodo della vigliaccheria italiana.
Voltatevi indietro. Ecco l'Italia nelle mani dei farabutti, dei mascalzoni, dei
truffatori, dei ribaldi. Sfilate, miserabili!
Avanti voi Menabrea, voi Cantelli, voi
Bargoni, voi Sella, voi Rattazzi, voi Bonghi, voi Minghetti, voi Venosta, voi
Cambray-Digny, voi Depretis, voi Crispi, voi Mancini, voi tutti che avete
trescato, che avete tenuto mano, che vi siete fatti complici, che avete fatto
trionfare con il voto, con la solidarietà, con l'esempio il misfatto
ministeriale. Tutto quel mucchio di gente iniqua rappresenta la pellagra del
contadino. Con Quintino Sella alla testa si è sottoposto il corpo del
villano all'azione omicidiaria del frantoio dell'imposta sul macinato, si
è messo il contatore al mulino delle turbe di campagna per sgrassarle,
ischeletrirle, ridurle pelle e ossa in nome del pareggio del bilancio. La
manìa del pareggio gli ha fatto domandare i 50 milioni di carta
monetata, anche quando la povera gente era afona, non aveva più fiato
per sgolare la sua miseria.
Milioni e miliardi nella gola militare,
nella gola dell'esercito e della marina che avevano dato all'Italia in compenso
di tanto denaro Lissa e Custoza, i due fattacci di terra e di mare i quali, con
quell'altro di Abba Garima, formano il triangolo più spettacoloso e
più ignominioso delle disfatte del secolo scorso. Al popolo stremato,
spremuto, ridotto a non avere più che gli occhi per piangere, piombo!
piombo! piombo!
Per dei mesi tutta la penisola è
stata indiavolata dai tumulti della fame. Per dei mesi le grida delle donne
delle campagne, i pianti dei bambini della poveraglia rurale hanno rintronato
in tutte le teste ed in tutte le case italiane e straniere.
All'estero siamo rimasti immortali.
L'Italia è il paese della fame, dei tumulti della fame, dei massacri in
ogni solco delle nostre campagne. O si moriva estenuati o di piombo. È
stato il colera ministeriale di quel periodo. Ha mietuto più persone
l'imposta sul macinato che non tutta la pestilenza asiatica. Ah, se il nostro
tempo non fosse popolato di rivoluzionari di carta pesta e di socialisti di
gesso, noi avremmo in mezzo al frastuono della baldoria cinquantenaria
l'oratore più possente, più documentario, più eloquente
della vita nazionale. Con tanto materiale per le rivendicazioni dei diritti
delle masse la sua voce sarebbe una rivoluzione di campane a stormo. Ma,
ohimè! il proletariato italiano è guidato dai leticoni, da
persone che vivono di teorie, di sottigliezze, di programmi, di eufemismi, di
paure, di ambizioni, di arrivismi, di personalismi.
Pensieri angosciosi, indietro! Io
voglio serbare i miei rancori per i facitori di questa Italia inzuppata di
sangue umano. Ah, sì, parlateci dei Cavour. Bei tipi. Tipi di poliziotti
nati. Interrogate le memorie dei rivoluzionari d'allora. I Cavour! Cavour
stesso aveva una testa che era tutta un viperaio, una rete, un labirinto di sofismi.
Gli apoteosisti del suo centenario lo hanno divinizzato. Ma fra i suoi
contemporanei hanno dimenticato Guerrazzi, perchè, parlandone, non ha avuto
la perfida illusione degli altri. Anche lui, come gli altri, aveva spremuta la
spugna dell'aceto e del fiele sulle labbra dell'Italia proletaria. Un po' di
corda al collo della sua riputazione sarebbe stata giustizia. Per me basterebbe
il 6 febbraio 1853. Nel '53 i Cavour vanno in frantumi. È una pagina che
li obbliga a smascherarsi e lasciarsi vedere nel dietro scena e nella
viltà. Non sono più protetti dai sotterfugi. Il '53 li confonde
coi croati, li mette assieme, li unisce nel lavoro di persecuzione e di
espulsione. Sono poliziotti coi poliziotti, boia con boia, carnefici coi
carnefici. Gli uni impiccavano, condannavano, inseguivano e gli altri
agguantavano, facevano visite domiciliari, bandivano, mettevano in fuga tutti
quelli che osavano sognare di fare l'Italia a ogni costo, con o senza
monarchia.
«Il governo piemontese — era al potere
Cavour-San Martino — senza alcuna richiesta del governo austriaco (la mia
storia mi informa che egli — il governo piemontese — è stato invitato a
cooperare alla distruzione dei rivoluzionari della indipendenza), e senza
ragione ordinò immediatamente, appena conosciuti i fatti di Milano,
l'arresto e le espulsioni di quella parte della emigrazione la quale sui
registri di polizia era indicata di idee repubblicane. Non fu questione di alcuna
sorta di partecipazione al moto milanese; nessuno degli arrestati fu convinto
di ciò o trovato in possesso di corrispondenza che potesse tenere luogo
di una qualsivoglia prova indiziaria. La fretta e la illegalità patente
dell'atto scandalizzò tutti coloro che avevano prestato fede al liberalismo
di Cavour».
Il questore di
Il De Ferrari aveva il pelo sullo
stomaco come il Maniscalco della Sicilia borbonica.
Udite
Molti altri, centinaia e centinaia,
hanno subito la sua sorte. È Crispi, il futuro anticristo dei socialisti
italiani, che ne parla: «Arrestato il 7 marzo p.m., mi furono chieste le
chiavi; ho dato l'unica ch'io teneva. Chiesi di essere presente alla
perquisizione che si voleva fare in casa mia e mi fu negato». Poi scrisse al questore:
«Da tre anni e sei mesi che mi fu permesso dimorare in Piemonte non ho mai
offeso le leggi del paese. Se il mio arresto è un preliminare all'ordine
di espulsione dai regi stati sardi, mi permetto prometterle che non è
mica necessario. Io chiesi un asilo in terra italiana che si regge a governo
costituzionale, perchè credevo potervi godere una vita tranquilla.
Poichè il governo di S. M. sarda ha deciso in guisa da farmi ricredere
da questa cara illusione, non io mi opporrò certo agli ordini che mi
sarebbero dati in proposito. Soltanto chiedo il tempo necessario per aggiustare
i miei affari e farmi venire da mio padre qualche somma per il viaggio e
andrò via. In Torino ho casa, ho mobilio, libri ed altri effetti, ho
qualche credito, ho debiti e non potrei partire intempestivamente e senza dare
onorevole assetto alle cose mie. Ho molta dignità, nè
vorrò dimandare altro».
È stato come se avesse parlato
ad un muro. Il questore non si è commosso. Lo ha lasciato con altri 500
nella prigione Malpaga (dove la Montmasson, la povera donna gettata poi in mare
per un altro sposalizio, gli portava la biancheria stirata), e venuta l'ora
dell'espulsione lo ha fatto accompagnare con tanti altri alla frontiera dai
reali carabinieri.
L'Italia è fatta e i suoi
facitori sono nel medagliere del cinquantenario. Ma se la storia potesse
parlare non ce ne sarebbe uno che potrebbe salvarsi dalla fama di poliziotto.
Noi non abbiamo avuto per governanti che poliziotti. Il nostro più
grande ministro non è stato superiore al cervello di Satriano, il capo
della polizia napoletana ai tempi del Borbone. C'era e c'è forse in
tutti i ministri italiani un po' dell'aguzzino di professione.
Lo stesso re Vittorio Emanuele II
comunicava le «mene rivoluzionarie» a Napoleone III. Mentana è a mia
disposizione. È tra quei due regnanti e tra i loro ministri che è
stato preparato il massacro garibaldino a Monterotondo, sui monti Parioli, come
è da quel carteggio che esce che Vittorio Emanuele II e i suoi governanti
non volevano Roma. «Il mio governo ed io, scriveva il re savoino all'imperatore
del Due Dicembre, per mantenere fede al trattato di settembre, l'abbiamo combattuta
(la rivoluzione) con tutte le forze nostre al di qua dei confini di quel
territorio. Ora che, d'accordo anche colle popolazioni, minaccia la sicurezza
della Santa Sede, io non posso far nulla per impedirla, non potendo passare il
confine. Se vostra maestà crede dover inviare truppe a Civitavecchia o a
Roma, io dovrei simultaneamente oltrepassare il confine, e si metterebbe ben
tosto termine a cotesto stato anormale di cose. Farei nel medesimo tempo un
proclama, nel quale dichiarerei di non avere alcuna idea ostile contro
l'esercito francese. V. M., nell'alta sua saggezza, troverà poi il modo
di accomodare le cose in guisa che gli interessi delle due nazioni siano messi
in salvo».
Fu il re che ha impedito al Rattazzi
che voleva riabilitarsi di Aspromonte di mandare le truppe italiane nel
territorio papalino. La mentalità della destra era la mentalità
regia. Nessuno ha voluto. È nel palazzo dei 500 che lo stesso Rattazzi
lo ha proclamato.
— Io sì, o signori, avrei
ragione di dire a voi che ci avversate in questa politica, a voi che ne seguite
un'altra, io sì, avrei ragione di dirvi che se fosse stato dato alla nostra
amministrazione di liberamente compiere ciò che ci eravamo prefisso, a
questa ora la questione romana avrebbe fatto un passo grandissimo, l'intervento
francese si sarebbe evitato, ed a quest'ora i romani avrebbero già deliberato
di voler far parte del regno d'Italia.
No, no: i regi non volevano Roma.
Basterebbe il proclama di Menabrea, mentre i romani imploravano, per
carità, una schioppettata garibaldina o regia. Basterebbe il fatto
ch'egli ha sguinzagliato caterve di poliziotti con l'ordine di agguantare tutti
i fanatici del «Roma o morte». Ma anche più tardi, non manca il documento.
Ministri e conservatori del salone dei 500, fino agli ultimi momenti, fino a
quando la catastrofe napoleonica non era un fatto compiuto, hanno rifiutato,
non hanno voluto ascoltare, hanno negato ogni diritto italiano al territorio,
hanno molestato, arrestato, fatto di tutto per far crepare anche l'idea della
conquista di Roma. La sola paura era che i garibaldini riuscissero a fare
un'altra donazione alla monarchia, perduta nelle gonne della Rosina. Infranto
l'impero, ecco che tutti diventano eroi; ecco che tutti vogliono Roma, ecco che
allora si riode il grido di dolore ed ecco perfino Vittorio Emanuele coraggioso
che aggiunge che «l'abbiamo scappata bella!» esclamazione che se traduceva la
gioia di non avere più ostacoli per Roma, riassumeva l'ingratitudine
reale per il massimo alleato della indipendenza italiana che aveva sacrificato
i suoi zuavi a Magenta e a Solferino.
Voi Cairoli, voi tutti eroi che non
avete aspettato che Roma immortale vi aprisse le porte, siete caduti nel vostro
sangue. Io vi ricordo e piango. Passate voi buzzurri, voi affaristi, voi speculatori,
voi tutti eroi della sesta giornata. Roma è vostra.
Nell'atto finale diventa simpatico
perfino Pio IX, il carnefice esecrato di Monti e Tognetti. Egli, leggendo la
lettera di Vittorio Emanuele che gli ha portato l'incaricato del messaggio
reale, non ha potuto trattenersi la verità in bocca: — Che ipocrisia!
Dopo una pausa di trepidazione si
è rivolto all'inviato con la faccia tutta ammantata di disprezzo: — Dite
a Sua Maestà che io non conosco per nient'affatto legittima l'azione
dell'Italia su Roma e che protesto in faccia al mondo contro una così
empia aggressione!
Dopo un'altra pausa ha soggiunto:
— I reggitori d'Italia son sepolcri
imbiancati.
I famosi cannoni vomitavano sulle mura
di Roma i loro furori inutili, perchè nessuno combatteva, e il pontefice
passeggiava con le braccia incrociate e ripeteva come a sè stesso tutta
la storia d'Italia:
— Che ipocrisia!
Aveva ragione. I regi sono riusciti in
Roma a furia di ipocrisia. Hanno riempite le prigioni italiane della gente che
voleva o Roma o morte fino alla caduta di Napoleone e poi hanno fatta la
breccia di Porta Pia!
Che ipocriti i brecciaiuoli!
Leggiamo l'ipocrisia epistolare
«Beatissimo Padre!
«Con affetto di figlio, con fede di cattolico, con animo
d'Italiano, m'indirizzo ancora, come ebbi a fare altre volte, al cuore di
Vostra Santità.
«Un turbine di pericoli minaccia
l'Europa; giovandosi della guerra che desola il centro del continente, il
partito della rivoluzione cosmopolita cresce di baldanza e di audacia, e
prepara, specialmente in Italia e nelle provincie governate da Vostra
Santità, le ultime offese alla monarchia ed al papato. So che la
grandezza dell'animo vostro non sarebbe mai minore della grandezza degli avvenimenti;
ma essendo io re cattolico e re italiano, e come tale custode garante per disposizione
della Provvidenza e per volontà nazionale dei destini di tutti gli
italiani, sento il dovere di prendere in faccia all'Europa ed alla
cattolicità la responsabilità di mantenere l'ordine nella
penisola e la sicurezza della Santa Sede.
«Ora, Beatissimo Padre, le condizioni
d'animo delle popolazioni romane, e la presenza fra loro di truppe straniere
venute con diversi intendimenti da luoghi diversi, sono fornite di agitazioni e
di pericoli evidenti. In caso di effervescenza, le passioni possono condurre
alle violenze ed alla effusione di un sangue che è mio. Il vostro dovere
è di evitare ciò, di impedirlo.
«Veggo l'indeclinabile necessità
per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già
poste a guardia del confine, inoltrinsi per occupare le posizioni indispensabili,
per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine.
«
«Se Vostra Santità, come non ne
dubito, come il sacro carattere e la benignità dell'animo mi danno il
diritto a sperare, ispirasi a un desiderio eguale al mio di evitare un
conflitto, e sfuggire al pericolo della violenza, potrà prendere col
conte di San Martino, latore di questo monito, gli opportuni concerti col mio governo,
concernenti l'intento desiderato. Mi permetta
«Il papato aggiunga l'efficacia allo spirito
di benevolenza inestinguibile dell'animo vostro, verso questa terra che
è pure vostra patria; e ai sentimenti di conciliazione che mi studiai sempre
con incrollabile perseveranza di tradurre in atto, perchè soddisfacendo
alle aspirazioni nazionali, il Capo della cattolicità, circondato dalla
devozione delle popolazioni italiane, conservasse, sulle sponde del Tevere, una
sede gloriosa ed indipendente da ogni umana sovranità.
«
«Prego Vostra Beatitudine di volermi
impartire
«Di Vostra Santità.
«Umiliss. obbedientiss. e devotiss.
«VITTORIO EMANUELE».
Firenze,
Ed ecco la risposta:
Maestà,
«Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a
V. M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso,
che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia
lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera, per non
rinnovellare il dolore che una prima scorsa mi ha cagionato. Io benedico Iddio,
il quale ha sofferto che V. M. empia di amarezza l'ultimo periodo della mia
vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella sua
lettera, nè aderire ai principii che essa contiene. Faccio di nuovo
ricorso a Dio, e pongo nelle mani di Lui la mia causa, che è interamente
Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V. M. per liberarla da ogni
pericolo e renderla partecipe delle misericordie ond'ella ha bisogno.
«Pius PP. IX.»
Dal Vaticano,
più venali del cinquantenario.
Alto, grande, formidabile. Francesco
Domenico Guerrazzi è la figura più eminente fra i costruttori della
vita morale pubblica del suo tempo. Egli fu una campana a stormo contro la
corruzione dei giornali borgiani. Io, lettore, ho ancora nelle orecchie gli
echi fragorosi del suo stile. Prosa sonora come il rame. Rompeva nel cervello
con il rumore delle lastre metalliche precipitate da una scala di marmo.
La sua penna non s'è confusa.
È stata senza concorrenti. Era come un ferro rovente che strisciasse
sulla cote per mandare scintille e stridori. Egli non ha scritto: ha inciso. I
suoi libri sono state battaglie. Egli ha avuto un culto per la verità
oggi demolita dal ventre. Sincero, convinto che il documento della vita
è la produzione più importante nei conflitti sociali non ha risparmiato
neppure sua madre, manesca, brutale, selvaggia, feroce, ardita, poco
affezionata alle cose dell'altra vita, irreligiosa, capace di prendere Cristo
per
L'accusa più terribile dei tempi
del Lanza, del Sella e del Cambray-Digny era quella di austriacante o di avere
favorito in qualche modo l'Austria. Così è stato enorme il
baccano fatto intorno alle lettere di Raffaele Sonzogno vendute dal Mayer
(Montazio) al partito della Perseveranza. Il povero diavolo che si era
messo a capo dei moralizzatori ha dovuto scomparire dalla vita pubblica, ha
dovuto dare le dimissioni da deputato e da direttore della Gazzetta di
Milano. I Bonghi della Perseveranza, i Fortis del Pungolo e
gli Emilio Treves del Corriere di Milano non si sono contentati del suo
martirio a Josephstad. Sono stati implacabili.
La galera austriaca subita da un rosso italiano non bastava.
L'espiazione era insufficiente. Bisognava morire. Lo hanno lacerato, straziato,
ridotto un uomo senza resistenza. Gli uomini della epurazione non lo hanno difeso.
Hanno voluto essere coerenti. I Cavallotti, Mussi, i Ghinosi, i Bizzoni, i
Billia, i Crispi non lo hanno difeso.
Nessun partito nel 1811 poteva
inchiudere persona che fosse stato in simpatia cogli austriaci. Gli austriacanti
erano abbominevoli. Nessuno poteva tollerarli. Gli uomini «vituperevoli» si
cercavano nei giornali come si cercavano nel '59 nei solai e nelle cantine.
I giornalisti che avevano subìto
in silenzio la perdita di Raffaele Sonzogno si sono impadroniti di Emilio
Treves che si era rifugiato come redattore politico nel Corriere di Milano.
Lo hanno fatto a tocchi e bocconi. Moralmente non gli hanno lasciato neppure
gli occhi per vedere lo strazio che si faceva di lui. Per le vie lo si
schiaffeggiava, lo si ingiuriava come un istrione del giornalismo. Nessuno
voleva battersi con lui. Egli era indegno, spregevole. Era l'autore di molti
articoli politici scritti sul Diavoletto di Trento, il periodico di
obbrobriosa memoria che insultava i martiri italiani e inneggiava alle forche
dell'Austria e sulla Gazzetta di Milano dell'arciduca Massimiliano,
diretta dal Menini. Molti testimoni, molte dichiarazioni collettive. Egli era
un morto che camminava, un uomo che doveva perire, che doveva uscire dal
partito conservatore che aveva assassinato il Sonzogno e voleva salvare il cav.
Emilio Treves. La vendetta di Enrico Montazio, condannato come scroccone
più di una volta ed ex redattore di quella Gazzetta d'Italia che
aveva vilipeso le glorie più pure d'Italia, del Montazio che aveva
venduto le lettere di Sonzogno ai moderati milanesi a peso d'oro doveva esser
scontata con la testa di chi aveva nutrito i giornali austriaci del proprio
entusiasmo pel terrorismo austriaco. Felice Cavallotti è stato il
più inesorabile. Egli ha detto in grassetto che nessuno poteva avere questioni
d'onore con Treves. Egli e tutti i «perduti» potevano darsi il lusso di mettere
tutte le sere sotto i piedi le ingiurie degli avanzi imperiali e delle regie
livree, lordi ancora del fango e della bava in cui si arrotolavano ai piedi dell'austriaco».
Egli aggiungeva che la livrea dell'austriaco non poteva essere — in nessun caso
— la divisa di nessun partito. L'Austria era della peste antinazionale.
L'imperatore non aveva sottomesso l'Ungheria
Non si capirà mai la lotta
cavallottiana se non risalendo ai suoi primi anni professionali. Era fin d'allora
un epuratore. Non voleva che il giornalismo fosse un asilo o un rifugio agli
uomini di fama pregiudicata — agli individui che avevano pecche da farsi
perdonare o bassi livori a cui dar sfogo o agl'industriali che trattassero la
professione come una pura e semplice speculazione o come un mezzo per vendere
la propria opinione al miglior offerente. Egli voleva i «precedenti» dei giornalisti.
No, signori moderati, voi non potete assumere arie dignitose, austere, morali,
senza liberarvi delle persone indegne che parlano di incorruttibilità
delle opinioni. Eh, che diavolo! Si son visti i Mistrali, i Pancrazi, i
Montazio scrivere articoli splendidi di forma sulla necessità di
moralizzare i costumi politici, ma non era che della prostituzione.
È stata una campagna non
I tempi erano così turgidi di
vigliaccheria, così pieni di sangue e di orrore che si è veduto
l'autore dell'Assedio di Firenze e della Battaglia di Benevento discendere
dal suo piedestallo e andare fra gli scavezzacolli, tra i perduti, fra gli
uomini alle prese con tutto il canagliume giornalistico e assumere il posto di
combattente come uno di venti anni. È lui che ha denunciato le
sessantanove fucilazioni compiute qua e là per l'Italia in pochi mesi,
che ha denunciato la inaudita vigliaccheria di avere processato a Ravenna 800
persone firmatarie di una protesta per la loro esclusione dal ruolo degli
elettori. Fu lui che ha sguinzagliato la sua collera contro i miserabili che
avevano assassinato Barsanti — imperitura infamia della monarchia — lui che per
la sua campagna morale si è veduto dai livornesi lasciato in fondo all'urna
per eleggere, indovinate chi? Pietro Bastogi. «Ah! se avessi potuto presagire
mai che le fortune patrie dovessero riuscire a questo, innanzi di scrivere e di
parlare avrei consentito che altri mi mozzasse la lingua e le mani. Che oceano
di viltà! Che diluvio d'infamia!». E poi vedeva la stupidità dei
governanti, la viltà di una setta scellerata e trionfante, la illuvie
dei mediocri, che nati al remo presero la penna.
La pubblica coscienza ha accusato il
Bastogi della corruttela per l'accollo delle ferrovie meridionali con mezzi
turpi e Livorno lo ha eletto. E sapete chi era il Bastogi? Un banchiere che prestava
il denaro a usura al granduca di Toscana perchè continuasse a forare i
petti dei livornesi col piombo.
Era il banchiere che speculava sul
sangue dei sudditi vittimizzati dalla tirannia. Era colui che ha cercato dopo
con una sommetta di tre borse di studio di farsi perdonare i «precedenti», ma
la storia non può perdonarglieli, come non può perdonarli ai Susani,
ai Cambray-Digny, ai Brenna, ai Pancrazi, ai Levi, ai Mistrali, ai Montazi, ai
Fambri e a tutta l'altra colluvie umana passata alla fogna. Il Mistrali,
giornalista fognoso, in un giorno in cui la sua svergognatezza gli impediva di
vedersi nei bassi fondi giornalistici, ha osato sfidare Maurizio Quadrio.
L'intemerato giornalista mazziniano, di solito così buono e così
tollerante, si è trovato come davanti a un rospo. Si è alzato, lo
ha preso per il sedere, lo ha tenuto in aria e poi lo ha buttato fuori dell'uscio
come un sacco di immondizia.
E dopo una requisitoria rimasta
immortale, l'uomo che aveva subìto, prima dell'Italia unita, 60 mesi nel
Mastio di Volterra e alle Murate di Firenze, passati in stanze anguste, rozze e
nude, come prigioniero di Stato e che ha dovuto subire anche lui, come
Garibaldi, l'amnistia del tiranno, ha ripetuto che per lui la repubblica «era
l'unico e più giusto dei governi». E dicendo questo faceva sfilare tutti
i voltafaccia del suo tempo che da repubblicani erano diventati monarchici
arrabbiati, deputati della consorteria e votanti in favore di tutti i
ministeri.
Ci vorrebbe un volume per riassumere le
rampogne guerrazziane. A me basta di avere additato che nel periodo della
pioggia fangosa un uomo possente come Domenico Guerrazzi era in piedi a
scagliare i suoi fulmini contro la canaglia possentissima che imperava con gli
assassini e la corruzione.
Abbiate pazienza. Io ho bisogno di un
medico che mi prema o mi leghi o mi sottometta i nervi. Sono troppo agitato.
Non vedo bene. Mi si alterano i colori come se fossi affetto da daltonismo. Ci
sono momenti in cui mi pare di essere il personaggio shakespeariano. Più
mi lavo e più le mie mani sono chiazzate di sangue. Scrivendo le note
del tragico avvenimento ne sono come rimaste intrise.
Vivo nel sogno. Leggendo ho gettato dei
gridi. Mi sono trovato nelle condizioni di Anna Pallavicini. Mi sono nutrito di
speranza. Credevo nella clemenza degli uomini. Mi pareva che i vecchi fossero
più umani dei giovani. Ho sbagliato. Sono i vecchi ministri di casa
Savoia che mi hanno agguantato e curvato sulla testa sfracellata di Pietro
Barsanti, tenendomivi sopra, facendomi soffrire come non ho mai sofferto in
vita mia.
Perchè voi soffriate come me io
vi devo trascinare fino in fondo, nelle pozze di sangue, dove è il cadavere
del martire di una idea, fucilato quando centomila persone avevano la mano sul
cuore in attesa della grazia.
Abbiate pazienza, Non ho preamboli. Vi
metto immediatamente nei guazzi rossi del ventenne.
Io vado subito all'epilogo. Voi ne
sapete
In quel periodo in cui si chiamava il
questore Menelao, il questurino mardocheo, il «Corriere di Milano»
Trotta piano, e
A Pavia, a Piacenza, a Brisighella
(Faenza),
La mente direttiva doveva essere una
sola perchè si è trovato dovunque la stessa movimentazione.
Gli insorti, con la connivenza dei
congiurati militari, si sono impadroniti dei fucili e dei revolvers. Nella
stessa notte, quasi alla stessa ora, con le stesse grida hanno dato l'assalto
alle caserme. Si sperava in un affratellamento. Viva l'esercito! gridavano.
Viva la repubblica! Abbasso la monarchia! Viva lo Statuto! Viva il 42°
fanteria! Fuori! fuori!...
La risposta è stata identica in
tutti i luoghi. In certi siti la sentinella non ha esitato a far fuoco, in
certi altri si è ritirata nei casotti chiamando alle armi! e in alcuni
ha strèpitato fino a quando sono usciti i soldati con l'ufficiale a
scaricare le armi.
Pochi morti e pochi feriti da una parte
e dall'altra. Non c'era astio, non c'era odio, non c'era esasperazione fra di
loro. Senza la disciplina gli uni si sarebbero gettati nelle braccia degli
altri.
A Pavia il moto insurrezionale è
incominciato alle 4 e mezzo del mattino del
I rivoltosi non erano che 40 o 50. Si sono avviati alla caserma di
S. Francesco. C'è stato uno scambio di fuoco. L'ufficiale che comandava
la compagnia cadde gravemente ferito, come caddero feriti tre o quattro
soldati. Un sergente venne trovato più tardi cadavere.
Gli insorti vi hanno lasciato uno dei
loro cadavere. Aveva in tasca due revolvers. Più tardi si è
ritrovato un altro borghese morto.
Altrove la scena si era ripetuta. Il
quarantaduesimo di fanteria era un po' a Pavia, un po' a Piacenza e un po' a
Brisighella. Si è supposto che fra i soldati dello stesso reggimento ci
fosse un'intesa.
Il sindaco di Pavia era il Vigoni del
nostro tempo. Ha ingrossato l'avvenimento, ha veduto cataste di cadaveri in
ogni angolo. Si sono fatti molti arresti a casaccio. Si sono trovati dei
fucili.
Il Mosti, il quale non doveva avere
grande importanza, perchè non l'ho mai trovato in nessun libro
Aveva ventun'anni, era volontario ed in
caserma aveva imparato a disprezzare la monarchia.
Lo si è processato. È
stato difeso da tre personaggi della Camera a Firenze: da Mancini, da Pier Ambrogio
Curti e da Pierantoni, morto ieri.
L'eloquenza non è valsa nulla.
Un tribunale militare non ha cuore che per il codice militare. È stato
condannato alla fucilazione nella schiena.
La condanna era stata pronunciata 2
mesi dopo l'arresto, e la sentenza venne eseguita tre mesi dopo, alla presenza
di tutte le rappresentanze di tutte le armi dell'esercito.
La fucilazione è stata approvata
dal Corriere di Milano con un articolo del Dina, dal Pungolo, con
un articolo di Carlo Levi, dall'Italia Militare, dalla Perseveranza,
dal Rinnovamento, ecc.
Durante i tre mesi di agonia c'è stato un lavoro febbrile
in tutti i centri d'Italia. Alla testa delle signore, nobili e plebee, era Anna
Pallavicini.
La petizione della moglie del martire
dello Spielberg era firmata da 40 mila donne. Quella degli uomini contava
più di 100 mila firme.
I giornali dello sbruffo — come si
chiamavano allora — continuavano la propaganda dell'assassinio. Esigevano la
vendetta.
La Perseveranza, diretta dal
Bonghi, era la più implacabile. Per lei non c'era che la cura del
piombo. Invece i giornali, come la Riforma del Crispi,
Si era loro fatto credere che il
chiasso intorno al condannato avrebbe voluto dire il prorompimento dei fucili.
Hanno taciuto.
Non ha voluto essere violenta. Ha
scritto al De Sonnas, il grande cacciatore, implorando una udienza reale.
Nessuna risposta. Ha riscritto. Silenzio come prima. Disperata è andata
da Mancini. Lui e lei si sono presentati al Lanza il
— Ella viene — rispose il presidente
dei ministri, assumendo la maschera dell'uomo che aveva una notizia incresciosa
da comunicare — ella viene per un pietoso ufficio: ho il dovere di darle un
triste annunzio. È inutile. È tardi. Fino da ieri l'altro era
già stato irrevocabilmente deciso il destino del Barsanti. Dopo tre discussioni
nel consiglio dei ministri, si approvava
«Infatti, chiude la lettera della
stessa Pallavicini alle donne d'Italia, nell'ora stessa in cui noi eravamo nel
gabinetto del Lanza, l'infelice giovanetto era fucilato nel Castello di Milano
e moriva col coraggio di un eroe.
«Gettai un acuto grido: un tremito
convulsivo si impadronì della mia persona; per poco non caddi
tramortita! Il mio compagno, infiammato da nobile indignazione, proruppe in
parole severe e tristamente profetiche, che il Lanza non si dimenticherà
giammai.
«E ci affrettammo ad uscire, inorriditi
di un atto di fredda ed insensata crudeltà, aggravata prima dalla
ripulsa e poi dalla apparente ingiuria verso chi a nome vostro (delle donne), interponevasi
per impedirlo.
«Che il sangue di quella vittima
ventenne non ricada su coloro che, a dispetto del popolo italiano, vollero
assumere la responsabilità di spargerlo. Voi, o madri e figlie italiane
e quanti avete sensi di sincero amore del paese, augurate all'Italia giorni
migliori.
ANNA PALLAVICINI TRIVULZIO».
La notizia ha costernato tutti. La
raccolta di tante firme era stata considerata un plebiscito nazionale, La
grazia era in tutte le teste. La notizia del misfatto ministeriale non la si
è saputa che a sera tardi.
I particolari hanno centuplicata la
collera cittadina. Pietro Barsanti era morto da eroe. Avvertito mezz'ora prima,
non ha detto una parola. Il picchetto comandato da un ufficiale è andato
a prenderlo alle due meno cinque e lo si è condotto davanti alla
Torretta. Non ha voluto aiuto. Si è tolto il cappotto da sè e si
è bendato gli occhi con le sue mani.
— Fuoco!
È caduto con otto palle nel
cranio, coi capelli, la fronte e la faccia innaffiata di sangue. Con un procuratore
in Milano come il Robecchi che massacrava i giornali a sequestri e che faceva
fare gli arresti preventivi dei gerenti e dei direttori, i quotidiani non hanno
mandato in pubblico la fucilazione che in una prosa ammansata. Ma non si sono
salvati. Robecchi li ha acciuffati come se fossero stati pieni di urli
sediziosi.
Non è stata rispettata che
Il
Felice Cavallotti, direttore del Lombardo,
gli aveva preparato una smentita, pubblicando sul suo giornale il fac-simile
della medaglia d'oro che alcuni cittadini avevano fatto coniare a imperitura
memoria della efferrata barbarie del governo italiano, composto del Lanza, di
Cesare Correnti, di Emilio Visconti Venosta e di Giuseppe Gadda. Ai morti fango
sulla loro tomba. Ai vivi palta in faccia.
Essi sono stati i più grandi
vigliacchi di quei giorni.
Il Lanza, un asino che scriveva Italia
col g, fucilatore di popoli, cacone in battaglia; il Venosta ex
mazziniano, ex cospiratore, ex fuggiasco di Varese, reazionario, capace di
tutte le cattive azioni; il Correnti falso democratico, venduto alla greppia,
custode delle decorazioni monarchiche, cortigiano di tutti i sopraggiunti re.
La loro mentalità era identica a
quella del Borsani, l'avvocato generale militare che li aveva consigliati a
resistere alla volontà del paese e a finirla coi moti, fracassando la
testa di un giovanetto.
Felice Cavallotti per il delitto del
fac-simile è stato agguantato in galleria e messo sotto chiave.
Apologisti dell'Italia una, raccogliete
anche questa pagina per il vostro cinquantenario.
Io me ne servo per inquadrarlo nei
colori del tempo.
Il fac-simile della medaglia
commemorativa della barbara esecuzione era questo:
PIETRO
BARSANTI.
NELLA PATRIA DI
BECCARIA
MINISTRI I M
CORRENTI
VISCONTI VENOSTA
GADDA
REIETTE LE
ISTANZE DI 4000 CITTADINI FU GIUSTIZIATO
IL
A PIETRO
BARSANTI
MARTIRE DELLA
FEDE
REPUBBLICANA
M
1871
Eccomi alla fine. La tragedia è
compiuta, Pietro Barsanti è stato sepolto nel cimitero del Gentilino,
fuori di porta Vittoria, col cippo numero 19.
Devo però ricordare Enrico
Bignami, direttore della Plebe. I socialisti stati alla direzione del
partito non si sono mai ricordati che di se stessi. Le masse socialiste si sono
lasciate rimorchiare come gregge, ma se c'è uomo che abbia meritato un
posto eminente nella vita pubblica sarebbe proprio lui. Egli ha pagine splendide.
I suoi compagni non lo conoscono. Egli è stato pedinato, arrestato,
processato, imprigionato. I suoi giornali hanno subìto tanti sequestri
come noi non abbiamo idea. Nell'affare Barsanti egli è stato il primo ad
agitarsi, a protestare, a ingiuriare, a domandare l'obolo cittadino per farlo
cooperare alla protesta. È lui che ha fatto costruire un ricordo
marmoreo al povero Barsanti nel cimitero di Lodi, dove il Bignami aveva la sua
officina cerebrale. Il padre di Barsanti gliene ha dato il permesso.
«Pregiatissimo Signore.
«Sono grato della colletta fatta dal
giornale la Plebe di Lodi, ed acconsento che con la somma raccolta sia
dedicato un sasso sepolcrale alla memoria del mio diletto figlio, in codesto
cimitero.
VINCENZO BARSANTI».
Fra i dieci accusati del moto di Pavia
otto erano latitanti. Il più alto di grado era il furiere Carusi, il
quale si era impadronito anche, dei fondi della compagnia per il complotto. Il
sergente
I sergenti della brigata Modena,
imputati di complotto repubblicano e processati a Piacenza, dodici vennero
assolti e mandati ai corpi franchi malgrado l'assoluzione, due al bagno penale
e uno nella tomba.
In tutti i luoghi, dove si sono svolti
i processi, come
volge al suo fine. Centosessanta cadaveri.
È inutile. Io ho sempre i piedi
nei guazzi del sangue umano. E non posso piangere. Non ne ho il tempo. La
pietà mi lascerebbe per
Avanti, avanti! Io sono alle porte
delle giornate di settembre. Sono agli sgoccioli della prima ed ultima
legislatura che si è svolta nell'aula del Palazzo Carignano.
Voi sapete come l'unità della
patria sia stata compiuta. È una unità tutta fatta di vigliaccherie.
Senza Garibaldi nell'epopea noi dovremmo domandare alle potenze estere il
permesso di cambiarci il nome come i figli del boia lo domandano sovente per
diventare rispettabili.
Ascoltatemi senza fremere. Cito un uomo
infame, cito Pio IX.
Fra i papi del «risorgimento» egli
occupa il posto più fangoso. Prima di commettere i suoi delitti pubblici,
si prostrava davanti alla Croce per delle ore e si alzava più feroce di
Haynau.
Tigre come lui, si abbandonava ai
furori ecclesiastici: uccideva. La sua religione era la spada.
Egli ha commesso tutte le mascalzonate:
si è fatto proteggere dagli stranieri. I mazziniani e i garibaldini
hanno dovuto uscire dalla città eterna con le mani tinte di sangue
francese, per andare a bagnarle nel sangue croato.
Egli è stato una figura
così abbominata che non lo si è potuto portare alla sepoltura che
tre anni dopo.
Nel 1864, nei momenti della Convenzione
di settembre, il suo nome circolava per le regioni della penisola, accompagnato
dai rancori italiani. Lo si vituperava, lo si insudiciava, lo si esecrava.
Nelle mani del popolo non ne sarebbe rimasto un capello. La gente voleva andare
a Roma, voleva detronizzarlo, mandarlo in esilio o buttarlo in una cloaca
massima.
C'era Napoleone III. L'Italia è
sempre stata in ginocchio davanti all'imperatore uscito dal colpo di Stato. Non
si muoveva senza i suoi consigli. Il nostro ambasciatore era l'amante di sua moglie.
L'Italia era sua. L’aveva fatta lui. Vittorio Emanuele era il suo servitore. I
monarchici aspettino a trepidare. Documenterò cose peggiori.
L'Italia era del sire francese. Gli
italiani non avevano
Bonaparte, il piccolo, ha voluto avere
un acconto per i suoi sacrifici imperiali: Nizza e Savoia. Alla cessione
Vittorio Emanuele si è curvato con un sorriso, meravigliato della
modestia imperiale. I suoi ministri ne redassero la cessione con la fraseologia
del laccheismo italiano.
La nazione voleva Roma. «O Roma o morte». Napoleone diceva di no. Roma
sarà del sommo pontefice. E per quindici anni il potere temporale
è rimasto sotto la sua protezione.
Nel '
Si capisce. Era la rinuncia al regno
unito. Era l'impotenza italiana e il trionfo papale. La Convenzione era stata
redatta e firmata da Napoleone III e da Vittorio Emanuele II.
Il Parlamento si è trovato nella
sorpresa. Il contratto era conchiuso. Avrebbe potuto e dovuto rifiutare il
proprio assenso. Ma la vigliaccheria della maggioranza parlamentare d'allora,
è nota. Non viveva che per i ministri. Lasciava fare. Si lasciava
rimorchiare. Bastava parlare della patria per essere imbavagliata. Ha aiutato
il ministero a saltare la discussione per salvarlo dalla tempesta che si
sarebbe scatenata nel Paese.
Nel re era l'autocratismo. Violava lo
Statuto come violava il talamo. Egli è stato così figlio di suo padre
che ha osato ordinare a tutto il gabinetto di un governo costituzionale di dare
le dimissioni. Cosa inaudita. Cosa da rivoluzione. Il gabinetto era quello di
Marco Minghetti.
La nazione proletaria, che conservava
anche in quei tempi il buon senso, non appena ha avuto sentore della
Convenzione che escludeva Roma per sempre dal regno d'Italia, è
scoppiata.
Il participio è di Petruccelli
Della Gattina. Alla Camera nacquero scene indiavolate. Hanno parlato Nicotera,
Crispi, Buoncompagni, Ricciardi, Bottero, Massari, Sella e tanti altri.
Il più violento è stato
Crispi. Egli si è servito dell'invettiva di Massimo d'Azeglio.
— Voi siete i figli della paura. Con la
traslazione del Parlamento a Firenze, voi rinunciate — diceva — a Roma,
capitale d'Italia.
Petruccelli Della Gattina, coi suoi
paradossi, non vedeva nel papa che il rappresentante di una aristocrazia di
sagrestia.
Altri aggiungeva che bisognava avere
pazienza. Roma poteva capitare agli italiani per un cataclisma indipendente
dalla loro ferma volontà. Crispi disse una seconda volta, che approvando
il reclutamento di un esercito di mercenari, si accettava l'intervento
mascherato. «Il papa che non abbiamo riconosciuto e che non ci riconosce, entrerebbe
col nostro consenso nel concerto politico europeo». La Convenzione era la
decadenza del bel Paese nei secoli avvenire.
Nicotera si era limitato a poche
parole: «Se domani, diceva, noi tentassimo di andare a Roma, una volta usciti i
Francesi, ci si respingerebbe a fucilate. Conosco troppo bene la lealtà
del Generale La Marmora, per non sapere che interrogato su questa questione
risponderebbe: sì». (Il presidente del consiglio faceva cenni
affermativi).
Il popolo che non è nè
diplomatico nè parlamentare, ha fiutato subito la sciagura nazionale.
Quello torinese che non voleva che Torino o Roma, o la culla della monarchia o
la capitale storica, non ha esitato a decidere sul «patto internazionale». Era
una canagliata solenne. Non poteva, non doveva avvenire. Crispi aveva fatto
l'ultima concessione: «Io non ho altra bandiera da innalzare; la bandiera mia
è quella che innalzai, sbarcando con Garibaldi a Marsala: Italia una con
Vittorio Emanuele!».
Ma Firenze per Roma era anche per lui
una canagliata.
Il popolo si è rovesciato in
piazza. La città era in subbuglio. La dimostrazione è incominciata
dinanzi la tipografia della Gazzetta di Torino, giornale ministeriale e
difensore svergognato della Convenzione di settembre. Esso era stato
considerato un insultatore. Molte persone in piazza Castello, sotto le finestre
del ministero dell'interno. La scena era incominciata alle sette e mezzo di sera.
Si gridava: Abbasso il ministero, Roma o Torino. La dimostrazione è
finita senza gravi incidenti. All'indomani, 21 settembre, in piazza San Carlo,
dove erano la questura e gli uffici della Gazzetta di Torino, la folla
era ansante. Rumoreggiava. Il questore di quei giorni era il tipo dei nostri
questori. Decideva di «disperderla colla forza».
Dò la parola all'inchiesta parlamentare. È prosa
molle. Non c'è in essa lievito insurrezionale. Ascoltate. «Sortivano gli
ispettori della questura nel punto in cui il questore, armeggiando con una
semplice canna, teneva lontani i suoi assalitori. Le guardie a passi
affrettati, traendo le armi nella corsa e nell'uscire dalla questura, si
approssimavano agli assembrati e giunti vicini a coloro che tenevano le
bandiere, uno degli ispettori comandava loro di toglierle e di arrestare coloro
che le portavano. Senz'altro indugio (udite! udite!), senz'altra intimazione,
le prime guardie si gettavano addosso con violenza alle persone indicate, e
caricavano (come ai nostri tempi) con precipitazione l'intiero assembramento.
Fu a quell'atto, secondo altri testimoni, che furono sguainate le daghe.
È nata una lotta spaventosa.. Che lotta! una violenza sanguinosa. Il
popolo aggredito non ha tirato che qualche miserabile sassata. La pietra ha aumentato
l'ira dei questurini in accanimento. I fuggiaschi furono inseguiti e percossi a
colpi di daga, e perseguitati fin oltre
Tacete, non ho finito. Il trasporto
della capitale a Firenze con la rinuncia a Roma costa dell'altro sangue.
C'è un'altra giornata vittoriosa per i giovani carabinieri e lugubre per
il popolo.
«Più gravi sciagure nella
giornata del 22. Piazza S. Carlo era gremita di truppe schierate in battaglioni
sotto i portici, a riposo, dinanzi ai fasci dei fucili. Dirimpetto alla
questura le guardie ed allievi carabinieri; in mezzo alla piazza, popolo
schiamazzante. Un ispettore di pubblica sicurezza, scortato da un battaglione
del 17°, dopo avere perlustrato Doragrossa e S. Teresa ed essere stato apostrofato
con male parole rientrava in questura. In questura si temeva che per i fatti
avvenuti il giorno prima, succedesse una invasione popolare. Il questore
deliberò senz'altro di sciogliere l'assembramento, dando all'ispettore
Chiari l'ordine di uscire e di fare le legali intimazioni. Al tempo stesso si
rivolgeva all'ufficiale dei carabinieri perchè uscisse col suo drappello
a dar man forte alle intimazioni di disperdersi. L'irritazione contro i
carabinieri non poteva essere più alta. Ma il questore ha ingiunto:
Eseguite i miei ordini e non pensate ad altro. Non c'è stato tempo per i
tre squilli. I carabinieri erano furibondi. Essi sfilarono alla sinistra dell'ispettore
Chiari, scendendo fin sulla strada. Allora, dice l'inchiesta, un solo squillo
composto di tre soli brevi note, precedeva la prima intimazione dell'ispettore.
Stava per darsi un secondo squillo ed il Chiari stava per intimare per la seconda
volta lo sgombero, quando, fra il gettare delle pietre e l'aumentarsi delle
grida provocate dall'improvviso presentarsi dei carabinieri sulla porta della
questura, s'udirono alcuni colpi di arma da fuoco. L'ispettore riparava
sollecito nell'andito stesso, e i carabinieri si avanzavano oltrepassando e
rompendo la fila dei soldati di linea che erano schierati davanti. In pari
tempo nuovi colpi d'arma da fuoco partivano dalla linea dei carabinieri, i
quali sventuratamente colpivano gli uomini del battaglione che stava in mezzo
alla piazza. Nacque allora una terribile confusione: i fuochi s'incrociarono da
ogni parte e quando gli ufficiali, col massimo sangue freddo e colla massima
premura avevano ottenuto di far cessare le scariche, numerose vittime di una fatale
precipitazione coprivano il suolo e nuotavano nel sangue». — Gli scrittori sono
dei parlamentari. Si capisce la loro prudenza. Volevano essere buoni con tutti.
Ma l'epitaffio della seconda giornata era troppo eloquente perchè il
popolo scappando verso le proprie case, non gridasse: Assassini! assassini!
In terra erano rimasti centoventisette
morti, tredici dei quali militari. Cose orribili. Ecco il tributo dei cadaveri
votati al trasporto della capitale.
Non m'occupo dei feriti. Ce n'erano
delle infermerie. Non parlo degli arrestati. Non c'era più spazio per
loro nelle prigioni. Si è dovuto mandarli altrove.
Questa, o compagni, è la pagina
della Convenzione del 15 Settembre. Cadaveri, cadaveri, cadaveri. L'Italia
unita è tutta inzuppata del loro sangue.
Il finale parlamentare è stato
questo:
Signori deputati, tacete, taciamo,
dissero i Lamarmora del Ministero, chiudendo la Legislatura piemontese.
Mandiamo l'inchiesta agli archivi e andiamo tutti a Firenze. È
carità di patria tacere sui disastri umani: quello che è stato
è stato.
Viva il re! Viva l'Italia!
L'idea della patria indipendente,
è concezione di intellettuali. Sono loro che l'hanno seminata, coltivata,
diffusa, propagandata, fatta penetrare nei cervelli con la scuola, con i libri,
con i giornali, con la leva militare, con la tribuna parlamentare. È per
loro che è diventata una religione. Il solo dissenso in certi momenti
equivale al parricidio.
I senza patria sono di creazione
moderna. Nei tempi andati non c'era probabilmente che il cinico. Ma finita
l'espulsione degli stranieri, la patria è afflitta dai pretendenti. Ce
ne sono molti. Tutti si attribuiscono la priorità del brevetto. Dalla
storia del risorgimento, ne sbuca uno tutti i giorni. Non c'è mese senza
commemorazione di qualche facitore dell'Italia una. Quanti sono? È un
elenco che non si chiude mai. Nel passivo del fallimento patriottico
l'insinuazione dei crediti è sempre aperta.
C’è chi dice che l'idea prima
è di Casa Savoia. I cortigiani hanno nicchiato Carlo Alberto nel tabernacolo
del protomartire della liberazione. La storia è composta da molti
cervelli. Così trovate la figura dell'ultimo re piemontese negli uni
gialla di rimorsi e negli altri estenuata di sagrifici. A chi credere? A chi lo
vuole nella espiazione o a chi lo vuole nel martirio? Per il clero l'ideatore
della penisola indipendente è Pio IX. È la sua benedizione che ha
incendiato i cervelli. È lui che ha tenuto la grande idea a battesimo in
San Pietro e che l'ha fatta correre per lo Stivale come una sollevazione.
Roba da 48.
La monarchia è una
continuazione. Dopo il padre il figlio. Il figlio è un altro
pretendente. Gli storici regi l'hanno nicchiato al Pantheon al posto d'onore.
È lui che l'ha fatta. Lo chiamano appunto il padre della patria. Gli
storici antidinastici ci assicurano invece ch'egli è sempre stato un oppositore
della decapitazione papale.
È andato a Roma, come è
andato a Napoli. Spinto, trascinato, minacciato. A chi credere? A chi dobbiamo
questa patria?
Tutti se
Le case d'Italia son fatte per noi.
Va fuori d'Italia, va fuori, stranier.
Ma a noi importa, proprio poco chi sia l'autore ufficiale della
unificazione. Per noi non è che il popolo. È il popolo che ha
tenuto vivo quello che veniva chiamato il fuoco sacro, è il popolo che
ha odiato l'Austria e il Borbone, che ha subito la galera e il patibolo, che
è passato attraverso i periodi degli eroismi fantastici, che ha
combattuto e vinto.
Chi ha guadagnato? La Borghesia.
È lei che ha detto che fatta
l'Italia bisognava fare gli italiani. E in nome di questo aforisma il popolo
è diventato strame, concime, immondizia sociale. Lo ha straziato,
diffamato, respinto, decimato. La sua gratitudine per la conquista patriottica,
la troviamo nei garibaldini. Ha iniziato i suoi svaligiamenti disprezzandoli,
disperdendoli, considerandoli pezzenti, vagabondi, inquilini del carcere. Li ha
mandati tutti a casa con 72 lire e anche ora che siamo a Roma da 40 anni, non
ha cessato di trattarli da mendicanti. Ha dato loro 50 lire. Vile somma che
senza la miseria coercitiva, i superstiti, avrebbero dovuto sbattere sulla
faccia del Parlamento che l'ha votata.
Ma ci occuperemo dopo di loro. Per ora
contentiamoci di vedere come sono state trattate le folle del lavoro.
È subito veduto. Non ci sono che
croci mortuarie. Ricevuto in dono il reame dai «filibustieri», la borghesia non
ha avuto che un pensiero: sfollare, massacrare, uccidere. Le provincie meridionali
sono state letteralmente sfollate. I terrazzani, e i cafoni che non avevano
niente da mangiare e che vivevano negli squallori di una miseria negra, sono
diventati tutti briganti. Eccovi l'epitaffio parlamentare: «Su 375 briganti che
si trovavano il
Il brigantaggio è nato per reazione. Per salvarsi dalle
revolverate, dalle sciabolate, dalle fucilate, dalle baionettate. Il mio
documento è
I veri briganti erano più umani
dei conquistatori borghesi. Crocco e Caruso erano delle idee politiche.
Vivevano per il Borbone. Sognavano di diventare generali e marchesi, come era
avvenuto ai loro predecessori. Chiavone, per esempio, era un autogenerale.
Pilone si faceva chiamare cavaliere. Crocco portava sul petto con orgoglio
delle decorazioni con nastri gialli. Ninco Nanco, cioè Giuseppe Nicola
Somma, si spacciava per colonnello. Per i braccianti erano i simboli della
giustizia.
Diventavano a loro insaputa i loro
protettori, i loro manutengoli.
Agli occhi delle plebi, piene di
immaginazione e crucciate dalle privazioni, il brigante si trasformava in un
vindice dei torti che subivano. Il brigante, dice il Massari, non è
più l'assassino, il ladro, il saccheggiatore, ma l'uomo che con la sua
forza sa rendere a sè ed agli altri la giustizia a cui le leggi non
provvedono: il masnadiero diventa eroe. In questa metamorfosi raccoglie una
intera storia di dolori non alleviati, di ingiustizie non riparate, ed un
insegnamento morale che non può andare perduto. Là dove le leggi
non sono fatte nell'interesse di tutti, e non sono imparzialmente eseguite per
e contro tutti, l'infrazione alle leggi diventa consuetudine ed argomento non
di disdoro, ma di vanità e di gloria. Là dove il manto della
legge non si stende ugualmente su tutti, chi forza a lacerarlo, invece
dell'infamia, consegue agli occhi delle moltitudinità, prestigio ed
ammirazione.
Anche noi, nelle condizioni dei
braccianti, dei cafoni e dei terrazzani, diventeremmo briganti. Si facevano
arresti in massa. L'esercito «purgava» il
La repressione nel napoletano compiuta
dal generale Cialdini, fa rabbrividire anche oggi. «Per lievi indizi e talvolta
senza forma di processo, gli uomini sospettati di brigantaggio venivano
sorpresi e fucilati».
Il furore militare è nelle cifre
approssimative dei massacri nella relazione del Massari. Udite. Le perdite
patite dai «briganti» nel medesimo periodo di tempo sono le seguenti:
«Nei primi otto mesi del 1861, 365
fucilati, 1343 morti in conflitto, 1571 arrestati; nel '62, 594 fucilati, 950
morti in conflitto, 91 arrestati; Totale 1038 fucilati, 2413 morti in
conflitto, vale a dire 3451 morti e 2768 arrestati. Lugubri cifre, conchiude il
relatore, luttuoso documento della funesta eredità di delitti e
barbarie, tramandato a noi da tanti secoli di corruttela e di
schiavitù».
Il Massari ha indubbiamente capito che
con i soldati di Cialdini e di Lamarmora non si poteva diventare che briganti.
Non c'era altra via. Egli era un rappresentante della nazione, un uomo di Corte
e un ammiratore dell'esercito. Ma non c'è bisogno di un grande
discernimento per capire che le poche cifre che noi abbiamo citate, riassumono
il sistema delle fucilazioni sommarie. Innocenti, poveri, diavoli, disoccupati,
gente di capanne e di tuguri venivano ammucchiati e finiti a colpi di piombo e
di maledizione. E gli arrestati? A quei tempi non bastavano le carceri. Si servivano
delle vecchie caserme, dei conventi, di tutti i palazzi disabitati. Ecco una
nota: «Ingente il numero dei giudicabili che aspettano nelle carceri una
decisione sulla loro sorte».
Il deputato Avezzano quando si
discuteva la legge degli assassini legali, cioè la legge Pica, i cui
orrori basterebbero a far rinunciare all'onore di chiamarsi italiani, diceva,
con voce commossa: «Io ricorro a voi, o signori, perchè ordiniate che
questo sia l'ultimo giorno che vegga prolungarsi un errore tanto criminale e tanto
disdicevole al nostro carattere. Nel mio lungo esilio mi è occorso di
trovarmi in guerre civili. Ebbene dichiaro francamente che non sono mai stato,
nè complice, nè testimonio di tali eccessi».
Il deputato Varese giudicò le
repressioni sanguinose cieche e violentissime.
Stefano Castagnola che aveva fatto
parte della commissione d'inchiesta, ha detto che per sopprimere il
brigantaggio, bisognava migliorare la condizione sociale dei cittadini.
Luigi Miceli fece trasalire la Camera
con gli eccidi «organati in Cosenza».
Signori, aggiungeva, non solamente ho
la nota dei briganti (?) uccisi spietatamente senz'ombra di giudizio per colpe
leggiere, ma ho nota delle case abbattute, delle case saccheggiate il giorno
delle esecuzioni, i paesi e persino il nome dei muratori che distrussero quelle
case. Sapete, signori, che cosa è seguito a tutto ciò? Quei
briganti, le cui mogli e i cui figliuoli erano stati buttati sulla strada,
evasero dalle prigioni e ora mettono a sangue e a fuoco la mia povera provincia.
Meglio coi briganti che coi tutori
dell'ordine. Si stava meglio. Coloro che si rifugiavano nella «selva Grotte»,
dove era Caruso, trovavano del ben di Dio. Vivande, vini, provvigioni d'ogni sorta.
Nel bosco di Lagopesole, ricovero di Ninco Nanco, c'era della biancheria
pulita, nascosta nella cavità degli alberi. Vi si trovava del pane
bianco e del pollame. Si capisce perchè i predicatori di chiesa parlando
delle esecrate tragedie, chiamavano le vittime «i nostri fratelli briganti» e
venivano raccomandati alle madonne. Si capisce perchè la Francia ha
obbligato l'Italia a restituire i «briganti» ch'essa aveva fatti arrestare su
un postale francese. Perchè per i generali, per gli ufficiali, per i soldati,
per i delegati, per i commissarii, non c'erano nel reame che briganti.
Riabilitiamo i briganti.
Riabilitiamoli. Noi abbiamo veduto il
'98. Si sono ammazzate più di cento persone in Milano, se ne sono ferite
più di mille, se ne sono imprigionate più di due mila, ne sono
scappate più di tre o quattro mila. Per il nostro esercito erano tutti
briganti. Solo, i briganti del '98 si chiamavano sovversivi.
I briganti erano dei proletarii.
È nostro obbligo dire in faccia al mondo ch'essi erano vittime dei briganti
di Vittorio Emanuele II.
L'ultima vigliaccheria ministeriale.
Nunzio Nasi, il ladrone ministeriale
della terza Italia, è stato atroce con la fama di Giuseppe Mazzini.
Non lo ha voluto alto sul piedestallo
dell'eterno cospiratore. Da vero camorrista ha voluto sfigurarlo. Lo ha fatto
discendere dal plinto argilloso dei facitori del Bel Paese. Lo ha vituperato
con l'apoteosi ufficiale. Gli ha ministerializzato tutti gli scritti. È
mercè sua che gli spettatori del cinquantenario vedranno l'apostolo vestito
tutto di nero, l'instancabile odiatore di monarchi, il sovvertitore di tutti i
troni, il ribelle europeo, l'uomo cercato da tutte le polizie, allineato fra i
grandi cianciatori e ciurmadori dell'unificazione italiana, con il suo bravo
cartellone sullo stomaco dei servigi resi per la costruzione di questa immensa
baracca nazionale ammucchiata di sfasciumi umani. Io non sono mazziniano. Non
occorre esserlo per mettersi tra lui e i suoi denigratori. Tutta la sua vita,
tutto il suo lavoro di penna, tutte le sue idee sparse col ventilabro per il
mondo sono una protesta, una sollevazione contro l'imbrattatura o la
verniciatura monarchica.
C'è stato un momento in cui i
suoi nemici lo dilaniavano e lo portavano in giro come una belva, nel covo
repubblicano, come un'ambizione sfrenata, come un incendiario della
tranquillità pubblica, come un ingegno macadamizzato, come un
assoldatore di sicarii, un organizzatore di delitti, un lucifero di superbia,
un vanitone che aveva proclamato l'esistenza di Dio, come Robespierre aveva
proclamato l'Ente supremo.
Lo si denunciava come un vile che
mandava gli altri al macello, lo si chiamava codardo, gesuita, guastatore di
rivoluzioni, settario presuntuoso e fumante d'orgoglio.
Ma nessuno dei suoi turpi aggressori
è stato più paltoniere di coloro che lo hanno adagiato nel letto
costituzionale della monarchia sabauda. E che forse non è la stessa
monarchia che lo ha condannato a morte, che lo ha circondato di spie, che non
lo ha lasciato mai vivere nel suo paese, neppure nei giorni in cui era sofferente
e ammalato? Io non scrivo nè la storia, nè la biografia del
grande agitatore. Egli è una figura troppo complessa per riassumerla.
Dai suoi inizii carbonareschi fino alla sua morte nel '72, egli è un
personaggio in tutti i tempi tempestosi. Lo si vede in ogni pagina
internazionale come un direttore dei movimenti insurrezionali. Egli è
stato l'incubo dei governi del suo tempo come Napoleone I era stato delle
nazioni del suo.
Non troppo alto, fronte vasta e
sprovvista di capelli, faccia lunga, magra, pallida, naso grosso, labbra
ammantate di una parvenza di sorriso, occhio vivido nell'occhiaia fonda; tutto un'assieme
di faccia piena di bontà e d'ironia. Voce dolce, carezzevole che
scendeva nell'anima di chi l'ascoltava. Piuttosto cupo e severo, negli abiti
solenni, del nero eterno, aveva l'aria di un predicatore, di un uomo che viveva
d'ideali. Sapeva molte lingue e le sapeva tutte bene. Nessun attore ha mai conosciuto
l'arte di truccarsi come l'amico di Sarina Nathan.
Le polizie lo hanno cercato invano.
Egli sapeva scomparire nella pelle di un altro completamente. Cambiava
l'andatura, i modi, la voce, la faccia, i capelli, il passaporto. Egli passava
fra i gendarmi e i carabinieri travestito col suo sigaro senza paura.
Ma l'autore della «Giovane Italia» non
è mai riuscito a sottrarsi alle spie. Dove era Mazzini erano delatori,
alti e bassi, prezzolati e volontari. Si parla di lui ed eccoli che sbucano
come dal sottosuolo. Partesotti, Raimondo Doria, Menz, Boccheciampe, Schnepp,
Sapia, S. Colombano (pseudonimo) e altri a centinaia.
La sua corrispondenza passava di solito
prima dai gabinetti ministeriali. Napoleone III leggeva le lettere del
cospiratore politico come se fosse stato in diretta corrispondenza con lui.
Neanche l'Inghilterra ministeriale di
quel tempo si è salvata dall'infamia dello spionaggio. Per 7 mesi essa
ha dissuggellato sistematicamente con arti infami e contraffazioni tutta la sua
corrispondenza. I fratelli Bandiera sono stati sorpresi e fucilati grazie a
queste scaltrezze poliziesche.
Ci sarebbe da fare un volume curioso
sulle spie mazziniane camuffate da cospiratori. Più di una volta Mazzini
non voleva credere. Molte figuracce che lo hanno tradito sono state difese
dalla sua penna. Del Sapia egli ha sempre avuto un alto concetto. Non è
che quando costui si è infiltrato nella redazione repubblicana del
Vermorel, direttore del Courrier, che Mazzini si è smagato. Al
processo il Sapia si è rivelato l'ultimo dei miserabili. Mi pare che
Mazzini sia morto senza convincersi che l'ultima che gli aveva messo intorno il
governo italiano, fosse una spiaccia mantenuta coi fondi segreti.
Vale la pena di immortalarla, anche
perchè con essa si chiude il periodo delle tribolazioni dell'agitatore
che voleva fare l'Italia con o senza la monarchia e che è morto
dichiarandosi contro quest'ultima.
Si era vicini al disastro di Napoleone.
Mazzini si trovava malandato di salute
a Lugano. I siciliani in comunicazione con lui gli facevano credere che la sua
presenza sarebbe stata il segnale della insurrezione. Non si è arreso
subita. Egli ha voluto aspettare di rifarsi le forze. Un po' più in
gamba è partito. Si è fermato a Napoli. Egli credeva di passare
per l'Italia come un ignoto. Nessuno, secondo lui, poteva supporlo in Italia.
Invece il prefetto di Napoli non lo
faceva arrestare perchè non gli dava fastidio. L'odiatore della Comune e
dei comunardi non ha mai sospettato di girare col consenso prefettizio. Egli
partì per Palermo solo. Non lo sapeva che il Wolff. Non gli si è
dato tempo di discendere. Non appena giunto il piroscafo a Palermo è
salito a bordo l'ispettore Buindi. Mazzini era truccato da inglese, si chiamava
John Brown e parlava la lingua di John Bull.
— Nossignore, — gli disse l'ispettore
di polizia, tirando fuori la fotografia che aveva nel portafoglio. — Lei
è il signor Giuseppe Mazzini ed io ho l'ordine di arrestarlo.
C'era il piroscafo Ettore Fieramosca
che lo aspettava. Vi si condusse Mazzini e si fece subito rotta per Gaeta, dove
venne chiuso in fortezza come prigioniero di Stato.
Non appena si è saputo che il
grande Maestro era in fortezza, è nata una profonda commozione. «Per un
attimo passò sull'Italia un velo funebre. Pareva una sventura nazionale.
Poi si sono scatenate le ire. Il ministero che stava per andare a Roma a
compiere il lavoro della breccia è stato violentato da tutte le parti.
Si sono rovesciate, su di lui tutte le immondizie dei dizionari.
Il Governo è stato come sempre
vile e ipocrita. Non ha saputo essere nè sgherro nè gentiluomo.
È stato mascalzone. Ha amnistiato Mazzini, come aveva amnistiato Garibaldi
e i garibaldini che sono andati a spargere il loro sangue nei piani di
Borgogna. È stato l'ultimo dolore supremo dell'agitatore. I dimostranti
che si congratulavano con lui della sua scarcerazione sono stati rimproverati.
Amnistiare un uomo è il massimo degli oltraggi.
Era avvilito. Solennizzare la
scarcerazione di un amnistiato? Piangete. Clemenza! Clemenza di chi e per chi?
Mazzini è rimasto il nemico
acerrimo dell'Italia ufficiale. Essa era in Roma. Ma a lui, attraversandola,
gli è parso di passare attraverso due cadaveri, quello del papato e
quello della monarchia.
Se si vuole un epitaffio per la tomba
di Mazzini, eccolo:
Qui giace il disfacitore dell'Italia
monarchica.
Amilcare Cipriani è un
capolavoro vivo. Non c'è che lui. Davanti a lui tutti gli altri diventano
nanerottoli. Egli è stato, egli ha vissuto, egli ha fatto. Lotte, cospirazioni,
barricate, strazi, prigione, deportazioni, condanne a morte. Ecco il sommario
della sua esistenza. Dieci anni di Caledonia, otto anni di Portolongone, capo
di spedizioni, leader di rivoluzioni. Bilingue, trilingue, quadrilingue. Sempre sommo, sempre grande, sempre
indifferente alla propria persona. Nessuno ha sofferto come il nostro
comunardo.
Nella stiva, in viaggio per la
Caledonia, con una ferita d'arma dal fuoco che gli divorava la carne della
gamba, egli ha subito tutta la sete dell'inferno. Ha patito l'arsura per
pulirsi la ferita e salvarsi dalla cancrena. È stato otto anni in cella
per non essere obbligato a togliersi il berretto del galeotto davanti al guardiano
della galera. È stato eletto deputato una volta, due volte, tre volte,
mentre era al bagno penale. Se ne è andato all'estero invece di andare
alla Camera. Nei momenti della sua gloriosa vecchiaia, dopo aver trovato sua
figlia, ha ereditato ventimila lire. Le ha rifiutate. Centinaia di
rivoluzionari le avrebbero intascate. Cipriani, proletario, con la figlia che
stava per diventare vedova, voltò il dorso al piccolo benessere e
continuò a scrivere nella Humanité come se avesse avuto venti
anni.
Non voglio sciupare la biografia che porto nella testa da parecchi
anni. Io l'ho conosciuto ed ho passato con lui momenti indimenticabili. L'altro
giorno mi ha scritto che non avevo detto tutto di Wolff, la spia di Mazzini,
che lui ha conosciuto personalmente. Io gli ho telegrafato tre parole: «Manda,
manda, manda!». Egli ha mandato. Leggete:
«Mazzini alloggiava, da anni, a Londra,
al numero 18 Foulham Road, Foulham Terrace.
Per avvicinarlo, era un po' difficile.
Bisognava passare per il tramite del suo fido, Luigi Wolff. Ma però, non
bastava, perchè, se vi ritornavate senza di lui, eravate ricevuti da una
grande e bella signora tedesca che portava i capelli a lunghe boccole,
alle tempie, e se non le si dava il nome di Ernesti — pseudonimo di
Mazzini — non si passava.
Dato il nome convenuto, si entrava in
una saletta di mediocre grandezza e semplicemente ammobigliata, ove si trovava
Mazzini seduto sopra un piccolo divano posto sotto la finestra che dava su Terrace,
con un sigaro in bocca ed un bicchierino di bordeaux posto a portata della sua
mano, sul davanzale del caminetto, che leggeva il Times ed altri
giornali di altri paesi.
Egli era piccolo di statura, esile. Vestiva modestamente di nero,
e portava al collo un cravattone, pure nero, che glielo fasciava tutto.
Soprabitino e pantaloni, questi piuttosto corti, calzava stivali più
grandi del suo piede.
Non era calvo, ma la fronte aveva
spaziosa, la bocca piccola, raramente sorridente, forse perchè molti
denti gli mancavano, gli altri anneriti dalla nicotina.
Allorquando sortiva, si copriva con un cappello
nero a cencio a larghe tese.
Appena si era introdotti alla sua
presenza, vi assaliva, subito con queste domande: «Avete combattuto per
l'Italia? Foste con Garibaldi? Siete dei nostri?».
Qualunque fosse la risposta, non
cessava perciò di essere cortese, buono, e circospetto; ma se eravate un
semplice curioso era inutile di ripresentarvi una seconda volta, a meno che non
sapesse chi vi aveva attirato nelle sue file.
Semplice, buono, generoso, con uno
sguardo languido, limpido, nient'affatto lampeggiante, ma sereno, uomo che si
sente onesto e forte: la parola era uguale allo sguardo.
Non aveva nulla dell'oratore. Parlava
semplicemente, con calma, con effusione, con fede, con convinzione: era,
insomma, «un grand causeur».
Ma quello che veramente ammaliava i
giovani d'allora, era il fascino irresistibile di tutto il suo essere, del suo
nome, della sua fama, la leggenda di ammaliatore che aleggiava attorno al suo
nome, e la potenza della sua mente.
Oggi, dopo quarantaquattro anni, dopo
tante vicende, dopo aver frequentati molti di quegli uomini che la storia
chiama grandi, non conobbi che Mazzini che sia stato veramente grande, semplice,
generoso, disinteressato come Garibaldi, e come questo fu grande nell'azione,
egli fu altrettanto grande nel pensiero.
Io, grazie alle battaglie già
combattute in Italia, in Atene, in Candia, ed alle condanne, ebbi subito la sua
stima e fiducia. Del resto, nel 1867, allorquando lo conobbi personalmente, gli
ero già noto perchè, fin dal 1861, io ero in relazione epistolare
con lui, perchè i suoi punti d'appoggio li cercava nell'esercito. E se
nel 1862 disertai dal 37° reggimento fanteria di stanza a Palermo, con altri 38
sottufficiali, è che noi seguimmo Garibaldi che aveva lanciato il grido
di «O Roma o morte!», grido che la monarchia assassina soffocò, nel
sangue di Garibaldi e dei garibaldini ad Aspromonte.
E qui mi fermo, perchè per
parlare delle mie relazioni col grande agitatore, dovrei parlare troppo lungamente
di me e passo a Luigi Wolff.
Lo conobbi personalmente, intimamente,
a Londra nel 1867, e fu lui che m'introdusse presso Mazzini, col buon Domenico
Lama di Faenza (Mingon).
Confesso, che la prima impressione fu
piuttosto cattiva, perchè cercò di sapere da me, appena visto,
troppe cose che, diffidenti come eravamo a quell'epoca, non gli dissi.
Non so nè la sua età,
nè il suo luogo di nascita. So che nel 1848, capitano di una banda di
svizzeri tedeschi, militò contro la Repubblica Romana.
Disertò e passò nel campo
repubblicano, insinuandosi così nell'amicizia del grande triumviro.
Il titolo era buono e, forse, nei primi
tempi fu sincero. Ma si avvide presto che l'amicizia di un tal uomo (Mazzini)
fruttava molti onori, sì, ma molte persecuzioni, pochi guadagni, ed egli
era avido e, per averne, tradì la fede, il maestro, l'amico, la sua
nuova patria d'adozione, tutto.
Era di statura media, piuttosto
tarchiato, con una folta e lunga barba brizzolata che gli copriva tutto il
volto.
Portava sempre gli occhiali a
stanghette, e parlava alla perfezione il tedesco (che era la sua propria
lingua), l'inglese, l'italiano, il francese.
Era assai colto ed istruito. Aspetto
bonario, dai modi popolani, insinuante, scrutatore, prudente nel parlare ed
ancor più nell'agire, era sposo di una tedesca scaltra come lui, e credo
che sapesse la parte infame che suo marito giocava presso Mazzini.
Egli era giunto ad insinuarsi in tutto,
a saper tutto, a far tutto. Era l'anima, il braccio, la mente di Mazzini. Era,
insomma, il factotum, il manitou, del partito mazziniano.
Anzi, codesto intrigante superiore, aveva saputo così bene
imitare la calligrafia del Mazzini (col suo consenso) che, allorquando furono
diffusi gli statuti dell'A.R.U. (Alleanza Repubblicana Universale) onde fare
opposizione all'Internazionale di Karl Marx, erano scritti dal pugno del Wolff
e tutti credettero fossero del Mazzini.
Il pseudonimo che aveva assunto per
viaggiare in Italia ed altrove per conto del partito mazziniano, era Old
Bear (vecchio orso).
La prima brutta impressione, si trasformò in sospetti, anzi
in certezza; nel 1869 allorquando egli, incontrandomi in Oxford Street mi disse
che Mazzini, allora a Lugano, chiedeva una mia fotografia con dedica.
Esitai; ma poi, non avendo nulla a
temere, lavorando da fotografo nella fotografia di Adolfo Nathan e di Leonida
Caldesi, in Pall-Mall-East, me ne feci una, e gliela consegnai.
Poco tempo dopo venne a trovarmi per
dirmi che Mazzini mi voleva a Lugano per confidarmi il comando di una banda
armata, che infatti partì da Lugano comandata da un Nathan, che fu poi
arrestato a Milano e che oggi è morto già da anni.
Allora ero già padre e, come
sempre, povero, ciò che feci osservare al Wolff.
— «Fai qualunque sacrificio, mi
rispose, ma va ove ti chiama Mazzini, anzi, aggiunse, il maestro».
Raggruzzolai i soldi necessari e
partii. Non gli dissi però quello che egli voleva sapere, il giorno e
l'ora della mia partenza.
Come per prudenza e maggior sicurezza,
viaggiavo senza bagaglio. Appena a Parigi volai in rue Moret a deporvi un pacco
di proclami incendiarii di Felix Pyat contro l'impero.
Era appena un'ora che ero fuori che fui
arrestato dagli agenti in civile.
Fui condotto dinanzi al prefetto di
polizia dell'impero, Pietri, il quale, scorgendomi, esclamò in buon
italiano (era côrso): «Ecco il commesso viaggiatore della rivoluzione, il
braccio destro di Mazzini».
Io che capii cosa celavano quelle,
parole, negai, poi mi chiusi nel più prudente riserbo.
Fui spogliato: i miei abiti, le scarpe,
il cappello, tutto fu scucito; nulla trovarono perchè nulla v'era.
Il prefetto scorgendo il fiasco,
esclamò: «Il romagnolo ce l'ha fatta!». Lo sgherro era bene informato.
Il tutto fu ricucito alla meglio.
Dinanzi alle mie violente proteste, il prefetto ordinò che fossi
condotto alla frontiera svizzera, giacchè avevo dichiarato che ero
diretto a Fluelen (nei Quattro Cantoni, presso Altdorf).
Attraversai la Svizzera tedesca e
presto fui a Lugano, colla certezza d'essere stato tradito dal Wolff.
Appena giunto, mi recai alla Villa
Nathan sul lago, ove sapevo che vi si rifugiava Mazzini.
Fui ricevuto da Maurizio Quadrio, al
quale narrai la mia piccola odissea ed i dubbi contro il Wolff.
— Aspetta, mi disse, tutta questa losca
storia, urge che Mazzini la conosca.
Nel frattempo entrò la Sarina
Nathan, che avevo conosciuto e fotografato a Londra. Appena mi scorse mi tese
la mano:
— Lei da questa parte?
— Si, rispose Quadrio, urge che Pippo
lo veda.
Appena entrato, il Quadrio gli disse:
— Ascolta il nostro Cipriani, ha gravi
cose da dirti.
Dopo che gli ebbi minutamente espresso tutto, Mazzini che era
seduto, generalmente calmo, scattò come una molla:
— Ma io, caro Cipriani, non ho chiesto
la vostra fotografia, nè la vostra venuta a Lugano...
E rimase pensoso come persona che
attenda una risposta. Gli risposi:
— Maestro, la vostra risposta non mi
stupisce. Se sono venuto è giustamente per chiarire certi sospetti e
farveli toccare colla mano.
— Che! esclamò, Wolff spia?
— Io non so, nè dico questo.
Credo soltanto che qualcuno ha voluto togliervi dal fianco un uomo d'azione, un
amico fidato.
Quadrio, rannuvolato ed annuente col
capo alle mie parole, esclamò:
— Io, e tu lo sai Pippo, questo Old
Bear non mi assicura affatto.
— Allora? esclamò con amarezza
il grande cospiratore.
— Allora, replicò il Quadrio, io
condivido i sospetti del Cipriani. Non è di noi soli che si tratta, ma
del nostro partito e dell'avvenire d'Italia.
Io gli strinsi la mano, sortii e
tacitamente me ne tornai a Londra.
Dopo l'assassinio del giovane Barsantí,
feci ritorno a Lugano per incontrarmi col mio amico Gustavo Flourens.
Mazzini e Quadrio erano partiti ed io,
finiti i miei affari, tornai a Londra.
Un mese dopo scoppiò la guerra
franco-prussiana.
Proclamata la repubblica il 4
settembre, partii, lasciando moglie e figlia che non dovevo veder più,
almeno quella.
Giunto a Parigi, corsi dal mio amico
Flourens, che aveva messo il seggio del suo Stato Maggiore, rue des Couronnes
à Belleville.
Flourens era strettamente sorvegliato
dalla polizia del Keratry, prefetto di polizia della neo-Repubblica.
Wolff aveva stabilito il suo quartiere
generale nell'Hòtel du Hanovre, nell'angolo della stessa via, Boulevard
de Belleville, per meglio sorvegliare le mosse del Flourens.
Una mattina che il battaglione era
riunito, scorsi il Wolff dietro le file che interrogava delle guardie
nazionali. Scorgendomi, tentò celarsi.
Lo segnalai al Flourens; ma siccome si
sortiva da Parigi per combattere, la cosa passò liscia per questo
giorno.
Proclamata la Comune, un bel giorno fui
chiamato dal mio amico Raoul Rigault, prefetto di polizia della Comune, il
quale, scorgendomi, mi chiese:
— Di', Cipriani, conosci Wolff?
Io che tenevo a lasciarlo parlare per
sapere, gli risposi: — Sì, l'ho conosciuto a Londra.
— Al fianco di Mazzini? To', leggi
questa sua lettera e guarda questa fotografia.
Era la mia dedicata al Mazzini.
E nella lettera scritta tutta di pugno
del Wolff, questo vi dibatteva il prezzo del suo infame tradimento.
Rammento solo questa frase:
«Comprenderete, signore, che a un uomo come me, che vive nella grande
intimità coll'implacabile nemico di tutte le monarchie, che posso
informare di tutti gli atti dei rivoluzionari internazionali, non gli si
offrono 500 franchi al mese...».
Presi un manipolo d'insorti armati,
corsi all'Hôtel, ma la preda era fuggita da qualche ora.
Scrissi subito a Mazzini, informandolo
di tutto. E questa fu l'ultima volta che gli scrissi, perchè poi vennero
le battaglie, le condanne a morte, la deportazione, la galera, la reclusione,
l'esilio ove vivo ed ove forse morrò».
AMILCARE CIPRIANI.
e le vittime della Regia.
Gli ultimi quattro o cinque anni di
Firenze capitale sono senza dubbio i più arruffati e i più turgidi
del cinquantenario.
Lo scrittore è come in una
immensa bolgia di criminali truccati da gentiluomini. Più guarda in alto
in cerca di una faccia onesta e più chiude gli occhi terrorizzato. Garibaldi
li chiamava tempi borgiani.
In tutto quel periodo non c'è un
attimo di vita sincera. Non c'erano che venduti, che corrotti, che violenti,
che gaglioffi, che bricconi, che malviventi.
I ministri trafficavano e si
circondavano di sicari della penna; i deputati facevano degli affari, i giudici
rendevano dei servigi, la pubblica sicurezza era infame e sovrana; i monopolii
nazionali venivano abbandonati ai banchieri della speculazione ladra, le
imposte erano così scorticatrici che il Governo non poteva esigerle che
coi massacri e con gli stati d'assedio. Fra gli eminenti di quei giorni si era
come scatenato il demone dei guadagni ingenti. Si speculava, su tutto e con
tutti. Con la febbre di andare alla ricchezza col treno lampo era nata la
manìa delle pubbliche costruzioni. Si costruiva per smodati interessi,
per trascinare nell'orbita delle intraprese gigantesche, il denaro della
nazione. Hausmann aveva fatto scuola.
Intorno ai ministri erano persone
losche, gente uscita dalle speculazioni con le mani sucide, scrocconi di tutti
gli affari tenebrosi, progettisti che volevano la patria grande per svaligiarla.
Il primo caso che ha fatto trasalire il pubblico e «offuscato l'onore della
destra parlamentare» è stato quello della cessione delle ferrovie
meridionali a una società italiana in surrogazione della società
francese.
È stato un vero traffico
parlamentare. L'autore del mercato è passato alla posterità in un
giorno. Si chiamava Bastogi. È stato ministro di Italia. Egli diceva,
come Walpole, che l'onore degli uomini era nel prezzo.
Chi resisteva era colui che voleva vendere
la sua onestà per una somma maggiore. Il Bastogi era un trafficone di
tutte le coscienze.
Capo del Credito Immobiliare di Torino
e deputato, andava dicendo a tutti ch'egli voleva dimostrare all'Europa che
l'Italia era in grado di provvedere da sè alle più ardue e
gigantesche imprese. Lavorò sott'acqua. Ottenne la concessione.
Comperò dei voti e degli uomini. Il sottovoce del suo mercato è
stato assalito da caterve di pennivendoli al servizio del Bastogi. La stampa
sbrigliata non si lasciò tappare la bocca. Ingrossò il sottovoce
con frasi aride. C'è stata una furiosa battaglia d'inchiostro.
Da una parte si negava, dall'altra si
accusava. Bastogi alzava le mani facendole vedere monde. Si diceva vittima
della calunnia, minacciava di querele. Il sottovoce ghignava e diventava impertinente.
Levava la testa con aria di sfida. I reazionari protestavano, dicevano la
Destra pura. Il sottovoce era divenuto un nome.
Il nome una legione di nomi. Nessuno
era più salvo. Tutti i deputati che avevano votato per la concessione
delle ferrovie meridionali erano sospetti. Le malelingue facevano circolare le
cifre intascate dai corrotti. Il sussurro è divenuto generale. Vox
populi, vox dei. Lo dicevano tutti. Bisognava piegare.
Anche gli onorevoli che non avevano partecipato al banchetto dei
corrotti incominciarono a credere che nel negozio per le ferrovie meridionali
si nascondesse un vituperevolissimo mercato. Se non giungiamo, diceva
l'onorevole Mordini, a compiere e presto la arginatura, avremo lo straripamento
della corruzione. I nomi più illibati sono fatti segno al sospetto. Non
resta riputazione intatta. La Camera deve procedere risolutamente con un atto
solenne di moralità. La Camera deve volere l'inchiesta. E l'inchiesta venne
approvata da tutti i presenti, meno tre. I risultati non furono tali da
pacificare l'opinione pubblica. Molti nomi sono stati rispettati, molte cose
taciute. A udirne la relazione gli onorevoli erano tutti galantuomini.
«Qualunque voce, o sospetto, diceva, di
corruzione esercitata verso uno o più deputati nell'occasione della
discussione e votazione della legge sulle ferrovie meridionali è rimasta
pienamente smentita».
Bugia! Menzogna! Al contrario. La
commissione, pur volendo ignorare e assolvere gli sbruffati, non ha potuto non
bollare il Bastogi e il Susani — tutti e due deputati. L'uno aveva corrotto
l'altro. Bastogi aveva ringraziato Susani con un milione e 100.000 lire.
Susani, relatore di un progetto di legge per conto della Camera, aveva fatto di
tutto per farlo andare a monte e sostituirvene un altro. La cosa gli è
riuscita, ma ha dovuto scomparire dalla vita pubblica, come ha dovuto scomparire
per alcuni anni Bastogi. Quanti altri che avevano mercanteggiato il voto sono
rimasti nell'ombra? Parecchi. Ci sono stati perfino dei deputati che hanno
potuto far denari rimanendo assenti al momento della votazione. Avevano venduto
l'assenza.
Mentre si applicavano i contatori
meccanici ai molini e si sottomettevano le regioni affamate al regime dello
stato d'assedio, l'Unità Italiana è uscita con una notizia
che ha fatto saltare in aria tutti. Era un giornale mazziniano. Non gli si
poteva credere. Aggrediva la monarchia, la vituperava, la disonorava tutti i
giorni. Il procuratore del re non l'ha lasciato passare. L'ha mandato al
tribunale. Di che cosa si trattava? Accusava i guardiacaccia di sua
maestà Vittorio Emanuele II di avere ammazzato nelle tenute reali
ventiquattro «trespassers», ventiquattro persone che avevano osato internarsi
nei terreni reali per cacciare, per portar via delle pernici, dei daini, dei
cinghiali, dei fagiani, dei pavoni, delle folaghe, delle lepri, delle quaglie e
degli altri volatili preziosi. De Sonnaz — il grande guardiacaccia non ha esitato
a far agguantare dalla legge il giornale imprudente.
Il processo è avvenuto a Milano.
È stato intitolato il processo Tombolo, il luogo dove era la tenuta reale.
È stato uno scandalo. Si
è venuti a sapere che il re, in nome dei suoi sagrifici fatti per l'unità
italiana, era divenuto il signore di dodici o quindici tenute con parchi per la
caccia, di una estensione sbalorditiva. La monarchia costava in cacciagione
milioni all'anno.
L'accusato principale era un collega di
quel tempo l'avv. Bottero. Era lui che aveva accusato di delitti di sangue i
guardiani delle possessioni cosiddette reali.
Con le sue rivelazioni si è
venuto a sapere che gli omicidi rimanevano impuniti come nei tempi feudali. Chi
indossava la montura reale non doveva essere importunato dalla legge. Erano i
bravi del feudatario. L'accusato disse solo queste parole:
— Nei parchi reali avvengono i
più sciagurati casi, nei quali invece di selvaggina cadono degli uomini
colpiti dal piombo dei guardiacaccia.
L'accusatore dei guardiacaccia era
l'on. Toscanelli.
Egli, citato come testimonio, aveva una
lista di tutti i morti. La sua presenza al processo ha fatto una impressione
enorme. Egli non era mica un rivoluzionario. Era un uomo ricco a milioni, era
parente del Peruzzi, era consigliere provinciale di Pisa, rappresentava il
collegio di Pontedera, ed era stato eletto dalla VII alla XIV legislatura.
Clericale, espulso dalla massoneria, e
confezionatore di vini all'ingrosso. Il chianti del Toscanelli è ancora
famoso.
Interrogato su quello che sapeva ha
domandato il permesso al presidente di permettergli di servirsi delle note per
non cadere in errori. Aveva la voluttà del documentista. La sua lista
delle vittime dei guardiacaccia era di ventitre individui. Chi era stato ferito
al collo, chi era stramazzato cadavere, chi aveva dovuto subire l'amputazione
del braccio o della gamba; chi era stato colpito al collo, chi alla testa, chi
alla tempia, chi alla gola, chi al ginocchio, chi al ventre.
Egli era preciso. Dava nomi e cognomi,
luoghi di abitazione, dove erano stati feriti e ospitati, e tutti i particolari
che non lasciavano dubbi sulla narrazione.
Per far cessare il delitto reale, il
Toscanelli «aveva fatto istanza presso la giustizia, perchè si procedesse
contro i reati di sangue».
Impotente a scuotere il magistrato che
rendeva servigi alla Corona, s'è servito della tribuna parlamentare.
Identico risultato. Si è sentito nelle sue parole una concitazione
personale. Si diceva che non aveva saputo essere oggettivo.
Citato dall'Unità Italiana
è stato aggredito dagli avvocati che rappresentavano la Corte. Egli non
si è lasciato scompaginare. Ha ribadito le accuse. Non voleva che
Tombolo facesse parte delle tenute della Corona, perchè non vi si
ammazzassero i trasgressori come nelle tenute reali di Coltano e di San
Rossore.
Difendevano i guardiacaccia delle
tenute Reali Mancini e Curti, due deputati e due ventraiuoli in toga che hanno
fatto molti discepoli. Difendevano tutto e tutti per il denaro. Il Mancini,
abile e intelligente, era colui che aveva fatto sciogliere anche il matrimonio
di Garibaldi con la Raimondi.
Prima di morire è disceso fino
all'accettazione dell'elemosina reale. Giusta punizione a chi ha fatto di tutto
un grosso mercato.
Allo strepito del Mancini il teste ha
risposto con una lista dei morti e dei feriti.
Fu letta in mezzo alla stupefazione di
coloro che l’ascoltavano. Non era che un elenco funebre.
«Rainieri di Prato, ucciso nella tenuta
di Coltano con un colpo d'arma da fuoco al collo. — Achille Ceccarelli di
Pretignano, ferito con arma da fuoco al ventre nel centro della tenuta di Coltano,
presso il monte di Carigi, morto poco dopo. — Obaldo degli Innocenti, ferito
con arma da fuoco a Coltano, mentre fuggiva. Nessun processo. Nessun scandalo.
Nessun annuncio. — Folaini Luigi, ferito al confine della tenuta di Coltano,
con palle che gli trapassarono e ruppero il ginocchio sinistro...».
Egli è andato fino in fondo,
fino al ventitreesimo, a costo di annoiare l'uditorio. Di tanto in tanto si
fermava a leggere qualche nota sbiadita in margine all'epitaffio.
La scusa dell'eccidio, per esempio, era
che i trasgressori della caccia proibita avevano opposta resistenza.
La storia di Giovanni Orelli è
un esempio. Ferito con tre colpi d'arma da fuoco al dorso e alla mano, trovato
da due sconosciuti al limitare della tenuta e portato all'ospedale di Pisa,
è guarito storpiato ed è stato processato per resistenza. I
feritori non sono neanche venuti in scena.
L'ho già detto: il guardiacaccia
godeva delle prerogative reali del suo signore. Chi penetrava nelle tenute di
caccia di Vittorio Emanuele II, periva.
In quel di San Rossore nel '68, vi
lasciarono la pelle o le membra: Alessandro e Giuseppe Lippi, fratelli,
sorpresi con un daino. Nella stessa tenuta venne aggredito dai pallini dei
guardiacaccia Giuseppe Talaini, ferito alle gambe e ai testicoli gravemente.
Francesco Sesti, ferito in San Rossore, dovette subire l'amputazione del
braccio.
Se non avessi paura degli sbadigli,
continuerei l'elenco funebre dei contadini o braccianti finiti a sciabolate o a
fucilate sui terreni reali.
La sentenza è stata in armonia
coi tempi borgiani. L'avv. Bottero e il gerente Giacinto Piazza sono stati
condannati per avere denunciati i venti e un omicidi e averne provati ventitre,
a sei mesi ciascuno di carcere, a 300 lire di multa, alle spese processuali e
alla rifusione dei danni alla parte civile da liquidarsi in separata sede.
L'avvocato in difesa non ha potuto
neanche parlare. Egli stava dicendo:
«Imperocchè, o signori, queste
cose non accaddero giammai nemmeno sotto i governi assoluti. È passato
il tempo che un re possa far squartare il ventre di un suddito...
Presidente: — Avvocato, le tolgo la parola.
Noi che abbiamo veduto in azione le
leggi eccezionali non abbiamo neanche idea dei tribunali di una volta, dei
tempi in cui il Pironti era ministro di grazia e giustizia. Non avevano ragione
che i moderati. Potrei citarvi centinaia di sentenze.
Fra la Gazzetta di Milano e la Perseveranza,
da un processo di diffamazione usciva vittoriosa l'ultima. Cito quella che ha
condannato la prima per avere provato che Ruggero Bonghi occupava tre impieghi
governativi. Cito quella fra il Gazzettino Rosa e il Civinini, deputato
passato da un tramonto all'altro dalla sinistra alla destra. Cito quella di
Cristiano Lobbia, maggiore dello stato maggiore e deputato di sinistra al Parlamento
di Firenze. Il Lobbia è stato il protagonista di una lugubre storia
piena di cadaveri. Il cancan di quei giorni era intorno alla
Regìa cointeressata. La concessione era stata ottenuta con lo stesso
metodo che aveva servito al Bastogi per la concessione delle linee ferroviarie.
Il personaggio del mercato era il
Balduino, direttore del Credito Mobiliare Italiano. Con l'audacia dell'arrivista
che vuol riuscire ad ogni costo ha cercato di soffocare il sottovoce, minacciando
di querela giornali e privati che avessero osato accusarlo di corruzione.
Si è fatto avanti il Cristiano
Lobbia. È andato alla Camera e per costringerla a votare l'inchiesta sui
«si dice» ha aggiunto che egli aveva in mano documenti per provare che un
deputato aveva «indebitamente lucrato nell'affare della Regìa».
— La deposizione documentale è
nelle mie mani — diceva — ed è stata legalizzata da un notaio. È
qui — esclamava, agitando due larghe buste chiuse.
Non c'era più modo di scappare.
L'accusa aveva il suo gerente responsabile. Il governo non potendo più
evitarla non ha lavorato che per diminuirla, che per confinarla nella zona
delle restrizioni.
Il Crispi era nel mistero, ma non
voleva parlare. Il segreto professionale glielo impediva. Il Lobbia veniva
addentato da tutte le iene del giornalismo ministeriale. Per salvarsi è
stato obbligato a scrivere alla Riforma:
Firenze, 15-6-1869.
«Signor Direttore
Qualche giornale cominciò a
farmi segno di turpi e codardi attacchi personali facendosi scherno della mia
attuale posizione verso la Commissione di inchiesta, alla cui opera mi legano i
più ineluttabili sentimenti di dovere e di onore. Io ho la coscienza di
ciò che devo a me stesso ed al paese in seguito al voto della Camera,
nè vi è forza che possa distrarmi in questo momento al compito
mio.
Però credo fin d'oggi avvertire
per mezzo della maggiore pubblicità che, non uso a tollerare come uomo,
soldato e deputato nè offesa nè sospetto al mio nome, io
terrò bene in mente quei giornali e quei nomi che osarono, sia pure
menomamente, di offendermi per chieder conto, appena libero, dei loro attentati
al mio carattere.
La prego di pubblicare la presente,
come prego gli altri giornali di riprodurla».
Lo stile è del soldato e la
fierezza è del rappresentante della nazione. Nè l'uno nè
l'altro avevano ammansate le belve delle fazioni e delle cospirazioni cointeressate
che urlavano per la sua testa.
Lo si dileggiava, lo si svillaneggiava,
lo si canzonava.
Il giorno dopo, il 16, doveva essere la
sua gran giornata. Egli era citato davanti alla Commissione d'inchiesta.
Nella notte tra il 15 e il 16 egli era
avviato a fare una visita al suo amico prof. Martinati. Giunto tra la via S.
Antonio e la via dell'Amorino, venne sorpreso, aggredito, pugnalato.
— Eccoti il plico, diceva lo
sconosciuto menandogli un colpo di pugnale al cuore. Il primo colpo è
scivolato dal portafoglio grosso di carte e lo ferì al braccio. Cadde e
il suo aggressore gli andò sopra e tentò di assassinarlo con
altri due colpi alla testa.
Cristiano Lobbia riuscì a
divincolarsi e a trarsi dalla tasca la pistola con la quale fece partire due colpi.
L'aggressore scomparve. Si è
venuti a sapere più tardi che il maggiore da un po' di giorni era sempre
seguito da due sconosciuti ch'egli supponeva agenti di pubblica sicurezza.
Le pugnalate di via dell'Amorino son
passate per il Paese come un'irritazione e una provocazione.
Tutti vedevano nella mano che aveva
attentato alla vita del Lobbia, la mano ministeriale o di alcuni ministeriali
interessati a far scomparire un uomo per loro così pericoloso.
Lobbia è divenuto l'uomo del
giorno. Dimostrazioni, comizi, processioni dovunque. Dappertutto si gridava
«Viva Lobbia! Morte agli assassini! Abbasso il ministero».
I principali deputati sospetti erano
Fambri, Civinini, Brenna, direttore della Nazione, e altri dodici o
tredici che avevano preso i «zuccherini» dal Balduino, come gli altri avevano
presi i carrozzini dal Bastogi.
Su Fambri non c'era dubbio. Solo egli
si scusava dicendo che aveva fatto un affare. Le azioni, secondo lui, le aveva
comperate. Il Civinini era indiziato più degli altri. Lo si accusava di
avere mercanteggiato il voto per un milione. Le azioni le aveva comperate il
banchiere Basevi, pagando la provvigione al mediatore Tringalli in 52 mila
lire.
Sul traffico parlamentare del Civinini
è rimasto sempre un po' di dubbio, perchè i suoi amici hanno
detto che è morto povero.
La democrazia di quel tempo ha onorato
il pubblico accusatore imitandolo negli abiti. Tutte le vie erano popolate di
cappelli Lobbia, di cravatte Lobbia, di giacche Lobbia. I «Lobbia» sono stati
la fortuna di parecchi cappellai. Non c'era più negozio senza la sua
fotografia e la sua caricatura. È stata coniata una medaglietta con la
sua effige da appendersi al panciotto come ciondolo e messa in vendita per L.
2,50.
È troppo lungo il finale di
questa turpissima storia parlamentare per lo spazio a mia disposizione. I
moderati che non avevano potuto farlo uccidere, tentarono di assassinarlo con
un processo per «simulazione di delitto».
Si sono trovati dei giudici che l'hanno
condannato. Con il suo assassinio morale si sono pure assassinati alla
chetichella tutti gli altri testimoni che avrebbero potuto parlare.
Se mi ricordo bene, le vittime sono
state sette. Chi è finito nell'Arno, chi è stato trovato morto
nella strada e chi è stato avvelenato.
Tempi veramente borgiani!
Rileggendo le mie note dei tempi
borgiani, ne trovo sei. Ma può darsi che io copiandoli ne abbia lasciato
uno per la strada. Sono stati tutti spenti di morte «subitanea». Proprio come
ai tempi del Borgia. Cesare Borgia si difendeva dai nemici dando incarico ai
sicari di sopprimerli. Gli attori pericolosi del dramma della Regìa e di
via dell'Amorino, con il ministro Pironti, sono scomparsi tutti e non se n'è
saputo più niente.
Il primo ad andare all'altro mondo
borgianamente è stato il giovane Scotti. Egli, rincasando, aveva avuto
la disgrazia di incontrarsi con l'assassino di Cristiano Lobbia, quando fuggiva
inseguito dalle grida della vittima. Non gli è stato dato tempo di fare
rivelazioni. Aveva 18 anni. È morto avvelenato appena giunto al suo paese.
Quando se ne parlò nei giornali l'autorità di Cremona ne ordinò
l'esumazione. Sarebbe stato un documento.
Il Pironti la fece contrordinare. Le «pillole
Scotti», dopo il suo avvelenamento, sono divenute famose.
Il secondo è stato Faccioli.
Egli aveva preso parte alla disparizione delle lettere e delle ricevute dei
deputati cointeressati. Poteva essere un ricattatore in permanenza. Poteva
vendersi. Via, al cimitero! È morto di morte improvvisa a Napoli «nel
vigore di una virilità prospera e robusta». Nessuna autopsia.
Il terzo fu il Burei, l'uomo più
importante di tutti. Egli era stato il detentore delle diciassette ricevute.
Ne aveva negoziato il riscatto col Corsale e coll'Ellero, per conto dei
deputati compromessi. Della vendita non si è salvato che una lettera del
Brenna e anch'essa dovuta al sacrificio del deputato Cucchi. Era la lettera famosa
in cui si parlava dei quattrini. Non lasciava dubbio che si fosse compiuto un
mercato parlamentare. Il Burei, sanissimo e robustissimo, ha finito anche lui
di morte repentina.
Poi è venuta la volta del
Domenico Corsale. Egli è stato ucciso per un futile motivo o «per causa
ignota» come ha stampato l'Opinione d'allora, governativa. L'uccisore
è rimasto irreperibile per dei mesi. Il morto è andato sottoterra
col mistero, come il Burei.
L'uccisore del Corsale è stato
scoperto: si chiamava Somigli, ma lo si è lasciato al largo.
La lettera del Fambri, stata pubblicata
dai giornali denunciatori del traffico parlamentare, era stata rubata da un
domestico o da un impiegato del Fambri. Egli ha fatto di tutto per riaverla,
perchè essa era l'ultima delle diciasette ricevute rilasciate al
commendatore Balduino da un gruppo di deputati che aveva per capo della
speculazione il Fambri, questore della camera e autore drammatico. Il gruppo
era nel sottovoce come la «fazione cointeressata». L'attentato di via
dell'Amorino è avvenuto appunto alla vigilia della deposizione del Lobbia
davanti la Commissione dell'inchiesta parlamentare, indubbiamente perchè
la «fazione» si era spaventata e credeva che nei plichi del Lobbia ci fossero
le ricevute scandalose. Fu solo pochi giorni dopo che i deputati venduti
vennero a sapere dove erano le lettere o le ricevute - 14 delle quali sono
state comperate dal detentore Burei, il confidente del Fambri. Il Burei le
aveva depositate presso certo Eller.
Sono state riscattate tutte a contanti.
I cointeressati, invasi dalla paura, non hanno più badato al biglietto
da mille. L'Eller doveva essere anche lui un briccone. Perchè dalle
lettere depositate presso di lui ne aveva fatte scomparire alcune; per venderle
per proprio conto, e l'ultima, quella al «Caro Paulo» (Fambri) del Brenna, deve
averla venduta alla parte accusatrice.
Dalla casa del Corsale — il Burei, per
riaverla — gli scrisse: «Si tratta di guadagnare molte migliaia di lire anche
questa notte. Vieni qui subito da Corsale». Ma la lettera era già nelle
mani dell'on. Cucchi — il quale l'ha fatta recapitare alla Commissione
d'inchiesta.
E poi scomparve con una stilettata al
cuore anche colui che aveva ammazzato il Corsale.
Fra coloro che devono essere ricordati
nella storia del cinquantenario è pure Guglielmo Cambray-Digny, il
ministro che ha fatto dare, come risultato al processo di Firenze, il mandato a
un signor Bonomi di spacciare il Lobbia. E poi dite che non erano tempi
borgiani. I giudici non esistevano che per rendere dei servigi. I sommi di quei
tempi erano i De Foresta, gli Aveti, i Cantini, i Perfumo e i Tondi. I ministri
facevano degli affari; chi si metteva fra loro e la borsa, spariva.
Siamo nel '62. Tempi difficili. La
monarchia che doveva tutto a Napoleone non aveva nella testa che ordini
napoleonici. Vittorio Emanuele passava per un re qualunque. Lo si credeva un bastardo.
Il sottovoce voleva ch'egli fosse il «maschiotto» del macellaio del Poggio di
Firenze. Le sue volgarità e i suoi gusti di sovrano del sottosuolo
contribuivano a lasciar credere che sua madre fosse stata per gli abbracci
popolani. La vita privata poi del secondo re d'Italia faceva arricciare il naso
a molta gente. Egli aveva sottomesso la madre dei suoi figli ad assistere in
silenzio alle sue infedeltà coniugali e a ignorare a fianco della reggia
la Rosina, divenuta in seguito contessa Mirafiori e a Roma la regina
morganatica. Chi ha dei dubbi legga le memorie del generale Della Rocca, uno
dei suoi più affezzionati cortigiani.
Il ministro del misfatto regio di quei
giorni chiamati «nefasti» dalla democrazia regia, era Urbano Rattazzi, un mezzo
uomo che non sapeva uscire dagli intrighi. Egli ha avuto l'audacia di mettersi
sulla piattaforma politica come rivale di Cavour. Con la sua opposizione
imbronciata, viveva in una freddezza calcolata. Fisicamente antipatico. Lungo,
magro, allampanato, storto a sinistra, con le spalle giù pendenti come
una desolazione. Il suo stomaco rientrava come uno specchio concavo e tutto il
suo corpo pareva quello di un poveraccio malandato di salute.
Fronte piccina e umida, labbra
rossastre, occhi riparati dietro le lenti del miope, voce esile, parola
scolorata, modi da femminuccia. Mente da causidico, stile ammuffito e bianco
dalla polvere del tempo, oratore floscio e stucchevole. Depravato come tutti
gli uomini del «risorgimento». Sua moglie era la ditta della depravazione. Il
suo nome è ancora nell'aria. Tutti ricordano il suo viaggio trionfale
sino a Napoli. Abituata alle Tuilerie che ella frequentava come casa sua, andava
ai banchetti politici col marito nelle vesti vaporose. Bella, vedova di tre o
quattro mariti, padrona di una penna cosmopolita, che scriveva memorie e romanzi
e libri intimi con la prosa fascinosa e morbida di George Sand. Infedele come
l'amante di De Musset ha seminato l'Europa dei suoi piccoli e dei suoi grandi
amori.
Fra i suoi tanti adoratori
troneggiavano Vittorio Emanuele II e Luciani, finito a Santo Stefano. Il primo
ha dovuto scorpacciare dalle risa. Il suo ministro gli domandava tutto serio la
sua opinione sulla fidanzata che stava per diventare la di lui moglie. Il re
smascellava dalle risa.
Il grande re trovava buffa la sua
interrogazione. Hanno finito per convellere dalle risa tutti e due.
Il Luciani per la Rattazzi è
stato un romanzo. Fu un abbraccio che le prese il cuore. La Rattazzi non lo ha mai
dimenticato. Galeottizzato a vita ella gli ha fatto pervenire un mensile che
è durato fino alla sua morte e ha aiutato la madre e la sorella del
complice principale nell'assassinio di Raffaele Sonzogno, uomo veramente
sfortunato. Con una coltura politica da mangiare molti dei suoi contemporanei,
con uno stile superiore allo stile dei giornalisti del suo tempo, altamente
fiero della sua morale pubblica e privata è stato accoppato da sicari
volgari, mentre era al tavolino della Capitale a scrivere l'articolo di fondo.
Senz'accorgermi dimenticavo Urbano
Rattazzi. Prima di Aspromonte egli era presidente della camera subalpina.
Caduto Ricasoli, Vittorio Emanuele lo ha incaricato di formare la nuova amministrazione.
A quei tempi era così lungo e pallido che qualcuno lo ha paragonato a
una vecchia guaina raggrinzita. Impopolare, ha cercato di ingraziarsi
Garibaldi. Prima della catastrofe il generale è uscito dal gabinetto
convinto che il presidente del consiglio lo lasciasse fare. Ma poche settimane
dopo il Rattazzi era un altr'uomo. Per salvarsi dai voti della demagogia fece nascere
il famigerato «centro di sinistra», composto di anfibi Si era votato alla
ipocrisia. Sconfessava, negava, ripudiava. Garibaldi accorso a Genova a
presiedere alla riunione dei 400 delegati dei comitati di provvedimento, usciva
dall'edificio pedinato. Urbano Rattazzi aveva assunto la maschera del ministro
italiano. Non era più che un poliziotto. Il generale, alloggiato a
Trescore per una cura balneare, si vide arrestar di notte il colonnello
Cattabeni, l'eroe di Caiazzo, come complice dei ladri della banca Parodi a
Brescia, mettere sotto chiave Nullo e Ambiveri. A Sarnico e nei dintorni si
compiono delle razzie. Si ammanettano più di cento giovani côlti
senz'armi. Notate che Garibaldi era allora deputato e che poco prima aveva
regalato il reame a Vittorio Emanuele. Questo sproposito di essere generoso e
leale cogli ingenerosi e gli sleali ha fatto dire a Proudhon parole scortesi
sul generale. Non lo ha capito. Il generale non ha mai voluto fare da
sè. Egli è andato dappertutto con la bandiera di Vittorio
Emanuele. Ha voluto l'Italia unita e monarchica. Dove sentiva gridare Viva
Mazzini! Garibaldi rispondeva Viva Vittorio Emanuele! Vittorio Emanuele non lo
ha neanche salutato quand’egli gli ha presentato i Mille divenuti delle migliaia
lungo la campagna di liberazione e si accomiatava dai suoi con il famoso sacco
di castagne. Doveva conoscerlo. Era un re irriconoscente. Doveva serbargli rancore
per tanta ingratitudine. Ma Garibaldi era senza fiele. Non c'era mercato nelle
sue vittorie. Anche le sue collere non duravano più della tempesta. A
Brescia il popolo domandava a grandi grida la scarcerazione dei cento
arrestati. La truppa regia ha fatto fuoco sulla folla e ne ha ammazzati e
feriti un numero discreto. Garibaldi che non aveva in testa che «O Roma o
morte» ha messo pace. Non ha avuto che qualche parola indignata. È a
Catania ch'egli scoppia, ma scoppia contro Napoleone III. È stata
un'irruzione di lava cerebrale incandescente.
Non appena in Palermo si è
rovesciato sul protettore del papa. «Popolo di Palermo! il padrone della
Francia, il traditore del 2 dicembre, colui che versò il sangue dei
fratelli di Parigi, sotto il pretesto di tutelare la persona del pontefice, di
tutelare la religione, il cattolicismo, occupa Roma. — Menzogna, menzogna! Egli
è mosso da libidine, da rapina, da sete infame di impero; egli è
il primo che alimenta il brigantaggio. Egli si è fatto capo di briganti,
di assassini. Popolo del Vespro, popolo del '60, bisogna che Napoleone sgombri
Roma. Se è necessario si faccia un nuovo Vespro — 15 luglio 1862. G.
Garibaldi».
La monarchia è rimasta vile. Ha
fatto perseguitare i garibaldini. Ha denunciato il loro duce come un ribelle.
Napoleone aveva telegrafato. «Dov'è la mia bandiera (a Roma), sono io e
la Francia: Ed io non posso soffrire che siano tutti oltraggiati dai vituperii
che Garibaldi ci scaglia nei suoi proclami insurrezionali».
Vittorio Emanuele non si è fatto
aspettare. «Ogni appello che non è il suo, è un appello alla
ribellione, alla guerra civile. La responsabilità ed il rigore delle leggi
cadranno su coloro che non ascolteranno le mie parole. Re acclamato dalla
Nazione (quale modestia!), conosco i miei doveri. Saprò conservare
integra la dignità della Corona e del Parlamento, ecc.».
L'Isola di Sicilia, secondo il solito
sistema italiano, è stata subito posta in istato d'assedio. Garibaldi
non ha perduta la sua fede. Egli ha dichiarato in un momento in cui lui e i
suoi non erano più che ribelli, che egli era con Vittorio Emanuele. «Noi
siamo col Re e noi siamo tutti col Re a fare l'Italia». Egli associava la monarchia
con la rivoluzione.
Il piano dei palermitani era di
ammucchiare sui piroscafi i garibaldini e farli filare senza un minuto di
indugio e non fermarsi che su qualche spiaggia vicina a Roma. Ma il generale ha
preferito la Calabria.
Egli si è avviato coi suoi, dopo
aver udito il Te Deum in una chiesa. Questa contraddizione è spiegata da
queste parole del Guerzoni: «A compiere la tragicommedia degli equivoci, non
mancava più che preti cattolici in chiesa cattolica, benedicessero a Dio
per la caduta del potere temporale».
Il concentramento delle camicie rosse
è avvenuto nel bosco della Ficuzza, a, poche miglia dalla capitale
dell'isola. Il suo ordine del giorno conteneva queste parole «Fatiche, disagi,
pericoli sono le solite mie promesse: e quelle promesse che spaventerebbero
anime deboli e mercenarie, sono uno stimolo, io lo so, per i coraggiosi uomini
che mi accompagnano». E via con la bandiera «Italia e Vittorio Emanuele, o Roma
o morte».
Io non ho spazio che per il riassunto.
Le forze garibaldine da Catania, sono sbarcate a Melito, in Calabria. Per
evitare i dodici battaglioni di fanteria e di bersaglieri regi, Garibaldi ha
spinto i suoi fino ad Aspromonte.
Era seguito. L'incarico lo ha avuto il
colonnello dei bersaglieri Pallavicino. I Garibaldini erano considerati dalla
truppa regia per dei malfattori, dei ribelli, dei camorristi, dei filibustieri
e dei briganti.
Il Pallavicino aveva avuto dal generale
Cialdini «l'ordine di fare ogni sforzo per raggiungere Garibaldi, ed inseguirlo
sempre, senza mai dargli posa, se cercasse di sfuggirgli; di attaccarlo e di
distruggerlo se accettasse il combattimento». Aggiungeva che non bisognava
venire a patti e non accordargli che la resa a discrezione.
L'accampamento è avvenuto la
sera del 28 agosto 1862, sugli altipiani di Aspromonte, a nord ovest, nel luogo
chiamato i Forestali. La colonna garibaldina era estenuata dalla fame, dalle fatiche
e dalle marce lunghe e disastrose. Il quartiere generale del generale era nella
stanza di una delle due casupole. La notte dal 28 al 29 fu freddissima e
piovosa. Ad intervalli pioggia dirotta e venti fortissimi. Le truppe regie
erano a due ore da loro. Garibaldi, per evitarle, si rimise in cammino, passando
coi suoi un piccolo fiume e fermandosi in una fittissima foresta. Si videro i
regi che salivano dalla parte opposta. Garibaldi non voleva combattere. Non
aveva messo avamposti. Diede ordine a tutti i suoi ufficiali di non far fuoco.
Egli era in piedi nel suo ampio mantello grigio chiaro, foderato di raso,
rovesciato sulle spalle poderose, col canocchiale, che seguiva i movimenti dei
bersaglieri e della fanteria. Intorno a lui era incominciata la gragnuola di
piombo. Egli gridava, si gridava lungo le linee garibaldine: «Non fate fuoco!».
I bersaglieri facevano fuoco e andavano verso le camicie rosse. Le fucilate
ispessivano. Qualche garibaldino non ha saputo frenarsi e ha fatto scattare, il
grilletto. Avrebbe potuto cominciare îl massacro. Non si è voluto. Tutti
gli ufficiali garibaldini urlavano. Garibaldi stesso era divenuto rauco.
Cessate il fuoco! Non fate fuoco! Le trombe infuriarono per la cessazione del
fuoco. Non combattete! Garibaldi ferito da due palle, mentre le palle regie
infittivano, si è scoperto il capo gridando ripetutamente: Viva
l'Italia! Non fate fuoco! Lasciateli (i bersaglieri) avvicinare. Non fate fuoco!
I suoi ufficiali lo trasportarono e lo
adagiarono sotto un albero. Il generale accese un trabucos. Non combattete,
ripeteva fumando.
È stato un quarto d'ora
terribile. La monarchia ringraziava il donatore di regni con le palle regie e
dileggiava i vincitori col nome spregevole di garibaldineria. Il primo dei regi
a farsi vivo davanti al generale è stato un imberbe luogotenente pieno
di burbanza. Il generale non gli ha permesso di andare dinanzi a lui senza togliersi
la spada. Era un parlamentario.
— So da trent'anni e meglio assai di
voi, che cosa sia la guerra; apprendete che i parlamentari non si presentano in
tal guisa.
Anche agli altri ufficiali regi il
generale ha fatto togliere la spada. I medici bagnavano le ferite del generale,
dicendo che quella del piede era gravissima. Fu convenuto che al generale si sarebbe
lasciata la spada e che il convoglio garibaldino sarebbe stato scortato da un
battaglione di bersaglieri in distanza. I morti tanto da una parte che dall'altra,
erano troppo pochi per occuparsene.
Si discese. Il generale venne fatto
sostare ad una capanna dopo tre ore di cammino. Il Governo lo faceva viaggiare
nel disagio. Giunto al Varignano il suo appartamento si riduceva ad una camera
«non molto spaziosa, dalle pareti ricoperte di carte felpate, cascanti a
brandelli. Per un ferito mancava di tutto. Le prime filacce sono state portate
da Laura Mantegazza».
Si è venuti a sapere che
l'arresto del generale Garibaldi, coincideva con l'assedio nel napoletano.
Al Varignano, come si è veduto,
si mancava di tutto. La White Mario è stata al suo letto. Le signore
inglesi hanno mandato al generale il chirurgo ed il letto meccanico. Poco dopo
c'è stata l'amnistia! L'amnistia è il perdono sovrano. Per i
prigionieri politici il perdono è un oltraggio.
Garibaldi è ritornato a Caprera.
Per noi l'importanza dell'avvenimento
è che la monarchia non voleva Roma. Senza le violenze di Garibaldi, Roma
sarebbe ancora papale.
È divenuta capitale d'Italia,
perchè Bonaparte era in frantumi. Aveva consegnata la spada imperiale al
re della Germania.
La breccia di Porta Pia rappresenta una
svergognatezza italiana: la solita viltà. — Senza Sedan, senza la caduta
imperiale, la figura dinastica e il potere ministeriale non avrebbero osato.
L'Italia ufficiale è stata
gagliarda e prepotente quando il papa non aveva che quattro svizzeri a sua disposizione.
Aspromonte è dell'altro sangue
proletario. È dell'altra gratitudine monarchica. È un'altra pagina
che deve figurare nel cinquantenario della risurrezione italiana.
Sangue! sangue! sangue!
In cento anni di vita pubblica non
c'è uomo che sia stato pianto come Felice Cavallotti. Nei cento anni
sono inclusi Balzac, Victor Hugo, Zola, Castelar, Gambetta, Bismark, Manzoni,
Gladstone, Verdi — gente celebre in tutte le case di tutti i paesi, gente che
ha fatto storia, che è nella storia, che rimarrà nella storia.
Alla loro morte le penne giornalistiche
non sono state quiete. Hanno adagiato i cadaveri nella prosa dell'apoteosi.
Tutti loro hanno suscitato rimpianti, rincrescimenti, momenti gloriosi o epici.
Ma nessuno di loro è morto nella commozione nazionale come Felice
Cavallotti. Giunta la notizia ferale tutti gli occhi si sono riempiti di
lagrime. In tutte le città simultaneamente si è sentito il lutto;
a Palermo e a Napoli, a Roma e a Firenze, a Milano e a Torino. Si sono veduti funerali
grandiosi come quelli di Victor Hugo e di Manzoni. Le moltitudini erano
composte di ammiratori, di spettatori. Il carro funebre di Felice Cavallotti
era seguito da tutto un popolo straziato, lagrimoso, che si disperava. Pareva
che nella bara ci fosse qualche cosa di ciascuno e di tutti. Era morto il
difensore di tutto un popolo, l'accusatore di tutti i ladri ministeriali, era
spenta la voce alta e sdegnosa che aveva iniziato la vita parlamentare
volgendosi alla destra con il dito puntato e dicendo: Coscienze inquiete,
rispettate le coscienze tranquille. Dopo la sua morte, si è detto al
cimitero, potevano sbucare dalla tana della loro paura i vibrioni della
politica, i peculatori, i venditori di muletti, come i Crispi e i Laurenzana,
ecc., ecc. Tutte le lagrime si son confuse sulla scalinata del Famedio del
cimitero monumentale. Le lagrime dei socialisti e le lagrime dei repubblicani e
dei democratici.
Molti sono stati giornalisti. Nessuno
è stato come lui, neppure il Rochefort dei tempi imperiali. In un
periodo in cui tutti erano venduti o in vendita, in cui tutti si inginocchiavano
alla monarchia per delle sinecure, per delle cattedre, per delle imprese
lucrose egli è stato un leone che ruggiva per la moralità di
tutti. È stato lui che ha denunciato i pennivendoli stipendiati coi fondi
segreti, che ha preso per il collo i Bonghi, i Torelli Violler, gli Emilio
Treves, i Brenna, i Dina, gli Avanzini, i Fortis, i Papa, quando i Papa
scrivevano nel Pungolo e nella Arena di Verona.
Duelli, carcere, processi, condanne, persecuzioni, sono stati i
primi anni della sua vita pubblica. C'è stato un momento in cui
Cavallotti e Bizzoni sono stati i d'Artagnan del giornalismo milanese. Non
rifiutavano mai una sfida. Hanno sfidato tutta l'ufficialità degli
ussari in un giorno. Si sono battuti tre volte in una sera. Sono loro che hanno
rivelato i tripotages della Regìa cointeressata.
Alla Camera Felice Cavallotti non ha
avuto uguali. Per tre anni di seguito non ha lasciato in pace il trasformismo
di Depretis — il Depretis che manteneva una legione di «giornali obbrobrio»,
che pagava a un tanto il mese gli improperi grossolani e quotidiani degli
abbietti scribi contro gli avversari del Governo. Depretis lo ha castigato
facendo lavorare i suoi prefetti e facendolo lasciare sul lastrico in cinque
collegi nei quali era simultaneamente candidato. Egli ha dovuto telegrafare ad
un amico:
— Coccapieller (scozzone) eletto, io
no.
Dopo Depretis, Crispi. Lotta titanica.
Egli lo ha sventrato coi saccheggi fatti alla Banca Romana, colla vendita del
gran cordone dell'Annunciata a Cornelius Herz, con le truffe bancarie col mezzo
dei Favilla, direttori della Banca di emissione, con l'inchiesta parlamentare
dei cinque che ha fatto inorridire, con le rivelazioni sui giornalisti che il
grande ministro fingeva di pagare del suo.
Dal 60 al 98 la storia è tutta
piena di lui. Garibaldino, scrittore dell'Indipendente di Dumas padre, redattore
della Gazzetta di Milano, collaboratore del Gazzettino Rosa,
dell'Unità Italiana, del Dovere, direttore del Lombardo,
difensore dei deboli, espurgatore degli ambienti, propalatore di fede nella
democrazia, demolitore di tutte le corruzioni, di tutti i farabutti, di tutti i
ventraiuoli di quel tempo. Tempra mirabile. Egli è stato in lotta con
tutti i procuratori generali, con tutti gli assassini ministeriali. È
Felice Cavallotti che ha scritto le più belle e virulente pagine su
Monti e Tognetti, su Barsanti, su Oberdan, appesi dal Papa, fucilati
dall'Italia e dall'Austria.
La giustizia rende ancora servigi. Ma
in quei tempi era peggio di una prostituta. Non esisteva che per eseguire
ordini. Potrei citare migliaia di casi portati alla Camera da Cavallotti. La
polizia era così dispotica che poteva far viaggiare i galeotti da un
luogo all'altro e liberarli per avere delle rivelazioni politiche e per
servirsi di loro come spie e come delatori. Cito uno degli ispettori di polizia
più scandalosi: Agostino Fassio che ha messo in libertà un
omicidiario per delle delazioni.
Non mi occupo della vita letteraria di
Felice Cavallotti: non ne ho nè il tempo nè lo spazio. Nè
mi occupo delle sue corse a Napoli e a Palermo nelle giornate colerose. Mi
occupo solo della sua fine. Ce ne ricordiamo tutti. Non si risale che di
tredici anni. Felice Cavallotti era di nuovo sul terreno. Il suo avversario era
Ferruccio Macola, direttore della Gazzetta di Venezia e deputato alla
Camera. Non ci voleva molto per provocare un uomo dalla pelle sensibile come il
deputato del patto di Roma. Il Macola con il suo cinismo lo aveva provocato
più d'una volta. L'ultima è stato quando lo ha chiamato
«bacchifilo di Corteolona». Non c'è stato più pace. Sconsigliato
non ha voluto cedere. Macola era più alto di lui. Sul terreno, la lunga spaccata
in lungo braccio, gli dava il vantaggio di mezzo palmo sulla lama ed il braccio
di Cavallotti.
Il resto è saputo. Alla terza ripresa la punta della spada
di Macola gli ha reciso la carotide. In un minuto l'Italia intera sapeva della
sua morte. Si singhiozzava nelle vie e nei ritrovi, nelle redazioni dei
giornali, negli ambienti parlamentari. La gente si stringeva le mani come per
consolarsi, si baciava, si abbracciava, piangeva insieme.
Cavallotti ha avuto il tempo di dire
che perdonava al suo uccisore che ha voluto che il duello avvenisse col
guantone per sopprimere i colpi al braccio e rendere più micidiale lo
scontro. Ma il popolo non ha mai cessato di inseguire il Macola col nome di
assassino.
Con la sua sepoltura il giornalismo
italiano ha perduto i denti. Tutte le vigliaccherie sono rientrate nella vita
pubblica, tutti i birbaccioni e i mascalzoni hanno rialzata la testa. Senza di
lui si è fatto il '98. I giornali del sovversivismo sono scomparsi. La
tribuna parlamentare non ha più avuto che dei ragionatori e dei calcolatori.
Senza le giornate dell'ostruzionismo il sovversivismo parlamentare potrebbe
essere considerato una conversazione di salotto. Nesssun deputato ha osato domandare
un'inchiesta sulle stragi dei Bava Beccaris. Lo straziatore di popolo ha potuto
andare e sedere nella seconda Camera indisturbato con l'elogio di sua
maestà Umberto I.
Nessuno ha più fiatato sugli
appannaggi reali. Nessuno incute più spavento. L'Italia moderna è
il trionfo del Corriere della Sera. L'ambizione massima del giornalista
e del deputato dei nostri giorni è di essere corrierista. Non c'è
più elevazione professionale. Lo stipendio è tutto. Chi lo ha
grosso è più rispettabile. È l'epopea del ventre. Il ventre
è diventato una teoria. Non vi sono più nè moderati
nè radicali nè repubblicani nè socialisti. Lo stipendio ha
distrutto anche le nuances.
Il nostro cervello proletario non può scalcagnare per il
cinquantenario che con una ripugnanza indicibile. L'Italia non ha diritto a
sedere fra le nazioni civili. È troppo sanguinaria. È troppo
subdola, troppo vile. Troppo infame. Al suo dorso non ci sono che delitti. Non
si sa da che parte evitarli. La trovo bugiarda, ladra, vituperevole, assassina
dovunque. Sui campi della miseria, sui campi della giustizia, sui campi
coloniali, sui campi di battaglia, sui campi parlamentari. Essa è sempre
darwiniana. Divora, finisce. Il suo ideale è la soggiogazione. Tutti i
suoi rappresentanti alti e bassi sono stati al suo livello; bestiali. Non
parliamo dei suoi ministri. È una collezione di malvagi. Non cito che
quelli che vengono sulla punta della penna. Cavour. Chi è Cavour? Lascio
rispondere Guerrazzi suo contemporaneo. «Non appena Garibaldi si mette in
viaggio gli lancia dietro qualcuno per levargli di bocca la Sicilia, ed
impedirgli di andare a Napoli; si serve perfino del re per sconfiggerlo;
Garibaldi acquistò Napoli e allora più che mai intorno al
generale per levargli Napoli con minacce e frodi d'ogni maniera. Io ho letto,
diceva Guerrazzi, che bisognava pigliare Garibaldi e fucilarlo» È stato
Acton, il futuro ministro della marina, che ha cannoneggiato il Lombardo e il
Piemonte quando sbarcavano a Marsala. Rattazzi fa aggredire a fucilate i
garibaldini ad Aspromonte per ringraziarli di avere arricchita la corona del
reame. Garibaldi è compensato con una palla al piede, è
trascinato al Varignano come un malfattore da un colonnellaccio come il
Pallavicino, volgare e villano, ed è lasciato senza medici e senza il
necessario per un ferito. È l'Inghilterra che si quota per mandare al
generale delle camicie rosse, un letto e un chirurgo.
I nostri militari! I nostri funzionari!
Non mi occupo dei mille e due.
Essi sono al disotto della mia
considerazione. Al disopra di quella cifra sono tutti usurpatori odiosi,
malandrini autorizzati al malandrinaggio legale, leghisti del male, malfattori
in montura e in redingote, svaligiatori di classi e di masse.
State a sentire. Noi siamo andati in
Sicilia. Abbiamo educato i siciliani coi massacri. Tutta la burocrazia avariata
e cretina è stata mandata all'isola dei Vespri.
Gli isolani sono stati dichiarati dai
generali Govone e Cervetto «conquistatori» e «barbari». E sapete perchè?
Perchè non volevano assoggettarsi alla coscrizione. Per militarizzare
l'isolano i rappresentanti dell'Italia dell'arrivismo si sono serviti della
tortura. Cito un caso: il caso Cappello. Egli era un sordomuto. Lo si sottopose
alla visita e non si credette nè al suo mutismo nè al suo sordismo.
Lo si sottopose alla tortura dei bottoni di fuoco sulle carni. In meno di mezz'ora
tutto il suo corpo non era che una vasta piaga. Perchè non andasse
perduto il documento vivo, lo si è fotografato nudo.
Chi era il civilizzatore?
Uno dei tanti ufficiali che hanno
insanguinato del sangue degli altri la Penisola. Certo Dupuy — un vero brigante
che ha fatto scuola. Egli ha avuto milioni di imitatori. Il Dupuy era savoiardo
e capiterà un'altra volta sotto la mia penna. Ma prima di abbandonarlo
permettetemi di adagiarlo in un altro episodio. Egli con i suoi soldati, si
è presentato di notte a una cascina del territorio delle Petralie, dove
lo sgherro supponeva dei renitenti alla leva, dei briganti. Non s'è
voluto aprirgli. Che cosa ha fatto il nostro tenente? Fece circondare la
cascina di fascine, la fece incendiare e lasciò che tutta la famiglia vi
morisse asfissiata.
Ho citato il Dupuy perchè
è un tenente che troviamo in tutti i movimenti italiani.
Tutti noi ci ricordiamo dello
spaventoso nome del Livraghi, tenente dei carabinieri, al quale era stata
affidata la pubblica sicurezza in Eritrea. Egli seppelliva gli indigeni vivi
che svaligiava. La descrizione dei suoi orrori è stata fatta in
Parlamento da Cavallotti, da Colaianni e da Prinetti. I suoi assassini hanno
arricchito il dizionario di un verbo: livragare vuol dire scomparire; essere
sepolti vivi. Dupuy è sempre il prototipo. In Cina egli è stato
rappresentato da Modugno, accusato al suo ritorno di uxoricidio. Brutta figura.
In casa dei cinesi ha seppellito due fratelli nelle buche fatte scavare da lui
e non li ha lasciati uscire che quando hanno rivelato dove avevano nascosto le
loro piastre. Sotto la sua «tenda» scudisciava le sue ordinanze legate agli alberi.
Due delle vittime sono fra i nostri
pompieri.
Di tenenti come il Dupuy ce ne sono
delle migliaia. Cito, tanto per documentare, il tenente Lionello, quello del
ponte Albersano. I «villani» andavano verso di lui con il cappello in mano, e
lui li ha puniti dell'audacia con una scarica di piombo. Sono morti e per lui
si trovò la scusa che nella notte prima aveva dormito con una delle sue
ganze. Se volete rimanere nell'esercito, potete salire o discendere senza
perdere la figura sanguinaria. Fra i marescialli dei carabinieri, registro il
Centanni. È stato decorato con l'elogio parlamentare di Giolitti. Se
salite trovate il Pallavicino, il De Villata — due Fra Diavoli che indossavano
la montura dell'ufficiale italiano.
Nella colonia Eritrea i tradimenti dei
grandi ufficiali, le vendette dei bassi ufficiali, le carneficine compiute
sugli indigeni, sono infinite. Nei primi cinque anni di occupazione si sono compiuti
dei macelli. Io mi ricordo in questo momento dei 18 «ribelli» fatti fucilare
lì per lì, sulla spianata di Asmara, nel settembre del 1891. Mi
ricordo dell'assassinio di Batho Agos, capo dell'Ocalè-Cusai —
l'indigeno più rispettato dell'Eritrea, come scriveva Ferdinando
Martini, colui che sopra tutti aveva dato una grande prova di fedeltà
all'Italia. E perchè lo si è fatto assassinare? Perchè i
nostri politici sono doppi, perchè tutto ciò che esce da loro è
doppiezza. Batho Agos, uomo schietto, è divenuto nemico del nostro
esercito quando ha saputo che il Baratieri aspettava il «momento risolutivo»
per mandarlo all'altro mondo. Non c'è lealtà nè fra i
funzionari nè fra i militari. Sono ancora nelle nostre orecchie i
tormenti e le stragi inflitte agli indigeni nelle carceri del Benadir.
Gli ufficiali colpevoli sono stati
assolti, come è stato assolto, con la fuga, il Livraghi. Non lo si
è fatto estradare dalla Svizzera. Lo si è lasciato in pace. Gli
si è permesso di farsi un'altra posizione come un qualunque galantuomo.
Adesso è divenuto così sfacciato da tentare la propria riabilitazione
con un processo di diffamazione. Non c'è giustizia, non c'è
lealtà fra gli svaligiatori della terza Italia.
Crispi è stato il prototipo dei
malviventi.
Come presidente dei ministri ha venduto
a Cornelius Hertz una decorazione monarchica per 50 mila lire, ha mentito
quando ha dichiarato il documento contro i Fasci «firmatissimo», come ha
mentito quando ha finto di sposare Rosalia Montmasson. Egli è stato
veramente un galeotto. Dal giorno che ha detto che la monarchia univa e la repubblica
disuniva non ha avuto più ritegni. Ha innalzato la bandiera del
paltoniere.
Ha mantenuto un esercito di
pennivendoli, molti dei quali sono ancora vivi, a mille, a duemila, a
quindicimila lire il mese. Megalomane, ha lasciato che il Baratieri conducesse
al macello un esercito di 40 o 50 mila uomini contro Menelik. Si è
servito largamente del domicilio coatto. Se ne è servito per delle vendette
politiche, per disfarsi dei socialisti che non poteva più ammucchiare nelle
prigioni, perchè, come diceva Felice Cavallotti, le vittime erano
già «accatastate nei carnai della nuova Italia». Non parliamo della sua
azione nel processo Lobbia, del plico Lobbia, contenente le lettere rubate a
Paolo Fambri. Ci basti citare i suoi ultimi traffici inclusi nella inchiesta
dei sette e le sue ultime ruberie colla compiacenza del Favilla, il direttore
della Banca di emissione di Bologna. Non è più un mistero che un
uomo come lui — ed è stato detto quando era in vita — si è
servito a piene mani dei fondi segreti — come è stato detto di Nicotera
— i due rivoluzionari che hanno massacrato più giornali di tutti gli
altri ministri, che hanno sciolte più organizzazioni politiche e operaie
di tutti gli statisti lungo un secolo di vita sociale, che hanno messo in
prigione più sovversivi o sobillatori di tutti gli altri ministri messi
assieme.
Siamo così poco avanzati nella
civiltà che ogni alito di opinione libera agita i nostri statisti: i
quali non si sentono più sicuri senza ricorrere alle leggi eccezionali,
agli stati d'assedio, agli imprigionamenti, agli scioglimenti di associazioni,
alle soppressioni della stampa, ai pedinamenti polizieschi, ai domicilii
coatti.
Non c'è regione italiana che non
sia stata dominata, a periodi, dai Lamarmora, dai Cialdini, dai Govone, dai San
Marzano, dai Morra di Lavriano, dai Nestore Malacria, dai Bava Beccaris, tutti
militari spietati che hanno lasciato dietro loro cataste di cadaveri,
moltitudini di galeotti, gente mutilata, sconciata, orribilmente sconciata.
Generali e ammiragli di cartone,
stupidi, vigliacchi davanti ai veri nemici. Cito il Persano che non si è
mosso dalla nave ammiraglia che per fuggire su un'altra senza la bandiera ammiraglia
che rivelasse la sua presenza al nemico. Cito Baratieri, vero cacone in guerra,
che non ha saputo neanche trovare la via del suicidio, che non ha trovato che
la via della fuga a pancia a terra. Cito il generale Corvetto che ha negato di
avere calunniato la Sicilia e i siciliani con una lettera anonima al Dario Papa
dell'Arena di Verona, azione biasimata in Parlamento.
Le vittorie dei nostri generali brutali
e sanguinari sono tutte fatte di «combattimenti» contro popolazioni inermi,
disarmate, senza idee insurrezionali. In altri paesi i nostri gros bonnets
non avrebbero avuto neanche l'onore di essere considerati degni della
fucilazione. Sarebbero stati squartati e appesi alle porte cittadine. Essi non
sono mai stati uomini. Sono stati dei briganti.
Un ras qualunque, come l'Aluea, li ha
messi in fuga. A Dogali si sono lasciati trucidare. I nostri ufficiali erano
buoni di tramutare o alterare i trattati con Menelik per suscitare una guerra,
che avrebbe conquistato loro delle promozioni. Ma ad Abba Garima lo stato
maggiore del quartiere generale non solo non si è valso degli apparecchi
ottici o degli eliografi per le segnalazioni che avrebbero potuto comunicargli
a 96 chilometri di distanza, il numero dei nemici, non solo si è
contentato di essere senza informazioni, ma si è lasciato sorprendere
come un mucchio d'imbecilli e come un corpo d'imbecilli si è precipitato
di burrone in burrone, di valle in valle, per salvare la propria pelle. Erano i
nipoti dei generali di Novara e di Custoza.
Sua eccellenza il tenente generale
Oreste Baratieri merita una pagina speciale. Perchè mentre si è lasciato
aplaudire in Parlamento e si è lasciato portare in trionfo per le
città italiane per delle supposte vittorie, come quella di
Sanafè, egli ha poi dimostrato di non sapere neppure trovare il coraggio
di morire come morivano i generali napoleonici nei momenti della disperazione e
dell'impotenza.
Da noi, con noi, contro di noi, sono
eroi. Assumono tutti l'aria dei Napoleoni, dei Wellington e dei Moltke.
Sembrano tutti reduci da Austerlitz, da Waterloo o da Sédan.
Il generale Corsi ai tempi dei fasci ha
paragonato la Sicilia a una mina preparata da secoli. Non vi ha veduto che un
inferno di odii in fiamme. Il generale Morra di Lavriano è partito da
Napoli alla testa di 40 mila soldati, tanti quanti se ne mandarono più
tardi in Africa contro le «orde» di Menelik. È partito salutato come un
Garibaldi liberatore. Con lui è stato proclamato (4 gennaio 1894) lo
stato d'assedio — vale a dire il flagello che anticristeggia sulla gente
assediata.
Ecco l'amnistia di Crispi. Il macello,
la carneficina, lo sfollamento delle carceri. Deputati in prigione, ribelli in
prigione, tribunali di guerra, terrori polizieschi, terrori bianchi e rossi.
Condanne selvagge.
A Bernardino Verro, 16 anni di galera
per reato di «sobillazione». A Giusepe Sparango, tre anni di reclusione per
avere «favoreggiato» la fuga di Bosco, di Verro e di Barbato. Spatiglia —
sordo-muto — condannato per grida sediziose. Rosalia Perrone per occultazione
di armi (un fucilda caccia).
Al tenente dei carabinieri Colleone,
medaglia al valore militare per avere ordinato il massacro del 5 gennaio.
Reazione trionfante. I ribelli erano dediti a ogni sorta di delitti. Saccheggi,
incendi, assassini, rapine. Arresti in massa di contadini e di lavoratori
ignoti. Sprigionamenti dei delinquenti comuni per lasciar posto ai sabotatori.
In quindici giorni si sono arrestati quasi tutti i giovani di settantasei
paesi.
Mille sono stati inviati al domicilio
coatto senza processo. Venivano solo casellati per malviventi, pregiudicati,
ammoniti. Favignano, Pantelleria, Lampedusa, Ponza, Ustica, Lipari, Tremiti,
Porto Ercole, rigurgitavano di odiatori di cappedda. Sequestri di
telegrammi, censura preventiva di giornali. La punizione più umana era
fatta di bastonate. Bastonate ai vecchi e ai giovani, ai ragazzi e alle donne.
Tutto sommato il lavoro di Morra di
Lavriano, con i tribunali militari, è stata una distribuzione di 800
anni di prigione. I delinquenti siciliani erano saliti nelle bocche militari a
1645. De Felice, il capo della congiura per vendere l'isola alla Francia e alla
Russia, diciotto anni di galera.
Roba da matti. Un semplice delegato con
il sedicente trattato di Bisacquino «firmatissimo» ha potuto compiere una
rivoluzione a rovescio — ha potuto popolare i tribunali di alti spallinati incaricati
di schiacciare la «sedizione». Il generale Heusch, nella Lunigiana, non
è stato inferiore a Morra di Lavriano.
La sua massima condanna è stata
di trent'anni, per delitti retroattivi, all'avvocato Molinari.
Italia di farabutti, di ladri, di
statisti manicomiali, tu mi fai riabilitare Ninco Nanco, Cipriano e Giona, La
Gala, Domenico Papa, Giovanni D'Aveizo, Girolamo Sarno, Crocco, Caruso, Cappa
di San Fede, Pilone, e voi tutti lavoratori di bosco. Voi siete stati più
onesti. Voi siete nella storia criminosa meno feroci dei nostri generali che
hanno avuto il petto coperto di decorazioni e che sedettero al Senato.
Scellerati!
È giunta anche per voi l'ora del
giudizio. Il proletariato incide i vostri nomi sul frontone nazionale del
cinquantenario per additarvi ai posteri come mostri del nostro tempo.
Il vostro posto è nel museo
degli orrori umani. Voi siete passati da noi come una peste bubbonica.
Avete compiute più stragi della
malattia pestifera.
È un episodio che rivela il
sistema governativo di tutti i cinquant'anni.
L'ho già detto. Dove c'è
alito di opinione libera eccoti un'ondata di mercenari dell'ordine, che vi si
precipita sopra e lo soffoca.
Ministri di destra e ministri di
sinistra, al potere erano tutti forcaiuoli.
Documento.
Nel 1870 era al potere il gabinetto
più lurido e più efferato di tutto il cinquantenario. Era
presidente dei ministri Marco Minghetti e ministro dell'interno Cantelli, il
più esecrabile del regno italiano.
L'uno e l'altro sono stati così
svergognati, che hanno dichiarato in Parlamento che avevano diritto di
presentare e raccomandare agli elettori i candidati amici del ministero.
La loro insensibilità morale era
così alta che scarceravano i detenuti per farne degli elettori; che
mandavano all'urna tutti gli impiegati di questura, tutti i carabinieri, tutti
i questurini, tutti i soldati di residenza nei collegi.
Cose inaudite! Le liste elettorali
venivano mutilate, alterate, manomesse, tramutate all'ultima ora, alla vigilia
delle elezioni, quando era già pubblicato il decreto delle elezioni
generali.
L'ingerenza ministeriale nelle elezioni
ha il compito di additare pubblicamente i prediletti del ministro A o del
ministro B; era un principio governativo.
L'impiegato che contravveniva a questo
assioma, veniva licenziato o mandato al domicilio coatto.
Nel '74 la sinistra diveniva
possibilista di giorno in giorno.
Il ministro Minghetti aveva
incominciato a sentire che non c'era più che la violenza che potesse
trattenerla o frenarla.
E allora, non appena ha saputo che i
repubblicani si dovevano radunare a Villa Ruffi, in aperta campagna, ha messo
sottosopra l'esercito e la pubblica sicurezza.
Li ha messi in agguato. I giornali
erano tutti prezzolati. Il ministero era l'opinione pubblica.
Ha fatto circolare che in quella
regione era il focolare dei congiurati. Tutti vedevano facce «sospette».
I «congiurati» non erano ancora
all'esordio della discussione che nella villa c'è stata una irruzione di
poliziotti e di soldati al servizio della polizia. Non ne ricordo bene il
numero, ma gli aggressori legali ne hanno arrestati trentasei.
Fra i trentasei erano Aurelio Saffi e
Fortis, divenuto più tardi presidente dei ministri d'Italia.
Aurelio Saffi era uno dei repubblicani
più eminenti e più venerati.
Gli arrestati vennero trattati da
malfattori. I prigionieri sono stati chiusi in uno stanzone della Villa per 36
ore, senza mangiare e poi vennero ammanettati e condotti a piedi, in mezzo a
nugoli di carabinieri, di agenti di P. S. e di soldati, dalla Villa Ruffi a
Spoleto e chiusi nella Rocca di quella città, come se fossero stati i
peggiori malfattori d'Italia.
Il ministero, per spaventare il corpo
elettorale, ha diffuso nella penisola che gli arrestati erano giacobini in giro
col petrolio, con la dinamite e col coltello.
Non si sono processati. Sono stati
trattenuti in fortezza per cinque mesi.
La discussione in Parlamento è
stata iniziata da Benedetto Cairoli. Egli allora ha detto la verità. Gli
arresti di Villa Ruffi erano stati ordinati per ragioni elettorali. Si voleva
indurre gli elettori a stringersi intorno al Governo, contro i facinorosi.
— Sì, o signori, diceva l'on.
Luigi Miceli, io posso parlare perchè ero presente. Noi c'eravamo
radunati alla fine del gennaio 1870 a San Verano, in casa di Aurelio Saffi,
presenti molti di coloro che sono stati arrestati. La nostra discussione
è stata sulle elezioni generali. Noi non ci siamo occupati che del
contegno che doveva tenere il partito democratico, che di provvedere alla pubblicazione
dell'organo di partito e di trovare i modi più acconci per non essere
più confusi con l'Internazionale.
È inconcepibile. Il Cantelli
è stato peggiore del Maupas francese. È stato uno sgherro borbonico.
Non si è tolta la maschera. Si è sottratto alla responsabilità
degli arresti con la scusa dell'assenza, ma li ha giustificati dicendo che
senza di essi si sarebbe compiuto un disastro nazionale.
Dopo il Cantelli c'è il
Vigliani, guardasigilli, che ha difeso i magistrati che hanno speso cinque mesi
per venire alla conclusione che non c'era sufficiente materiale per
processarli.
La tornata alla Camera sui fatti di
Villa Ruffi pare una pagina dei nostri tempi. Al potere sono tutti Cantelli,
all'opposizione sono tutti Cavallotti.
Il Cairoli, prima di diventare
presidente dei ministri, presentava questo ordine del giorno:
«La Camera, considerando che la
libertà individuale e l'inviolabilità del domicilio consentita
dallo Statuto, furono offese dagli arresti di Villa Ruffi, passa all'ordine del
giorno». Crispi è rimasto fino allora repubblicano nella zona
legalitaria. «Voi vedete, o signori, quello che fecero i repubblicani dopo il
'51. Io ne vedo a sinistra, ne vedo a destra e ne scopro uno anche sul banco
dei ministri. I repubblicani si sono battuti sotto la bandiera monarchica. Questa
bandiera non l'abbiamo tradita e non la tradiremo. Ma non a questa bandiera
soltanto date tutta l'efficacia di quello che è avvenuto dal '50 in poi;
datene anche una parte a coloro che si unirono a voi e che fecero con voi e col
principe quelle istituzioni delle quali noi tutti godiamo. Il partito repubblicano
è sempre stato di aiuto al regime attuale e dell'opera sua ha dovuto
anche sentire le dolorose censure degli antichi amici, coi quali aveva aspirato
e accanto ai quali si era battuto».
Tuttavia la mozione Cairoli è
stata respinta con 232 voti contro 121.
Così gli arresti di Villa Ruffi
sono stati giustificati. Non era possibile che avvenisse altrimenti.
L'Italia è il paese degli
sbirri. Tutti gli sbirri sono stati i padroni dei cittadini.
Da colui che era questore con Morra di
Lavriano, al questore novantottesco di Milano, noi non abbiamo avuto che
briganti nello stifelius dei capi della pubblica sicurezza.
Del Prina, dei Festa, dei Livraghi,
gente che ammazza a fungate, capace di denunciare il proprio padre, di
denunciare la propria madre, di assassinare il più intimo dei propri
amici.
I nostri padri sono stati dei sudditi.
Noi siamo dei dipendenti. Un mascalzone
a tre mila lire l'anno ci può sopprimere.
Questo, è la gloria del nostro
cinquantenario.
È un documento della vita
nazionale. C'è gente che si sbattezza tutte le volte che si descrive il
proprio paese come è, non come dovrebbe essere. È gente che
preferisce mettere sulla piattaforma nazionale la ricchezza, l'opulenza,
l'eleganza, l'intelligenza. È gente sorda, è gente cieca,
è gente che crede che l'ipocrisia sia del sacerdozio italiano.
Un giornalaccio meridionale delle
Puglie ha creduto di rompermi in quattro con uno stupido articolo nel quale io
figuro come un «sindacalista terribile», perchè ho proposto che durante
le feste cinquantenarie si faccia una esposizione dei pitocchi d'Italia.
Lo scribivendolo deve essere un
cretinoide. Che diavolo! Lamentarsi perchè uno del nord si sente angustiato
nelle feste per la conglorificazione dell'Italia dei pezzenti.
Ma guardatevi intorno. Voi non
conoscete neppure la vostra casa. Ci sono le Puglie, c'è la Basilicata,
c'è la Calabria che sono depositi di indigenti. Vi si muore di fame, vi
si muore di malaria, vi si muore di inedia. Sono paesi dove i milionari non
hanno ancor provato le emozioni dei benefattori, dove non c'è beneficenza,
dove i poveri contadini periscono sulle strade o nei tuguri per mancanza di
ospedali; dove i brefotrofi sono spegnitoi dell'infanzia, dove il contadino non
trova da mangiare lavorando tutto l'anno, dove l'analfabetismo è sommo,
dove non c'è industria, dove non c'è traffico, dove non
c'è igiene, dove non c'è popolazione perchè la popolazione
emigra, perchè la popolazione si salva dalle malattie delle vie
digestive e delle vie respiratorie andando nell'America del Nord a
rifocillarsi, a rincarnarsi, a rifarsi l'esistenza.
Se non foste dei bestioni dovreste
essere i primi a raccogliere il materiale umano per una esposizione della gente
che vive al disotto della linea della fame.
Parlarci delle popolazioni estere! Le
conosciamo meglio di voi, o imbecilli. In nessun paese si sta male e si soffre
come da noi. Le nostre folle sono le più straziate, le più
premute, le più dissanguate, le più impoverite, le più
bistrattate, le più ischeletrite, le più analfabetizzate, le
più ridotte all'impotenza.
Nel meridionale il livello politico
è così basso che gli stessi giornalisti non hanno orrore di
vivere in ambienti politici e amministrativi così infetti da fare del
voto un mercato, una vendita al miglior offerente. Parlateci di tutto, non mica
di benessere, non mica di elevazione. A Canola, un farabutto della vita
pubblica, per esempio, ha potuto spendere in voti, per riuscire consigliere provinciale,
60.000 lire!
Si sta così bene da noi che le
popolazioni diminuiscono. Con la natalità alta in paragone degli altri anni,
la Basilicata è rimasta nel cinquantenario stazionaria, come la Calabria
e come la Basilicata.
Io non emigro, se sto bene in casa mia.
Se vado via è proprio perchè nella casa di Vittorio Emanuele III
si muore di consunzione famelica.
Ho dunque ragione di ammucchiare i miei
articoli e di spargerli uniti per l'Italia pitocca dove i cinquantenaristi
signoreggiano nel superfluo.