LO
STATUS DI PARLAMENTARE
NEL REGIME
STATUTARIO E NELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
Prerogative.
Garanzie. Privilegi.
Prima
Parte
Di Federico Novelli
(15 ottobre
2007)
INDICE DELLA
PRIMA PARTE
1.
Introduzione. 2
2. Lo status dei parlamentari nel regime dello Statuto
Albertino. 2
3. Lo status dei parlamentari nella Costituzione
Repubblicana. 3
3.1 L’ immunità
parlamentare. 3
3.2 La problematica dell’
insindacabilità alla luce di alcune sentenze della Corte
Costituzionale e della Corte Europea dei diritti dell’ uomo di Strasburgo. 4
3.3 Le altre garanzie
previste dall’ art. 68 della Costituzione. 8
3.4 L’ applicazione dell’
art. 68 della Costituzione: la legge
140 del 20-6-2003. 9
3.5 L’ indennità e il
trattamento economico dei parlamentari 10
FONTI BIBLIOGRAFICHE. 13
SITI INTERNET CONSULTATI 13
Seconda parte (28-11-2007)
INDICE DELLA SECONDA PARTE
4. La
responsabilità dei Ministri e i reati ministeriali 4
5. Le prerogative dei Consiglieri regionali 1
6. Lo status dei
parlamentari europei 6
7. Conclusioni 8
FONTI BIBLIOGRAFICHE. 9
SITI INTERNET CONSULTATI 9
Prima parte
1. Introduzione
La storia delle istituzioni rappresentative in Europa
può essere fatta risalire al 12° secolo, nel momento in cui i sovrani
iniziarono la consuetudine di riunire periodicamente grandi consessi allo
scopo di rendere partecipi le personalità più influenti dei
loro regni (dignitari del sovrano, nobili e prelati) delle decisioni
più importanti.
Nei secoli 14° e 15°, con lo sviluppo del ceto borghese
urbano, anche i membri di tale classe sociale entrarono a fare parte delle
assemblee rappresentative.
Le assemblee parlamentari iniziarono a costituire,
così, a partire dall’ esperienza inglese, un limite significativo al
potere assoluto dei sovrani; esse assunsero inoltre, il ruolo di
rappresentare la comunità stanziata su un determinato territorio
portandone avanti interessi e soddisfacendone le esigenze. Poiché proprio in
Inghilterra si è sviluppata per prima l’ istituzione parlamentare,
occorre iniziare il discorso sull’ immunità parlamentare tenendo
presente il contributo fondamentale di questa esperienza
politico-costituzionale.
Nell’ ordinamento inglese il Parlamento ha conosciuto, a
partire dal Medio Evo, un progressivo incremento del proprio ruolo e delle
proprie prerogative; in questo contesto si è fatta più urgente
anche la necessità di garantire l’ indipendenza di coloro che sedevano
nelle assemblee. Infatti il ruolo
fondamentale che svolgevano, all’ interno della comunità nazionale,
coloro che erano eletti nel Parlamento implicava la necessità che essi
fossero autonomi dalla Corona. Al fine di garantire l’ autonomia dei
parlamentari sono state perciò istituite speciali prerogative, le immunità; esse assicuravano ai
membri delle istituzioni rappresentative un particolare status. Tale status
valeva, appunto, a garantire il parlamentare dagli eventuali attacchi che la Corona poteva condurre
nei suoi confronti attraverso l’ autorità giudiziaria ad essa
sottomessa.
La situazione non è cambiata in modo rilevante
quando la magistratura ha cessato di essere dipendente dal sovrano ed
è stata costituita in ordine autonomo ed indipendente; infatti va
sempre garantita l’ indipendenza dei membri del Parlamento anche nei
confronti del potere giudiziario, ciò anche per assicurare il rispetto
del fondamentale principio della separazione dei poteri.
Con l’ avvento della democrazia nell’ età
contemporanea le assemblee rappresentative hanno assunto un ruolo chiave
nella struttura istituzionale degli stati, proprio perché esse costituiscono
il fondamento di una società democratica.
Coloro che sono eletti nelle assemblee parlamentari sono
i rappresentanti dell’ intera comunità nazionale e portano avanti i
suoi interessi; il loro compito è, dunque, molto alto: attraverso di
loro il popolo esercita la sua sovranità. Si comprende, così,
perché essi abbiano uno status particolare,
accordato loro dalla Costituzione.
Tale status si
concretizza in una condizione giuridica che prevede particolari garanzie e
vari tipi di indennità.
La Costituzione vigente in Italia dal 1861 (e nello Stato Sabaudo dal
1848), lo Statuto Albertino, prevedeva, all’ art. 50, che “le funzioni di
Senatore e di Deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione od
indennità”.
L’ assenza dell’ indennità fa pensare al fatto che
lo status di parlamentare era
vissuto, in epoca statutaria, unicamente come un vero e proprio servizio alla
collettività nazionale. Risulta evidente la differenza con l’ attuale
regime repubblicano: la nostra Costituzione, infatti, prevede che il parlamentare
consegua un’ indennità stabilita dalla legge (art. 69). Ciò
implica che oggi lo status di
parlamentare è forse vissuto più come una normale professione
che come un autentico servizio. Se è vero ciò, bisogna
però considerare anche l’ altra faccia della medaglia: infatti la
disposizione statutaria contenuta nell’ art. 50 è figlia del suo
tempo, un tempo assai diverso dal nostro; un tempo in cui poteva svolgere
l’attività politica e parlamentare solo chi era abbiente ed aveva
mezzi economici adeguati.
L’ introduzione dell’ indennità da parte della
Costituzione repubblicana permette anche a chi non è abbiente di porsi
al servizio della Nazione.
Tuttavia, anche se lo Statuto Albertino non prevedeva
indennità, nondimeno esso sanciva delle garanzie per la tutela dei
membri del Parlamento da eventuali abusi.
L’ art. 37 dello Statuto stabiliva che nessun Senatore
potesse essere sottoposto ad arresto se non per ordine del Senato, salvo il
caso di flagrante delitto. Inoltre era stabilito che solo il Senato potesse
giudicare dei reati imputati ai suoi membri.
Disposizioni analoghe erano contenute negli artt. 45 e
46: l’ art. 45 sanciva che nessun Deputato potesse essere arrestato durante
la sessione, se non per flagrante delitto, o tradotto in giudizio per materia
criminale senza il previo consenso della Camera.
L’ art. 46, più specificamente, stabiliva che non
era possibile eseguire mandato di cattura per debiti nei confronti di un
Deputato durante la sessione e nelle 3 settimane precedenti e susseguenti ad
essa.
L’ art. 51 prescriveva che i parlamentari non erano
sindacabili per le opinioni espresse e per i voti dati nelle Camere.
Infine, l’ art. 60 sanciva che le Camere erano le sole
competenti a giudicare la validità dei titoli di ammissione dei loro
membri.
Il particolare status
dei parlamentari è sancito in modo preciso dalla Costituzione
Repubblicana del 1948.
Fondamentale a questo proposito è la disposizione
dell’ art. 68, il quale recita: “I
membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni
espresse e dei voti dati nell’ esercizio delle loro funzioni.
Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene,
nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione
personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato
della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in
esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto
nell’ atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’ arresto
obbligatorio in flagranza.
Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre
i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma di conversazioni
o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”.
Si precisa subito che tale formulazione dell’ art. 68
è scaturita dalla riforma costituzionale introdotta con la legge
costituzionale n. 3 del 29 ottobre 1993, la quale ha significativamente
eliminato l’ autorizzazione a procedere.
Prima della riforma, infatti, l’ autorizzazione della
Camera di appartenenza era richiesta non solo per sottoporre il parlamentare
all’ arresto, ma addirittura per sottoporlo a processo penale.
La ratio dell’
autorizzazione a procedere era quella di proteggere il parlamentare da
eventuali attacchi persecutori da parte dell’ autorità giudiziaria. Da
ciò discende che la
Camera di appartenenza non doveva, in sede di valutazione
sull’ opportunità di concedere l’ autorizzazione, verificare la
fondatezza dell’ imputazione, bensì soltanto accertare che non ci
fossero motivazioni politiche alla base dell’ imputazione stessa.
Purtroppo la prassi parlamentare ha preso tutt’ altra
direzione: infatti si è verificata spesso una negazione sistematica
delle autorizzazioni, che ha trasformato un istituto di garanzia in un vero e
proprio strumento per salvaguardare gli interessi personali dei membri del
Parlamento, configurando così un abuso delle prerogative parlamentari.
Il fatto che spinse il potere legislativo a provvedere
all’ eliminazione dell’ autorizzazione a procedere dalla Costituzione nel
1993, fu la negazione della stessa nei confronti dell’ on. Bettino Craxi, il
29 aprile 1993.
Rispetto alla precedente formulazione, il nuovo art. 68
introdotto con la riforma costituzionale del 1993 non contiene più l’
autorizzazione a procedere, né quella necessaria per arrestare o mantenere in
detenzione un parlamentare anche nel caso di sentenza irrevocabile di
condanna, ma sancisce alcune garanzie nuove: infatti è stabilito che i
membri del Parlamento non possono, senza l’ autorizzazione della Camera alla
quale appartengono, essere sottoposti ad intercettazioni di conversazioni o
comunicazioni ed al sequestro della corrispondenza. Inoltre è diversa
la formulazione del 1° comma: mentre prima della riforma esso recitava “i
membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni e i voti
dati nell’ esercizio delle loro funzioni”, oggi esso stabilisce che “i membri
del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni
espresse e dei voti dati nell’ esercizio delle loro funzioni”. Con questa nuova enunciazione si è
tornati alla originaria proposta sottoposta all’ esame dell’ Assemblea
Costituente dalla Commissione per la Costituzione (c.d. Commissione dei 75).
La diversità di espressioni nelle diverse versioni
dell’ art. 68, comma 1, tuttavia, non crea grandi problemi. Più
spinosa e problematica appare, invece,
l’ interpretazione della locuzione “funzioni parlamentari”. Infatti è
proprio dalle diverse accezioni che l’ espressione in esame può
assumere che discendono conseguenze pratiche diverse.
E’ chiaro che lo status
di cui godono i parlamentari è inscindibilmente connesso con le
funzioni che essi svolgono; se così non fosse, la conseguenza pratica
sarebbe che l’ insieme delle
prerogative funzionali si trasformerebbe in privilegi personali. E’ ovvio,
perciò, che il Costituente ha inteso specificare un ben preciso nesso funzionale, unica fonte di
legittimazione delle prerogative parlamentari.
Il problema che si pone è stabilire qual’ è
il confine tra funzioni parlamentari e normale agire personale, fosse anche
un agire politico. Il tema è stato più volte oggetto di
sentenze della Corte Costituzionale e sarà trattato più
ampiamente nel paragrafo successivo.
Un accenno merita l’ immunità della sede. Gli
edifici del Parlamento (Palazzo Montecitorio e Palazzo Madama) sono coperti
da immunità. Ciò significa che nessuna persona che sia estranea
alle Camere può introdursi negli edifici. Speciali norme dei
regolamenti parlamentari disciplinano la presenza del pubblico in apposite
tribune durante le sedute.
L’ immunità della sede rappresenta un’ altra
garanzia per il Parlamento in quanto contribuisce, al pari delle altre,
tutelarne l’ autonomia da qualsiasi altro potere.
Sulla fondamentale tematica dell’ insindacabilità
sono intervenute, da una parte le Camere, dall’ altra la Corte Costituzionale
con diverse interpretazioni. A questo proposito occorre fare riferimento ad
alcune sentenze con cui la
Corte costituzionale si è pronunciata
sull’argomento. Iniziamo dalla sentenza n. 289 del 1998. Essa ha risolto un
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (tra la Camera dei Deputati e l’
autorità giudiziaria, nella fattispecie il Tribunale di Bergamo) sorto
a seguito di una delibera della Camera dei Deputati con cui si stabiliva che
i fatti per i quali era sottoposto a processo civile l’ on. Roberto Calderoli
riguardavano opinioni espresse nell’ esercizio delle funzioni parlamentari ai
sensi dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione. Nella fattispecie l’ on.
Calderoli si era espresso in termini ingiuriosi nel confronti del Presidente
della Repubblica nel corso di un comizio (dunque fuori dal Parlamento). A
seguito di ciò il sostituto procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Bergamo e procuratore della Repubblica facente funzioni, Tommaso
Buonanno, aveva inviato all’ on. Calderoli un’ informazione di garanzia in
cui si ipotizzava il reato previsto dall’ art. 278 del Codice Penale.
L’ on. Calderoli si espresse allora in termini diffamatori nei confronti del
dott. Buonanno. A seguito di questi fatti la Camera ha, con la
suddetta delibera emanata il 31 gennaio 1996, eccepito l’ applicazione dell’
art. 68, comma 1, della Costituzione, cui ha fatto seguito il conflitto di
attribuzione sollevato dal Tribunale di Bergamo. In sintesi il Tribunale ha
affermato che l’ arbitraria estensione delle prerogative di cui all’ art. 68,
comma 1, della Costituzione a comportamenti che si situano al di fuori dell’
esercizio delle funzioni parlamentari, mina le attribuzioni costituzionali
dell’ autorità giudiziaria ed il diritto di ognuno di ricorrere in
giudizio per una lesione del proprio diritto all’ onore e alla reputazione;
inoltre esso ha ribadito che non può essere fatta rientrare nelle
funzioni parlamentari l’ attività extra
moenia che il parlamentare svolga come uomo di partito o privato
cittadino. La Consulta
ha stabilito che nel concetto di funzione non può essere fatta
rientrare l’ intera attività politica del parlamentare - pena il
rischio di trasformare la prerogativa in un ingiustificabile privilegio
personale - , bensì solo l’ attività strettamente connessa con
l’ esercizio delle attribuzioni delle assemblee legislative. Pertanto la Corte Costituzionale
ha ritenuto giusto annullare la deliberazione del 31 gennaio 1996 con cui la Camera dei Deputati ha
eccepito l’ applicazione dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione, nella
parte in cui si riferisce al procedimento civile contro l’ on. Calderoli. Il
conflitto di attribuzione è stato così risolto a favore dell’
autorità giudiziaria.
Sempre la
Consulta ha sancito (sentt. 10 e 11 del 2000) che il nesso
funzionale sussiste solamente quando le dichiarazioni rese fuori del
Parlamento siano riproduttive di opinioni espresse in Parlamento. Come la
precedente, anche la sentenza n. 10 del 2000 è stata emanata a seguito
di un conflitto di attribuzione, sollevato questa volta dal tribunale di Roma
nei confronti della Camera dei Deputati nel corso di un procedimento penale
nei confronti dell’ on. Vittorio Sgarbi. L’ on. Sgarbi era imputato di
diffamazione a mezzo stampa a danno del magistrato Giancarlo Caselli, allora
procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, per averne
offeso la reputazione, anche con l’ attribuzione di fatto determinato. Il
Deputato aveva fatto dichiarazioni alle agenzie giornalistiche ANSA e AGI,
rese pubbliche il 27 aprile 1994 e riguardanti il processo penale nei
confronti del sen. Giulio Andreotti, indagato dalla procura di Palermo, nelle
quali affermava, tra l’ altro, di aver dato mandato ai suoi legali di
denunciare il magistrato e che “il processo Andreotti è un processo
politico”. Ad avviso del tribunale, le opinioni espresse dall’ on. Sgarbi non
potevano essere fatte rientrare nell’ esercizio delle funzioni parlamentari;
dunque non poteva essere invocata l’ insindacabilità. La Camera, da parte sua,
aveva per contro eccepito l’ applicabilità dell’ art. 68, comma 1,
della Costituzione attraverso l’ ordinanza del 16 settembre 1998. La difesa
della Camera sosteneva la tesi per cui l’ insindacabilità coprirebbe,
oltre gli atti tipici, anche le opinioni espresse legate da nesso funzionale
con il mandato parlamentare. Essendo poi l’ attività parlamentare
libera nel fine, si dovrebbe concludere che essa non ha contorni definibili
in astratto. In sostanza l’ istituzione rappresentativa in questione riteneva
che le opinioni pronunciate da Vittorio Sgarbi, ancorché riferite “extra moenia” fossero legate all’
esercizio della funzione parlamentare e che, dunque, potesse invocarsi l’
insindacabilità ex art. 68 della Costituzione.
Di diverso avviso è stata la Corte Costituzionale,
per la quale occorre dare un’ interpretazione più restrittiva al nesso
funzionale non facendo ricadere in esso l’ intera attività politica
dei parlamentari. La Corte
ha ribadito che estendendo eccessivamente il nesso funzionale, si finirebbe
per trasformare la prerogativa dell’ insindacabilità in privilegio
personale; ciò avrebbe ripercussioni negative anche sul principio di
eguaglianza (art. 3 della Costituzione). Le dichiarazioni dell’ on. Sgarbi
sono state riferite ad agenzie giornalistiche, al di fuori delle funzioni
parlamentari; non può, pertanto, essere invocato l’ art. 68. La Corte, perciò, ha
risolto il conflitto di attribuzione a favore dell’ autorità
giudiziaria ed ha annullato, nella parte in cui si riferisce al contenuto
delle dichiarazioni, non corrispondente sostanzialmente a quello delle
interrogazioni
presentate dall’ on. Sgarbi al Ministro della Giustizia il 29 aprile 1994, la
deliberazione della Camera del 16 settembre 1998.
Se non fossero sufficienti le argomentazioni finora
addotte a sostegno di una interpretazione più restrittiva del concetto
di nesso funzionale, si può ulteriormente fare riferimento ad un altro
pronunciamento della suprema Corte in materia, ossia la sent. n. 11 del 2000.
Anche in questa occasione è stato protagonista l’ on. Vittorio Sgarbi.
Nella fattispecie egli era stato accusato del reato di diffamazione aggravata
ai danni del dott. Antonio Di Pietro. Le dichiarazioni erano state rilasciate
dall’ on. Sgarbi nel corso del programma televisivo “Sgarbi quotidiani” e
riguardavano la locazione, da parte di Di Pietro, di un appartamento a Milano
ad un canone ritenuto esiguo. A parere del tribunale di Bergamo, sezione II
penale, investito del caso, mancherebbe nella fattispecie il nesso
funzionale, con conseguente impossibilità di invocare l’
insindacabilità di cui all’ art. 68 della Costituzione. Di diverso
avviso era, come è facile intuire, la Camera dei Deputati, che
con la delibera del 17 giugno 1998 dichiarò l’ insindacabilità
delle opinioni del suo membro eccependo l’ applicabilità dell’ art.
68, comma 1, della Costituzione. Ciò in quanto la Camera riteneva le
dichiarazioni di Sgarbi ricadenti nell’ ambito delle funzioni parlamentari a
causa del fatto che esse erano coerenti con l’ attività politica
portata avanti da Sgarbi dentro e fuori il Parlamento.
La
Corte Costituzionale
sostenne, invece, che quelle dichiarazioni potessero solo essere
genericamente ricollegabili all’ “attività politica intesa in senso
lato”, ciò che non può ammettere l’ insindacabilità ex
art. 68. Pertanto, essendo carente, nel caso in esame, il nesso funzionale, la Corte ha annullato la deliberazione
della Camera del 17 giugno 1998
in quanto con essa l’ istituzione parlamentare ha
invaso la sfera di attribuzioni dell’ autorità giudiziaria.
Citiamo, ancora, la sentenza con cui la Corte (sent. 509 del 2002)
ha statuito che non basta, affinché si abbia insindacabilità, che le
opinioni siano espresse all’ interno degli edifici del Parlamento; infatti
esse devono anche rientrare nel campo applicativo del diritto parlamentare.
Vale la pena ricordare brevemente i fatti che sono alla base di questo
pronunciamento della Consulta.
In data 15 luglio 1998 la Camera dei Deputati ha
emanato una deliberazione nella quale ha eccepito l’ applicabilità
dell’ art. 68, comma 1, della Costituzione a seguito delle dichiarazioni,
ritenute diffamatorie, pronunciate all’ interno della buvette della Camera dall’ on. Fabio Mussi all’ indirizzo dell’
on. Cesare Previti. Tali dichiarazioni sono state rese dall’ on. Mussi con un
tono di voce tale da poter essere udite a distanza, anche da un giornalista
presente che provvide a pubblicarne il contenuto sul quotidiano “Milano
Finanza” in data 29 gennaio 1998. L’ on. Previti, ritenendo lesive della sua
onorabilità le espressioni dell’ on. Mussi, è ricorso in
giudizio. Il Tribunale di Roma, sez. XIII civile, ha contestato le
argomentazioni contenute nella deliberazione della Camera del 15 luglio 1998 in quanto le
affermazioni dell’ on. Mussi non avevano a che fare con le funzioni
parlamentari, ma costituivano un colloquio meramente privato, pienamente
rientrante nella sfera della libera manifestazione del pensiero di cui dell’
art. 21 della Costituzione. E ciò sebbene le opinioni espresse da
Mussi fossero state espresse all’ interno della sede parlamentare (intra moenia). Secondo la Corte non è
sufficiente, affinché si abbia nesso funzionale, la mera localizzazione delle
dichiarazioni all’ interno delle sedi delle istituzioni rappresentative. Il
criterio su cui si basa la prerogativa dell’ art. 68 è quello
funzionale e non quello meramente spaziale.
Da tutti questi fatti ha avuto origine un conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato conclusosi con l’ annullamento della
deliberazione della Camera dei Deputati del 15 luglio 1998 e con la
conseguente soluzione del conflitto a favore dell’ autorità
giudiziaria.
Infine consideriamo la sentenza n. 375 del 1997. Anche in
questa occasione il pronunciamento della Consulta è stato originato da
un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, nella fattispecie il
Senato della Repubblica e il Tribunale di Roma. Il GIP presso tale Tribunale
ha sollevato conflitto a seguito della delibera del Senato adottata il 7
maggio 1997 con cui l’ istituzione parlamentare ha eccepito l’
applicabilità dell’ art. 68, comma 1, con riferimento alle
dichiarazioni espresse dal sen. Erminio Boso.
Il senatore Boso aveva rilasciato, nella sala stampa del
Senato una dichiarazione resa pubblica dall’ agenzia giornalistica AGI il 15
gennaio 1996, nella quale si esprimeva in toni molto critici nei confronti
dell’ operato del sig. Giampiero Cioffredi, coordinatore nazionale di “ARCI
solidarietà”; in particolare il sen. Boso aveva affermato che
“promettendo l’ Eldorado alla gente del terzo mondo” si deruberebbero i
lavoratori italiani. Tale valutazione negativa era riservata dallo stesso
senatore anche a: “la
Caritas, i comunisti ed i sindacati”. Le suddette
dichiarazioni venivano riprese dal Quotidiano “La Nazione” il 16 gennaio
1996.
Il sig. Cioffredi ha presentato una denuncia-querela nei
confronti del sen. Boso per il reato di cui all’ art. 595 del Codice penale
ed all’ art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.
A seguito di ciò il Senato ha opposto l’ insindacabilità.
Conseguentemente il GIP presso il Tribunale di Roma ha sollevato il conflitto
di attribuzioni. Il Senato, si è costituito in giudizio, menzionando
la decisione del pubblico ministero di richiedere l’ archiviazione; tale
richiesta era stata fatta in quanto le dichiarazioni del sen. Boso erano
state ritenute “strettamente coniugabili con l’ attività conoscitiva
ed interpretativa della funzione parlamentare”. La Corte, da parte sua, ha
affermato che è sembrata prevalere all’ epoca dei fatti, ossia nel
1997, un’ interpretazione estensiva del concetto di funzione parlamentare e,
di conseguenza, un allargamento del nesso funzionale; e ciò quasi a
supplire all’ eliminazione dell’ autorizzazione a procedere con la riforma
costituzionale del 1993. Tuttavia, anche se le espressioni del sen. Boso non
potevano formalmente essere considerate come riproduttive di quanto sostenuto
dal senatore nei suoi interventi in commissione affari costituzionali, il
Senato ha ritenuto che le dichiarazioni di Boso fossero “divulgative di una
scelta politica”; per di più esse si tradussero in emendamenti ed in
un disegno di legge. Inoltre il dibattito parlamentare sull’ immigrazione era
particolarmente aspro nel gennaio 1996 ed in assemblea ci fu più di
una richiesta di garantire al massimo l’ autonomia delle Camere ed il libero
svolgimento del mandato parlamentare.
Pertanto in questa circostanza non è apparso, alla
Corte, che il Senato abbia invaso la sfera dell’ autorità giudiziaria
esercitando arbitrariamente il potere parlamentare.
La conclusione è che la Consulta ha risolto il
conflitto a favore del Parlamento, avendo stabilito che spetta al Senato
affermare l’ insindacabilità ai sensi dell’ art. 68, comma 1, della
Costituzione.
In questa occasione la Corte ha così ritenuto che fosse
legittimo, da parte dell’ istituzione parlamentare, invocare l’
insindacabilità; in effetti in questo caso il legame tra le
dichiarazioni e le funzioni parlamentari appare più stretto dal
momento che, non solo le opinioni sono state rese in una sede istituzionale
(la sala stampa del Senato), ma erano state anche accompagnate da atti
connessi all’ attività parlamentare (emendamenti e disegni di legge).
Dall’ analisi condotta finora possiamo concludere che
è auspicabile un’ interpretazione che non distorca, allargandolo a
dismisura, il concetto di “nesso funzionale”, pena il radicarsi, nella prassi
parlamentare, di un vero e proprio abuso commesso per il solo tornaconto
personale dei parlamentari.
Il problema dell’ insindacabilità delle opinioni
espresse dai parlamentari nell’ esercizio delle loro funzioni ha anche
coinvolto, in tempi recenti, il diritto europeo e la Corte europea dei diritti
dell’ uomo. A questo proposito annoveriamo due casi che hanno coinvolto
altrettanti parlamentari. Il primo di essi si è verificato a seguito
del ricorso presentato alla Corte europea dei diritti dell’ uomo dal
procuratore della repubblica Agostino Cordova. Cordova è ricorso alla
Corte contro il senatore Francesco Cossiga in quanto questi gli aveva inviato
lettere sarcastiche e giocattoli.
Il secondo caso ha ad oggetto sempre un ricorso
presentato dal procuratore Cordova, questa volta contro l’ on. Vittorio
Sgarbi per diffamazione aggravata; in particolare, l’ on. Sgarbi aveva
parlato male di Cordova in alcune riunioni elettorali, facendolo addirittura
oggetto di espressioni volgari.
In entrambi i casi le Camere ritennero che le espressioni
usate dai loro membri nei confronti del procuratore fossero coperti dalla
insindacabilità dell’ art. 68 della Costituzione e costrinsero i
giudici nazionali che si occupavano delle questioni a chiudere i procedimenti.
La Corte
europea dei diritti dell’ uomo (Corte di Strasburgo) fu investita dei casi
per violazione degli artt. 6.1 (diritto ad un processo equo), 13 (diritto ad
un ricorso effettivo) e 14 (divieto di discriminazioni) della CEDU (Convenzione
europea dei diritti dell’ uomo del 1950) e si pronunciò sui ricorsi
presentati dal procuratore Cordova il 30 gennaio 2003 stabilendo che in
entrambi i casi i comportamenti dei membri del Parlamento non potevano essere
coperti dall’ insindacabilità in quanto non rientravano nell’
esercizio delle funzioni di membro di un’ assemblea rappresentativa.
Il pronunciamento della Corte di Strasburgo mostra come
in Italia le assemblee rappresentative tendano ad allargare l’ ambito delle
garanzie giustamente sancite in Costituzione per i membri del Parlamento all’
agire dei membri stessi per fini non rientranti nelle loro funzioni,
distorcendo così la ratio delle
garanzie e piegando le stesse al soddisfacimento di interessi meramente
personali.
A conclusione di questa parte dell’ analisi dell’ art. 68
della Costituzione si può dire che:
·
Affinché si possa
invocare l’ insindacabilità ex art. 68, comma 1 della Costituzione,
delle opinioni espresse dai membri del Parlamento occorre che esse rispettino
il nesso funzionale;
·
Tale nesso
funzionale non può identificarsi con l’ attività politica
globale del parlamentare, ma va fatto coincidere solo con ciò che
ricade nel campo applicativo del diritto parlamentare.
·
Non può
valere, perché si abbia insindacabilità, il mero criterio “spaziale”
(opinioni pronunciate intra moenia);
vale invece, quello “funzionale” (opinioni espresse anche extra moenia purché attengano all’
attività parlamentare).
L’ immunità dei membri delle istituzioni
rappresentative non si esaurisce nella insindacabilità delle opinioni
espresse e dei voti dati, in quanto l’ art. 68 assicura anche altre garanzie;
infatti coloro che siedono nelle assemblee rappresentative non possono essere
sottoposti a perquisizioni, arresti,
intercettazioni e sequestro della corrispondenza senza l’ autorizzazione
della Camera di appartenenza. Anche se l’ art. 68 non lo stabilisce
esplicitamente come per l’ insindacabilità di voti ed opinioni,
è ovvio che le garanzie ora menzionate sono intimamente connesse con
la funzione di rappresentante della Nazione. Tali garanzie non possono, lo
ribadiamo, costituire un illecito privilegio personale anche se, purtroppo,
la prassi parlamentare è spesso andata proprio in questa direzione. In
tempi recenti, in particolare, si è assistito ad una negazione quasi
sistematica delle autorizzazioni; il che, ben lungi dall’ essere frutto di
una valutazione corretta sull’ eventuale carattere politico della richiesta
di autorizzazione, costituisce invece un modo attraverso il quale il
Parlamento cerca di trasformare in privilegio illegittimo le sue legittime
prerogative.
Esistono altri casi, oltre quelli menzionati in
precedenza, che destano perplessità al riguardo.
Ad esempio, tra questi ricordiamo il caso Previti.
Il 20 gennaio 1998 la Camera dei Deputati ha negato l’ autorizzazione
all’ arresto dell’ on. Cesare Previti, rinviato a giudizio per concorso in
corruzione per atti contrari ai doveri d’ ufficio in atti giudiziari. La Camera, attraverso il
pronunciamento della Giunta per le autorizzazioni a procedere, ha affermato
che vi è stata un’ “esasperazione accusatoria” nella richiesta di
arresto nei confronti di Previti.
Come si può facilmente notare ancora una volta, l’ interpretazione e
di conseguenza la prassi che le istituzioni rappresentative hanno dato all’
art. 68 si discosta, talvolta, da quella della Consulta.
Per operare un’ analisi più approfondita del tema
dell’ attuazione dell’ art. 68 della Costituzione è necessario fare
riferimento alla legge 20 giugno 2003, n. 140.
L’ art. 3, comma 1 della legge stabilisce i casi nei
quali si deve applicare il comma 1 dell’ art. 68 della Costituzione: in
sintesi i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere
delle opinioni espresse e dei voti dati in ogni caso in cui svolgano
attività connesse alla funzione di parlamentare, anche se queste
attività sono svolte al di fuori del Parlamento. Tra gli atti per i
quali sussiste il nesso funzionale e per i quali si applica il 1° comma dell’
art. 68, l’art. 3 della legge 140/2003 menziona, tra l’altro: la
presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno,
mozioni e risoluzioni, interpellanze, interrogazioni; gli interventi nelle
assemblee e negli altri organi delle Camere; le attività di ispezione,
divulgazione, critica e denuncia politica.
I commi successivi dell’ art. 3 sanciscono delle
procedure alle quali l’ autorità giudiziaria deve attenersi, sia nel
caso in cui ritenga doversi applicare l’ art. 68, comma 1 della Costituzione,
sia nel caso contrario. Nel primo caso il giudice chiude il procedimento.
Tuttavia l’ ipotesi che interessa maggiormente è quella che
potenzialmente potrebbe generare qualche conflitto tra autorità
giudiziaria e istituzioni rappresentative, ossia quella in cui il giudice non
ritiene doversi applicare al procedimento l’ art. 68, comma 1.
A norma dell’ art. 3, comma 4 della legge 140/2003,
quando non è accolta l’ eccezione concernente l’ applicabilità
dell’ art. 68, il giudice deve provvedere senza ritardo con ordinanza non
impugnabile, trasmettendo copia degli atti alla Camera alla quale appartiene
o apparteneva il parlamentare al momento del fatto. A questo punto il
procedimento è sospeso per 90 giorni a partire dal momento in cui la Camera riceve la copia
degli atti. Essa può disporre anche una proroga per un periodo non
superiore a 30 giorni e poi deve deliberare, altrimenti il processo riprende
il suo corso. Se delibera favorevolmente all’ applicazione dell’ art. 68,
comma 1, della Costituzione, il giudice adotta senza ritardo i provvedimenti
indicati dal comma 3 ed il pubblico ministero formula la richiesta di
archiviazione.
Se ci si sofferma su questa normativa si può
notare che essa costituisce una reintroduzione surrettizia dell’
autorizzazione a procedere.
Infatti il procedimento viene sospeso fin tanto che la Camera di appartenenza
del parlamentare in questione non delibera. Non solo: se la Camera decide che nella
questione va applicato l’ art. 68 comma 1 della Costituzione, il giudice
adotta i provvedimenti di cui al comma 3 dell’ art. 3 della legge 140/2003
(sentenza nel processo penale, archiviazione nel corso delle indagini
preliminari, sentenza con i provvedimenti necessari alla sua definizione nel
processo civile) ed il pubblico ministero formula la richiesta di
archiviazione. Inoltre, anche nel caso in cui la Camera non deliberasse
entro i termini stabiliti ed il processo andasse avanti, ci potrebbe essere
sempre una deliberazione della Camera stessa favorevole ad applicare l’ art.
68, comma 1.
In tutti i casi, insomma, il processo viene “disinnescato”.
Altra problematica di notevole portata riguarda le
intercettazioni. A tale proposito ricordiamo che originariamente l’ art. 68
non menzionava le intercettazioni, le quali hanno invece cominciato ad essere
disciplinate con la riforma costituzionale del 1993. Il nuovo art. 68
sancisce che, affinché si possa procedere con le intercettazioni, è
necessaria l’ autorizzazione della Camera a cui appartiene colui che dovrebbe
essere intercettato. Stando così le cose, si pone un problema: se le
intercettazioni dovessero essere autorizzate, se ne vanificherebbe totalmente
l’ efficacia. E allora si dovrebbe credere che la disposizione in questione
sia riferita anche alle intercettazioni che ancora devono essere effettuate.
Per quanto concerne intercettazioni, sequestri di
corrispondenza, misure di sicurezza e provvedimenti limitativi della
libertà personale dobbiamo fare riferimento all’ art. 4 della legge
140 del 2003, il quale sancisce che in questi casi è necessaria l’
autorizzazione della Camera di cui è membro il parlamentare in questione
(comma 1). Il comma 3 stabilisce che detta autorizzazione non è
necessaria nel caso in cui il parlamentare sia colto nell’ atto di commettere
un delitto per il quale è previsto l’ arresto obbligatorio in
flagranza o se si deve eseguire una sentenza irrevocabile di condanna.
L’ art. 6 della legge 140/2003 disciplina le
intercettazioni così dette “indirette”, ossia quelle condotte nei
riguardi di terzi che possono avere conversazioni con parlamentari. Statuisce
il comma 1 dell’ art. 6 che se il giudice per le indagini preliminari non
ritiene rilevanti dette intercettazioni ne deve decidere la distruzione
integrale in camera di consiglio.
Qualora invece reputi rilevante il contenuto delle
intercettazioni “indirette”, per poterlo utilizzare nel procedimento deve
richiedere l’ autorizzazione alla Camera di appartenenza del parlamentare
intercettato (commi 2 e 3 dell’ art. 6).
Il comma 5 dell’ art. 6 sancisce che se l’ autorizzazione
viene negata, la documentazione delle intercettazioni è distrutta
immediatamente, e comunque non oltre 10 giorni dalla comunicazione del
diniego.
Dello status
particolare di cui godono i membri delle istituzioni rappresentative fa parte
anche l’ indennità, ossia lo “stipendio” che i parlamentari
percepiscono, a cui vanno sommate altri emolumenti particolari.
A differenza dello Statuto Albertino, la Costituzione
repubblicana prevede, all’ art. 69, che i parlamentari percepiscano un’
indennità stabilita dalla legge. Lo strumento normativo principale che
assicura l’ attuazione dell’ art. 69 è costituito dalla legge n. 1261
del 31 ottobre 1965.
L’ art. 1 statuisce che l’ indennità dei
parlamentari a norma dell’ art. 69 della Costituzione per garantire il libero
svolgimento del loro mandato è costituita da quote mensili che
comprendono anche il rimborso delle spese di segreteria e di rappresentanza.
Le quote sono stabilite dagli Uffici di Presidenza delle Camere in modo da
non superare il dodicesimo del trattamento complessivo massimo annuo lordo
dei magistrati con funzione di presidente di Sezione della Corte di
Cassazione ed equiparate.
L’ art. 2 stabilisce altri emolumenti, come la diaria a
titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma. Tale diaria è
corrisposta in ragione di 15 giorni di
presenza al mese ed in misura non superiore all’ indennità di missione
giornaliera prevista per i magistrati con funzione di Presidente di Sezione
della Corte di Cassazione ed equiparate; si possono fare delle ritenute per
ogni assenza dai lavori dell’ assemblea o delle Commissioni.
L’ art. 3 prescrive il divieto di cumulo dell’
indennità con emolumenti derivanti da altri impieghi, come ad esempio
quelli provenienti da incarichi di carattere amministrativo conferiti dallo
Stato, da enti pubblici, da banche di diritto pubblico, da enti privati
concessionari di servizi pubblici o da enti privati con azionariato statale
o, infine, da enti privati legati da rapporti d’ affari con lo Stato, le Regioni, le Province ed i
Comuni.
L’ indennità prevista dall’ art. 1, fino alla
concorrenza dei 4/10 del suo ammontare, detratti i contributi per la cassa di
previdenza dei parlamentari, non può essere cumulata con compensi
derivanti da rapporti di pubblico impiego o da incarichi accademici;
ciò vale anche quando i rispettivi titolari siano posti in
aspettativa.
L’ art. 4 della legge 1261 del 1965 pone modifiche al
decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 e sancisce che
i dipendenti pubblici eletti Deputati o Senatori sono collocati d’ ufficio in
aspettativa per l’ intera durata del mandato parlamentare. I dipendenti
pubblici che divengono parlamentari possono, per tutta la durata del mandato,
conseguire promozioni solamente per anzianità (Cost. art. 98). Il
tempo trascorso in aspettativa per mandato parlamentare è considerato,
a tutti gli effetti periodo di attività di servizio ed è
computato per intero ai fini della progressione in carriera, degli aumenti
periodici di stipendio e del trattamento di quiescenza e di previdenza. Nel
periodo di aspettativa, inoltre, il dipendente-parlamentare mantiene per sé e
per i propri familiari a carico, il diritto all’ assistenza sanitaria ed
anche alle altre forme di assicurazione previdenziale di cui avrebbe fruito
se avesse prestato servizio. Tuttavia in base all’ art. 68, comma 1 del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, egli non può percepire
assegni; in alternativa può optare per la conservazione del
trattamento economico assegnatogli dall’ amministrazione presso la quale
prestava servizio in luogo, ovviamente, dell’ indennità parlamentare.
Per quanto concerne il regime fiscale dell’
indennità mensile, l’ art. 5, comma 1 sancisce che essa, fino ai 4/10
del suo ammontare e detratti i contributi per la cassa di previdenza dei
parlamentari della repubblica, è soggetta ad una imposta unica con
aliquota globale pari al 16%. Detta imposta sostituisce quelle sulla
ricchezza mobile, complementare e relative addizionali ed è riscossa
mediante ritenuta diretta.
Il comma 2 dell’ art. 5 prescrive anche un’ altra tassa
sull’ indennità mensile, che sostituisce l’ imposta di famiglia per la
quota di reddito imponibile corrispondente al
suo ammontare netto; l’ aliquota è forfettaria dell’ 8%, la riscossione
avviene mediante ritenuta diretta e il corrispondente importo è
devoluto ai comuni di residenza dei parlamentari.
L’ art. 5, comma 3 stabilisce che l’ indennità
mensile e la diaria sono esenti da ogni tributo e non possono essere
computate per l’ accertamento del reddito imponibile e della determinazione
dell’ aliquota di qualsiasi imposta o tributo.
Infine, l’ indennità mensile e la diaria non
possono essere sequestrate o pignorate (comma 4).
E’ significativo ricordare che il trattamento fiscale
suddetto si applica, per quanto compatibile, alle indennità ed agli
assegni spettanti ai consiglieri delle regioni a statuto speciale, come
stabilisce l’ art. 6.
Tra le varie prerogative di cui sono destinatari i membri
delle istituzioni rappresentative ne citiamo ora altre, forse meno eclatanti
rispetto all’ immunità ed agli emolumenti, ma pur sempre
significative.
Ai membri delle due Camere sono concesse, in base alla
normativa posta dalla legge 21 novembre 1955, n. 1108, carte di libera
circolazione sull’ intera rete ferroviaria italiana, valevoli per qualsiasi
tipo di treno. Le carte vengono concesse sulla base di apposite convenzione
con il Ministero del tesoro (oggi dell’ economia) nelle quali questi speciali
titoli di viaggio sono valutati con una riduzione del 70% sul prezzo di
tariffa.
Importante – e probabilmente difficilmente giustificabile
dal punto di vista etico – è il fatto che tale prerogativa sia
assicurata a Deputati e Senatori anche dopo la cessazione del mandato, se
essi hanno portato a termine 7 anni di mandato parlamentare. Tale disposizione
appare difficile da comprendere in quanto la prerogativa che essa pone ha
effetto anche dopo la cessazione del mandato. Ciò implica, a mio
avviso, che tale vantaggio perde il carattere di prerogativa legata alla
funzione di rappresentante della Nazione trasformandosi in privilegio
personale.
Altre norme significative sulle prerogative dei
parlamentari sono contenute nella legge 26 luglio 1975, n. 354. Esse
riguardano l’ ordinamento penitenziario e le esecuzione delle misure
privative e limitative della libertà.
L’ art. 18-ter
della legge 354 del 1975 sancisce che, in alcuni casi legati alle esigenze
delle indagini, possono essere stabilite limitazioni nella corrispondenza
epistolare e telegrafica, sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo
e controllo delle buste che contengono la corrispondenza senza lettura della
medesima. Ebbene lo stesso articolo stabilisce altresì che tali misure
non si applicano qualora la corrispondenza abbia come destinatari, tra gli
altri, i membri del Parlamento.
L’ art. 67 della legge 354 del 1975 prevede anche la
possibilità, per i membri delle Camere, di visitare gli istituti dei
pena senza autorizzazione.
Parimenti senza autorizzazione, i membri delle
istituzioni rappresentative possono visitare anche le strutture militari (in
base alla legge 24 giugno 1998, n. 206).
Infine, tra le prerogative che spettano ai membri delle
assemblee rappresentative ricordiamo il passaporto diplomatico, concesso ai
presidenti e vice-presidenti delle due Camere e ai presidenti delle
commissioni affari esteri dei due rami del Parlamento. Si noti che il
passaporto diplomatico è mantenuto anche dopo la cessazione del
mandato per i presidenti delle Camere ed è rinnovato ogni tre anni.
A tutti gli altri membri del Parlamento è concesso
un passaporto di servizioper la durata del mandato.
4. Le
prerogative dei Consiglieri regionali
5. Le
prerogative dei parlamentari europei
6. I reati
ministeriali: un’ analisi dell’ art. 96 della Costituzione
·
CIAURRO (L.) (a cura
di), Lo Statuto Albertino illustrato
dai lavori preparatori, Presidenza del Consiglio dei Ministri,
dipartimento per le riforme istituzionali, Roma, 1996.
·
CIAURRO (L.), Parlamentare (status di), voce tratta
dal Dizionario di diritto pubblico diretto da CASSESE (S.), Giuffrè,
Milano, 2006.
·
CICCONETTI (S.M.), Diritto Parlamentare, Giappichelli,
Torino, 2005.
·
CONTE (V.) (a cura
di) con la supervisione di BUONUOMO (G.), Codice
dello status del parlamentare, Servizio delle prerogative, delle
immunità e del contenzioso. Raccolte normative n. 1, dicembre 2004,
XIV legislatura.
·
CORCIULO (M.S.), Guida al Parlamento italiano, E.S.I.,
Napoli, 1998.
·
LANDI (G.), Guarentigie, voce tratta dall’
Enciclopedia del diritto Giuffrè, vol. XIX, Giuffrè, Milano,
1970.
·
ROSSI (E.),
CASAMASSIMA (V.), Immunità
parlamentari, voce tratta dal Dizionario di diritto pubblico diretto da
CASSESE (S.), vol. IV, Giuffrè, Milano, 2006.
·
TRAVERSA (S.), Immunità parlamentari, voce
tratta dall’ Enciclopedia del diritto Giuffrè, vol. XX,
Giuffrè, Milano, 1970.
www.altalex.it
www.camera.it
www.cortecostituzionale.it
www.senato.it
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