La Stampa 8-8-2011
Un Paese senza
Luca
Ricolfi
Siamo
abituati a pensare che ad ogni problema corrisponda una soluzione. Ma ci sono
anche rebus che non hanno soluzioni: ad esempio la quadratura del cerchio, o
l'equazione di quinto grado. Fra i rebus senza soluzione, a mio parere,
c'è anche il problema politico italiano, almeno per ora.
Possiamo prendercela fin che vogliamo con la speculazione,
l'irrazionalità dei mercati finanziari, la perfidia delle agenzie di
rating (è di ieri la notizia che, per la prima volta, il debito
statunitense ha perso la tripla A, almeno nel giudizio di Standard & Poor's). Ma la realtà è che, anche se i
mercati si dessero una calmata (cosa che prima o poi succederà), né il
mondo, né l'Europa, né l'Italia avrebbero per ciò stesso risolto i
loro problemi. Le malattie che la febbre dei mercati mette in evidenza
sussistono indipendentemente dal nervosismo dei mercati stessi. E si tratta
di malattie molto gravi.
Il mondo è malato perché, dopo aver goduto dei benefici della
globalizzazione, non ha trovato - né forse ha veramente cercato - il modo di
contenerne alcuni drammatici effetti collaterali, come l'amplificazione degli
squilibri economici fra Paesi e l'ipertrofia dei mercati finanziari.
Mercati che sono arrivati a pesare 8 volte il Pil
mondiale e quindi (come notava sabato Morya Longo
su Il Sole 24 Ore) ormai in grado di incidere sui fondamentali delle
economie, anziché limitarsi a misurarne più o meno accuratamente lo
stato di salute. E non va certo ad onore della classe dirigente mondiale il
fatto che, a quattro anni dallo scoppio della crisi, così poco sia
stato fatto per riportare un po' di ordine e di trasparenza nelle transazioni
finanziarie.
L'Europa è malata perché è come l'Italia. L'edificio dell'euro
non funziona per gli stessi motivi per cui non ha funzionato l'unità
d'Italia. Quando si impone un mercato e una moneta unica a territori che
hanno enormi divari di produttività, di modernizzazione, di cultura
civica, solo un processo di convergenza economica e sociale accelerata
può evitare la formazione di squilibri drammatici. L'unificazione monetaria,
infatti, sopprime l'unico meccanismo di riequilibrio incisivo, ossia la
svalutazione della moneta nazionale. Private della possibilità di
svalutare, le economie deboli tendono a importare più di quanto
esportino, ed accumulano deficit e debiti pubblici sempre più grandi
per potersi permettere un tenore di vita che va al di là di ciò
che il Paese effettivamente produce. In queste condizioni, per contenere gli
squilibri c'è solo la via della modernizzazione del territorio
più debole, ma questa via - in Europa - è stata percorsa
pienamente solo da alcuni Paesi dell'Est, e segnatamente dalla Germania
orientale nell'ambito della riunificazione tedesca. Le economie deboli del
Mediterraneo - Italia, Spagna, Grecia, Portogallo - sono entrate tutte
nell'euro, ma ben poco hanno fatto per meritarsi l'appartenenza all'eurozona.
Un processo molto simile a quello che, nell'Italia repubblicana, ha fatto
fallire tutti i tentativi di annullare il divario fra Nord e Sud del Paese.
Con una differenza importante: che non esistendo un mercato dei titoli di
Stato delle Regioni, le nostre nove regioni in deficit (Lazio più
tutto il Sud) hanno potuto mascherare il loro status di territori-cicala
molto più a lungo di quanto siano riuscite a fare Grecia, Portogallo,
Spagna e Italia.
Quanto all'Italia, la sua malattia è simile a quella delle altre
economie deboli, ma presenta almeno due complicazioni importanti. La prima
è che una parte del Paese, ovvero tutto il Nord inclusa l'Emilia
Romagna (ma esclusa la Liguria), ha istituzioni di livello europeo, e tassi
di crescita più bassi del resto d'Europa solo perché - attraverso il
massiccio prelievo fiscale cui è soggetta - è costretta a
sostenere i consumi delle regioni meno produttive.
La seconda complicazione è la nostra classe dirigente, che - a mio
parere - ha cessato di essere tale intorno al 1998, appena perfezionato il
nostro ingresso in Europa. La stagione che va da Mani pulite e dal tracollo
della lira (1992) alla caduta del primo governo Prodi (1998) fu ancora,
nonostante vari limiti ed incertezze, una stagione di riforme, di
cambiamenti, di tentativi di modernizzazione. E lo fu indipendentemente dal
colore politico dei governi, e con il contributo sofferto, ma tutto sommato
costruttivo, delle principali forze sociali, a partire dai sindacati. Non
così il dodicennio che va dal 1999 ad oggi, in cui la nostra classe
dirigente ha progressivamente abbassato le ambizioni riformiste, fino allo
stallo degli ultimi due esecutivi (Prodi e Berlusconi), capaci di competere
fra loro solo nell'arte del non governo.
Ed eccoci arrivati al perché il rebus politico italiano non ha alcuna
soluzione. Il governo Berlusconi ha negato sistematicamente la gravità
della situazione, e proprio sulla base di questa diagnosi errata ha ritenuto
di potersi permettere una manovra risibile, in cui l'85% dell'aggiustamento
necessario per azzerare il deficit veniva scaricato sulle spalle dei governi
futuri. Sarebbe stato stupefacente che i mercati non si accorgessero del
bluff. Ed è un bene (o meglio è il male minore) che l'Europa,
imponendo l'anticipo al 2013 del pareggio di bilancio, abbia di fatto
commissariato l'Italia, sostituendosi a un governo paralizzato. Dunque
è vero, questo governo è diventato un problema, se non il
problema.
Il nostro guaio, sfortunatamente, è che questa opposizione - anzi
queste opposizioni - non sono la soluzione, ma una parte del medesimo
problema. E' almeno due anni che l'opposizione è convinta
dell'inadeguatezza di questo governo, ma neppure in un tempo così
lungo è stata in grado di approntare una diagnosi condivisa e una
terapia credibile. E' scoraggiante, in questi giorni, leggere sui giornali la
cacofonia di valutazioni e di proposte che arrivano da ogni angolo del
cantiere delle opposizioni. E ancora più scoraggiante è la genericità,
per non dire il vuoto spinto, dei documenti delle cosiddette parti sociali.
La realtà è che nessuno, oggi, è in grado di dire se le
attuali opposizioni sarebbero capaci di formare un governo, e tantomeno che
cosa un tale governo ci riserverebbe, al di là delle solite
chiacchiere su costi della politica, lotta agli sprechi, contrasto
all'evasione fiscale. Eppure il rebus è chiaro: se non vogliamo essere
in balia dei mercati bisogna trovare 50 miliardi di euro (più tasse e
meno spese), e inoltre bisogna trovarli senza provocare né una recessione né
una rivolta sociale.
Ecco perché penso che il rebus sia insolubile. Un'impresa come quella oggi
richiesta all' Italia potrebbe tentarla solo una classe dirigente credibile.
Dove per credibile non intendo solo un po' meno corrotta e squassata dagli
scandali, ma soprattutto più lucida, più unita, più
coraggiosa, meno ossessionata dalla ricerca del consenso a breve termine.
L'immobilismo e l'impotenza di Berlusconi sono diventati il problema dell'Italia,
ma la tragedia del Paese è che le opposizioni non hanno usato il lungo
tempo del crepuscolo berlusconiano per diventare, esse, la soluzione che il
Paese attende.
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