Il
Sole 24 Ore 12-3-2008
Così Benedetti giocò la
partita Wind
di Claudio
Gatti
In questo momento, va detto subito, non è noto
alcun elemento per sospettare che sia stata pagata una tangente per favorire
l'imprenditore egiziano Naguib Sawiris
nell'acquisizione della Wind. Checché se ne sia scritto, detto o anche solo
sussurrato, nessuno ha finora reso pubblico qualcosa che dimostri, o
semplicemente faccia pensare, che l'amministratore delegato dell'Enel Fulvio
Conti – o chiunque altro – abbia incassato un solo centesimo di mazzetta in
quell'operazione.
E per quel che riguarda i 414 milioni di euro pagati in commissioni a studi
legali, banche, consulenti, broker e professionisti vari, i banchieri
consultati dal Sole 24 Ore hanno definito la cifra alta. Anzi, molto alta. Ma
non così alta da essere anomala. Al contrario, in un'operazione da 12
miliardi di euro ad alto rischio per le banche, quella cifra ci può
stare. Basti pensare che Royal Bank
of Scotland, Fortis e Santander hanno pagato 500
milioni di euro a Merrill Lynch soltanto di advisory nell'acquisizione di Abn
Amro.
Nulla di illecito neppure nei 73 milioni di euro che, secondo i calcoli del
Sole 24 Ore, sono finiti a veicoli societari riconducibili al tuttofare di
Sassuolo, Alessandro Benedetti. È infatti
riconosciuto da tutti che fu lui a ideare e portare a compimento
l'acquisizione. È quindi legittimo sostenere che l'egiziano Sawiris gli abbia riconosciuto una commissione...
faraonica.
Il fatto che Benedetti avesse alle spalle una serie di fallimenti, ipotesi di
bancarotta (prescritte) e una condanna in tribunale (patteggiata) non vuol
dire nulla ma può alimentare sospetti. E in tribunale i sospetti non
portano ai processi e alle condanne. Per quello, servono le prove.
Le indagini della magistratura
Fatte queste premesse, se tre sostituti procuratori puntigliosi come Giuseppe
Cascini, Rodolfo Sabelli e Giuseppe De Falco hanno iscritto nel registro
degli indagati Benedetti e Conti assieme a Sawiris
e altre otto persone, si deve dedurre che il nucleo della Guardia di finanza
che conduce le indagini abbia fornito loro motivi sufficienti perlomeno per
avviare nei loro confronti accertamenti per verificare se una qualche
tangente sia passata di mano.
L'obiettivo di questa seconda puntata della nostra inchiesta è cercare
di capire che cosa può aver alimentato questi sospetti.
Cominciamo analizzando il ruolo di Benedetti. A parte Sawiris,
il principale beneficiario di tutta l'operazione è
infatti proprio lui. Se oggi si presenta come «imprenditore che
rischia il proprio denaro e possiede una banca d'affari» e si può
permettere di vivere in una elegante palazzina di
quattro piani a Belgravia, il quartiere più
nobile e costoso di Londra, è solo ed esclusivamente grazie alla
quarta resurrezione della sua ventennale carriera (le prime tre sono elencate
nella puntata pubblicata ieri su questo giornale).
Prima che l'operazione Wind lo ri-sdoganasse,
Benedetti era infatti un signore sul cui capo pendeva la spada di Damocle di
un'inchiesta per bancarotta non ancora andata in prescrizione. In quel
periodo si muoveva per Roma a bordo di una Panda, costretto ad associarsi a
personaggi quali il commerciante d'arte Antonio Lestingi.
Fu infatti quest'ultimo a trovare gli uffici dove
sarà studiata e messa a punto la scalata di Wind.
Di Lestingi si era occupato il tribunale di Pesaro
con una sentenza dell'11 gennaio 1996 in cui dichiarava lui e la moglie «i
reali soggetti economici operanti dietro lo schema societario» della
società fallita, la S.M. Italian Yachts Srl. In quella sentenza si parla di 19 assegni per
240 milioni di lire emessi «per aggirare la norma che impone l'obbligo di
segnalare assegni per transazioni di importo superiore ai 20 milioni», ma
soprattutto di cambiali che avevano come beneficiaria Matilde Ciarlante, una
signora associata ai Lestingi anche in un'altra
inchiesta e che il tribunale di Roma ha definito «soggetto di spiccata
pericolosità sociale e punto di collegamento tra la
camorra napoletana ed esponenti della criminalità organizzata
romana».
L'antiquario
In cerca di chiarimenti, siamo andati a trovare il signor Lestingi,
al numero 53 di via Margutta, la viuzza del centro
di Roma famosa per le gallerie d'arte. «Anto',
c'è un giornalista del Sole 24 Ore», gli ha preannunciato la signorina
che ci ha aperto la porta. Da dietro un muro, è arrivata la risposta:
«Digli di andà aff...». Non era evidentemente interessato a concedere
un'intervista.
L'idea della scalata a Wind venne a Benedetti alla fine del 2002. Così
sostiene nella documentazione depositata dal suo avvocato al tribunale di
Londra nella causa intentata il 23 agosto scorso contro Sawiris
(al quale sta ora chiedendo il 30% di Wind!). Nella richiesta di indennizzo,
Benedetti si definisce «un businessman italiano con una considerevole
esperienza nel mondo degli affari, particolarmente nelle telecomunicazioni e
nella finanza». E spiega di aver individuato «un'opportunità in Wind»
nel dicembre 2002. A
Natale di quell'anno un suo amico dei giorni d'oro della villa di Beaulieu-sur-Mer lo
presentò a Sawiris. Al quale propose
l'affare.
L'operazione era semplice: il contributo di Sawiris sarebbe consistito nel mettere i soldi, un terzo dei quali per conto di Benedetti; il suo, di coltivare «i
contatti con Wind, Enel e il Governo italiano, il cui sostegno sarebbe stato necessario
per l'acquisizione». E così fu. Perché, come si legge nel documento
depositato in tribunale a Londra, «il signor Benedetti ottenne il sostegno di
Wind, Enel e del Governo italiano, senza i quali
l'acquisizione sarebbe stata impossibile». Insomma, per sua stessa ammissione
il suo merito principale non sarebbe stato quello di aver messo in piedi una
cordata impareggiabile o una proposta imbattibile, bensì quello di
aver ottenuto «l'appoggio di Wind, Enel e Governo».
Amicizie e contatti
Ma che appoggi poteva avere uno sconosciuto come Benedetti? «Nel 2004 cominciò a farsi vedere presso il
quartier generale di Wind. Per negoziare un accordo di acquisto di traffico
per conto di Tele2, una società di telecomunicazioni svedese a cui era
legato», ci dice un testimone che chiede
l'anonimato. Ma come ebbe accesso ai vertici di Wind? «Arrivò
all'amministratore delegato, Tommaso Pompei, tramite Mauro Miccio, che all'epoca era consigliere dell'Enel, e lo
aiutò a creare le basi di un rapporto con Pompei. Tra l'altro, poco
prima della vendita, Pompei firmò un contratto con una società
controllata da Benedetti a condizioni per lui molto vantaggiose», risponde la fonte. Il riferimento è a un
contratto conferito a Managest/Arama,
società riconducibile a Benedetti, con il quale Wind cedeva ricariche
Wind a prezzi ultra-scontati e con pagamenti
dilazionati di 30 giorni rispetto al normale. E che permetteva quindi a Managest/Arama di avere
significativi margini di guadagno.
Anche con l'allora amministratore delegato dell'Enel, Paolo Scaroni, aprì un canale diretto? «No. Scaroni ci disse che della
cosa si sarebbe occupato il suo direttore finanziario (Cfo),
Fulvio Conti. Era con lui che si sarebbe dovuto trattare. Il problema
all'inizio fu che non riuscivamo a incontrare Conti. Né ad avere accesso ai
numeri di Wind, la cosiddetta dataroom, che invece
era a disposizione di Blackstone. Questo,
nonostante nel pool di advisor ci fossero nomi di
prestigio, quali Rothschild, Abn Amro, Ubs e Sanpaolo
Imi. Finché un giorno Alessandro Benedetti non suggerì di aggiungere Deutsche Bank agli advisor. Motivo? Era una banca che riteneva gradita a
Conti, quella con cui Enel aveva appena fatto una grossa operazione di
dismissione immobiliare».
Le due offerte
Fu in quel momento che Benedetti conobbe sia Conti che Vincenzo De Bustis, capo di Deutsche in
Italia. E con scientificità cominciò a coltivare i rapporti
anche con loro. La fonte tiene però a sottolineare che «non è vero che l'offerta di Sawiris
fosse inferiore a quella di Blackstone. Era vero
semmai il contrario, anche perché quella del fondo americano era puramente
finanziaria e avrebbe fatto di Wind il solito spezzatino, mentre quella di Sawiris aveva un dettagliato piano industriale».
Questo non esclude tuttavia - ipoteticamente - opportunità e denari
per una o più tangenti. Nel pacchetto delle commissioni, gli
investigatori hanno appuntato la loro attenzione su alcuni pagamenti. Il
più sostanzioso è quello dei 67 milioni pagati alla Itm di Londra. Ci sono poi
pagamenti molto più piccoli, ma ad altre entità tipo Itm, il cui ruolo non appare a prima vista evidente.
Parliamo della Managest (4 milioni), della Taco e della Larchsquare (1,75
milioni) o del commercialista di Frascati Bruno Capone (1,2 milioni.) Il Sole
24 Ore è andato a vedere chi c'è dietro questi nomi poco noti.
In un'intervista al settimanale Panorama, Benedetti ha definito Itm «una società da me controllata». Non è
vero. È controllata al 100% da Jack Nounou,
suo partner londinese. Presupponiamo comunque sia vero che attraverso Itm Sawiris pagò la fee per il suo ruolo nella transazione.
Anche dietro alla Managest c'è Benedetti. E
quei 4,08 milioni di euro erano il rimborso per le spese sostenute nel corso
della trattativa - dai viaggi aerei agli affitti degli uffici. Una cifra
senza dubbio molto alta. Considerando che una delle sue segretarie ha
rivelato alla trasmissione di Raitre Report di non aver neppure ricevuto il
suo trattamento di fine rapporto. Altri 2,5 milioni circa sono stati infine
girati a un altro veicolo riconducibile a Benedetti da una delle tre banche
nel pool di advisor. Per un totale quindi di 73,5
milioni.
Per quel che riguarda Taco, abbiamo trovato due ex
dirigenti di Wind che, dopo essersi dimessi, avevano dato un importante
contributo alla scalata. I beneficiari finali di Larchsquare
sarebbero invece una decina di persone, tra egiziani, inglesi, americani e
italiani, che avevano collaborato a costruire i modelli finanziari.
Capone, infine, è il professionista a cui si rivolse la cordata di Sawiris per avere una perizia per il conferimento del 50%
di Orascom in Weather, il
veicolo creato per acquisire Wind. Parte del suo compenso venne comunque
dirottato sulla Larchsquare per il lavoro fatto dai
"modellisti" finanziari. Insomma, nulla di sospetto.
Su un foglio A3 la mappa delle società
Vista l'entità della somma, l'attenzione degli investigatori è
concentrata sui 73 milioni riconducibili a Benedetti. Anche perché si perdono
dietro a vari schermi. A differenza del commercialista Capone, il tuttofare
di Sassuolo non è stato infatti pagato su un
suo conto in banca o su quello di una sua società, bensì sul
conto di un veicolo controllato da un socio. A Il Sole 24 Ore risulta inoltre
che, una volta arrivati a Londra, quei soldi siano stati quasi interamente
trasferiti in Svizzera sul conto di un'altra società costituita nelle British Virgin Islands. Ma,
considerando il personaggio, non è un'operazione anomala. Gli schermi
societari sono la sua specialità - basti sapere che usa girare con un
foglio A3, che lui chiama il «garage», con tante caselline che contengono il
nome dei diversi veicoli nelle più diverse giurisdizioni del mondo -
in particolare paradisi fiscali quali Svizzera, Caraibi e Lussemburgo - dove
tiene parcheggiati i propri beni.
Gli inquirenti non hanno finora reso noti gli elementi che li hanno condotti
a mettere nel mirino giudiziario Fulvio Conti, amministratore delegato
dell'Enel. Dalla nostra inchiesta emergono però alcuni spunti che
potrebbero essere utili per comprendere il motivo. Nonostante sia stato il
Cda dell'Enel ha decidere di optare per la cordata Sawiris,
fu Conti a gestire in prima persona la trattativa con le due cordate
concorrenti, e quindi anche il rapporto con Benedetti. Rapporto che
avrà uno strascico in un'operazione di straordinaria delicatezza e
importanza strategica per l'Enel, la tentata scalata a Compagnie de Suez (si
veda l'articolo in basso).
Fu sempre Conti a gestire la delicatissima fase tra l'accettazione
dell'offerta ad aprile e la chiusura dell'operazione ad agosto 2005, periodo
in cui l'operazione cambiò forma. Anziché tre miliardi di euro in cash (gli altri nove erano di debito Wind), come previsto
nell'offerta, Sawiris finì
infatti col pagare alcune centinaia di milioni di euro in contanti e
il resto in carta, con azioni di nuova emissione di un nuovo veicolo creato
assieme all'Enel in cui era stato conferito il 50%, più una azione,
della Orascom. Soluzione molto, ma molto meno
dispendiosa per Sawiris.
La governance dell'Enel
Sono inoltre state sollevate alcune perplessità su come l'Enel di
Conti (che nel frattempo era diventato amministratore delegato) si
comportò in materia di diritti di governance.
L'accordo conferiva infatti alla società
elettrica diritti molto forti per tutto il periodo di mantenimento della
quota di minoranza in Wind. Eppure al Sole 24 Ore risulta che gli egiziani
cominciarono molto presto a non rispettarli. Anziché prendere decisioni
collegiali - sulla nomina del direttore finanziario (Cfo)
di Wind, sul rifinanziamento, sulla quotazione di Wind/Weather
e sulla nomina degli advisor di quell'operazione -
volevano decidere sempre tutto al Cairo.
Non venne rispettato neppure il piano industriale, tant'è che Sawiris cominciò a importare a Roma management
egiziano e a commissariare di fatto le decisioni
tecniche e sugli investimenti infrastrutturali. E alla fine Weather è rimasta una scatola vuota. Gli stessi
impegni sui livelli occupazionali sono infine venuti a mancare: dopo un anno
e mezzo c'erano già 800 esuberi e altri ne sono in arrivo.
«Se io ricevo un'offerta per il 100% di una mia
controllata ma decido di venderne solo due terzi tenendomene un terzo, lo
posso fare solo per due motivi. Il primo è perché credo nel piano
industriale. Ma allora, avendone la prerogativa contrattuale, devo pretendere
che venga realizzato. E comunque devo far valere i miei diritti di governance. L'altro motivo è perché penso di poter
vendere il rimanente 30% più avanti a un prezzo maggiorato. Ma l'Enel
ha finito col vendere l'ultimo terzo allo stesso identico prezzo dei due
iniziali nonostante i conti di Wind fossero molto, ma molto migliorati.
Peggio, ha concesso un dilazionamento nel
pagamento. Tant'è che l'ultimo miliardo di euro non è stato
ancora pagato», commenta una nostra fonte, che giustamente si chiede: «Qual
è la ratio industriale o finanziaria di
questo comportamento?».
La stessa domanda alimenta evidentemente dubbi e sospetti degli inquirenti.
Anche se l'Enel nega i suoi stessi presupposti: «L'Enel
è voluta rimanere in Wind per esigenze di tipo politico, sociale e
sindacale. Per garantire stabilità. E non è vero che non
abbiamo fatto rispettare i nostri diritti di governance.
Al contrario: c'è stata spesso una dialettica
serrata e anche situazioni tese. Noi abbiamo sostenuto più
volte l'inopportunità di certe operazioni. Tanto è vero che
sono state fatte solo dopo che siamo usciti».
Seconda e ultima puntata
La precedente è stata pubblicata ieri
Benedetti: «Tutelerò la mia reputazione»
Alessandro Benedetti ha ieri diffuso un commento
sull'inchiesta del Sole 24 Ore precisando: «L'articolo, dal dubbio rilievo
giornalistico, è caratterizzato da offese di basso profilo, la maggior
parte delle quali è attuata mediante il
racconto distorto di fatti spesso falsi. Per questo motivo ho deciso di dare
mandato ai miei legali affinché intraprendano tutte le iniziative idonee per
tutelare la mia reputazione».
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