HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli Documentazione Documento inserito il
6-2-2007 |
|||
|
|||
Da comedonchisciotte.org MA ESISTE ANCORA IL DENARO ? DI PAOLO SENSINI Il denaro è una pura
astrazione Che cosa rappresenta oggi il
denaro? E qual è la sua funzione precipua nel mondo contemporaneo? Sembrano domande scontate,
evidenti, perfino inutili nella loro bolsa ovvietà. Siamo infatti a un
tal grado di prossimità dalla «vil moneta», o con ciò che meno
prosaicamente è stato definito per secoli e secoli da Santa Romana
Chiesa come lo «sterco del diavolo», da non prestare più la minima
attenzione alla natura intrinseca di quest’«oggetto demoniaco». Ci è
così vicino, così abituale, così epidermicamente consustanziale
da ritenerlo nient’altro che una sorta di impercettibile diaframma tra noi e
il mondo circostante. «Ma il denaro è denaro»
sento già rispondermi da qualcuno che non ha tempo da perdere in
simili elucubrazioni tautologiche. Eppure, allo stesso modo in cui ci
serviamo di uno «strumento di interazione umana» come il linguaggio (la langue
la definì il linguista svizzero Ferdinand de Saussure), così la
«vil moneta», che ci piaccia o no, è l’elemento continuativo e
costante del nostro rapportarci col mondo circostante. Una sorta di protesi
esterna che anche in negativo, cioè in sua assenza, ci tiene comunque
avvinti all’ambiente che abbiamo intorno a noi. E che, ancora una volta
similmente al linguaggio, muta anch’essa con il mutare delle condizioni
storico-sociali. In altre parole si tratta di un’entità che è
stata ed è soggetta a continue metamorfosi, pur serbando nel
suo dna alcune caratteristiche ricorrenti nel corso del tempo. Ragione per cui
sarà bene dedicarvi, se siamo interessati a cogliere ab ovo il
nocciolo della questione, una riflessione per intendere a che punto ci
troviamo e verso quale direzione ci stiamo muovendo. Nulla di ozioso, dunque,
ma un necessario gesto di profilassi mentale per riorientare la bussola del
nostro tempo. Partiamo allora dalla domanda
basilare: per quale ragione è venuta alla luce la moneta? È
stato il commercio, cioè la relazione dell’individuo con l’individuo
in uno spazio con-diviso che ha creato l’esigenza della moneta e ne ha
sviluppato l’uso. Apprezzare o valutare ciò che si scambia vuol
infatti dire contarlo, pesarlo, confutarlo, misurarlo, e chi dice misura
dice ovviamente «unità convenzionale». La moneta non è infatti
un fenomeno per così dire primario, ma secondario. E non è essa
ad aver creato lo scambio, è lo scambio che ha creato l’esigenza della
moneta. Prima di questa fase, che è tuttavia relativamente assai tarda
nell’evoluzione complessiva dell’umanità, tutti i popoli antichi
avevano a lungo perseverato nella pratica antidiluviana del baratto. Con un tacito accordo, invece,
ora i gruppi di individui assuefatti a scambiare e a commerciare insieme
adottarono una derrata particolare il cui valore, generalmente
convenuto, serviva da scala comparativa, da equivalente universale al valore
di tutte le cose che essi di solito dovevano permutare fra loro. Ogni
tribù, ogni popolo, adottò infatti fin da subito per campione e
intermediario degli scambi la merce in genere più ricercata presso di
sé a cagione dei suoi vantaggi e che si poteva, per così dire, tenere
a portata di mano. Ne La ricchezza delle nazioni,
Adam Smith affermò ad esempio che «il sale era considerato uno
strumento comune di commercio e scambio in Abissinia». La parola sanscrita
«roupa», invece, che significa «gregge», ha formato il nome dell’unità
monetaria dell’India, la «rupìa» (rupayā). Da questo punto
di vista la maggior parte dei riferimenti al grosso e al piccolo bestiame nei
libri sacri dell’India antica spesso alludevano alla funzione monetaria e
attestavano che le ricchezze, al tempo in cui noi datiamo questi scritti,
consistevano soprattutto in greggi. Ma anche il termine paleofrisio «sket» e
il paleoslavo «skotu», per citare altre locuzioni equipollenti, significavano
entrambi tanto bestiame quanto denaro. Presso i primi abitatori della
penisola italica, similmente a quanto abbiamo riscontrato più sopra,
tutto si valutava e si pagava in capi di bestiame. Il grosso e il piccolo
bestiame erano pure qui, in origine, la principale ricchezza e formavano il
campione del pagamento dei prodotti; e infatti la parola «pecūs»
indicava il bestiame (o la pecora) e da essa, per derivazione, si ebbe il
termine «pecūnia» che finì per applicarsi esclusivamente alla
moneta metallica, quando quest’ultima venne impiegata nelle transazioni[2]. È inoltre l’abitudine di contare
il bestiame per «capita» (capi), che ha dato origine alla parola «capitale»,
termine che indica esclusivamente, nella nostra lingua, la ricchezza in
numerario. Dopo gli scambi in natura, dopo
la scelta d’una merce-tipo atta pressappoco alla convenienza di tutti, come i
cereali e gli armenti presso i popoli agricoli, nasce l’uso dei metalli che
espletano più comodamente lo stesso ufficio. Ma che assolvono
fondamentalmente la medesima funzione di razionalizzazione dello scambio.
Secondo la testimonianza di colui che può essere considerato a buon
ragione come il padre della storiografia occidentale, Erodoto di Alicarnasso,
furono «i Lidî i primi uomini che, a nostra conoscenza, abbiano fatto coniare
per loro uso della moneta d’oro e d’argento»[3]. L’introduzione della moneta
presso i Greci delle sponde del mar Egeo nel vii secolo a.C., si
manifestò assai rapidamente proprio in virtù dell’enorme
sviluppo commerciale dell’epoca, come attesta la quantità di monete
ritrovate. È infatti a Egina, situata in un golfo della costa
nord-occidentale ellenica, che fanno la loro prima apparizione le monete
d’argento. Egina era nel vii secolo il centro commerciale più
importante della Grecia, cioè il più grande mercato
internazionale dell’epoca, dove approdavano le navi di tutto l’Oriente e
soprattutto quelle provenienti dalle colonie greche della costa dell’Asia
Minore. Si capisce dunque perché sia diventato il primo luogo in cui venne
sperimentata la moneta vera e propria. Poi verrà il turno della
polis ateniese, che nel volgere di qualche secolo riuscì a imporsi
come il vero e proprio omphalós dell’intero bacino mediterraneo,
accompagnando la propria espansione commerciale e talassocratica con uno
straordinario rigoglio delle sue peculiari istituzioni politiche e
socioculturali. È dunque all’interno di questo materialissimo crogiolo
di pratiche mercantili che rese possibile un intenso scambio di esperienze e
sensibilità con tutti i popoli del mondo fino allora conosciuti, e non
in un astratto cielo metafisico di cui si è così a lungo
favoleggiato fuori e dentro le accademie, che vanno ricercate le coordinate
assiologiche che diedero vita al concetto stesso di dēmokratía,
cioè al primo tentativo esperito concretamente in sede storica di
gestire la cosa pubblica da parte del popolo sovrano[4]. Con tutto ciò che esso ha
significato sul piano della vita associata ma anche su quello
dell’auto-riflessione che l’uomo ha iniziato a rivolgere verso se stesso. In
altre parole si tratta di una profonda rottura con il mondo precedente: una
soluzione di continuità che trova una spiegazione
logico-consequenziale solo se si ha l’onestà intellettuale di seguire
le pieghe interne e la dinamica di questo complesso sviluppo sociale. Uno
sviluppo che peraltro ha piena rispondenza sul piano storico in ogni luogo con
cui questo tipo di amalgama esperienziale è entrato in contatto. Ma per riprendere il bandolo del
nostro discorso, quali sono le ragioni per cui la moneta soppiantò le
altre merci in funzioni di mezzo di scambio? Il motivo principale è
che i metalli sono meno alterabili e più versatili della gran parte
delle altre merci o derrate; per conseguenza è più facile
serbarli a lungo in magazzino, senza rischiare di vederli deteriorare, come i
cereali, il bestiame, le pellicce o il sale. Si può facilmente
accumularli e ridurli in frammenti senza che essi perdano nulla del loro
valore. La loro conservazione non esige molta manutenzione e sono
relativamente ben poco voluminosi. «Caratteristica ancora più
importante è che il bene sia un bene di lusso. Il fatto che i desideri
dell’uomo per gli oggetti di lusso siano illimitati ne garantisce una domanda
continua e una perenne accettabilità»[5]. In breve, le altre merci-tipo sono
sprovviste di tutte queste qualità, o almeno non le posseggono allo
stesso grado. Dappertutto i «campioni del
valore», di fabbricazione metallica, si sostituirono dunque ai campioni presi
nelle produzioni naturali di ogni paese. Si trova in questo universale
avvicendamento degli oggetti naturali con oggetti di metallo, un titolo di
valore-tipo, una nuova applicazione di quella legge che lo sviluppo sociale
d’un popolo in fondo si regola sempre sulle modificazione del regime della
produzione. Va anche aggiunto, inoltre, che originariamente il contenuto
metallico costituiva il dato di fatto mentre la forma monetaria
rappresentava solamente l’autenticazione pubblica del contenuto metallico
stesso. Si trattava insomma di un determinato quantitativo di metallo
prezioso, di una verghetta in una forma autenticata dalle autorità del
luogo. Così, in ragione della funzione commerciale della moneta e del
carattere fiduciario che le conferiva l’impronta delle istituzioni che la
«certificavano» pubblicamente, ci si rese presto conto che vi era un grande
interesse nel dare a questo marchio la maggior importanza possibile, nello
svilupparlo per renderlo più appariscente affinché nessuno potesse
confonderlo. Secondo alcune attendibili ricerche[6], il regime monetario romano ebbe inizio
appena nell’anno Con l’«aureus» (moneta d’oro
istituita da Cesare nel Il proposito di creare una
moneta mondiale determinò infatti una esportazione notevole di oro e
argento che fu una delle cause della crisi monetaria del ii secolo dopo
Cristo. Fu così che gli «imperatori soldati», successori dei Severi,
si trovarono nella necessità di adottare tutti gli artifici possibili
e immaginabili pur di surrogare i metalli preziosi che andavano sempre
più rarefacendosi sui territori dell’impero. Ma, nonostante
ciò, la crisi proruppe in tutta la sua devastante violenza con
l’imperatore Valeriano i e soprattutto con suo figlio Gallieno, in quanto
l’importazione notevole di beni di lusso dalle Indie, dall’Arabia e da altri
paesi, come ad esempio l’ambra dalla Germania, superò l’esportazione
verso quei paesi in modo assai consistente. Ebbe così inizio
un’èra di sfrenata inflazione, con una dilatazione monetaria
illimitata e una coniazione a getto continuo di «miliarenses» di rame
utilizzati soprattutto per pagare il «soldo» alle truppe, ultima risorsa
ormai di un organismo un tempo straordinariamente potente ma ora intaccato
nelle sue funzioni più vitali. Scomparsa la fiducia nella moneta, la
capacità d’acquisto del denaro crollò rapidamente segnando in
maniera definitiva le già pencolanti sorti dell’impero. Sulla base di
molteplici elementi si è accertato che, pur tenendo conto
dell’estrazione di metallo aureo, il «deflusso di metalli preziosi dal tempo
di Augusto sino alla metà del iii secolo d.C. fu di quattro quinti di
oro e due terzi di argento delle giacenze originarie»[7]. In buona sostanza bimetallismo e
supervalutazione del rame, tentativi politici di creare una valuta universale
e una bilancia commerciale cronicamente passiva sortirono come risultato la
sparizione di pressoché l’intero stock di metallo prezioso. Tutto ciò
unitamente allo sfaldamento dell’impero e al regresso dei traffici, alla
distruzione del «principio di legittimità» incarnato dal Senato romano
ad opera di Settimio Severo[8], al decremento complessivo della
popolazione e al crollo degli standard di vita generali, furono le ragioni
del tracrollo monetario e del conseguente caos inflazionistico che
prostrò le residue forze che allignavano nell’impero. La svalutazione
del denaro ebbe inoltre come conseguenza che i paesi limitrofi deviassero i
loro traffici dall’agonizzante impero, con un vertiginoso rincaro dei prezzi. A questi fattori di ragione
prettamente valutaria si aggiunse anche, estinta la casa dei Severi, la
dissoluzione dell’impero in varie parti per opera di anticesari e usurpatori.
Il periodo che va da Massimino ad Aureliano, cioè dal 235 al 270 d.C.,
rappresentò infatti una travolgente metamorfosi sociale in cui si
rifuse l’intero plesso della società romana. Si andava cioè
delineando grado dopo grado la cosiddetta epoca del Colonato, in cui l’antico
cives romano si trasformava nel servo di un dominus che
ne disponeva a sua completa e insindacabile discrezione[9]. Ciò avvenne perché, mancando «la
normale circolazione della moneta, la cristallizzazione della proprietà
era impossibile perché il “dirigente sociale” non poteva disgiungere il suo
potere sul suolo da quello su chi lo lavora»[10]. Potendo pagare invece il lavoratore con
una somma di denaro o l’occupazione di una terra con un fitto in contanti,
come accadeva di regola nei tempi precedenti, ecco che il potere sociale
prima indifferenziato, sia sul suolo, sia su chi lo lavorava, poteva
scindersi in potere sui mezzi di produzione (proprietà) e
potere sugli uomini (pubblici poteri). Come puntualmente documentato
dagli eventi nonché dalla letteratura dell’epoca, l’erosione continua del
valore del medio circolante determinò un progressivo ritorno al
baratto, e il denaro tesaurizzato fece capolino qua e là solo
fugacemente per permettere ai detentori di procurarsi i mezzi di
sostentamento. A suffragio di quest’ipotesi, apprendiamo da un papiro
dell’epoca che sin dal 250 d.C. le città erano sempre più
spopolate e impoverite. Roma, che all’apice della sua potenza era un
agglomerato di circa un milione e mezzo di abitanti, riduceva ora la sua
popolazione a poche migliaia di unità[11]. Segno che qualcosa di molto grave era
nel frattempo avvenuto. L’oro e l’argento erano scomparsi, la
prosperità e i patrimoni formatisi nei tempi precedenti si erano volatilizzati.
Una terribile carestia, poi, fu la conseguenza logica o piuttosto
l’espressione della tragica situazione che era venuta a determinarsi. In questo «nuovo» panorama
sociale, fiorirono con sempre più frequenza i cosiddetti obærati,
gli indebitati e rovinati che, non difesi più dalla lex romana,
cadevano nella soggezione politica dei loro creditori[12]. Si apriva in altri termini l’epoca in
cui ogni cittadino che si trovava in questa condizione veniva di fatto
inchiodato al suolo e si trasformava in un membrum della terra[13]. Diveniva cioè servus
glebæ. E, come tutti i servi della gleba del x secolo, doveva
fornire prestazioni in natura, servizî e corvées. La sua libertà
formale, da questo punto di vista, era una sopravvivenza giuridica di
un’epoca ormai remota, un attributo divenuto totalmente svuotato di senso.
È quello che comunemente si usa per descrivere il periodo di tempo
definito come «Medioevo», ma che forse sarebbe più appropriato
chiamare Feudalesimo poiché già dal ii-iii secolo d.C. sono presenti
tutti quegli «ingredienti» che saranno individuati come tali dagli storici
solo molto posteriormente[14]. Durante tutta questa sequenza
storico-sociale durata circa nove secoli, in assenza di mercato – e quindi
della moneta – il pagamento della terra ceduta al lavoratore veniva fatto,
come si è detto, in servizî; ma questi dovevano essere espletati sul
luogo di produzione: ecco allora che il lavoratore non poteva più
andarsene e si trovava legato al suolo «æternitatis iure»[15]. Si era così consolidato un potere
unico sugli uni e sugli altri compenetrati insieme. «Il servo –
notava a questo proposito Bruno Rizzi – è il cardine morfologico della
società feudale, esiste dovunque, mentre il dirigente
può essere un vassallo, un burocrate, un quirita, un patrono o il
capoccia di una tribù, per esempio lo sceicco […]. Il potere feudale,
ossia la signoria dei dirigenti sui mezzi di produzione e sui lavoratori,
forma la base di tutto l’apparato giuridico. Il legame di coesione sociale
d’ordine politico è il cemento di tutte le società feudali»[16]. Per questo «nella società feudale
scompare tutto quello che ha attinenza al pubblico appunto perché il
cittadino non esiste più». Tale ripiegamento sociale che
trovò un nuovo tipo di coagulo nelle ampie villæ dei patrones
che ridisegnarono da cima a fondo la topografia del vecchio impero romano,
durerà per secoli e secoli proprio perché interpretava economicamente
il profondo mutamento sociopolitico dell’epoca. Grosso modo si può
parlare di un periodo che va dal ii-iii all’xi secolo d.C. in cui la moneta,
salvo rarissimi casi, sparì dalla circolazione[17]. Tutto infatti si svolgeva nelle terre
del «signore» con un’economia squisitamente autarchica in cui i villici
preposti al fabbisogno generale producevano ciò che serviva alla
sussistenza di ogni singola enclave. Ecco il perché
dell’instabilità politica di quei «secoli oscuri», delle continue
guerre e guerricciole che insanguinarono l’Europa per secoli e secoli.
Ciascuno di questi patrones, infatti, godeva nella propria tenuta di
uno status paragonabile a quello di un vero e proprio capo di Stato, anche se
tutto ciò naturalmente non era codificato in termini giuridici. Ma la
sostanza era quella, e come tale si comportava con i propri subordinati
interni così come con gli avversari esterni. In altri termini era un
despota che, essendo venuta meno la differenza tra «pubblico» e «privato» su
cui era basato tutto l’edificio del diritto romano, godeva di un dominium
eminente (cioè di un potere totale) su chiunque rientrasse sotto
la sua sfera di competenza. Ovviamente nel descrivere un
siffatto contesto non si può neppure più parlare di «classi
sociali», com’era stato invece il caso dell’epoca di maggior fulgore della
civiltà greco-romana, ma semmai di vere e proprie «caste», che si
differenziano dalle prime per una sostanziale impermeabilità e
separazione tra i vari raggruppamenti sociali. E questo, tanto per tradurlo
in termini concreti, significava che nascere servo della gleba
equivaleva a rimanerlo per tutto l’arco dell’esistenza e trasmettere tale
attributo alla propria progenie; così come nascere signore voleva
dire dominare – a prescindere dalle capacità e dai meriti personali –
sui propri possedimenti e sul proprio «gregge umano» in sæcula
sæculorum trasmettendone intatte le medesime prerogative a tutta la
discendenza. Quando iniziò a mutare
tale situazione? Esattamente nel momento in cui si riattivarono quei
meccanismi sociali che permisero di riconnettere lentamente ciò che
per secoli era venuto meno, vale a dire tutta quella rete di scambi e
relazioni tra individui e comunità di cui ci è stata trasmessa
ampia documentazione dai cronachisti del tempo. È inoltre l’epoca in
cui, subito dopo il tornante del primo millennio, rifioriscono a nuova vita
le «città fantasma» abbandonate dopo il crollo dell’impero romano le
quali, come ad esempio nel caso di Roma, fungevano ormai da secoli e secoli
da terreno per il pascolo di bestiame o come distese di rovi là dove
un tempo sorgevano templi e agorà. Molte città nacquero in
questo stesso periodo, alcune inizialmente come piccoli borghi che facevano
da corona alla dimora del signore, altre ancora sorsero al crocevia di
importanti vie di comunicazione proprio perché i prodotti in eccedenza delle
campagne iniziavano a creare quel circolo virtuoso e quell’osmosi sociale tra
città e contado agricolo che preparò il terreno del nostro
Rinascimento. Un Rinascimento che fu, è bene specificarlo, dapprima
economico e quindi artistico e culturale. E le cui scoperte
tecnico-scientifiche, peraltro molto importanti, furono la conseguenza,
piuttosto che la causa, della ripresa economica. Sembra un’interpretazione,
quest’ultima, assai ardita rispetto alla vulgata ufficiale tutta centrata su
una visione eminentemente «culturalista». Eppure come spiegare quel
brulichìo artistico se non come la risultante delle molteplici attività
artigianali che andavano dispiegandosi nelle botteghe comprese tra le mura
delle città? Forse che gli abitanti della Firenze
umanistico-rinascimentale erano ontologicamente più dotati o capaci
rispetto a quelli venuti dopo di loro? Certo che no. Solo che essendo la
città dell’epoca composta quasi interamente da lavoratori artigianali
che si cimentavano nelle più molteplici attività manuali e
intellettuali, è ovvio che da quel magma ribollente emergessero figure
che si distinguevano per la straordinaria qualità delle loro opere. Da
qui i Leonardo, i Brunelleschi, i Vasari, i Michelangelo, i Raffaello… Ecco
la differenza tra quel contesto e il mondo attuale. Accampare ragioni di
carattere metafisico o strane congiunzioni astrali non aiuta certo a capire i
fatti nella loro datità reale, che sono molto meno misteriosi di
quanto si voglia far credere. Avvenne dunque che, grado dopo
grado, riprese a circolare quel tallone monetario che si era eclissato
dall’ambito dell’economia autarchica per svariati secoli. Dapprima esso
servì come razionalizzatore del commercio e come elemento di
fluidificazione mercantile, in un periodo che possiamo grosso modo datare tra
il xii e il xv secolo, e che si può definire a buon diritto come
«artigiano-nobiliare»[18]. Poi il processo di circolazione
monetaria iniziò gradualmente a tramutarsi in vera e propria
accumulazione di capitale, tanto è vero che già alle soglie del
’500 abbiamo le prime testimonianze di agglomerati di lavoratori (e anche
delle prime rivolte sociali) che vendono il proprio lavoro come una merce
qualsiasi[19]. Sono diventati cioè proletari, e
non più servi di un dominus che ne dispone a suo totale
piacimento. Si tratta di una trasformazione epocale che avrà
conseguenze dirompenti sul mondo a venire. In un contesto siffatto, quindi,
il denaro non è qualcosa che interviene dopo che il prodotto
sia stato ottenuto, quasi come semplice artificio tecnico diretto a
facilitare un processo di scambio che rimane, nella sostanza, identico al
baratto, ma è, viceversa, il prodotto stesso della società
mercantile. Detto altrimenti, il denaro non è altro che il medesimo
valore di scambio «scisso dalle merci stesse ed esistente esso stesso come
una merce accanto ad esse»[20]; e che siccome il valore è il
prodotto specifico del processo capitalistico, lo stesso denaro, in quanto
valore autonomizzatosi, non si aggiunge al prodotto del capitale, ma è
questo prodotto stesso. «Il presupposto elementare della società
borghese – annotava Marx nel novembre 1857 – è che il lavoro produce
immediatamente il valore di scambio, ossia il denaro»[21]. L’assunzione della «forma di denaro»
della merce non è pertanto una circostanza accessoria, ma è
l’abbandono da parte della merce della sua forma particolare e l’attribuzione
da parte sua della sua forma generale[22]. Naturalmente la forma di denaro
rappresentava, in quanto a sua volta merce ed equivalente generale, il
corrispettivo di un metallo prezioso che ne garantiva il valore. Da questo
punto di vista un fatto economico assai rilevante di quest’epoca è
l’arrivo in Europa, proveniente dall’America, di una grande quantità
di altra merce, l’oro e l’argento. 100 milioni di franchi in oro e 200
milioni in argento: queste, pare, le masse monetarie penetrate in Europa dal
1533 al 1568[23]. Per cui l’abbondanza della moneta,
l’attività commerciale e le variazioni dei prezzi resero possibili la
formazione di alcune immense ricchezze che dettero a certe famiglie borghesi
un straordinaria potenza. A partire dalla seconda
metà del xvi secolo, inoltre, si impose una novità assai
importante: l’introduzione della banconota[24]. Questa ricevuta, di cui il più
antico esemplare conosciuto è del 1564, venne in seguito rilasciata a
chiunque ne faceva richiesta e assunse allora il nome di «fede di credito»[25]. Coperto e garantito dal metallo
prezioso, il biglietto del banco, che non è altro che il simbolo
del valore contenuto nel metallo prezioso, può circolare come
moneta – da cui la banca ricava un beneficio – proprio come se fosse esso
stesso oro o argento. «La logica prosecuzione alla creazione di un mezzo di
scambio diventa pertanto lo sviluppo di un sistema bancario e l’emissione di
titoli di credito (banconote e assegni) in grado di sostituire l’oro»[26]. Occorre solo che la moneta di carta sia convertibile
nel metallo prezioso, e se lo Stato garantisce i biglietti così
emessi si dice che essi hanno «corso legale». Questo, in maniera succinta,
è il meccanismo di fondo su cui farà aggio tutto il susseguente
processo di valorizzazione capitalistica. Ma cosa succede quando questo
meccanismo perde le sue caratteristiche fondanti così come le abbiamo
descritte finora e si trasforma in qualcosa di diverso? Mi spiego meglio.
Abbiamo visto, nel corso di queste rapida ricostruzione, la funzione di
intermediazione e lo statuto del denaro nella società mercantile prima
e capitalistica poi. Ovvero quello di un «equivalente generale» che sgorga
direttamente dal processo produttivo e che trova incarnazione nel metallo
prezioso o, che è lo stesso, nella moneta cartacea da essa
simbolizzata. Il tutto naturalmente basato su un rapporto di produzione che
fa premio sul mercato. Abbiamo però anche visto che vi è stato,
nel corso della nostra storia pregressa, un lungo lasso di tempo in cui il
denaro (cioè il metallo pregiato che lo incarnava) era praticamente
sparito come momento di intermediazione sociale. Una sparizione coeva al
venir meno della distinzione tra «pubblico» e «privato» che su di essa era
fondata, la quale di conseguenza aveva imposto un modello di sfruttamento
economico non più mercantile bensì autarchico e feudale. Nel corso del Novecento
osserviamo l’emergere di un altro fenomeno ancora, che si differenzia
significativamente da quelli ora descritti. In questo nuovo scenario abbiamo
sì il denaro, ma quest’ultimo tende a divenire sempre di più un
mero «segno cartaceo» e a svincolarsi dal suo sostrato aureo. Tale tendenza
iniziò a delinearsi con la Prima Guerra Mondiale, per effetto delle
politiche statali di copertura delle spese belliche attraverso un aumento
della circolazione fiduciaria. Da esso derivò che tutte le divise
monetarie si svalutarono enormemente in proporzione alla massa di segni
cartacei emessi dalle cosiddette «centrali». Dopo il ritorno della pace ne
conseguirono pesanti tensioni sui mercati finanziari che nel corso degli anni
successivi divennero endemici. Sul piano nazionale, infatti, il
regime aureo implicava che le banche centrali dovessero mantenere il valore
della loro unità monetaria alla pari con quella delle altre moneta del
sistema mediante una sufficiente riserva d’oro. Il mantenimento del gold
standard richiedeva un preciso limite alla creazione di moneta creditizia
«e il sistema bancario si imponeva come il protettore della stabilità
economica»[27]. Il regime aureo era quindi uno strumento
teso a limitare l’espansione e la contrazione del credito e con esse le
tendenze inflazionistiche e deflazionistiche che si esprimevano nell’aumento
o nella diminuzione dei prezzi. Con la Seconda Guerra Mondiale
il quadro si complicò ulteriormente e il processo inflattivo, di
conseguenza, continuò a espandersi pressoché ovunque. Questa
situazione era la risultante della «trasformazione subìta da un
capitalismo di tipo concorrenziale a un regime che, sfociando in due guerre e
rivoluzioni mondiali, ha portato lo Stato a un controllo rapidamente
crescente o addirittura completo delle economie nazionali»[28]. L’economia veniva «perciò
codeterminata dallo Stato e dalla grande industria in misura tale che, a
tutti i fini pratici, lo Stato è la grande industria e la grande
industria è lo Stato»[29]. Dopo il secondo conflitto
bellico i movimenti internazionali di capitale «furono dominati dalla
presenza degli Stati Uniti, i quali vi parteciparono con fondi in gran parte
governativi. Gli aiuti americani permisero inoltre ai governi europei di
adottare programmi di impresa molto più ampi di quanto sarebbe stato
altrimenti possibile. Questi aiuti furono un’estensione alla sfera
internazionale della produzione indotta dallo Stato»[30]. Tale «politica economica»
raggiunse il suo momento culminante il 15 agosto 1971, quando il presidente
degli Stati Uniti d’America, l’avvocato Richard Nixon, decretò
l’inconvertibilità del dollaro in oro ponendo così fine al
sistema del Gold exchange standard ratificato con gli accordi di
Bretton Woods il 22 luglio 1944[31]. In questo quadro il dollaro si era
imposto come l’arbitro del sistema monetario internazionale, fissando, con 45
paesi presto saliti a oltre 150, un nuovo equilibrio di cambi che poggiava
sulla piena convertibilità della rappresentazione teatrale
della moneta sulla scena internazionale. Gli Stati Uniti assumevano
così un ruolo d’impresario e garantivano che l’oro ideale
rappresentato dal dollaro poteva in qualunque momento divenire oro reale.
Mettendo bruscamente fine a questo trend, bisognava ora aver fiducia nella
rappresentazione scenica senza più mediazione alcuna, l’oro non
esisteva, lo spettacolo doveva divenire realtà perché così
comandava l’impresario. Del resto nessuno era in grado di chiedere ed
ottenere il fallimento degli Stati Uniti d’America, non solo per carenza di
armi idonee, ma anche perché ormai le riserve di tutte le nazioni si
fondavano sulla medesima finzione[32]. In altre parole Nixon procedeva
ad allineare il dollaro alle valute europee e al rublo. Il che significava
equipararlo a della pura e semplice carta-moneta, o meglio, a dei segni
monetari senza alcun valore intrinseco i quali, per essere accettati o
imposti come tallone di scambio, ponevano in tutta la loro
drammaticità il problema del valore. «Le obbligazioni
governative – notava a questo riguardo il futuro presidente della fed Alan
Greenspan – non sono infatti finanziate da ricchezza tangibile, ma
rappresentano solo la promessa del governo di sborsare nel futuro parte del
reddito ottenuto tramite il prelievo fiscale»[33]. Che cosa garantisce un «segno
cartaceo» in circolazione che non ha più come contropartita immediata
la sua realizzabilità in un certo peso di metallo pregiato? Non vi
è che una sola risposta: la produzione. Finché sono reperibili merci
sul mercato, esse garantiscono quei segni monetari che teniamo in tasca. Se
mancano i prodotti, invece, li possiamo anche buttare perché non valgono
nulla – non essendovi più in contropartita il metallo prezioso. Ma i
prodotti sono lavoro cristallizzato e, in ultima analisi, le differenti
valute cartacee rappresentano lavoro. L’euro, il dollaro, il rublo, lo yen,
ecc., rappresentano nient’altro che le varie unità di misura
«regionali» del lavoro umano. Balza quindi agli occhi che
questa «moneta-lavoro» rappresenta una «novità» rispetto a ciò
che abbiamo riscontrato fin qui. «Ora il possessore di un titolo di stato o
di un deposito bancario creato dalle riserve cartacee crede di avere un
valido diritto su un bene reale. Ma non è così: la
verità dei fatti è che adesso ci sono più diritti che
beni reali»[34]. Trattasi insomma di un problema di prima
grandezza, anche perché, la storia ce lo insegna, il disordine monetario non
è la causa scatenante delle difficoltà economiche generali, ma
sono invece queste ultime che costituiscono la ragione della metamorfosi del
denaro in segno cartaceo. Ed esso non è altro che il sintomo
rivelatore del funzionamento patologico del sistema. Dire però che questa
tipologia economica rappresenti un’autentica novità non è del
tutto esatto. Infatti uno scenario come quello testé descritto si era
già manifestato altrove. Mi riferisco a ciò che era già
avvenuto in Russia con il rublo che, com’è noto, non si poteva cambiare
in oro e non aveva corso in Occidente; era cioè una «moneta di conto»
o un buono di consumo che serviva puramente alla distribuzione dei
prodotti senza possedere un valore intrinseco. Ad onor del vero, tuttavia, va
anche detto che già durante la «Grande Depressione» il presidente
Roosevelt si era reso conto «che quanto si sta facendo negli Stati Uniti sono
in parte le stesse cose che si stanno facendo in Russia come pure alcune cose
che si stanno facendo nella Germania di Hitler. La differenza è che gli
Stati Uniti le fanno in modo ordinato»[35]. Ma, a parte l’elemento dell’«ordine», si
«abbozzavano già distintamente gli elementi che facevano intravvedere
molte caratteristiche in comune; caratteristiche che si possono combinare
insieme per formare nuovi sistemi misti»[36]. Il rublo rappresentava quindi
un’«unità di tempo-lavoro» che lo Stato russo emetteva a suo piacere
lasciandola garantire dal gettito produttivo. Prezzi, salari e profitti pur
essendo ancora categorie economiche, non svolgevano più una funzione
attiva indipendente: erano soltanto espressioni di grandezze fisiche
aggregate e determinate direttamente dalle decisioni del Gosplan. La
ripartizione delle risorse non aveva quindi nulla a che fare con i rapporti
di prezzo, di salario e di profitto[37]. Cosa voleva dire tutto questo?
Che la «moneta di conto» sovietica non costituiva più un tallone
mercantile. Non misurava né stabiliva il valore dei prodotti. Li smistava e
li distribuiva secondo criteri che non si fondavano più
prevalentemente sulla domanda e sull’offerta, ma su criteri che rispondevano
ad una ratio squisitamente politica. A questo riguardo, come abbiamo
visto, le modalità con cui venivano assegnati questi beni non
rispondevano a un’esigenza di tipo socialista, ma seguivano una logica per
cui il grosso della produzione veniva distribuito tra l’esigua élite
burocratica al vertice del paese, mentre la restante parte di beni era
ripartita, in proporzioni stabilite dagli organi del Partito-Stato, tra tutta
la popolazione lavoratrice. Così anche nei paesi
occidentali, con le trasformazioni della moneta in «segno cartaceo»,
l’intervento statale iniziava mano a mano a divenire talmente profondo e
multiforme che i «prezzi» non erano più tali, ossia sgorganti dal
rapporto aritmetico tra domanda e offerta[38]. Con l’intervento continuo dello Stato
nella produzione, nella distribuzione e nei servizî, il potere sociale
cambiava poco per volta di sede. Dai privati passava allo Stato
corrispondentemente all’ampiezza e alla profondità dell’intervento
statale. Ogni «prezzo», in conseguenza di ciò, assumeva coefficienti
politici che ne alteravano il valore. «E se il prezzo non era più
tale, ma una quotazione largamente dovuta a fattori estranei al rapporto
aritmetico tra domanda e offerta, ciò era indicativo del fatto che il mercato
non aveva più vitalità e che il negozio non era
più tale. Non si scambiavano delle merci, ma si distribuivano in un
certo altro modo i prodotti del lavoro umano e non secondo mercato»[39]. In una simile condizione, dunque, «in
cui l’economia di mercato sembra irrimediabilmente perduta»[40], «il valore del denaro ha assunto le
sembianze del puro segno, della convenzione, fino a sparire quasi nella
totale astrazione. Il segno viene accettato in nome della stabilità e
della sopravvivenza istituzionale, senza porre l’inquietante problema del valore»[41]. In conclusione proviamo allora a
trarre un provvisorio bilancio su quanto accade attorno a noi. Qual è
oggi l’elemento più rilevante nella nostra esperienza quotidiana col
denaro? Direi la sua quasi avvenuta «evaporazione», riferendomi con tale
espressione alla sua consistenza fisica, palpabile, concreta. Ormai il denaro
in circolazione viene utilizzato prevalentemente per le spese minute come
l’acquisto del giornale in edicola, per pagare un caffè al bar o a
spesucole di questo genere. Per il resto il nostro fabbisogno complessivo
viene coperto per la quasi totalità da «denaro virtuale». Si stima
infatti che «circa l’85 per cento del denaro esistente e circolante al mondo
non è denaro vero, emesso da Banche Centrali, ma denaro creditizio,
ossia aperture di credito e disponibilità di spesa create dal nulla
dalle banche commerciali, le quali, attraverso questa creazione continua di
nuovo denaro creditizio, si impossessano di quote crescenti del potere
d’acquisto complessivo della popolazione mondiale»[42]. Potremmo dunque riferirci a
questa «nuova forma» del denaro come a qualcosa di molto prossimo a una specie
di «buono di consumo», in quanto esso ha perduto la sua caratteristica
funzione di anonimato per divenire un’entità che vincola ciascun
individuo inderogabilmente alla propria consistenza bancaria. Una sorta di
nuovo «principio di individuazione» sulla base delle proprie
possibilità di accesso al consumo. Per cui il diffondersi sempre
più intrusivo di tali buoni quali effettivi mezzi di
rimunerazione e la sincronica disseminazione di carte di credito, bancomat e
tessere varie come ultimi ritrovati in fatto di transazioni
economiche, incarnano una consolidata deriva alla «rappresentazione scenica»
del denaro il cui significato non dovrebbe sfuggire a tutti coloro che sono
interessati a cogliere l’essenziale dello status quo. E tutto
ciò senza omettere il circuito integrato fatto di rate, mutui, fidi,
leasing, servizî alla persona, servizio civile, servitù temporanee,
staff leasing, ipoteche sulla casa, indebitamenti bancari, eccetera
eccetera[43]. Tipologie differenti che
però rimandano tutte alla medesima modalità concreta con cui
viene concepito il valore e la qualità del tempo nelle
nostre «società avanzate». Insomma, si tratta di peculiari forme di
«cambiali in bianco» che si profilano come delle vere e proprie ipoteche
sul futuro per chi ne è soggetto. «Tre giorni lavorerai per me,
tuo signore e padrone, e tre giorni lavorerai per te, riposo al settimo»
recitava un ricorrente apoftegma feudale[44]. E, sia pure tenendo conto dei differenti
contesti in esame, la tonalità emotiva che informa certe pratiche
odierne non sembra in ultima istanza così lontana da un simile
afflato procedurale. Contrariamente a quanto viene
oggi declamato dai laudatori delle innumerevoli possibilità del
«lavoro interattivo» disponibile on the Market, «si può infatti
essere servi di Stato con un computer in mano invece che con la zappa di
feudale memoria, ma si è pur sempre servi»[45]. Infatti ciò che si profila con
sempre più nettezza davanti ai nostri occhi è una sorta di
prototipo del «cittadino ideale»; un individuo perfettamente manovrabile,
privo di capacità di opposizione, di resistenza e sprovvisto di alcun
senso di consapevolezza, l’esatto contrario della tanto sbandierata
imprenditoria «neoliberista» del nostro tempo. Gli si può aumentare a
fisarmonica i bisogni, i costi dei servizî e dei beni essenziali, i debiti e
le tasse. Lo si può far lavorare e vivere sempre più per un
altro e sempre meno per sé stesso, lo si può anche defraudare dei suoi
risparmi: tutto questo con l’appoggio degli apparati mediatici e delle
istituzioni al gran completo. Non so, per concludere, se ho
risposto esaustivamente o almeno contribuito a fare chiarezza circa la
domanda posta nel titolo di questo scritto. Quello che so e a questo punto mi
pare difficilmente confutabile è che, avendo ripercorso sinteticamente
la genealogia della moneta dal mondo antico a quello attuale, ci troviamo a
vivere in una situazione molto diversa rispetto ciò che ci vorrebbero
far credere le «trombe» di regime. Una situazione che allude, per dirla in
maniera icastica, a uno scenario non molto lontano da quello che potremmo
definire come un vero e proprio «feudalesimo modernizzato». [1] Pecunia non olet significa letteralmente
«Il denaro non puzza». La leggenda vuole questa frase attribuita a
Vespasiano, a cui il figlio Tito aveva rimproverato di avere messo una tassa
sui servizi igienici pubblici, denominati da allora vespasiani, dalla quale
provenivano cospicue entrate per l’erario. [2] Secondo le ricerche dell’insigne linguista
Émile Benveniste, l’indoeuropeo *peku designava invece originariamente
la «ricchezza mobile» personale; ed è solo attraverso specificazioni
successive che, in certe lingue, ha potuto denotare il bestiame, il bestiame
minuto e il montone (cfr. Id., Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, 2. voll., Les Éditions de Minuit, Paris, 1969; trad.
it. Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, 2 voll., Einaudi,
Torino, 1976, vol. i, pp. 36-37). [3] Erodoto, Storie, Utet, Torino,
1998, i, 94. [4] Cfr. J. Burckhardt, Griechische
Kulturgeschichte, 4 voll., [5] A. Greenspan, Gold
and Economic Freedom, in «The Objectivist», vol. 5, n. 7, luglio 1966, p.
80 (poi ristampato in A. Rand, Capitalism: The Unknown Ideal, New
American Library, New York, 1966). [6] E. Babelon, Le origini della moneta
considerate dal punto di vista economico e storico, Arnaldo Forni Editore,
Sala Bolognese, 1977, p. 315. [7] R. Gaettens, Inflationen:
das Drama der Geldenwertungen vom Altertum bis Gegenwart, Richard Pflaum
Verlag, München, 1955; trad. it. Inflazione, Longanesi, Milano, 1959, p. 37. [8] G. Ferrero, La Ruine de la civilisation
antique, Plon-Nourrit & Cie, Paris, 1921; trad. it., La
rovina della civiltà antica, Athena, Milano, 1926, p. 37. [9] Cfr. E. Ciccotti, Il tramonto della
schiavitù nel mondo antico, Bocca, Torino, 1899. [10] B. Rizzi, La proprietà, in
«Rassegna italiana di sociologia», n. 4, ottobre-dicembre 1967, p. 597. [11] Cfr. L. Homo, Les institutions
politiques romaines: de la cité à l’état, La Renaissance du Livre,
Paris, 1927; trad. it. Le istituzioni politiche romane. Dalla città
allo Stato, Mursia, Milano, 1975, p. 125. [12] H. Wallon, Histoire de l’esclavage
dans l’antiquité, 2. voll., Imprimerie Royal, Paris, 1847, vol. ii, pp.
162-170. [13] Cfr. F. Lot, La fin du monde antique
et le début du Moyen âge, La Renaissance du Livre, Paris, 1927. [14] Farà scuola in questo senso il
lavoro dello storico francese Marc Bloch, che localizzò la
società feudale tra il x e xiii secolo (cfr. Id., La Société féodal,
2 voll., Albin Michel, Paris, 1939; trad. it. La società feudale,
Einaudi, Torino, 1949). [15] Codice Giustiniano, XI, 51: «Cum
per alias provincias, quæ subiacent nostræ serenitatis imperio,
lex a maioribus constituta colonos quodam æternitatis iure detineat…». [16] Cfr. B. Rizzi, La rovina antica e
l’età feudale, a cura di P. Sensini e B. Chiorrini Dezi, Marco
editore, Lungro di Cosenza, 2006, cap. VIII (Il Feudo), pp. 449-472. [17] Cfr. A. Engel - R. Serrure, Traité de
numismatique du Moyen âge, 3 voll., Leroux, Paris, 1891-1905, vol. i, p.
161. [18] Durante questo periodo i nobili erano usi
incassare moneta sonante, non beni in natura come i feudatari e neppure
«segni cartacei» come avviene oggi (cfr. B. Rizzi, Sui tratti dominanti
della società artigiano-nobiliare, in Id., La burocratizzazione
del mondo, Edizioni Colibrì, Milano, 2002, pp. 381-389). [19] H. Hauser - A. Renaudet, Les
débuts de l’âge moderne. La
Renaissance et la Rèforme, Alcan,
Paris, 1938; trad. it. L’età del Rinascimento e della Riforma,
Einaudi, Torino, 1967, pp. 411-412. [20] K. Marx, Lineamenti fondamentali della
critica dell’economia politica, 2 voll. La Nuova Italia, Firenze, 1978,
vol. i, p. 81. [21] Ibid., p. 187. [22] Per Marx la legge del valore «regola» il
capitalismo di mercato ma non altre forme di produzione sociale. Parlare
dunque di legge del valore «regolatrice» dell’economia in mancanza di
rapporti di mercato specificatamente capitalistici può solo
significare che i termini «valore» e «plusvalore» sono conservati pur non
esprimendo altro che il rapporto tra lavoro e lavoro supplementare
(plus-lavoro). [23] J. Baby, Principî fondamentali di
economia politica, Le edizioni sociali, Milano, 1949, p. 49. Pare che
prima del 1545 l’oro valesse in Spagna 10,75 volte più dell’argento,
mentre sotto Filippo ii si attestò a 13,90 (cfr. H. Hauser - A.
Renaudet, L’età del Rinascimento e della Riforma, cit., p.
500). [24] La cui origine risale probabilmente ai
banchi pubblici napoletani, che emisero – in occasione di controversie civili
– un documento probatorio chiamato «fede di deposito» e attestante il
versamento nel banco di una certa somma di denaro. [25] G. Felloni, Moneta, credito e
banche in Europa: un millennio di storia, Brigati, Genova, 1997, p. 52 [26] A. Greenspan, Gold
and Economic Freedom, cit., p. 82. [27] Ibidem. [28] P. Mattick, Marx
and Keynes. The Limits of the Mixed Economy, Extending Horizons Books, [29] P.K. Crosser, State
Capitalism in the Economy of the [30] P. Mattick, Marx e
Keynes. I limiti dell’economia mista, cit., p. 274. [31] Gli Stati Uniti avevano abbandonato il
regime aureo già nel 1933. Il Gold Reserve Act del 1934 aveva
conferito al Tesoro americano la proprietà dell’intero tesoro
esistente nelle Banche della Federal Reserve. Tutte le monete d’oro in
circolazione furono ritirate e il loro possesso da parte degli individui
dichiarato illegale. Nel 1934 gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia
misero a punto il regime del cambio in oro (Gold exchange standard),
in base al quale regolavano in oro le operazioni finanziarie internazionali
mentre svolgevano secondo i propri bisogni le politiche monetarie interne. [32] Da allora gli accordi si susseguono senza
mai risolvere il problema reale, che è, per ogni singolo Stato,
l’impossibilità di sanare il debito contratto dall’erario; la
stabilità e la ricchezza si fondano ora su un medesimo patto
scellerato che lega i sudditi ai tiranni indissolubilmente, il patto di
fingere che lo spettacolo del valore del denaro costituisca un valore
reale, il patto che l’oro esista anche se tutti sanno che non c’è. [33] A. Greenspan, Gold
and Economic Freedom, cit., p. 83. [34] Ibidem. [35] H.L. Ickes, The
Secret Diary of Harold L. Ickes. The first Thousand Days,
1933-1936, Simon and [36] J. Tinbergen, Shaping
the World Economy. Suggestions for an International Economic Policy, The
Twenthiet Century Fund, [37] Cfr. N. Spulber, Foundations
of Soviet Strategy for Economic Growth, Indiana University Press, [38] Cfr. D. T. Bazelon, The
Paper Economy, Random House, [39] B. Rizzi, Un nuovo sistema economico,
in «Rassegna italiana di sociologia», n. 1, gennaio-marzo 1971, p. 157. Cfr. anche F.
Sternberg, Wer beherrscht die zweite Hälfte des 20. Jahrhunderts?,
Kiepenheurer & Witsch, Köln, 1961, pp. 143-62. [40] P. Mattick, Marx e
Keynes. I limiti dell’economia mista, cit., p. 336. [41] G. Giovannelli, presentazione a K.
Marx, Segui il denaro (Follow the Money), Mimesis, Milano, 2003, p.
27. [42] Cfr. M. Della Luna - A. Miclavez, Euroschiavi,
Arianna Editrice, Casalecchio di Reno, 2006. [43] Il sempre crescente processo di
indebitamento bancario che si sta registrando un po’ ovunque nel mondo
è, in buona sostanza, l’applicazione ai privati della «trappola
debitoria» ampiamente praticata agli Stati del Terzo Mondo: se non possono
pagare il debito, la banca offre di aprire un nuovo credito, su cui
pagheranno gli interessi cumulati del primo e secondo. E così via...
Per i nuovi usurai è questo il cliens ideale: quello che lavora
tutta la vita per arricchire loro. Infatti solo negli Stati Uniti i profitti
delle banche su questo business sono cresciuti del 163 per cento in 8 anni. I
privati americani, nel complesso, sono in rosso sulle carte di credito per
800 miliardi di dollari, cifra pari a quasi una volta e mezzo il pil della
Cina. E questo debito è aumentato del 34 per cento negli ultimi anni
raggiungendo i 103.400 dollari in media a famiglia tra il 2001 e il 2004.
Ecco perché le grandi banche estere ardono dal desiderio di impiantarsi anche
in Italia. Ora che la maggior parte dei lavoratori stringe la cinghia
già alla fine della seconda settimana, si vuol far diventare anche
loro degli allegri peones... [44] Lex Baiuwariorum, I, 3: «Servi
opera vero tres dies in ebdomade in dominico operent, tres vero sibi
faciant». [45] B. Rizzi, Il deviazionismo sul
proscenio, vol. iv, del Socialismo infantile, Editrice
Razionalista, Bussolengo, 1970, p. 29. |