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Il Riformista 12-12-2011
Dal ciuccio egemone
al ritorno in campo dei bravi a scuola
di Giuseppe Provenzano
Va bene, la manovra è discutibile. Ma non vedete come già
il tono del discorso pubblico s’è alzato?...
Alunni durante una lezione
Va
bene, la manovra è discutibile. Ma non vedete come già il tono
del discorso pubblico s’è alzato? Le Camere provano a emendarsi da
mesi di risoluzioni sui sotterranei di Arcore, vi pare poco? È il
primo effetto dei “bravi a scuola”. E bisogna sperare che non passi in fretta
e le comprensibili delusioni non si volgano nel ripudio dell’onesta
competenza, ché già tuona l’accusa: non serviva certo l’élite per tassare
o tagliare all’ingrosso!
Ci si è vergognati di molte cose, nell’Italia berlusconiana. Ma assai
più rivelatrici sono le cose di cui non ci si è vergognati
più. In questi anni, non ci si è vergognati più
dell’ignoranza. Ministri, non solo leghisti, rivendicavano di parlare come ci
s’abbuffa all’osteria. «Sono solo parole…», era la
formula di assoluzione per ogni infamia proclamata. Le volgarità
diffuse tra gli “eletti” erano esibite come prossimità alla “gente”,
complemento di un potere forte, legittimato dalla volontà popolare.
C’è un motto diffuso un po’ ovunque nel Mezzogiorno, a tardiva
giustificazione di ogni intemperanza: «M’è scattata la ‘gnoranza», si dice. E forse c’è del compiacimento
nella frase ma è frutto della consapevolezza della colpa, dell’errore.
La regressione compiaciuta alla brutale semplificazione dei problemi è
stato il costume recente di una politica che ha giocato al ribasso con il
popolo, coltivando il mimetismo nei disvalori messi in atto senza pudori,
confermando e moltiplicando la base morale di un’arretratezza civile.
<+nero>I leghisti si sono solo spinti<+tondo> più degli altri all’estrema deriva, e
c’è persino un’ostinata coerenza “antielitista”
nella loro furba e isolata opposizione al governo dei professori.
«Il popolo è così», hanno detto. E bisogna avere una
considerazione del popolo assai scarsa o troppo alta di se stessi, spacciando
per migliore intelligenza quella che è solo un’ulteriore camuffata
ignoranza. Berlusconi nei suoi lati più oscuri, che non sono solo gli
affari pruriginosi, era come dicesse: gli italiani sono come me, solo che io
sono un po’ più italiano degli altri. Poteva perciò eccellere
nel trucco della mimesi. Sono uno di voi! E loro: è «uno di noi»! Come
Di Pietro e il suo italiano strapazzato: i congiuntivi sono un lusso da
professori, l’antielitismo si accompagna sempre all’antiintellettualismo
– ricorda Luca Sofri trattando il tema, con occhio all’America di Sarah Palin, nel suo Un grande Paese (Rizzoli, 2011). Ma il
cortocircuito demagogico, depurato degli aspetti più volgari, ha
attecchito anche a sinistra.
In una comunità politica che forse viveva il complesso di un distacco
reale dalla “gente” o il rimorso di una lunga mancata consuetudine col
“popolo vero”: gli operai che votavano Lega, e così via. Il mito del
“radicamento territoriale” è stata la coda ingenua e velenosa di
questo senso di colpa: come se la Lega, più che rappresentare
legittime ambizioni e aspettative delle comunità locali, non finisse
per dar voce grossa soprattutto a paure, egoismi e miserie particolari.
Che gli eletti siano sempre meno gli “eletti”, è problema decisivo
delle democrazie. Populismi vecchi e nuovi avanzano non solo nella nostra
provincia. E sono questioni che hanno a che fare con la perdita di ruolo e
potere reale della politica: se la maggioranza dei deputati spesso si limita
a schiacciare un tasto, allora le carriere politiche si prestano a igieniste
dentali, segretarie fedeli, figli di senz’altri meriti e nominati con
più o meno spettacolare improvvisazione. L’uomo qualunque finalmente
si è scoperto deputato o anche vice ministro. Con l’elemento speciale
di degenerazione proprio del costume nazionale, dell’antico vizio italico di
“élites” che si formano per vincoli di sangue e
affiliazione-familismo di figli nipoti e cognati, e amanti e servitù.
Eppure, nella prima Repubblica, intelligenza e cultura erano ancora un vanto,
e nei grandi partiti per un bel po’ primeggiarono i “bravi a scuola” (scuola
di partito, e non solo).
Il meccanismo di selezione alla rovescia delle élite si è perfezionato
solo con la seconda Repubblica, quando l’ignoranza non è stata
più tabù politico.
Nel declino dei “bravi a scuola” è il declino dell’Italia. E ci sono
aspetti strutturali: un’economia sempre meno competitiva, con scarso
contenuto di innovazione e conoscenza, sottoutilizza o spreca il “capitale
umano”, e non solo contribuisce all’impoverimento collettivo ma scoraggia
l’investimento formativo. Il declino dei tassi di iscrizione
all’università ne è la più preoccupante testimonianza, così
come il rischio che a minori aspettative di benessere, per le nuovissime
generazioni, si affianchi ora una minore quantità e peggiore
qualità di sapere.
È difficile non cogliere un disegno perverso nella devastazione di una
scuola pubblica che pure non riusciva a garantire pieno sviluppo delle
capacità e promozione dei talenti, in cui il successo formativo
è ancora largamente determinato dal retroterra socio-economico e
familiare.
Essere “bravi a scuola”, investire in sapere e conoscenza, non serviva più
in un’Italia a debole economia e pessima burocrazia, dove i concorsi pubblici
erano finiti e si affollavano come un tempo le anticamere dei favori e delle
raccomandazioni. Altri erano i modelli di affermazione sociale, e i “bravi a
scuola” nella vita potevano essere perdenti.
Molti tendevano a diventare allora solo secchioni, un po’ sfigati e
incattiviti, che dal primo banco guardavano gli altri con disprezzo e
rancore: e non passavano il compito. Ma agli altri ormai non importava
più: nella vita avrebbe vinto uno di loro. Non vedi la ministra?
Questa faccenda del passare i compiti o del non far copiare è
cruciale, ma un po’ complicata. A scuola i nuovi comandamenti importati
dall’America sono: «Non far copiare e denuncia chi copia». Far copiare si
presta all’accusa ingrata di falsare il merito, prediligendo certi
beneficiari o subendone il ricatto. Però è l’intenzione e il
gesto del “bravo a scuola”, se vuole far copiare, che qui conta: la
volontà del migliore di occuparsi di chi è meno bravo. Come
studiare insieme il pomeriggio, certo, ma di più. È così
che il “bravo a scuola” pronto a passare il compito può acquisire
meriti agli occhi del “popolo”. Compreso il merito di essere “eletto”. E
forse in questo esempio da Libro Cuore è il succo dell’élitismo di
sinistra, già difficile cimento filosofico di Norberto Bobbio.
Eppure, una valenza ambigua della faccenda rimane: Berlusconi non dava l’idea
di uno che lasciasse copiare? Il suo messaggio di successo, più che
“arricchitevi!”, non è stato forse proprio “copiatemi!”? Non importa
che la sua fama fosse costruita su molti favori, o che i suoi temi – peraltro
venduti a caro prezzo – fossero fasulli. Ha funzionato. Copiatemi,
somigliatemi! Ed è più facile somigliare a un peccatore che a
un santo, ci ha spiegato Franco Cassano nella sua speciale rilettura della
Leggenda del Grande Inquisitore, raccolta ne L’umiltà del male<+tondo> (Laterza, 2011). La sua critica al “narcisismo
etico” – vale anche per il “narcisismo intellettuale” – s’è prestata
all’entusiasmo strumentale di chi combatte il “puritanesimo” in nome di un
potere che sguazza nel torbido.
Ma il discorso di Cassano tende non certo alla legittimazione di un Cardinale
di Siviglia o di un Cavaliere, ma a che le élites
morali e intellettuali non si distacchino troppo dalla condizione umana della
maggioranza, dai limiti, interessi minori e miserie della vasta zona grigia,
finendo con l’esserne ripudiate in favore della rassicurante seduzione dei
Grandi Inquisitori “democratici” del nostro tempo, che «ripetono al popolo
che ha sempre ragione» e vi si mimetizzano.
Il risvolto politico dell’umiltà del male è un gran monito alla
sinistra. Tuttavia, le sue classi dirigenti, forse elitarie, non sono state
certo vere élites in questi anni. Così come
i professionisti della politica troppo poco sono stati professionisti. E
anzi, nell’organizzazione politica del consenso, nella vita partitica, hanno
forse finito per somigliare troppo alla società così
com’è, con le sue troppe imperfezioni, e non a quella da costruire
nelle migliori intenzioni (giocate sempre al ribasso, peraltro). Troppo poco
hanno contato merito e impegno, l’essere “bravi a scuola”, prevalendovi
cortigianerie e conformismi. O la capacità di improvvisazione, la
vuota riuscita comunicativa. Tanto, sono solo parole…
Ma «se non sai di che parli, cosa vuoi riformare?», avrebbe detto Napoleone Colajanni.
Tornasse davvero il tempo dei “bravi a scuola” sarebbe un gran bene per
l’Italia post-berlusconiana. Non siano solo secchioni, però, solerti
nello svolgere il solito compito: gravare su quelli per cui la vita è
già grave, per dire. I “bravi a scuola” diventano i migliori, per
intelligenza delle cose e forza morale, solo se si sforzano di trovare strade
nuove, solo facendosi prossimi ai più deboli: i più fragili, i
più imperfetti, persino i più vili e i più opportunisti.
La buona politica è passione per la zona grigia, per quelli che non si
salvano da soli, per i banchi della terza fila. È persino disponibilità
generosa a passare i compiti, qualche volta, all’onesto copiare come esempio
ed emancipazione. È la sinistra, quella che le lacrime di una
professoressa ricordano appena vagamente.
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