La Repubblica 3-9-2007
E George confessò: "Ho
pianto tanto"
Biografia-intervista di Bush: "Dopo
la Casa Bianca? Farò discorsi a pagamento"
Il presidente Usa si prepara all'addio raccontando i retroscena delle grandi
decisioni
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI
WASHINGTON - Dice di avere "pianto sulla spalla di Dio" nei
momenti di debolezza e di paura, e in attesa di conferme dall'alto dobbiamo
credergli e provare un po' di pietà per il Presidente lacrimoso.
Confessa di "avere pianto più di quando un Presidente di solito
pianga", mentre fingeva di fare il duro e il sicuro con noi, in un mondo
che gli stava crollando addosso, e la moglie gli ricordava asciutta, come
fanno le mogli serie, "guarda te lo sei cercato tu, questo lavoro".
Il George Bush piangente, ma non pentito, che si autoracconta nella biografia
intervista che il New York Times ha potuto anticipare, è una figura
che abbiamo visto molte volte, nella storia americana, il re costituzionale
deposto sulla soglia dell'esilio, il Napoleone che si imbarca verso la
Sant'Elena di una vecchiaia spogliata dalle insegne del potere imperiale.
Finalmente, ma non sempre felicemente, solo con la propria vita.
Nella salubre igiene di una Costituzione che innalza uomini (forse domani donne)
sulla vetta di un potere senza pari, ma poi li chiude nella cristalliera del
passato come i souvenir della nonna evitando il tormento ritorno dei morti
viventi che affliggono altre democrazie, Bush è arrivato a quel
capolinea che tutti i presidenti sognano e paventano, a una liberazione che
è insieme morte civile. Diventeranno, se vivranno abbastanza a lungo
("e io ho soltanto 62 anni - lamenta George W. - sono ancora
giovane") "elder statesmen", statisti in pensione, figure
quasi sempre rispettate e tirate fuori dalla vetrinetta della nonna quando ci
saranno da offrire saggi consigli che nessuno dei loro successori
seguirà. Chi è dentro è dentro, chi è fuori
è fuori.
Non ci sono
porte girevoli per gli ex presidente. Ma non esiste altro "job",
altro lavoro al mondo nel quale si passi - nelle poche ore della transizione
il 20 gennaio di ogni 4 o 8 anni - dalla luce all'oscurità, dall'avere
tra le dita gli strumenti per la fine del mondo al guinzaglio del cane da
portare a far pipì ai giardinetti, come Barney, quello che gli
salvò la vita quando si stava strozzando coi salatini. "Mi posso
già vedere ogni giorno lasciare la nostra bella casa di Dallas,
prendere la macchina guidare fino al ranch di Crawford e annoiarmi a
morte", dice al giornalista naturalmente texano e naturalmente amico di
famiglia, Richard Draper (nel clan dei Bush, come in quello dei Kennedy, o
sei amico di famiglia o non sei niente) che ha raccolto "les
adieux" di "W" nel libro Dead Certain, Sicuro a morte. "Farò
discorsi pubblici, per rimpinguare le vecchie casseforti" che tanto
esauste non sono, visto che la fortuna dichiarata di George e Laura ammonta a
21 milioni di dollari. Ma il "circuito del pollo di gomma", il giro
dei discorsi pagati dopo atroci pranzi, è tutto quello che rimane ai
pensionati della fine del mondo. "Mio padre prende 50 mila dollari a
discorso, Clinton molto di più", calcola. E qui si rivela una
puntina di invidia.
Per chi si lascia alle spalle ferite aperte o purulente, come sarà
l'Iraq per lui o come fu il Vietnam scaricato da Lyndon Johnson a Richard
Nixon, le lacrime e i magoni sono anche più grossi, pur se Bush dice
di non rimpiangere niente e di avere deciso sempre tutto lui da solo,
un'ultima menzogna tanto per non smentire il personaggio. Ma tutti se ne vanno
con il complesso della sinfonia incompiuta, con il peso delle cose non fatte
e non dette. Chi non muore in servizio, in trincea, come Franklin Roosevelt
che fu ucciso da un'emorragia cerebrale prima di poter vedere finita la
guerra che lui aveva cominciato, o come John Kennedy che più di ogni
capo di stato americano nell'età moderna fu un "presidente
incompiuto", si porta nel grande nulla oltre l'esilio, l'ombra dei
propri inevitabili fallimenti e l'angoscia della decompressione troppo
improvvisa. Johnson, cardiopatico cronico che era miracolosamente
sopravvissuto agli shock di Dallas e a cinque anni di disastri di guerra,
morì d'infarto, nel suo ranch di Austin, poco dopo aver lasciato la
Casa Bianca, stroncato dal riposo.
Truman, avvolto in un'impopolarità che rivaleggia quella di Bush oggi,
si consolava strimpellando al pianoforte nella sua Kansas City, mentre
Eisenhower, da bravo vecchio soldato che non muore ma si dissolve lentamente,
lasciò dietro di sé il monito inascoltato che ancora, e più che
mai, risuona vero, contro quel "complesso militar-industriale" che
rischiava di prendere il controllo della politica americana, prima di
scomparire lungo gli adorati campi da golf della Pennsylvania dove si era
ritirato, non lontano dal più famoso ed epico campo di battaglia,
Gettysburg. Carter, frustrato e furioso per il mancato riconoscimento dei
propri meriti, si lanciò a segare tavole e assi, per costruire mobilia
e case per i poveri, nel paesello natio tra le noccioline di famiglia, in
Georgia, dal quale emerge soltanto per impartire lezioni e dare bacchettate
ai successori, che nessuno ovviamente segue, ma che danno il senso della sua
puntigliosità magistrale che tanto poco lo fecero amare. Ronald Reagan
portò via il suo sorriso scanzonato e il suo ciuffo brylcreem da
vecchia Hollywood nascondendo nelle nebbie amare dell'Alzheimer, protetto
dalla moglie badante, Nancy, nella loro casa di Bel Air regalata dagli
ammiratori, ma alla quale lei aveva fatto cambiare il numero civico, il 666,
perché simbolo satanico. Il passaggio di questa palude Stigia fra il potere e
il non potere può cambiare, o rivelare il carattere segreto di uomini
che vediamo tutti i giorni, ma che non conosciamo. L'accorto, cauto, patrizio
Bush padre, che nella sua vita non aveva mai fatto un passo azzardato, fu
preso dalla passione di buttarsi nel vuoto appeso a un paracadute dopo i 70
anni.
Per suo figlio, che ha accettato, o ha finto, di confidarsi con un
giornalista fidato e amico, e mettere la prima pietra della ricostruzione di
sé stesso ("masticava furiosamente un sigaro spento", racconta
l'intervistatore) il futuro di lavoro sarà in una fondazione per la
libertà nel mondo, che è stato il leit motiv della sua
presidenza e della sua retorica. Con l'augurio di non dover più piangere
sulla spalla di Dio o, meglio ancora, di non dover far piangere Dio sulla sua
spalla.
(3 settembre 2007)
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