HOME PRIVILEGIA NE
IRROGANTO di Mauro Novelli (www.mauronovelli.it) Documentazione Documento
inserito il 3-5-2009 |
|||
|
“A
futura memoria (se la memoria ha un futuro)”.
L.
Sciascia
LA PESTE ITALIANA
Dopo
la rovina del Ventennio fascista
il
Sessantennio partitocratico di metamorfosi del Male
Una
storia di distruzione dello Stato di diritto e della Democrazia
e
di (re)instaurazione di un regime (neo)totalitario
‘‘Nei Paesi democratici, la scienza
dell’associazione è la scienza-madre; il progresso di tutte le altre
dipende dal progresso di quella”.
“Una nazione che non domanda al suo Governo
altro che il mantenimento dell’ordine è già schiava nel fondo del
cuore”.
A.
de Tocqueville
‘‘Lo Stato perirà nel
momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto
dell’esecutivo’’.
C.L.
Montesquieu
Prima edizione provvisoria
A cura di:
Gruppo di Iniziativa di
Satyagraha 2009
per lo Stato di diritto e la
Democrazia cancellati in Italia
coordinato da Antonella Casu
e Marco Cappato
INDICE
FATTA LA COSTITUZIONE NE INIZIA LA DISAPPLICAZIONE pag. 4
1.1 La mancata abrogazione della legislazione fascista pag. 4
1.2. La tardiva e parziale attuazione dell’ordinamento costituzionale pag. 4
1.3 Il processo di ulteriore degenerazione partitocratica pag. 6
DAL FASCISMO ALLA PARTITOCRAZIA pag. 7
Due citazioni:
Giuseppe Maranini pag. 7
Giuliano Amato pag. 7
IL FURTO DELLA SECONDA SCHEDA pag. 8
2.1 La rivoluzione del referendum e la sua tardiva attuazione pag. 8
2.2 Il Golpe del ’78 e la giurisprudenza anticostituzionale pag. 8
2.3 Il Popolo vota, il Regime fa il contrario, il Quorum è fatto mancare pag. 9
SCHEDA 1: LE CONSULTAZIONI REFERENDARIE pag. 11
SCHEDA 2: I
REFERENDUM RESPINTI DALLA CORTE COSTITUZIONALE pag. 15
UNA REPUBBLICA FONDATA SUL REGIME DEI PARTITI (PARASTATALI E NON DEMOCRATICI) pag. 16
3.1 Giuseppe Maranini e la partitocrazia pag. 16
3.2 Oligarchie di partito e negata libertà di associazione pag. 16
3.3 Referendum del 1978 pag. 17
3.4 Dall’abolizione del finanziamento al rimborso elettorale pag. 17
GIUSTIZIA ALL’ITALIANA: UNO STATO “DELINQUENTE ABITUALE” pag. 19
4.1 Codici fascisti, rinvio delle riforme e lentocrazia giudiziaria pag. 19
4.2 Dal 7 aprile al caso Tortora la politica dell’emergenza e delle leggi speciali pag. 19
4.3 Le responsabilità dei politici e della corporazione dei magistrati pag. 20
4.4 La Giustizia una grande e irrisolta questione sociale pag. 21
UN PRESIDENZIALISMO ABUSIVO, MEDIATICO ED EXTRA-ISTITUZIONALE pag. 23
5.1 L’esternazione extra-costituzionale pag. 23
5.2 1992-1993: L’acquiescenza alle interferenze della magistratura pag. 24
5.3 1995: Il presidente sordo (al “suo Parlamento”) pag. 24
5.4 2001: Il presidente incatenato sul potere di grazia pag. 24
PARLAMENTO: LA CAMERA DEI PARTITI pag. 26
6.1 Nel 1976 la voce dei politici esce dal Palazzo con Radio Radicale pag. 26
6.2 Il regolamento della Camera del ’71 e il potere ai partiti pag. 26
6.3 Le violazioni del regolamento tra il 1979 e il 1983 pag. 27
6.4 Immunità parlamentare e impunità di regime pag. 27
6.5 Decretazione d’urgenza e stravolgimento dei poteri tra esecutivo e legislativo pag. 28
GLI
ANNI ‘70: LA RIVOLUZIONE DEI DIRITTI CIVILI pag. 30
7.1 Il riconoscimento dell’obiezione di
coscienza e l’abolizione dei Tribunali militari pag. 30
7.2 Aborto, da reato di massa a legge dello
Stato. Come evitare i referendum pag.
30
7.3 Le riforme di liberazione sessuale “GLBT”
pag. 31
7.4 La depenalizzazione del consumo personale di droghe pag. 31
UNA LETTURA ALTERNATIVA DEGLI ANNI NERI DELLA
REPUBBLICA pag. 33
8.1 Elezioni
anticipate: i Radicali bruciano i certificati elettorali (1972) pag. 33
8.2 L’inganno del
cosiddetto “arco costituzionale” pag.
33
8.3 Di nuovo
elezioni anticipate, di nuovo contro i referendum (1976) pag. 34
Scheda. Giorgiana Masi: dopo tre
decenni, nessuna verità pag.
36
Scheda. P2, P38, P-Scalfari (e
poi Moro, Sindona, Calvi, D’Urso, Cirillo e altri ancora) pag. 37
LA BANCAROTTA DELLO STATO ITALIANO pag. 39
9.1.
Il tradimento dei vincoli costituzionali di bilancio pag. 39
9.2 L’evoluzione
spaventosa del debito pubblico e il dissanguamento da interessi passivi pag. 40
9.3 Cassa
integrazione straordinaria, un altro caso di “privatizzazione dei profitti e
socializzazione delle perdite” pag. 40
9.4 La
“sindacatocrazia”, l’altra faccia della partitocrazia pag. 41
9.5 Pensioni,
cartina di tornasole della determinazione dell’Italia a non risanare i conti pubblici
DALLA RIFORMA “AMERICANA” POSSIBILE ALLE
CONTRORIFORME PARTITOCRATICHE pag.
43
10.1 La scelta della riforma
maggioritaria uninominale, come risposta popolare alla degenerazione del
sistema dei partiti pag. 43
10.2 Il tradimento e il
sabotaggio dei referendum pag. 43
10.3 La
restaurazione partitocratica del “bipolarismo” all’italiana pag. 44
PARTITOCRAZIA,
DISSESTO IDROGEOLOGICO, DISTRUZIONE DELL’AMBIENTE pag. 45
11.1 Un paese
vulnerabile pag. 45
11.2 Una dissennata
gestione del territorio pag. 45
11.3 Leggi
inattuali e azione di surroga della protezione civile pag. 46
11.4 Il caso
Napoli: disattesi i progetti di rottamazione edilizia e di area metropolitana
pag. 46
11.5 La Campania
sepolta dai rifiuti pag. 47
LO SFASCIO DELLE ISTITUZIONI: IL “CASO” DEI PLENUM
MANCANTI pag. 48
12.1 Corte
costituzionale pag. 48
12.2 Camera dei
deputati pag. 48
IL MANCATO RISPETTO DEGLI OBBLIGHI INTERNAZIONALI DELLA REPUBBLICA
ITALIANA pag. 50
13.1 Lotta alla fame nel mondo,
un impegno tradito pag. 50
13.2 L’Italia artefice della
Corte Penale a livello internazionale ma non a livello interno pag. 51
13.3 I costi italiani
dell’Europa delle nazioni pag. 51
13.4 Moratoria universale della pena di
morte, dopo quindici anni di inadempienze e rinvii
pag. 52
13.5 Il boicottaggio di “Iraq
libero”, l’unica alternativa alla guerra pag. 52
13.6 Italia-Libia, trattato
contro il diritto internazionale pag.
53
LA NEGAZIONE DEL DIRITTO ALLA CONOSCENZA pag. 54
14.1 Dall’Eiar a Raiset pag. 54
14.2 La sistematica ed impunita violazione
delle regole dell’informazione politica pag. 55
14.3
Le questioni popolari cancellate dall’agenda pag. 56
14.4 L’imposizione di protagonisti e antagonisti di Regime pag. 58
14.5 Il “genocidio politico e culturale”
(F. Storace) del movimento radicale pag. 59
14.6 Il compiuto
attentato ai diritti civili e politici pag. 61
GLI ULTIMI ANNI DEL REGIME pag. 63
15.1 Sugli “obblighi
costituzionali inderogabili” e sulla partecipazione dei Radicali alle elezioni
europee pag. 63
15.2 La marcia di Natale 2005
per l’amnistia, la giustizia, la libertà. Perché nove milioni di
processi pendenti sono la più grande questione sociale del paese pag. 63
15.3 Il “Porcellum” del 21
dicembre 2005 pag. 65
15.4 Elezioni politiche 2006 –
dall’applicazione all’interpretazione della legge: 8 senatori nominati al posto
di quelli legittimamente eletti pag.
66
15.5 La Commissione di
vigilanza Rai nella XV legislatura e il Centro d’Ascolto dell’informazione
radiotelevisiva pag. 67
15.6 Il caso della Commissione
di vigilanza sulla Rai nella XVI legislatura pag. 68
PERCHÉ LA RESISTENZA PUÒ
ANCORA VINCERE pag. 70
16.1 Dal 1974 la
storia raccontata attraverso i referendum: l’altra faccia del paese pag. 70
16.2 L’annullamento dei referendum attraverso gli appelli all’astensione pag. 70
16.3 La scandalosa campagna della Chiesa sulla legge 40 pag. 71
16.4 Dai sondaggi un’Italia laica e non in sintonia con i partiti pag. 71
CAMPAGNE ELETTORALI RADICALI: “CERTIFICATI
BRUCIATI”, “SCIOPERO DEL VOTO”, “VOTA EMMA”, “SATYAGRAHA
1972 e 1983: dal bruciare i certificati elettorali allo sciopero del voto pag. 74
1999: “Vota Emma”, vendita degli averi per ricomprarsi l’informazione rubata pag. 74
Satyagraha 2009 pag. 76
RADICALI IN GALERA (DAL '
RADICALI FAMOSI E PERCIO’
CLANDESTINI pag. 83
Dal primo gennaio
1948, nel momento stesso della sua entrata in vigore, inizia immediatamente il processo di snaturamento e
svuotamento della Costituzione; da qui i partiti cominciano a impadronirsi del
sistema politico e a cancellare lo Stato di diritto; da qui parte la negazione
dei fondamentali diritti civili e politici dei cittadini italiani.
Il “partito plurale”, naturale
prosecutore ed erede del “partito singolare” fascista, governa sapientemente,
alla Costituente, l’afflato radicalmente riformatore, democratico, antifascista
scaturito dalla sconfitta del nazifascismo nella guerra del 1939-45. La
nascente partitocrazia veste l’abito della democrazia e ne assume il lessico,
come armi utili a salvare l’essenziale: il proprio “libero arbitrio” non
sorretto da alcun ordinamento e non sottoposto ad alcuna legge. Questo “Partito
della Prima Repubblica” agisce da subito, nella sua organizzazione, contro la
funzione costituzionale fissata dall’articolo 49 della Carta fondamentale.
Per quasi un quarto di secolo,
gli italiani sono privati di due dei tre principali strumenti istituzionali che
la Costituzione aveva previsto per l’esercizio della sovranità popolare.
Tanto la scheda referendaria quanto quella per le elezioni politiche regionali
sono sottratte, fino al 1970, alla vita democratica della Repubblica.
La Costituzione assegna ai
cittadini il potere di partecipare
all’attività legislativa principalmente attraverso tre tipi di
voto: quello elettorale nazionale, per scegliere i membri delle due Camere;
quello elettorale regionale, per le 20 assemblee legislative in base alla nuova
suddivisione territoriale dello Stato; infine quello referendario, per vagliare
ed eventualmente correggere, mediante l’abrogazione totale o parziale, le leggi
varate dal Parlamento.
Questi tre voti, nel loro
insieme, rappresentano la straordinaria intuizione innovativa dei Costituenti,
che storicamente hanno vissuto l’esperienza dei regimi totalitari, e che quindi
decidono di fondare il nuovo sistema democratico su questi tre pilastri. Alla
tradizionale istituzione parlamentare essi aggiungono altri due strumenti di
esercizio della sovranità popolare.
In queste pagine, è descritta una lunga e continuata strage di leggi, di diritto, di principi costituzionali, di norme e di regole che avrebbero dovuto governare la convivenza civile della democrazia italiana.
Con un’avvertenza: la strage di legalità ha sempre per corollario, nella storia, la strage di persone.
Da 60 anni, in Italia, al regime fascista del Partito-Stato ha fatto seguito il regime “sfascista” dello Stato dei Partiti. Da 60 anni, una puntuale e sistematica violazione della Costituzione viene dolosamente consumata contro il popolo italiano, quel “demos” che vive deprivato delle condizioni minime di conoscenza e legalità, necessarie per esercitare il potere sovrano in forma legittima. In Italia non c’è democrazia, ma partitocrazia, oligarchia, vuoto di potere, arroganza del potere, prepotenza e impotenza. Non esiste Stato di diritto, ma arbitrio di regime.
L’ultimo arrivato Silvio Berlusconi e i suoi detrattori e accusatori sono in realtà l’espressione (finale?) di una identica vicenda politica. Sono affratellati da un comune destino, per ora illegale e drammatico, domani probabilmente anche violento e tragico. Lo sbocco è quasi obbligato.
Il nostro tentativo, la nostra lotta, sono tutti racchiusi in quel “quasi”. La nostra speranza è di rappresentare una speranza: l’alternativa radicale possibile di una democrazia fondata sulla libertà di associazione e partecipazione, sulla libertà di informazione e conoscenza, sulla libertà della persona. Soprattutto sul rispetto del diritto e della legge, come fonte suprema di legittimità delle istituzioni.
Qui di seguito, raccontiamo quella illegalità e questa battaglia. E’ il nostro contributo alla ricostruzione della verità. E’ una storia diversa dalla “storia ufficiale”. E’ una lettura diversa di fatti ed eventi certi, documentabili e precisamente documentati, e proprio per questo pressoché sconosciuti, ignorati, nascosti.
La nostra azione è diretta e nonviolenta, di dialogo. Lottiamo per scongiurare la violenza tremenda e tragica che vediamo inesorabilmente avanzare.
Portiamo al petto una stella gialla, con umiltà e con dolore, come toccò in sorte agli ebrei europei poco più di 60 anni or sono. La nostra stella gialla è un’esclamazione e un richiamo, affinché quel “segno” non sia nuovamente premonitore e anticipatore della umiliazione e della condanna di milioni di esseri umani. Già una volta, nel 1938, la democrazia europea morì a Monaco. Poco dopo perirono non “solo” 6 milioni di ebrei, ma 60 milioni di uomini, donne, vecchi e bambini di tutta Europa.
Questo non è un libro. E’ un “Satyagraha”, cioè la ricerca della verità. E la sua forza.
La storia scritta in queste pagine è anche la nostra storia, ma è soprattutto la “vostra” storia.
E’ la nostra “lettura”. Coraggio, e buona lettura.
FATTA LA COSTITUZIONE NE INIZIA LA DISAPPLICAZIONE
Da subito i partiti che nell’Assemblea Costituente hanno elaborato e votato la Costituzione, si adoperano per svuotarla, vanificarla, impedirne l’attuazione: le regole democratiche che i deputati costituenti hanno posto alla base della Carta fondamentale dello Stato sono, da subito ed ampiamente, disattese. E' così che parte la prima cancellazione dello stato di diritto[1]. Coloro che con calore si proclamano custodi della Costituzione e che la dichiarano intoccabile, dimenticano di confrontarsi con essa e di ricordare tutte le violazioni che la Carta fondamentale ha subito fin dalla sua entrata in vigore il 1° gennaio 1948.
1.1 La mancata abrogazione della legislazione fascista
Da quella data, 1° gennaio 1948 e per molti anni ancora, coesistono una Carta fondamentale con intenti democratici e, di fronte ad essa, tutta la legislazione ordinaria, approvata durante il fascismo, ampiamente incostituzionale. Inutilmente si chiede, da parte del Partito d’Azione oltre che di pensatori e studiosi, l’abrogazione della legislazione fascista e la modifica, per gradi della preesistente legislazione dello stato liberale. Questo ritardo genera in molti casi la “assuefazione” alla logica che ispira le leggi del regime: ne è un esempio la riforma della legge sulla stampa del 1963 che, istituendo l’Ordine, ribadisce e ulteriormente irrigidisce l'esistenza e le regole dell'Albo dei giornalisti, istituito nel 1923 da Mussolini per controllare la stampa e impedirne la libertà.
1.2. La tardiva e parziale attuazione dell’ordinamento costituzionale
L'Ordinamento dello Stato delineato nella Costituzione non è stato attuato prontamente in tutti gli organi previsti. In particolare i ritardi nell’attuazione della Costituzione hanno riguardato proprio gli istituti pensati dal costituente come correttivi alla forma di governo parlamentare, in quanto limiti strutturali al potere della maggioranza: il controllo di costituzionalità delle leggi e sui conflitti tra poteri dello Stato (la Corte costituzionale), l’autonomia dell'ordine giudiziario nell'esercizio della giurisdizione (il Consiglio superiore della magistratura), le autonomie territoriali con potestà legislativa (le Regioni), il controllo popolare sulle scelte legislative di maggioranza (il referendum abrogativo).
Le Regioni e la loro mancata attuazione costituiscono la clamorosa inadempienza del dettato degli articoli 114-133. I più illuminati costituzionalisti e docenti insistono affinché le elezioni per i consigli regionali si tengano contemporaneamente a quelle per il primo Parlamento repubblicano. E’ invece approvata la VIII disposizione transitoria, la quale stabilisce che le elezioni regionali siano “indette” entro un anno dalla entrata in vigore della Costituzione, cioè il 1° gennaio 1949. Si giunge però al mese di dicembre 1948 senza nessuna novità in proposito. Si hanno in quel mese due iniziative: la prima è di rinvio - unica ipotesi a quel punto possibile – contenuta nel disegno di legge costituzionale presentato dal repubblicano Giulio Bergmann al Senato, che intende prorogare all’8 ottobre 1949 il termine stabilito dalla VIII disposizione; la seconda, del Governo, che presenta due disegni di legge il 10 dicembre, firmati dal Presidente del Consiglio. Uno intende dettare “Norme per la elezione dei consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali”, viene accompagnato dalla procedura d’urgenza. L’altro ha come scopo quello di provvedere alla normativa per la costituzione e il funzionamento delle Regioni”. Sui due testi inizia in Commissione un dibattito inconcludente e contraddittorio.
In questo clima viene presentata alla Camera, il 16 luglio 1949, dal democristiano Roberto Lucifredi, la proposta di legge (n. 699) “Proroga del termine per l’effettuazione delle elezioni dei consigli regionali e degli organi elettivi delle amministrazioni provinciali”. Tra rinvii e dimenticanze solo dopo 22 anni di ritardo vengono eletti i consigli delle Regioni ordinarie, che si aggiungono a un ordinamento già esistente, con un danno mai più recuperato per la architettura ordinamentale disegnata dai costituenti.
Il Senato, previsto nel dibattito in seno alla Commissione dei 75 e nelle sue successive articolazioni come la Camera delle autonomie, si riduce nella composizione e nelle funzioni a una copia della Camera dei deputati. Nell'art. 60 della Costituzione ha una durata diversa: sei anni invece di cinque. Ma l’elezione delle due Camere per la seconda legislatura repubblicana si svolge contemporaneamente il 7 giugno 1953: l'artificio è quello dello scioglimento anticipato del Senato. Si introduce di fatto una rilevante modifica istituzionale senza neppure darle la dignità di un’apposita legge costituzionale preceduta da un dibattito parlamentare. Solo nel febbraio 1958 (alla vigilia delle elezioni per la terza legislatura) dopo un improduttivo dibattito sulle diverse proposte di riforma della seconda Camera, si approva la legge 64 del 27 febbraio 1958 che stabilisce in cinque anni la durata del Senato, cancellando ulteriormente la diversificazione tra le due Camere.
Il Referendum popolare abrogativo è un istituto previsto
e fortemente sostenuto da grande parte dei costituenti, ma per la legge
applicativa si dovrà aspettare fino al 1970. Il voto referendario si
affianca con pari dignità a quello elettivo nello schema di Costituzione
che il presidente della Costituente, Meuccio Ruini, presenta alla Commissione
dei
Il testo della Costituzione inserisce l’istituto referendario nella sezione che riguarda “La formazione delle leggi”, viene quindi riconosciuto al popolo - soggetto cui appartiene la sovranità ex art. 1 - di partecipare al potere legislativo attraverso la possibilità di abrogare in tutto o in parte le leggi approvate dal Parlamento.
L'art. 75, circostanziato e preciso, stabilisce - comma secondo - le leggi sulle quali non è possibile chiedere il referendum, sancendo così che su tutto il resto il ricorso a questo istituto è ammissibile. Il quinto e ultimo comma dell'art. 75 recita: “La legge determina le modalità di attuazione del referendum”. Dunque sono solo le modalità di attuazione sulle quali deve intervenire la legge ordinaria. L'unico controllo che il legislatore costituente affida alla magistratura riguarda la regolarità delle firme e delle procedure di raccolta e, nel merito, che il contenuto delle leggi sottoposte a referendum abrogativo non sia compreso nelle tre fattispecie di legge (solo tre) stabilite nel secondo comma dell'art. 75. E' noto come le diverse leggi per così dire attuative dell'art. 75 che si sono susseguite nel tempo (sempre più restrittive fino a quella che consente al ministro “competente” di chiedere la sospensione degli effetti abrogativi del referendum per sei mesi, confondendo così oltretutto il potere esecutivo con quello legislativo) abbiano calpestato il diritto, l'impegno civile e politico e la volontà di milioni di elettori.
La Corte costituzionale, l’organo fondamentale cui spetta il vaglio di legittimità costituzionale delle leggi e da cui avrebbe dovuto dipendere una rapida e manifesta soluzione di continuità con la legislazione del regime fascista, viene istituita solo nel 1956, otto anni dopo la promulgazione della Costituzione. Il Consiglio Nazionale dell’ Economia e del Lavoro (Cnel) entra in funzione nel 1957, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958. L’interregno precedente all’attuazione di parti fondamentali della Costituzione repubblicana rischia di pregiudicare la natura e la tenuta democratica della giovane Repubblica, con il mantenimento in vigore dei codici e della legislazione fascista e la pericolosissima distinzione operata dalla Corte di Cassazione – nel suo interim di vicarietà fino all’istituzione della Corte costituzionale – nel distinguere tra norme costituzionali prescrittive e norme meramente programmatiche.
I partiti e i sindacati. Appena approvata, la Costituzione della Repubblica incontra nei partiti i suoi più fieri avversari. Il Parlamento dei partiti si caratterizza, per dolo od omissione, come principale organo anticostituente. I fondamenti formali della nuova Costituzione: sovranità popolare e Stato di diritto, sono soppiantati da quelli di fatto di “sovranità partitocratica” e “costituzione materiale”, gli unici, sin da subito e ancora oggi - dopo sessant’anni - vigenti. Dopo il Ventennio fascista si volta pagina, ma non vi è vera e propria soluzione di continuità. Accade solo che al partito unico del Fascio subentri il “fascio” unico dei partiti: tutti e subito consociati contro la volontà popolare e la legge scritta. Non è un caso che la “disattuazione attiva” di parti fondamentali della Costituzione operata dal Parlamento, che perdura tutt’oggi, riguardi anche e innanzitutto quelle relative alla disciplina dei partiti (articolo 49) oltre che dei sindacati (articolo 39). Per i partiti la Costituzione impone il “metodo democratico” come condizione essenziale per la loro esistenza, ma tale imperativo - in mancanza di una legge attuativa - è rovesciato in pratica nel suo contrario, per le mancate garanzie accordate, all’interno dei partiti, ai diritti fondamentali previsti dalla Costituzione stessa. Nel caso dei sindacati, si decide di non procedere alla loro registrazione in nome di una “intangibile” autonomia che si presume sarebbe violata dai controlli della Corte dei conti.
1.3 Il processo di ulteriore degenerazione partitocratica
Nei decenni successivi, questo processo degenerativo – che costituisce l’oggetto di questo documento - ha via via investito tutti gli organi e le istituzioni repubblicane.
Il Presidente della Repubblica, cui la Costituzione assegna il compito supremo di garanzia della Costituzione nei rapporti fra poteri dello Stato – un compito regolato dalla attribuzione di precisi poteri - si trasforma gradatamente, dopo la presidenza provvisoria di De Nicola e il primo settennato di Luigi Einaudi, in un organo di mediazione tra le forze politiche.
Il Parlamento, se si escludono fino agli anni 70 alcune lontane, importanti eccezioni (diritto di famiglia, statuto dei lavoratori), rinuncia ad affrontare le riforme e legifera soprattutto attraverso leggi di emergenza e il crescente ricorso dei governi ai decreti legge, mentre i parlamentari vedono limitare e subordinare alla disciplina di partito la loro funzione di rappresentanti della volontà popolare “senza vincoli di mandato”; l’obbligo di pubblicità dei lavori parlamentari rimane lettera morta fino all’avvio delle trasmissioni clandestine delle sedute a opera di Radio Radicale nel ‘76.
Per quanto riguarda i partiti, la mancata attuazione della norma costituzionale riguardante il loro funzionamento democratico viene aggravata dalla approvazione della legge sul finanziamento pubblico, concepita in modo da sottrarli a ogni controllo pubblico.
La stessa Corte costituzionale, dopo aver esercitato per un quindicennio un rigoroso sindacato di costituzionalità, viene sempre più condizionata dai partiti nella sua composizione e nella sua giurisprudenza, come dimostrano le decisioni contraddittorie prese in materia di ammissibilità dei referendum, nelle quali essa ampiamente travalica i compiti attribuiti dall’art.75 della Costituzione.
Lo stato della Giustizia, sia penale sia civile, fa sì che l’Italia sia il Paese più condannato dalla Corte europea dei diritti umani, in particolare per la durata dei suoi processi, e ha come conseguenza una sistematica impunità e incertezza del diritto.
DAL FASCISMO ALLA PARTITOCRAZIA
Due citazioni.
1949: Giuseppe Maranini, dalla lezione inaugurale dell'Anno Accademico universitario di Firenze, 1949-1950 dal titolo: ‘’Governo parlamentare e partitocrazia’’.
“Le nuove forze associative scaturenti dalla lotta economica si politicizzano influendo sulla vita dei partiti in modo così decisivo da rendere ormai anacronistiche e impossibili libere e spontanee correnti di opinione, quali una volta erano in sostanza i partiti. I partiti dell'epoca nuova, si presentano come organismi disciplinati, dotati di burocrazia, finanza, stampa, inevitabilmente collegati alle organizzazioni economiche, sindacali, lobbistiche delle quali riflettano le lotte e gli interessi. Veri Stati nello Stato, ordinamenti giuridici cioè autonomi, essi mettono in crisi con il loro particolarismo e talvolta con il loro illiberalismo il debole Stato liberal-parlamentare, al quale si presenta un compito ben più grave di quello per il quale era attrezzato; non si tratta più di difendere l’individuo contro l’individuo, ma si tratta di difendere l’individuo e la legge contro potenti organizzazioni. Queste a loro volta traggono sempre nuovo alimento dal senso di panico potenziale che pervade gli individui a causa della carenza di diritto garantito dallo Stato. L'individuo, sentendosi indifeso dall’ordinamento statale, cerca negli ordinamenti minori e particolari la sua garanzia e a quegli ordinamenti paga il tributo di obbedienza che lo Stato non sa più esigere”.
1993: Giuliano Amato, dal discorso di
dimissioni da Presidente del Consiglio, 22 aprile 1993.
(occorre) “far morire quel modello di partito-Stato che fu introdotto dal fascismo e la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un 'singolare' in 'plurale'.
“Quella che noi chiamiamo la degenerazione progressivamente intervenuta nei partiti italiani, quel loro lasciare vuota la società”, quel loro divenire poco alla volta “erogatori di risorse disponibili attraverso l'esercizio del potere pubblico, questa degenerazione è stata il ritorno o la progressiva amplificazione di una tendenza forte della storia italiana e che nella storia italiana era nata negli anni Venti e Trenta, con l'organizzazione di 'quel' partito”. “È dato di fatto che il regime fondato su partiti che acquisiscono consenso di massa attraverso l'uso della istituzione pubblica è un regime che nasce in Italia con il fascismo e che ora viene meno. E non a caso. Nello stesso momento viene meno quel regime economico fondato sull'impresa pubblica che era nato negli anni Trenta. Ed è un regime economico e un regime di partiti che attraversa per certi aspetti pure un cambiamento importante, pure fondamentalissimo, come quello del passaggio tra quel regime e la Repubblica e che viene meno ora”.
IL FURTO DELLA SCHEDA REFERENDARIA
La Costituzione prevede che il cittadino partecipi all’attività legislativa utilizzando diverse schede di voto: quelle propriamente elettorali, per scegliere i membri del Parlamento, dei Consigli regionali e delle amministrazioni locali; e quella referendaria, per correggere o cancellare le leggi sbagliate del Parlamento. Il voto referendario abrogativo di leggi, è la straordinaria invenzione dei Costituenti i quali, storicamente, hanno vissuto l’esperienza del regime fascista e quindi affrontano con diffidenza l’istituzione parlamentare. Tuttavia per più di vent’anni, la scheda referendaria non viene posta in attuazione: incomincia da qui, immediatamente, il processo di snaturamento e svuotamento della Costituzione; da qui i partiti cominciano a impadronirsi del “sistema” politico e a cancellare lo Stato di diritto.
2.1 La rivoluzione del referendum e la sua tardiva attuazione
La “convenzione antireferendaria” [2] del sistema politico italiano si manifesta anzitutto con il ritardo con cui un istituto “rivoluzionario” come il Referendum trova attuazione: il Parlamento provvede a varare la legge applicativa del referendum solo il 25 maggio 1970[3]. Tale “conquista” è il prezzo pagato alla Chiesa come riparazione preventiva all’approvazione della legge sul divorzio che da lì a poco sarebbe stata approvata. Ma con la legge attuativa del referendum, il Parlamento non si limita ad applicare il dettato costituzionale, introduce una serie di altri limiti extra-costituzionali – principalmente di tipo temporale - tra cui l’impedimento a votare sui referendum nell’anno precedente lo scioglimento delle Camere o nei sei mesi successivi alle elezioni politiche. Proprio in forza di queste norme restrittive, nel 1972, per la prima volta nella storia repubblicana (l’escamotage si ripete nel 1976 e nel 1987)4[4] si sciolgono anticipatamente entrambe le Camere, per impedire la consultazione referendaria che potrà svolgersi solo due anni dopo. In questo lasso di tempo i partiti del cosiddetto “arco costituzionale” rappresentati in Parlamento si mobilitano per tentare di approvare proposte legislative, come quelle del liberale Aldo Bozzi, della indipendente di sinistra Tullia Carrettoni e del socialista Renato Ballardini, che, modificando la legge sul divorzio, possano impedire lo svolgimento del referendum.
Finalmente, nel 1974, il referendum si svolge, registrando un’ampia partecipazione al voto (87,7%) e la maggioranza dei cittadini – certo comunisti, socialisti, laici ma anche democristiani e missini – con quasi il 60% dice “no” non solo all’abrogazione della legge sul divorzio, ma anche alle indicazioni delle segreterie dei loro partiti, o alle esitazioni dimostrate prima del voto. Nel periodo immediatamente successivo anche i partiti “vincitori” tornano a riproporre, ad esempio col deputato Pci Alberto Malagugini e altri, il divieto di fare referendum prima di tre anni dalla pubblicazione della legge da abrogare e ipotizzano che la consultazione referendaria venga sospesa per sei mesi nel caso alle Camere si esaminino provvedimenti legislativi “riguardanti la materia”.
2.2 Il
Golpe del ’78 e la giurisprudenza anticostituzionale
Il perfezionarsi dell’opera di sterilizzazione dell’istituto referendario si ha però solo con la giurisprudenza della Corte costituzionale, a cui – occorre ricordare - non la Costituzione, ma una successiva legge costituzionale[5] ha demandato il compito di giudicare dell’ammissibilità dei referendum, ai sensi dell’elenco tassativamente circoscritto dall’articolo 75 secondo comma della Costituzione, che stabilisce che non possono essere sottoposte a referendum solo le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
Con la sentenza n. 16 del 2 febbraio del 1978, si inaugura la giurisprudenza anti-referendum e anti-Costituzione della Corte costituzionale. Nel giudicare l’ammissibilità di otto referendum radicali volti ad abrogare, tra l’altro, il Concordato tra Stato e Chiesa, la Corte si distacca da una lettura tassativa dei limiti previsti dall’art.75[6] per sostenere l’esistenza - sulla base di una lettura “logico-sistematica” delle norme costituzionali – di una miriade di ulteriori limiti, frutto di un’interpretazione estensiva di quelli espressamente enunciati dalla Costituzione, ravvisandone sempre di nuovi di carattere implicito.
Nella stessa occasione il Comitato promotore dei referendum viene implicitamente riconosciuto come potere dello Stato e due mesi dopo, con un’ordinanza, ottiene il formale riconoscimento di soggetto competente a dichiarare definitivamente la volontà dei sottoscrittori. Tale riconoscimento non comporta però alcun potere sostanziale, in quanto esso si esaurisce al momento del voto referendario e non gli è riconosciuta alcuna legittimazione a preservarne l’esito da eventuali successivi travisamenti, ad esempio, parlamentari. Infatti, nel caso del referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, la Corte dichiara inammissibile il ricorso del Comitato promotore contro la normativa approvata successivamente dal Parlamento che di fatto lo reintroduce.
Negli anni successivi la giurisprudenza perfezionerà un “complesso di ragioni di ammissibilità” [7] talmente articolato da rendere tecnicamente impossibile soddisfarle tutte, lasciando così il giudizio finale sulle leggi da abrogare, non al popolo italiano, ma al mero arbitrio della Corte[8]. Tale situazione è efficacemente sintetizzata dal Presidente emerito della Corte costituzionale Livio Paladin che in tema di ammissibilità del referendum afferma che “l’unica certezza è l’incertezza”.[9] Sta di fatto che, nella storia repubblicana, a fronte dei 26 referendum validi, dei 20 che non raggiungono il quorum e degli 8 impediti da leggi sulla materia approvate in fretta e furia dal Parlamento, la Corte costituzionale boccia ben 48 quesiti referendari. La mannaia della Corte si abbatte su temi di grandissima rilevanza politica e civile, impedendo ai cittadini di pronunciarsi su Concordato tra Stato e Chiesa, Tribunali Militari, smilitarizzazione della Guardia di Finanza, modifica in senso uninominale delle leggi elettorali di Camera e Senato e del Csm, responsabilità civile dei magistrati, termini ordinatori e perentori, Servizio sanitario nazionale, pubblico registro automobilistico, patronati sindacali, cassa integrazione, ritenuta d’acconto, sostituto d’imposta, collocamento al lavoro, tempo determinato, part time, lavoro a domicilio, pensioni di anzianità, monopolio Inail, carcerazione preventiva, legalizzazione delle droghe leggere.
2.3 Il popolo vota, il regime fa il contrario, il quorum è fatto mancare
Il diritto costituzionale al referendum viene negato ai cittadini anche con il sovvertimento di esiti di consultazioni referendarie, in cui la volontà popolare si è espressa a stragrande maggioranza e in modo inequivocabile.
Nel 1987, ad esempio, nel referendum in tema di responsabilità civile del magistrato, il “Sì” ottiene una percentuale dell’80%. L’anno successivo il Parlamento approva una legge che di fatto introduce la completa irresponsabilità civile e personale del magistrato trasferendola allo Stato.
Nel 1993 viene soppresso tramite referendum il ministero dell’agricoltura e abrogata la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, rispettivamente, con il 75% e il 90% dei voti validi. Quattro mesi dopo viene istituito il ministero per le politiche agricole e nel 1997, analogamente, il finanziamento pubblico dei partiti è reintrodotto attraverso il meccanismo volontario della destinazione del 4 per mille dell’Irpef. Il gettito effettivo è molto inferiore alle aspettative e, nel 1999, i partiti corrono ai ripari ripristinando il loro finanziamento pubblico attraverso i già esistenti rimborsi per le spese elettorali, quintuplicandoli. Una sorte simile è riservata al referendum sul maggioritario del 1993 (vedi parte corrispondente), sulla privatizzazione della Rai e sulle trattenute automatiche per l’iscrizione al sindacato del 1995 (reintrodotto dall’accordo bilaterale tra Confindustria e sindacati).
Il tradimento parlamentare del voto popolare, spesso indiscutibilmente maggioritario, è la ragione principale della disaffezione dei cittadini alle consultazioni referendarie successive, alle quali fanno mancare il necessario quorum di partecipazione. Ai mancati raggiungimenti del quorum contribuisce anche la tecnica utilizzata dal Governo, anno dopo anno, di fissare lo svolgimento del voto referendario in date oggettivamente “balneari”, cioè sempre più verso l’ultima domenica utile tra quelle che la legge dispone (“in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno”).
Come se non bastasse, anche quando la maggioranza dei cittadini si reca alle urne, accade che il quorum non sia raggiunto sol perché alla sua determinazione concorrono anche elettori che sono morti o “dispersi”. È il caso del referendum del 18 aprile 1999 sull’abolizione della quota proporzionale nella legge elettorale della Camera dei deputati, quando a decidere l’esito non sono gli oltre 21 milioni di italiani che si recano al voto e che si pronunciano al 91,5% per il “Sì”, ma i 150.000 voti mancanti al raggiungimento del quorum. A decidere l’esito del referendum è in realtà il computo di 2.351.306 cittadini italiani residenti all’estero, dei quali però solo 13.542 (lo 0,5% degli aventi diritto) hanno ricevuto effettivamente il certificato elettorale.
La riprova dell’effettivo raggiungimento del quorum nel 1999 si ha l’anno successivo quando in vista del referendum del 21 maggio, a seguito di una iniziativa nonviolenta dei radicali, si ottiene la revisione straordinaria degli elenchi elettorali, in particolare di quelli dei residenti all’estero. Il risultato è la cancellazione da tali liste di oltre 350.000 persone tra deceduti e irreperibili. Se tale cancellazione fosse stata effettuata l’anno precedente, il quorum sul referendum sarebbe stato raggiunto e avremmo avuto un sistema pienamente uninominale nella legge elettorale della Camera dei deputati.
L’illegalità che connota le consultazioni referendarie è
confermata e aggravata nel 2005, con il referendum sulla legge
In definitiva, l’istituto referendario così come
disegnato dalla Costituzione repubblicana, è ormai distrutto. Agli
italiani è concesso l’uso della “seconda scheda” solo in forma
plebiscitaria e quando le componenti del Regime italiano lo scelgono.
SCHEDA 1: LE
CONSULTAZIONI REFERENDARIE
I referendum
abrogativi su scala nazionale in Italia sono stati in totale
Anno |
Referendum |
Affluenza |
Quorum |
SÌ |
NO |
Risultato |
Descrizione |
87,7% |
raggiunto |
40,7% |
59,3% |
NO |
Abrogazione
della legge Fortuna-Baslini,
del 1970,
con la quale era stato introdotto in Italia
il divorzio. |
||
81,2% |
raggiunto |
23,5% |
76,5% |
NO |
Abrogazione
della legge Reale:
norme restrittive in tema di ordine
pubblico. |
||
81,2% |
raggiunto |
43,6% |
56,4% |
NO |
Eliminazione
del finanziamento dei partiti da parte dello Stato (primo tentativo). |
||
79,4% |
raggiunto |
14,9% |
85,1% |
NO |
Abrogazione
della legge Cossiga, che era
stata concepita per affrontare l'emergenza terrorismo
in Italia. |
||
79,4% |
raggiunto |
22,6% |
77,4% |
NO |
Abolizione
della pena dell'ergastolo. |
||
79,4% |
raggiunto |
14,1% |
85,9% |
NO |
Abolizione
delle norme sulla concessione di porto d'arma da fuoco |
||
79,4% |
raggiunto |
11,6% |
88,4% |
NO |
Abrogazione
di alcune norme della legge 194 sull'aborto
per rendere più libero il ricorso all'interruzione di gravidanza.
Promosso dai Radicali. |
||
79,4% |
raggiunto |
32,0% |
68,0% |
NO |
Abrogazione
di alcune norme della legge 194 sull'aborto
per restringere i casi di liceità dell'aborto. Di segno opposto al
primo quesito. Promosso dal Movimento per la vita. |
||
77,9% |
raggiunto |
45,7% |
54,3% |
NO |
Abolizione
della norma che comporta un taglio dei punti della scala mobile. Promosso dal PCI. |
||
65,1% |
raggiunto |
80,2% |
19,8% |
SI |
Abrogazione
delle norme limitative della responsabilità civile
per i giudici. |
||
65,1% |
raggiunto |
85,0% |
15,0% |
SI |
Abolizione
della commissione inquirente e
del trattamento dei reati dei ministri. |
||
65,1% |
raggiunto |
80,6% |
19,4% |
SI |
Abrogazione
dell'intervento statale se il Comune non concede un sito per la costruzione
di una centrale nucleare. |
||
65,1% |
raggiunto |
79,7% |
20,3% |
SI |
Abrogazione
dei contributi di compensazione agli enti locali
per la presenza sul proprio territorio di centrali nucleari. |
||
65,1% |
raggiunto |
71,9% |
28,1% |
SI |
Esclusione
della possibilità per l'Enel di partecipare alla costruzione di centrali nucleari
all'estero. |
||
43,4% |
non raggiunto |
92,2% |
7,8% |
non valido |
Disciplina
della caccia |
||
42,9% |
non raggiunto |
92,3% |
7,7% |
non valido |
Accesso
dei cacciatori a fondi privati |
||
Anno |
Referendum |
Affluenza |
Quorum |
SÌ |
NO |
Risultato |
Descrizione |
43,1% |
non raggiunto |
93,5 |
6,5% |
non valido |
Abrogazione
dell'uso dei pesticidi nell'agricoltura. Promosso dai Verdi. |
||
62,5% |
raggiunto |
95,6% |
4,4% |
SI |
Riduzione
del sistema delle preferenze nelle liste per la Camera dei deputati, portandole da tre a
una. |
||
76,8% |
raggiunto |
82,6% |
17,4% |
SI |
Abrogazione
delle norme sui controlli ambientali effettuati per legge dalle USL. |
||
77,0% |
raggiunto |
55,4% |
44,6% |
SI |
Abrogazione
delle pene per la detenzione ad uso personale di droghe
leggere. Promosso dai Radicali. |
||
77,0% |
raggiunto |
90,3% |
9,7% |
SI |
Abolizione
del finanziamento pubblico ai partiti (secondo tentativo). |
||
76,9% |
raggiunto |
89,8% |
10,2% |
SI |
Abrogazione
delle norme per le nomine ai vertici delle banche
pubbliche. |
||
76,9% |
raggiunto |
90,1% |
9,9% |
SI |
Abrogazione
della legge che istituisce il Ministero delle Partecipazioni
Statali. |
||
77,0% |
raggiunto |
82,7% |
17,3% |
SI |
Abrogazione
della legge elettorale per il Senato per introdurre il sistema maggioritario. |
||
76,9% |
raggiunto |
70,2% |
29,8% |
SI |
Abrogazione
della legge che istituisce il Ministero dell'Agricoltura. |
||
76,9% |
raggiunto |
82,3% |
17,7% |
SI |
Abrogazione
della legge che istituisce il Ministero
del Turismo e Spettacolo. |
||
57,2% |
raggiunto |
49,97% |
50,03% |
NO |
Liberalizzazione
delle rappresentanze sindacali (abolizione del monopolio confederale). |
||
57,2% |
raggiunto |
62,1% |
37,9% |
SI |
Rappresentanze
sindacali nella contrattazione pubblica: modifica dei criteri di
rappresentanza in modo che questa vada anche alle organizzazioni di base. |
||
57,4% |
raggiunto |
64,7% |
35,3% |
SI |
Contrattazione
collettiva nel pubblico impiego: abrogazione della norma sulla
rappresentatività per i contratti del pubblico impiego. |
||
57,2% |
raggiunto |
63,7% |
36,3% |
SI |
Abrogazione
della norma sul soggiorno cautelare per
gli imputati di reati di mafia. |
||
57,4% |
raggiunto |
54,9% |
45,1% |
SI |
Abrogazione
della norma che definisce pubblica la RAI, in modo da avviarne
la privatizzazione. |
||
57,2% |
raggiunto |
35,6% |
64,4% |
NO |
Abrogazione
della norma che sottopone ad autorizzazione amministrativa il commercio. |
||
57,3% |
raggiunto |
37,5% |
62,5% |
NO |
Abrogazione
della norma che impedisce la liberalizzazione degli orari dei negozi. |
||
Anno |
Referendum |
Affluenza |
Quorum |
SÌ |
NO |
Risultato |
Descrizione |
57,3% |
raggiunto |
56,2% |
43,8% |
SI |
Abrogazione
della norma che impone la contribuzione sindacale automatica ai lavoratori. |
||
57,4% |
raggiunto |
49,4% |
50,6% |
NO |
Legge
elettorale per i comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti: estensione
ai Comuni più grandi dell'elezione diretta del sindaco già
prevista per i piccoli. |
||
58,1% |
raggiunto |
43,1% |
56,9% |
NO |
Abrogazione
delle norme che consentono la concentrazione di tre reti televisive. |
||
58,1% |
raggiunto |
44,3% |
55,7% |
NO |
Abrogazione
delle norme che consentono un certo numero di break pubblicitari in tv. |
||
58,1% |
raggiunto |
43,6% |
56,4% |
NO |
Modifica
del tetto massimo di raccolta pubblicitaria delle televisioni private. |
||
30,2% |
non raggiunto |
74,1% |
25,9% |
non valido |
Abolizione
dei poteri speciali riservati al Ministro del Tesoro nelle aziende privatizzate. |
||
30,3% |
non raggiunto |
71,7% |
28,3% |
non valido |
Abolizione
dei limiti per essere ammessi al servizio civile in luogo del servizio
militare. |
||
30,2% |
non raggiunto |
80,9% |
19,1% |
non valido |
Abolizione
della possibilità per il cacciatore di entrate liberamente nel fondo
altrui. |
||
30,2% |
non raggiunto |
83,6% |
16,4% |
non valido |
Abolizione
del sistema di avanzamento nella carriera dei magistrati. |
||
30,0% |
non raggiunto |
65,5% |
34,5% |
non valido |
Abolizione
dell’Ordine dei giornalisti. Promosso dai Radicali. |
||
30,2% |
non raggiunto |
85,6% |
14,4% |
non valido |
Abolizione
della possibilità per i magistrati di assumere incarichi al di fuori
delle loro attività giudiziarie. |
||
30,1% |
non raggiunto |
66,9% |
33,1% |
non valido |
Abrogazione
della legge che istituisce il Ministero delle Politiche Agricole. |
||
49,6% |
non raggiunto |
91,5% |
8,5% |
non valido |
Abolizione
della quota proporzionale
nelle elezioni della Camera dei Deputati. |
||
32,2% |
non raggiunto |
71,1% |
28,9% |
non valido |
Eliminazione
del rimborso spese per consultazioni elettorali e referendarie |
||
32,4% |
non raggiunto |
82,0% |
18,0% |
non valido |
Abolizione
della quota proporzionale
nelle elezioni della Camera dei Deputati |
||
31,9% |
non raggiunto |
70,6% |
29,4% |
non valido |
Abolizione
del voto di lista per l’elezione dei membri togati del CSM. |
||
32,0% |
non raggiunto |
69,0% |
31,0% |
non valido |
Separazione
netta della carriera di un magistrato pubblico ministero da quella di un
giudice. Promosso dai Radicali. |
||
32,0% |
non raggiunto |
75,2% |
24,8% |
non valido |
Abolizione
della possibilità per i magistrati di assumere incarichi al di fuori
delle loro attività giudiziarie. |
||
Anno |
Referendum |
Affluenza |
Quorum? |
SÌ |
NO |
Risultato |
Descrizione |
32,5% |
non raggiunto |
33,4% |
66,6% |
non valido |
Abrogazione
dell'art.18 dello Statuto dei Lavoratori. Promosso dai Radicali. |
||
32,2% |
non raggiunto |
61,8% |
38,2% |
non valido |
Abrogazione
della possibilità di trattenere dalla busta paga o dalla pensione la
quota di adesione volontaria a un sindacato o associazione di categoria
attraverso un patronato. |
||
25,5% |
non raggiunto |
86,7% |
13,3% |
non valido |
Estensione
del diritto al reintegro nel posto di lavoro per i dipendenti licenziati
senza giusta causa. Promosso da Rifondazione Comunista. |
||
25,6% |
non raggiunto |
85,6% |
14,4% |
non valido |
Abrogazione
dell'obbligo per i proprietari terrieri di dar passaggio alle condutture
elettriche sui loro terreni. Promosso dai Verdi. |
||
25,4% |
non raggiunto |
88,0% |
12,0% |
non valido |
|||
25,5% |
non raggiunto |
88,8% |
11,2% |
non valido |
Norme
sui limiti all'accesso alla procreazione medicalmente assistita. |
||
25,5% |
non raggiunto |
87,7% |
12,3% |
non valido |
Norme
su finalità, diritti, soggetti coinvolti e limiti all'accesso alla procreazione medicalmente assistita. |
||
25,5% |
non raggiunto |
77,4% |
22,6% |
non valido |
Divieto
di fecondazione eterologa. |
A questi vanno aggiunti altri quattro referendum su scala nazionale per i quali non era previsto alcun quorum di validità:
SCHEDA 2: I REFERENDUM RESPINTI
DALLA CORTE COSTITUZIONALE
Reati
opinione e associazione |
1977 |
Concordato |
1977 |
Abolizione
Tribunali Militari - 1 |
1977 |
Abolizione
Tribunali Militari - 2 |
1977 |
Reati
opinione e associazione |
1980 |
Caccia |
1980 |
Legalizzazione
non droghe |
1980 |
Smilitarizzazione
Guardia Finanza |
1980 |
Localizzazione
centrali nucleari |
1980 |
Caccia
- 1 (2) |
1986 |
Caccia
- 2 (2) |
1986 |
Sistema
Elettorale CSM |
1986 |
Legge
elettorale Senato (3) |
1990 |
Legge
elettorale Comuni (3) |
1990 |
Legge
Elettorale Senato - 2 (Corel) |
1992 |
Pubblicità
RAI-TV (4) |
1994 |
Tesoreria
Unica (4) |
1994 |
Sostituto
d’imposta |
1994 |
Servizio
Sanitario Nazionale |
1994 |
Cassa
Integrazione straordinaria |
1994 |
Legge
Elettorale Camera |
1994 |
Legge
Elettorale Senato |
1994 |
ENEL:
liberalizzazione produzione |
1995 |
Assistenza
Sindacale Patti in Deroga |
1995 |
Legge
elettorale Camera |
1995 |
Legge
elettorale Senato |
1995 |
Legalizzazione
droghe leggere |
1995 |
Sistema
elettorale CSM |
1995 |
Smilitarizzazione
Guardia Finanza |
1995 |
Responsabilità
civile Magistrati |
1995 |
Aborto
di Stato |
1995 |
Limitazione
pubblicità RAI-TV |
1995 |
Ritenuta
d’acconto |
1995 |
Servizio
Sanitario Nazionale |
1995 |
Scuola
Elementare |
1995 |
Pubblico
Registro Automobilistico |
1995 |
Collocamento
al lavoro |
1999 |
Tempo
determinato |
1999 |
Part
time |
1999 |
Lavoro
a domicilio |
1999 |
Sostituto
d'imposta |
1999 |
Smilitarizzazione
della guardia di Finanza |
1999 |
Pensioni
di anzianità |
1999 |
Servizio
sanitario nazionale |
1999 |
Monopolio
Inail |
1999 |
Responsabilità
civile dei magistrati |
1999 |
Carcerazione
preventiva |
1999 |
Termini
ordinatori e perentori |
1999 |
Patronati
sindacali |
1999 |
Legge
40/2004 |
2004 |
UNA REPUBBLICA FONDATA SUL REGIME DEI PARTITI (PARASTATALI E NON DEMOCRATICI)
L’ Articolo. 49 della Costituzione recita “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.” Mentre per i referendum i partiti pongono regole particolarmente restrittive, per quanto riguarda se stessi non stabiliscono alcuna regola: l’unico intervento legislativo è quello per garantirsi finanziamento di Stato.
3.1
Giuseppe Maranini e la partitocrazia
Giuseppe Maranini10 pone fin dall’immediato dopoguerra il problema della partitocrazia. A suo avviso, il neonato regime repubblicano rischiava di essere travolto dalla debolezza delle istituzioni formali rispetto alle istituzioni di fatto (partiti e sindacati) e per questo sollecita il rafforzamento degli istituti di garanzia da porre a presidio della Costituzione. Riconoscendo il pregio della presenza di una Corte costituzionale e di una piena indipendenza della magistratura, ritiene necessario affiancare a questi poteri di garanzia il rafforzamento del prestigio delle istituzioni, garantendone una piena autonomia rispetto ai partiti. Alla base pone la necessità di una regolamentazione giuridica dei partiti e la necessità di far emergere un profilo coerentemente parlamentare della forma di governo, ovvero quella di rafforzare i poteri impliciti del Presidente, la riforma del sistema elettorale in senso uninominale maggioritario, per innescare una dinamica di competizione aperta nel sistema politico. Introduce il termine “partitocrazia” proprio ponendo l’attenzione sul fatto che i partiti hanno il potere di controllare lo Stato senza essere controllati.
La formulazione dell’art. 49 è il frutto della convinzione, formatasi tra i Costituenti, secondo cui la funzione dei partiti politici e delle altre formazioni sociali dovrebbe favorire l’affermazione di una democrazia matura, che per il tramite degli stessi partiti garantirebbe contemporaneamente la proposta politica e una funzione di controllo dell’azione dei rappresentanti. Questo secondo aspetto, complementare al primo, da svolgere al di fuori delle sedi istituzionali, si fonda sulla necessità di una partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica del Paese, non limitandosi al mero momento elettorale, ma garantendo loro una partecipazione continua alla vita politica, nonché l’esercizio effettivo dei diritti politici.
3.2
Oligarchie di partito e negata libertà di associazione
Nel momento in cui i partiti – con la sola eccezione dei Radicali - inseriscono nel proprio statuto il divieto di iscrizione ad altre formazioni politiche, di fatto eliminano il diritto costituzionale alla libertà di associazione.
Il processo di partecipazione democratica è ulteriormente limitato attraverso la promulgazione di leggi elettorali che consentono alle oligarchie di partito di nominare i candidati che saranno eletti grazie a liste bloccate senza preferenze. Contemplando la compatibilità di incarichi istituzionali con incarichi di responsabilità politica nel partito, inoltre, i partiti portano gli eletti a rispondere innanzi tutto al partito prima ancora che al popolo elettore, disattendendo così quanto stabilito dall’articolo 67 della Costituzione che recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.12
L’introduzione nel 1974 (Legge n. 195) di finanziamenti pubblici ai partiti come pura elargizione istituzionalizza, a carico dello Stato, il sostentamento delle strutture dei partiti piuttosto che il sostegno all’iniziativa politica. Tale legge riconosce i contributi ai partiti rappresentati in Parlamento, penalizzando quindi le nuove formazioni politiche e la partecipazione all’interno dei partiti che, dotati di ingenti risorse pubbliche, rafforzano l’apparato burocratico divenendo sempre più oligarchici.
La giustificazione data per l’istituzione dei finanziamenti pubblici ai partiti, a fronte degli scandali per tangenti emersi nel 1965 con il caso Trabucchi e nel 1973 con lo scandalo petroli, era rassicurare l’opinione pubblica che il sostegno dello Stato avrebbe risolto le esigenze finanziarie dei partiti organizzati, stroncando la corruzione e la collusione con i grandi interessi economici. La legge viene approvata in soli 16 giorni con il consenso di tutti i partiti, fatta eccezione per i liberali.
Gli scandali degli anni successivi (caso Lokheed, Sindona e altri) dimostrano che la legge non ha avuto alcun effetto moralizzatore.
3.3
Referendum del 1978
L’11 giugno 1978 gli elettori sono chiamati al voto sul referendum proposto dai Radicali per l’abrogazione della Legge 195/74. I partiti che invitano a votare “No” rappresentano il 97% dei voti e i Radicali l’1,1. Il referendum non passa, ma la percentuale dei voti favorevoli è molto alta, il 43,6%. I promotori del referendum abrogativo del finanziamento pubblico ai partiti sostengono che lo Stato deve favorire tutti i cittadini attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per “fare politica”, non per garantire le strutture e gli appartati di partito, che devono essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti.
Il sistema dei partiti continua a ignorare l’orientamento prevalente dell’opinione pubblica e del loro stesso elettorato e nel 1980 tenta il raddoppio del finanziamento pubblico, che viene in quel momento bloccato a causa della contemporanea esplosione dello scandalo Caltagirone (finanziamenti elargiti dagli imprenditori a partiti e a politici).
Nel 1981, con la legge 659, vengono introdotte le prime modifiche. L’ostruzionismo parlamentare radicale volto a bloccare l’istituzione dell’indicizzazione dei finanziamenti e a ottenere maggiore trasparenza dei bilanci dei partiti nonché controlli efficaci, fa sì che il testo approvato, pur prevedendo il raddoppio dei finanziamenti pubblici, preveda anche il divieto per i partiti e per i politici (eletti, candidati o aventi cariche di partito) di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione, da enti pubblici o a partecipazione pubblica e una qualche forma di pubblicità sui bilanci. I partiti non sono tenuti alla redazione di un vero e proprio bilancio, ma al solo deposito di un rendiconto finanziario relativo alle entrate e alle uscite dell’anno e non sono soggetti a effettivi controlli.
Nel 1982, su sollecitazione dei radicali Marcello Crivellini ed Emma Bonino, che contestano lo schema di bilancio predisposto dalla Presidenza della Camera perché non prevede la situazione patrimoniale dei partiti, la Presidente Nilde Iotti risponde: “Poiché la legge n. 659 del 1981 non prevede la compilazione di un rendiconto economico, ma solo di un rendiconto di entrate e spese finanziarie, il collegamento del rendiconto finanziario con la situazione patrimoniale diviene particolarmente disagevole e la pubblicazione congiunta dei due documenti potrebbe disorientare i lettori dei bilanci dei partiti.” E ancora: “Poco significativi, anzi fuorvianti, per l’opinione pubblica, sono i valori delle attività e passività e la cifra del netto patrimoniale, che i lettori dei bilanci più sprovveduti tenderebbero a identificare con la “potenzialità economica” dei partiti. In qualche caso, poi, si avrebbe un deficit patrimoniale anziché un patrimonio netto (per il prevalere delle passività sulle attività), che potrebbe mettere in imbarazzo alcuni partiti nei confronti dell'opinione pubblica”.
3.4 Dall’abolizione del finanziamento al rimborso elettorale
Il finanziamento pubblico ai partiti13 viene abolito nell’aprile del 1993 con il 90,3% dei voti espressi sul referendum radicale. Ma nel dicembre dello stesso anno viene “aggiornata” la legge sui rimborsi elettorali, definiti “contributo per le spese elettorali”,14 subito applicata tre mesi dopo, in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994. Nel giro di pochi mesi, il rimborso è erogato in un’unica soluzione per un ammontare complessivo nella legislatura che tra, Camera e Senato, è pari a 47 milioni di euro. La stessa norma viene applicata in occasione delle successive elezioni politiche del 21 aprile 1996.
Nel 1997, con la legge15 recante: “Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici”, di fatto si reintroduce il finanziamento pubblico ai partiti.16 All'atto della dichiarazione annuale dei redditi delle persone fisiche, ciascun contribuente può destinare una quota pari al 4 per mille dell'imposta sul reddito al finanziamento dei movimenti e partiti politici, senza poter indicare a quale partito. La data per l’erogazione in favore dei partiti viene fissata entro il 31 gennaio di ciascun anno. Per poterla applicare da subito, si inserisce una norma transitoria17 che consente di erogare le somme già a partire dal 1997 fissando il fondo, per l’anno in corso, in 82.633.000 euro e stabilendo che per gli anni successivi tale fondo è calcolato sulla base delle dichiarazioni dei contribuenti e che in ogni caso non può superare i 56.810.000 euro. Intanto per il 1997, dopo meno di un mese dall’approvazione della legge, i partiti incassano nuovamente il finanziamento pubblico.
Con la stessa legge, si introduce l’obbligo di redigere un bilancio per competenza, comprendente stato patrimoniale e conto economico.18 I controlli continuano a essere affidati alla Presidenza della Camera. E’ soggetto al controllo della Corte dei Conti solo il rendiconto delle spese elettorali.
L’adesione alla contribuzione volontaria per destinare il 4 per mille ai partiti sarà scarsissima.19
Nel giugno 1999 viene emanata una nuova legge20, che ancora una volta cela dietro il titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” un vero e proprio finanziamento pubblico: infatti è un rimborso elettorale solo teorico, non avendo alcuna attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali.
I fondi sono quattro, oltre a quello previsto per le consultazioni referendarie: uno per la Camera, uno per il Senato, uno per le elezioni al Parlamento europeo e uno per le elezioni regionali. Il fondo si costituisce in occasione della consultazione elettorale e si eroga in rate annuali; in caso di scioglimento anticipato della legislatura si interrompe l’erogazione. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa ammonta a 193.713.000 euro.
Il 16 maggio 2001 si vota e i partiti iniziano a percepire questo cospicuo “rimborso elettorale”.
A luglio 2002, si emana la legge (21) recante “Disposizioni in materia di rimborsi elettorali”. Il fondo diventa annuale, sopravvive la norma che prevede l’interruzione dell’erogazione in caso di fine anticipata della legislatura rispetto alla naturale scadenza. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa passa da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro.
Il 26 febbraio 2006, con la legge n. 5122 l’erogazione è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura indipendentemente dalla sua durata effettiva. Con quest’ultima modifica l’aumento è esponenziale. Con lo scioglimento anticipato della XV legislatura, i partiti iniziano a percepire il doppio dei fondi, giacché contestualmente introitano le quote annuali relative alla XV e alla XVI legislatura.
10 Giurista e docente,
intellettuale che ha percorso le tappe più significative della storia
costituzionale d’Italia
11 La libertà di
associazione è garantita nello Statuto del Partito radicale del 1967.
Art. 2. DEGLI ISCRITTI DELLE ASSOCIAZIONI DEI PARTITI REGIONALI. 2.1. Gli
iscritti. 2.1.1. Può iscriversi al partito radicale chiunque, anche non
cittadino italiano che abbia compiuto l'età di 16 anni. Le condizioni di
iscrizione al partito sono l'accettazione del presente statuto, il versamento
delle quote individuali al partito federale nella misura stabilita dal
congresso federale, l'impegno ad aderire o a costituire associazioni radicali
secondo i propri interessi politici, culturali, sindacali, o altri. Le
iscrizioni sono accolte dalla segreteria del partito federale, direttamente o
tramite le associazioni radicali, o i partiti regionali.
12 Anche in questo caso fa
eccezione il Partito Radicale che nel proprio Statuto sancisce: Art. 5.
ELEZIONI ED ELETTI 5.1. In tutte le elezioni cui partecipa con liste
proprie (comunali, provinciali, regionali, politiche) il partito si presenta
con la denominazione “Partito radicale”. Gli eletti, nell'esercizio della loro
attività rappresentativa, non sono vincolati da mandati né da alcuna
disciplina. La libertà di voto non è limitata da deliberazioni
dei gruppi degli eletti, deliberazioni che hanno valore indicativo.
13 Istituito nel 1974 con
la legge n.
14 Legge n. 515 del 10
dicembre 1993
15 Legge n. 2 del 2 gennaio
1997
16 Il Comitato radicale
promotore del referendum vinto nel 1993 sull’abolizione del finanziamento
pubblico, tenta il ricorso rispetto al tradimento dell’esito referendario posto
in essere con la legge 2/97, ma pur essendo stato riconosciuto in precedenza
come potere dello Stato, gli viene negata la possibilità di depositare
tale ricorso
17 Art. 4 Legge 2/97
18 Finalmente dopo anni di
battaglia. Si veda risposta della Presidente della Camera Nilde Iotti ai
parlamentari radicali del 1982
19Nel 1998, con l’articolo 30 della Legge n. 146 si
introduce un’altra norma transitoria che fissa il tetto in 110 miliardi di lire
20 Legge n. 157 del giugno
1999
21 Legge n. 156 del 26
luglio 2002
22
Legge n. 51 del 26 febbraio 2006 (conversione in Legge del Decreto legge “mille
proroghe” n. 273 del 30 dicembre 2005, recante definizione e proroga di
termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi
all' esercizio di deleghe legislative.
GIUSTIZIA ALL’ITALIANA: UNO STATO “DELINQUENTE ABITUALE”
Dal Codice Rocco alle leggi speciali, dal processo 7 aprile al caso Tortora, dalle riforme negate all’impunità sistematica, le cause della più grande emergenza del Paese che è anche una grande questione sociale e ci attira il record di condanne dalla Corte europea per i diritti umani.
4.1
Codici fascisti, rinvio delle riforme e lentocrazia giudiziaria
In qualsiasi democrazia la Giustizia è il momento nevralgico di uno Stato di diritto. Il mantenimento in vita dei Codici fascisti, la lentezza nella entrata in funzione di importanti istituti costituzionali, la mancanza e il continuo rinvio di qualsiasi riforma da parte del Parlamento ne ha da subito inficiato il carattere democratico. Il parziale e lento adeguamento di alcune norme del Codice Rocco alla Costituzione da parte della Corte costituzionale non ne modifica l’impostazione di fondo, alla quale si sommano strutturali inadeguatezze organizzative.
Fino all’inizio degli anni ‘70 ci si può illudere che si tratti delle conseguenze di una troppo lenta transizione dal regime fascista al sistema democratico e costituzionale, dovuta anche alle inevitabili resistenze conservatrici dei corpi dello Stato. Durante gli anni ‘70 la crisi della giustizia italiana acquisisce invece progressivamente una connotazione che ne aggrava strutturalmente le caratteristiche illiberali. In nome della necessità di una efficace lotta al terrorismo politico e alla grande criminalità organizzata, anziché rafforzare le strutture ordinarie della giustizia, riformare i codici e l’ordinamento, le maggioranze parlamentari di unità nazionale procedono di volta in volta con leggi d’emergenza concentrando poteri speciali intorno alla figura del Pubblico ministero e ad alcuni strumenti straordinari di coordinamento dell’azione penale.
Nel 1978, ad esempio, il processo di Torino ai capi storici delle Brigate Rosse può ancora svolgersi in un contesto di amministrazione ordinaria, malgrado la contemporaneità con i drammatici giorni del sequestro e assassinio di Aldo Moro. Dopo il rifiuto di 135 cittadini chiamati a far parte della giuria, è sorteggiata come giurato popolare il segretario del Partito radicale, Adelaide Aglietta (la prima donna segretario di partito nella storia della Repubblica). Nonostante le minacce di morte, con la sua accettazione Aglietta consente la formazione della giuria e la successiva tenuta di un processo equo e regolare.
4.2 Dal 7
aprile al caso Tortora la politica dell’emergenza e delle leggi speciali
Viceversa, il processo 7 aprile e il processo Tortora sono emblematici della logica emergenziale. Con il primo, nel pieno dell’azione terroristica delle Brigate Rosse, un pubblico ministero di Padova criminalizza (7 aprile 1979) l’intero gruppo dirigente di un movimento extraparlamentare, Autonomia Operaia, con l’imputazione di insurrezione armata e l’accusa di essere la vera “direzione strategica” delle Brigate Rosse. Lo scopo che quel procuratore si propone è quello di impedire ogni possibile collegamento fra la base studentesca e operaia di quel movimento con l’organizzazione militare e clandestina delle Br. Quelle incriminazioni non hanno tuttavia, come i fatti successivi dimostrano, alcun fondamento probatorio. Quei dirigenti e quei militanti di Autonomia Operaia sono probabilmente responsabili in proprio di violenze e di reati anche gravi, ma non facevano parte delle Brigate Rosse e tanto meno ne sono la direzione strategica. E’ un episodio di giustizia sommaria. Non ha alcuna importanza (e neppure si voleva) arrivare al processo e alla condanna. La lunga carcerazione preventiva (cinque anni), consentita dalla legislazione di emergenza, deve assicurare una sorta di condanna senza processo.
Solo lo scandalo dell’elezione del leader del movimento Toni Negri alla Camera dei deputati nella liste radicali costringe i giudici di Padova a cimentarsi con il processo. Nonostante la fuga di Toni Negri in Francia, il processo nei confronti dei suoi compagni si conclude in primo grado con sentenze che non giustificano la lunga detenzione preventiva e che sono successivamente ridotte e in molti casi del tutto annullate in appello e in Cassazione. Uno degli imputati, Emilio Vesce, che diviene in seguito militante e parlamentare radicale, è condannato in primo grado a cinque anni e mezzo e assolto nei gradi successivi: ne aveva scontati cinque di carcerazione preventiva. Quelle incriminazioni e quegli arresti, senza prove e senza processo, fanno tuttavia da battistrada alla legge sui pentiti della cosiddetta lotta armata a cui si ispira poco dopo la successiva legge sui pentiti di mafia e camorra.
Enzo Tortora è la principale vittima di queste leggi e di queste prassi in un processo alla camorra (1983-1986) per il quale viene usata la definizione di “macelleria giudiziaria” (infatti i mandati di cattura del maxi-blitz anticamorra del 17 giugno 1983 sono 856; di questi circa un centinaio i casi di omonimia successivamente accertati). Arrestato, processato e condannato a dieci anni in primo grado in base alle dichiarazioni, prive di qualsiasi riscontro, di alcuni pentiti che lo hanno chiamato in causa come affiliato a un clan camorristico, viene assolto in appello e poi in Cassazione dopo una dura lotta giudiziaria e politica, di cui è protagonista il Partito Radicale. Non in nome di un astratto garantismo ma per combattere i concreti stravolgimenti che leggi e prassi hanno inferto ai diritti e alle garanzie dei cittadini, così come alla giustizia e all’ordinamento giudiziario. Anche in questo caso tuttavia è necessario lo scandalo dell’elezione nelle liste radicali di Enzo Tortora al Parlamento europeo nel 1984 per interrompere l’omertà del mondo politico e giornalistico nei confronti di quel processo e dell’uso che in esso era fatto della legge sui pentiti. A differenza di Negri, Tortora - che ha avuto a Bruxelles la copertura dell’immunità parlamentare - si dimette dal P.E. per affrontare il processo e vedere riconosciuta la sua innocenza.
Il confronto e la lotta giudiziaria e politica intorno al “caso 7 Aprile” e sul “caso Tortora” consentono nell’immediato di limitare i guasti più gravi nella applicazione delle leggi di emergenza, riducono i tempi della carcerazione preventiva (poi denominata eufemisticamente custodia cautelare) e sembrano, sotto la spinta dell’opinione pubblica, aprire la strada a una vera riforma della giustizia come dimostra la larghissima maggioranza popolare che approva nel 1988 il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati.
4.3 Le responsabilità dei politici e della corporazione dei magistrati
Le resistenze della corporazione dei giudici unite alla debolezza della classe politica riescono però sempre a impedire ogni possibilità di riforma. Il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati è di fatto annullato da una successiva legge del Parlamento firmata dal ministro della Giustizia di uno dei partiti – il Psi – che pure ha promosso il referendum. L’unica riforma realizzata, quella del Codice di procedura penale, non produce gli effetti sperati per il mancato adeguamento delle strutture giudiziarie al nuovo Codice e perché il rito accusatorio che esso ha introdotto non tollera i poteri eccezionali attribuiti alle procure e il conseguente squilibrio fra accusa e difesa.
Tranne quello sulla responsabilità civile dei magistrati, poi vanificato da una legge del Parlamento, tutti gli altri tentativi di modificare la situazione per via referendaria sono o impediti dalle sentenze della Corte costituzionale (è così per il referendum abrogativo dei reati d’opinione e di associazione previsti dal Codice Rocco, nel 1978, e per quello che abrogava il sistema proporzionale nella elezione dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura, nel 1988) o annullati, nonostante la vasta maggioranza conseguita, per il mancato raggiungimento del quorum del 50% dei votanti (è così per quelli , sugli incarichi extragiudiziari dei magistrati, sul sistema elettorale del Csm e sulla separazione del carriere nel 2000 quando il quorum non è raggiunto in presenza di una campagna astensionista promossa da Berlusconi che pure si dichiara d’accordo su quelle riforme, ma invita gli elettori a disertare le urne perché, una volta eletto, ci avrebbe pensato lui). Ugualmente vani sono i tentativi di procedere per via legislativa. La riforma del Codice Rocco è per trenta anni continuamente rinviata di Governo in Governo, di legislatura in legislatura, indipendentemente dalla composizione della maggioranze parlamentari nonostante il lavoro svolto dalle commissioni di volta in volta nominate dai diversi ministri.
Conserviamo di conseguenza un codice di ispirazione autoritaria ma di grande qualità giuridica, alterato da una congerie di leggi e leggine eccezionali che ne peggiorano la qualità rendendolo ancora più autoritario. Quanto alla Giustizia civile, nonostante il suo evidente dissesto, la riforma del Codice del ‘42 non entra mai neppure nell’agenda politica e nei programmi dei diversi governi.
Alle responsabilità politiche, poi, si contrappongono e sommano le responsabilità della magistratura associata e delle sue correnti che danno una interpretazione sempre più corporativa dell’autonomia dell’ordine giudiziario, interpretata come potere dello Stato chiuso in sé stesso, contro la lettera e lo spirito della Costituzione che invece la finalizza alla indipendenza di giudizio dei magistrati. Il Csm, oltre a divenire il principale sostenitore delle leggi e dei poteri speciali e di prassi più che discutibili nell’uso spregiudicato della legge sui pentiti, durante e dopo Tangentopoli da strumento di autonomia amministrativa e disciplinare e di consulenza nei rapporti con il Governo e con il Parlamento, si costituisce nella pratica in organo di vero e proprio contropotere nei confronti dei poteri esecutivo e legislativo. A questo si aggiunge l’invadente presenza di magistrati negli uffici legislativi di tutti i ministeri e l’occupazione di tutte le direzioni generali del ministero della Giustizia che di fatto limita o annulla la normale dialettica fra ministro della Giustizia e Csm e quella fra potere legislativo e ordine giudiziario. Senza dimenticare le migliaia di arbitrati svolti dai magistrati, che provocano dei “cortocircuiti” patologici fra giustizia e mondo delle imprese, fino a costituire una possibile fonte di corruzione.
4.4 La
Giustizia una grande e irrisolta questione sociale
La crisi della Giustizia italiana diviene perciò una grande e irrisolta questione sociale. Un Paese senza giustizia, con 9 milioni di processi pendenti fra civile e penale, e con il 90-95% di reati che restano impuniti per incapacità di individuarne gli autori, è un Paese che si condanna a vivere nella illegalità. La lentezza della giustizia civile ha gravissime ricadute sulla vita economica del paese e allontana gli investimenti stranieri. Occorrono oltre quattro anni in media per ottenere una sentenza in primo grado, una durata che può raddoppiare in caso di appello. Indipendentemente dall’esito formale del giudizio, questi tempi pregiudicano i diritti del creditore e avvantaggiano il debitore, premiano chi ha torto e puniscono chi ricorre alla giustizia per far valere il suo diritto e la sua ragione. Il rapporto Doing Business della Banca Mondiale, che misura l’indicatore di efficienza nella applicazione dei contratti in rapporto al funzionamento del sistema giudiziario, colloca l’Italia al 155mo posto fra 181 paesi.
Le conseguenze che questo disordine normativo e giudiziario produce sul sistema penitenziario sono gravissime in termini di sovraffollamento, inumanità della pena, illegalità costituzionale (la Costituzione all’art.27 stabilisce che la pena non può essere contraria al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato).
E’ politicamente assai lontana quella “marcia per l’amnistia” del Natale del 2005, alla quale partecipano alcuni leader politici e anche l’attuale capo dello Stato. Se approvata, l’amnistia - oltre ad alleggerire la situazione già allora insostenibile del sistema penitenziario - eliminerebbe gran parte dell’arretrato e consentirebbe al sistema giudiziario di riorganizzarsi e ripartire e al sistema politico di affrontare sul piano legislativo le necessarie riforme.
Il Parlamento non ne ha il coraggio. Si approva l’indulto che allevia temporaneamente - solo temporaneamente - il sistema penitenziario ma continua a ingolfare la macchina giudiziaria costretta ad istruire processi sui quali l’indulto ha cancellato la pena e tenuto in vita il reato. Le riforme non si fanno. E si riprende ad affrontare con la solita logica dell’emergenza ogni nuovo problema sociale. Certo è più facile alimentare campagne demagogiche sulla sicurezza che riformare il sistema penale e civile. E’ più facile inasprire le pene e aumentare le tipologie di reato che realizzare e sperimentare quel giusto equilibrio fra reclusione e pene alternative che è da decenni in vigore negli altri paesi europei. E’ più facile riempire le carceri di tossicodipendenti. Ma per questa strada si amplia e non si restringe il perimetro della illegalità, non si danno risposte alla domanda di giustizia e a quella di sicurezza, si alimenta soltanto un clima di intolleranza e di giustizia sommaria contro il diverso e il più debole, si cancella la Costituzione e ci si allontana da quel modello di Stato di diritto che da almeno due secoli si è affermato in Europa.
L’Italia è sempre fra gli Stati più condannati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per violazioni della Convenzione europea sui diritti umani e in particolare dell’art. 6, che impone agli Stati di garantire una durata ragionevole dei processi. Il 37 per cento di tutte le sentenze di condanna da parte della Corte per inefficienza della giustizia è a carico dell'Italia.
Nel 2008 la Corte emette 82 sentenze contro l’Italia (più che per qualsiasi altro Stato dell’Europa occidentale), delle quale 51 per la lentezza dei processi.
Al 31 dicembre 2008 pendono presso la Corte 4.200 casi riguardanti l’Italia, cioè il 4,3 per cento del totale (solo Russia, Turchia, Romania e Ucraina ne avevano un numero maggiore). Di tali casi, 2.600 sono per la durata eccessiva dei processi, materia per la quale l’Italia ha riportato 999 condanne negli ultimi dieci anni. In tale periodo (1° novembre 1998 – 31 dicembre 2008), la Corte dichiara ammissibili 1.744 casi riguardanti l’Italia – un numero inferiore solo a quello dei casi riguardanti la Turchia.
L'Italia è inoltre lo Stato con il maggior numero di sentenze di condanna della Corte europea di Strasburgo non eseguite sul piano interno: 2.467 su un totale di 3.544 casi pendenti dinanzi al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Il numero dei procedimenti contro l’Italia a Strasburgo sarebbe ancora più alto se il 18 aprile 2001 non fosse entrata in vigore la Legge 89 (detta ‘Legge Pinto’), che impone di richiedere un indennizzo per l’eccessiva durata dei processi attraverso il ricorso a una Corte di Appello italiana invece che alla Corte europea. Paradossalmente, anche i tempi di questi ricorsi sono però solitamente più lunghi di quelli previsti dalla legge e gli indennizzi sono a volte incongrui, fornendo nuove ragioni per ricorrere a Strasburgo.
Ancora nel marzo 2009, il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa richiama l'Italia a risolvere il problema strutturale dell'eccessiva durata delle procedure giudiziarie nei processi civili, penali e amministrativi. Il Comitato inoltre invita ad adottare urgentemente misure ad hoc per ridurre il numero di cause pendenti davanti ai tribunali e a rivedere la legge Pinto creando un fondo speciale per i risarcimenti e semplificando le procedure per ottenerli.
Nel solo 2008 gli indennizzi ai cittadini per la lentezza dei processi, in base alla legge Pinto, costano allo Stato oltre 32 milioni di euro.
UN
PRESIDENZIALISMO ABUSIVO, MEDIATICO ED EXTRA-ISTITUZIONALE
La lenta trasformazione delle funzioni e prerogative del Presidente della Repubblica muta il suo ruolo da quello di “garante” e di “custode” a quello di arbitro e mediatore fra le forze politiche. Così come il grande consenso popolare a un bipartitismo sul modello anglosassone viene trasformato dalla partitocrazia in un bipolarismo all’Italiana, che conserva intatto il potere dei partiti, il “Presidenzialismo” viene attuato in forme abusive: attraverso una lenta ma implacabile opera di svuotamento dei poteri istituzionali formali e degli strumenti a disposizione del Presidente (dal potere di grazia allo strumento del “messaggio alla Camere”, a quello del “rinvio” delle leggi al Parlamento), mentre si afferma un potere di fatto di esternazione diretta al popolo per mezzo della televisione. Parallelamente, al ruolo di garante della Costituzione si sostituisce quello di arbitro: perennemente impegnato nella “moral suasion” tra i partiti; fino all’ultimo clamoroso esempio: l’impotenza dimostrata in occasione della paralisi della Commissione di Vigilanza e degli “obblighi costituzionali inderogabili”, inutilmente invocati per mesi dal Presidente Giorgio Napolitano.
5.1 L’esternazione extra-costituzionale
La Costituzione non prevede alcun potere presidenziale di esternazione diverso da quelli formali che si esercitano attraverso i messaggi al Parlamento (artt. 74 e 87 cpv.). Al Parlamento, dunque, e non al popolo o alla nazione. Al di fuori di questi poteri formalmente previsti, l’”irresponsabilità” del Presidente della Repubblica durante il suo mandato dovrebbe far cadere ogni suo altro intervento pubblico sotto la responsabilità politica del Presidente del Consiglio o, a seconda delle competenze, dei singoli ministri. E’ una nozione costituzionale che praticamente si perde dopo lo scadere del mandato del Presidente Einaudi. Da allora i diversi presidenti, in particolare Cossiga, fanno un uso spropositato della cosiddetta “esternazione”. Negli ultimi due anni della sua presidenza, Cossiga si trasforma da garante della Costituzione in picconatore del Governo e delle altre istituzioni. Nell’agosto 1991 Pannella prepara l’impeachment, la richiesta di messa in stato d’accusa per attentato alla Costituzione e nel novembre successivo presenta una denuncia formale all’autorità giudiziaria nei confronti di Cossiga, sulla base delle stesse motivazioni. Solo nel dicembre del 1991 l’allora Pds presenta a sua volta la richiesta di impeachment. Dopo le elezioni politiche dell’aprile 1992 (e con un anticipo di dieci settimane rispetto alla scadenza naturale del suo mandato) Cossiga si dimette.
“Quando la Carta costituzionale ha voluto dar voce al Presidente della Repubblica, ha previsto il diritto di messaggio alle Camere. Il colloquio diretto del Capo dello Stato con il popolo non è previsto. Si può dire che non vi è norma che lo impedisca o lo condanni, ma non è previsto, soprattutto perché è un colloquio che finirebbe per passare sopra il Parlamento, con il quale invece è costituzionale il colloquio del messaggio.” Così Oscar Luigi Scalfaro nell’aprile del 1991. Parole che, conquistato il più alto incarico dell’organigramma istituzionale del nostro paese nel maggio 1992, Scalfaro pare sin quasi da subito dimenticare. Lo stile del presidente non cambia con il passare dei mesi, per cui anche per lui viene richiesto l’impeachment. I Club Pannella-Riformatori organizzano una raccolta di firme (oltre centomila) per spingere il Presidente della Repubblica a dimettersi, ma Scalfaro conclude senza particolari scossoni il suo mandato, difeso a spada tratta in particolare dal centrosinistra.
Le presidenze Ciampi e Napolitano si caratterizzano per la loro continuità nell’abuso del potere di esternazione. Un’esternazione che è, forse, meno eversiva nei contenuti rispetto a quella di Cossiga e meno “emergenziale” di quella di Scalfaro. Uno stile più da “italiani brava gente”, ma che comunque è fuori dal dettato costituzionale. Soprattutto a partire dalla presidenza Cossiga, i Presidenti della Repubblica sono quotidianamente impegnati in esternazioni su argomenti di qualsivoglia tipo, un “interventismo” che impedisce loro di svolgere il compito e la funzione per cui si trovano al Quirinale: quello di garanti della Costituzione.
5.2 1992-1993: L’acquiescenza alle interferenze della magistratura
La rinuncia ad esercitare questo ruolo si rivela in modo particolare durante il periodo di Tangentopoli, quando in seguito ad avvisi di garanzia emanati dai giudici di Milano, si afferma la pratica di sollecitare o accettare con quasi assoluta automaticità le dimissioni di ministri o di sottosegretari. Si crea un clima da caccia alle streghe, a cui il Presidente della Repubblica Scalfaro e lo stesso Presidente del Consiglio Amato non vogliono e non sanno reagire. Indipendentemente dalla gravità dei reati su cui i giudici indagano e dell’indignazione dell’opinione pubblica, non ci si rende conto della gravità del precedente che si contribuisce a creare, che mette nelle mani di un qualsiasi giudice, nella fase solo iniziale di un procedimento penale, il destino di un ministero o, come accaduto anche recentemente, di un intero Governo. Tanto più grave si dimostra questo atteggiamento corrivo nei confronti dei magistrati milanesi, manifestatosi anche in occasione del loro clamoroso pronunciamento contro un provvedimento del Governo, quando Scalfaro ritiene di dover reagire solo di fronte all’ipotesi di essere chiamato personalmente in causa: “Non ci sto”, proclama allora davanti alle telecamere.
5.3 1995: Il Presidente sordo (al “suo Parlamento”)
Il 28 settembre 1995, nel pieno della raccolta firme dei radicali su 20 referendum, 485 deputati e senatori di ogni parte politica - maggioranza assoluta nelle due Camere - si rivolgono al Presidente della Repubblica Scalfaro, nella sua qualità di supremo garante della Costituzione, per denunciare il tentativo di annullamento, da parte dell’informazione pubblica, dei referendum, e per chiedergli un intervento che consenta l’immediato ripristino della legalità e del diritto. La maggioranza assoluta dei parlamentari scrive al Presidente quello che i Radicali, inascoltati, denunciano da decenni: che ancora una volta è in corso un attentato ai diritti civili e politici dei cittadini. “Questa iniziativa – si legge nel documento - sostenuta da un ampio schieramento politico e parlamentare, ha incontrato un gravissimo e illegittimo ostruzionismo da parte della pubblica Amministrazione, del servizio pubblico di informazione radiotelevisivo, così come, del resto, da parte della stampa e del sistema televisivo privato”, e prosegue: “Non un servizio nei telegiornali e nelle trasmissioni di informazione è stato dedicato agli argomenti oggetto di referendum popolari. Si è così realizzato contro le leggi e i diritti politici dei cittadini, un autentico attentato silenzioso che proprio per questo suo carattere è stato ancora più efficace, doloso e violento”. Sempre il 28 settembre, Marco Pannella, intervenendo in diretta dall’ospedale ove è ricoverato al quarto giorno di sciopero della sete, chiede al Presidente della Repubblica “che ogni giorno parla su ogni argomento” di rispondere alla denuncia proveniente dalla maggioranza assoluta del Parlamento. Il Presidente si limiterà a un generico richiamo al rispetto della “par condicio”.
Il 21 novembre i parlamentari radicali Lorenzo Strik Lievers, Sergio Stanzani, Paolo Vigevano, con Rita Bernardini e Lucio Bertè della Segreteria del Movimento e altri militanti, sul palco del Teatro Flaiano di Roma, presentano i loro corpi completamente nudi, nella drammatica magrezza di chi è in sciopero della fame da 37 giorni, per rappresentare così la “nuda verità” di quanto sta accadendo. Sono 59 i parlamentari di tutti i partiti (molti dei quali dichiarano di non essere d’accordo sul merito di alcuni o di tutti i referendum, ma di voler difendere ugualmente il diritto all’informazione denegato) che si uniscono per un giorno al digiuno dei loro colleghi.
Tuttavia, nonostante continui il silenzio e l’inerzia del Presidente della Repubblica sull’attentato ai diritti civili e politici dei cittadini, alla fine, il successo arriva: al termine dei tre mesi che la legge stabilisce per la raccolta, quasi 12 milioni di firme autenticate e certificate vengono consegnate alla Corte di Cassazione.
5.4 2001: Il presidente incatenato sul potere di grazia
Se sull'esternazione i Presidenti del Repubblica degli ultimi anni fanno strame del diritto, sul potere di grazia, da loro concesso dalla Costituzione, sono invece vittime di incredibili interferenze partitocratiche. L'articolo 87 della Costituzione stabilisce che il Presidente della Repubblica “Può concedere grazia e commutare le pene”, e il successivo articolo 89 che “Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”.
In occasione della richiesta di grazia da parte di Ovidio Bompressi e di quelle avanzate in maniera trasversale da esponenti della politica e della cultura per Adriano Sofri, tra il 2001 e il 2006 si verifica un acceso conflitto di attribuzioni dei poteri tra l'allora Presidente Ciampi e il Guardasigilli Roberto Castelli. Per quest'ultimo la grazia non è una prerogativa autonoma del Capo dello Stato; nel 2001 respinge la prima domanda di grazia di Bompressi e si pone anche in netto contrasto con un'eventuale presa di posizione “spontanea” di Carlo Azeglio Ciampi in favore dell'assegnazione della grazia ad Adriano Sofri. I Radicali, Marco Pannella in particolare, si mobilitano per difendere la prerogativa del Presidente della Repubblica; devono contrastare, non solo una pesante campagna demagogica, ma anche gli Uffici legislativi e i collaboratori del Presidente Ciampi, segretario generale Gaetano Gifuni in testa. Un consigliere giuridico del Presidente arriva a scrivere, nel 2002, che “non esiste nel nostro ordinamento un potere autonomo del Capo dello Stato di concedere la grazia”: in pratica il Presidente si autoamputava di un proprio potere, contro la Costituzione.
Dopo 5 anni e mezzo dal suo inizio, la vicenda si conclude nel 2006, quando la Corte costituzionale stabilisce che il ministro della Giustizia non ha l'autorità di impedire la prosecuzione di un procedimento di grazia avviato dal Presidente della Repubblica. La Corte costituzionale riconosce dunque che i Radicali hanno ragione. La sentenza, tuttavia, viene emessa tre giorni dopo la scadenza del mandato presidenziale di Carlo Azeglio Ciampi, cui è stato di fatto impedito di esercitare il suo potere autonomo di grazia.
PARLAMENTO: LA CAMERA DEI PARTITI
La vita del Parlamento come una cartina di tornasole dell’illegalità costituzionale repubblicana: dalla pubblicità dell’attività ai regolamenti “gruppocratici”, dall’immunità/impunità di Regime alla decretazione d’urgenza come stravolgimento dei poteri.
6.1 Nel 1976 la voce dei politici esce dal Palazzo con Radio Radicale
L’articolo 64 della Costituzione afferma che le sedute del Parlamento “sono pubbliche”, ma nella realtà dei fatti il precetto costituzionale rimane lettera morta per decenni. La pubblicità istituzionale è affidata alla sola stampa di poche centinaia di copie di resoconti stenografici o sommari delle sedute d’aula, da ritirare a pagamento presso la stamperia e quindi indirizzata essenzialmente ai notisti politici e ai singoli parlamentari. Solo nel 1976 l’emittente “Radio Radicale” inizia a trasmettere in diretta, senza autorizzazione e rubando il segnale dal circuito interno, i dibattiti delle assemblee di Camera e Senato, inaugurando anche il processo di archiviazione delle “voci” di deputati e senatori, con una sistematica catalogazione.
Un altro articolo della Costituzione che subisce gravi attacchi dalla “prassi” parlamentare e dalle previsioni regolamentari è l’art. 67 laddove si afferma che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Sulla spinta dei partiti e dei gruppi parlamentari, sia di maggioranza che d’opposizione, il ruolo del singolo parlamentare risulta mutilato: il Parlamento anziché luogo del dibattito e del confronto politico, si configura come mera sede di registrazione degli accordi e dei compromessi fra partiti, sindacati e forze sociali, maturati all’esterno delle istituzioni.
6.2 Il regolamento della Camera del ’71 e il potere ai partiti
Decisiva sul punto la vicenda dei regolamenti parlamentari. Nonostante il preciso dettato costituzionale dell’articolo 64: “ciascuna Camera adotta il proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi componenti”, la Camera in via implicita e il Senato in modo esplicito scelgono, come già fatto per l’Assemblea Costituente, la continuità con il regolamento parlamentare del 1900, e le successive modifiche fino al 1922. Solo nel 1971 la Camera si dota di un nuovo regolamento, che nasce con un impianto sul ruolo dei partiti e non dei deputati e fondato sull’unanimità della gestione dei procedimenti.
Nella gestione quotidiana del lavoro, si attribuisce ai Presidenti dei gruppi parlamentari poteri d’attivazione e di programmazione dei lavori che annichiliscono le prerogative del singolo parlamentare, mentre si registra il costante richiamo alle “prassi”, alle consuetudini e alle convenzioni parlamentari che risulta fatto proprio contro la testualità del regolamento scritto. Ad esempio, nella delicatissima primavera del 1978 la Camera, nella rincorsa dei partiti a impedire i referendum, finisce per autorizzare contemporanee sedute dell’Aula e di commissioni in sede legislativa: nello stesso momento i parlamentari sono chiamati a votare la legge sull’aborto, la legge sui manicomi e le modifiche alla legge Reale, con la materiale impossibilità dei singoli di svolgere il proprio mandato. Sempre in quei giorni si registrano ripetuti richiami al Regolamento, in forza del 1° comma dell’art. 68 che riporta: “I disegni e le proposte di legge presentati alla Camera o trasmessi dal Senato, dopo l’annuncio all’Assemblea, sono stampati e distribuiti nel più breve termine possibile”. Dopo giorni, il testo per la riforma del Codice di procedura penale (avanzato dal gruppo radicale) non è neppure annunciato all’Assemblea, mentre è depositato per essere valutato in abbinamento con il disegno di legge di riforma della legge Reale, che si sta discutendo in Commissione Giustizia.
6.3 Le violazioni del regolamento tra il 1979 e il 1983
Dai resoconti sommari della legislatura 1979–1983 si evince la testimonianza quotidiana delle violazioni del regolamento, tra cui spiccano almeno una trentina di casi in cui l’arbitrio è incontestabile e particolarmente grave: ad esempio l'art. 41 che dà l'assoluta priorità, nel dibattito, agli interventi per richiamo al regolamento, risulta sistematicamente disatteso dalla Presidenza, con episodi eclatanti come durante il caso D’Urso nella seduta del 13 gennaio 1981, con il tentativo dei parlamentari radicali di leggere in aula una lettera del giudice sequestrato al direttore de L’Avanti. Particolarmente presi di mira, con interpretazioni di comodo, gli articoli che garantiscono e regolamentano l’ammissibilità e l'illustrazione degli emendamenti durante il dibattito.
Venendo poi a mancare l’unanimità nella conferenza dei capigruppo, si aprono in aula costanti e vivaci dibattiti sull'ordine del giorno e quindi sul programma dei lavori, che un regolamento “gruppocentrico” non è attrezzato a risolvere. Sempre in quella stagione si registra l’aumento di frequenza delle espulsioni dall’aula e dalle commissioni: una decina in due anni, più l'espulsione di un gruppo parlamentare praticamente al completo. Espulsioni basate sull'art. 59 (insulti) interpretando come ingiurie i commenti politici critici fatti al microfono dell’oratore, senza registrare invece gli attacchi fatti dai deputati contro chi interviene, mentre la stessa Presidenza della Camera definisce “sceneggiata” (9 gennaio '81) la battaglia politica di una parte. Con puntigliosi richiami al regolamento e la pratica dell’ostruzionismo parlamentare, in realtà si tenta di indurre il Parlamento a svolgere al meglio la sua funzione, cioè ad approvare riforme vere, in alcuni casi attese da lustri (come quella sui codici fascisti) anziché improvvisare leggi pasticciate al solo scopo di impedire lo svolgimento dei referendum.
Nei primi 15 mesi di presenza dei radicali in Parlamento, si registrano oltre 900 interventi dei deputati radicali, di cui 160 di soli richiami al rispetto del regolamento. Come reazione, nel 1981 viene approvata una prima riforma del regolamento della Camera che limita i tempi d’intervento dei parlamentari e riduce la programmazione concordata all'unanimità all'interno della conferenza dei capigruppo. La controriforma del regolamento passa nonostante i 50.000 emendamenti presentati dai radicali e, fra questi, alcuni fortemente innovativi come quelli che, sul modello del Parlamento britannico, propongono il question-time o quelli volti a stabilire i diritti dell’opposizione e un ruolo nuovo al Governo nei rapporti con l’Assemblea.
L’ultima riforma dei regolamenti parlamentari, approntata nel 1997 ed entrata in vigore all’inizio del 1998, sembra voler concludere un percorso molto lungo di trasformazione delle regole (1983 – 1986 – 1988 – 1990), ma l’attuale regolamento non rispecchia i meccanismi derivanti dall’impostazione maggioritaria della legge elettorale: di nuovo si ha un regolamento scritto che vive di prassi consolidate e interpretazioni. Ad esempio, si affida una posizione centrale nella programmazione dei lavori al Presidente della Camera, oltre che ai presidenti dei gruppi e si riconosce al Governo la facoltà di esprimere le proprie indicazioni e priorità, ma ciò è stravolto dal ricorso alla decretazione d’urgenza, abbinata alla richiesta del voto di fiducia. Ad esempio, nello scorcio di questa XVI legislatura, la Camera approva 58 leggi - 55 d’iniziativa governativa e 33 di conversione di decreti legge - 12 delle quali assicurate e blindate con il voto di fiducia: in un Parlamento in cui la maggioranza è peraltro numericamente molto forte.
6.4 Immunità parlamentare e impunità di regime
Le previsioni costituzionale degli articoli 68 e 96 sono introdotte nella Carta, per costruire un sistema di prerogative e di garanzie per i parlamentari e i membri del Governo, allo scopo di garantire il corretto funzionamento degli organi istituzionali. Per i costituenti si tratta di riconoscere un principio di indipendenza del parlamentare come massima garanzia dell’Assemblea stessa. L’irresponsabilità giuridica diventa un necessario completamento dell’irresponsabilità politica, ossia serve ad evitare che il principio dell’irresponsabilità politica – e quindi la piena e insindacabile libertà di opinione – non venga violato surrettiziamente, utilizzando illegittimamente il canale giudiziario per colpire un parlamentare a motivo delle opinioni espresse e del lavoro svolto in Parlamento.
L’insindacabilità è da riferirsi solo agli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni strettamente parlamentari e l’immunità può essere fatta valere solo per prevenire eventuali interferenze sulla loro regolarità. Nel disegno costituzionale, dunque, i parlamentari non godono di una posizione di privilegio personale, ma soltanto delle conseguenze individuali di garanzie che riguardano l’intera Assemblea parlamentare come istituzione. L'art. 96 disciplina, invece, la procedura per i reati commessi dai membri del governo: lo scopo di tutelare l'esecutivo da persecuzioni politiche immotivate e mascherate e prevedere nello stesso tempo giustizia severissima per i reati ministeriali. Le disposizioni costituzionali vengono applicate con la legge 10 maggio 1978 n. 170 e dal regolamento parlamentare dei procedimenti di accusa. L’abuso dello strumento in garanzia di impunità si materializza in numerosissimi casi eclatanti assurti alle cronache: “traghetti d’oro”, “carceri d’oro”, “lenzuola d’oro”, “autostrade d’oro”… fino ad arrivare ai casi “Giannettini” e “P2”.
La Commissione inquirente funziona regolarmente per “assolvere” parlamentari e ministri: l’unico caso di processo per i reati ministeriali giunto a sentenza è il caso Lockheed, dove la portata dello scandalo è tale per cui la Commissione, assediata dall'opinione pubblica, non può insabbiare. Nelle sole legislature VIII e IX sono 140 i casi di procedure: tutte archiviate, 26 di queste con il voto dei 4/5 dei commissari tale da non esigere neppure la ratifica pubblica dell’ aula; per 6 procedure trascorrono inutilmente i termini della denuncia o muore l'inquisito e per 9 la commissione si dichiara incompetente. Saranno i casi Negri–7 aprile e Tortora a far esplodere la questione delle prerogative abusate: in particolare la campagna, politica e referendaria, per la “Giustizia Giusta” comprende anche l'abolizione della Commissione inquirente.
L'8 e il 9 novembre 1987 si vota su cinque referendum, quello contro la Commissione inquirente registra l’85% di “Sì”. La legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 riforma il complesso delle norme, pone fine alla giurisdizione della Corte costituzionale sui reati ministeriali e sopprime la Commissione inquirente, competente a giudicare i reati commessi dai ministri. A ciò segue l’abolizione dell’istituto della messa in stato di accusa di ministri ed ex ministri da parte del Parlamento, con il conseguente affidamento del perseguimento dei reati ministeriali all’autorità giudiziaria ordinaria, sia pure con un apposito organo (Tribunale dei ministri) e attraverso una speciale procedura.
Durante Tangentopoli si registra una violazione degli assetti istituzionali di segno opposto: Ministri e Sottosegretari sono di fatto costretti alle dimissioni da semplici avvisi di garanzia che, da strumento di tutela del singolo cittadino, si trasformano in strumenti che modificano la composizione del Governo del paese. Il Governo di Giuliano Amato nel 1993 vede vari ministri dimessi a seguito di un avviso di garanzia, fra questi Claudio Martelli (10 febbraio), Francesco De Lorenzo e Giovanni Goria (il 19 febbraio), Gianni Fontana (21 marzo). Il Presidente della Repubblica accetta le dimissioni così motivate, nonostante le proteste dei radicali.
Nel luglio 2007, il Parlamento ha approvato, a tempo di record, un disegno di legge riguardante l'immunità giudiziaria delle quattro principali cariche dello Stato. In soli 25 giorni è passato al vaglio ed all’approvazione delle commissioni di Camera e Senato: in particolare, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Presidente della Camera e del Senato non sono perseguibili penalmente e civilmente dalla giustizia finché restano in carica. L'immunità decade se la persona si dimette, e non è cumulabile con l'elezione di cariche diverse da quelle con cui si è stati eletti; in pratica, qualora un ipotetico Presidente del Consiglio fosse indagato, e successivamente venisse eletto Presidente della Repubblica, l'immunità non esisterebbe.
6.5 Decretazione d’urgenza e stravolgimento dei poteri tra esecutivo e legislativo
Grande discussione dedica l’Assemblea Costituente alla previsione o meno della decretazione governativa. Dopo l’esperienza del regime fascista, molte sono le preoccupazioni nel definire gli equilibri fra i poteri. I Costituenti decidono di ribadire più volte, negli articoli 70 e 76 che la funzione legislativa spetta, solo e soltanto, alle Camere e che non può essere delegata al Governo, se con precisi vincoli, su definiti temi, per un tempo limitato. Il Governo può eccezionalmente adottare, sotto la propria responsabilità, provvedimenti provvisori con forza legge, ma solo in casi straordinari di necessità e urgenza, precisi e motivati.
L’abuso dello strumento e lo stravolgimento degli equilibri fra organi costituzionali si manifesta in modo sempre più evidente: dai 31 emanati nella prima legislatura (1948-1953), di cui 30 convertiti in legge ed 1 decaduto, si arriva ai 669 emanati nella dodicesima legislatura, per altro breve (1994-1996) di cui solo 121 convertiti (di questi solo 30 senza modificazioni) ma con ben 538 decaduti, 10 direttamente respinti e 88 lasciati pendenti. Una vera e propria escalation: 60 decreti nella II, 30 nella III, 94 nella IV, 69 nella V; con un’esplosione dagli anni ’70, accanto all’aumento del numero di decreti emanati, aumentano anche il numero dei decaduti 126 nella VI, 166 nella VII, 260 nella VIII, 306 nella IX, 433 nella X (decaduti 231, respinti 15, 17 pendenti a fine legislatura), 477 nella XI (decaduti 351, respinti 8, pendenti 66), 669 nella XII, come si è già detto.
Dopo 30 anni, con la sentenza n. 302 del 1988, la Corte costituzionale interviene rivelando che l’insistita reiterazione dei decreti-legge configura una violazione delle competenze delle Regioni, ma una svolta si registra solo con la sentenza n. 360 del 1996, nella quale la Corte dichiara l’illegittimità della 17° reiterazione di un decreto sui rifiuti, provocando un’inversione di tendenza: sono infatti 370 i decreti emanati, 82 convertiti – 30 con modificazioni - 182 decaduti, 6 respinti, 9 pendenti; 216 nella XIV, 48 nella XV. Nella legislatura in corso siamo a 34 decreti in 11 mesi. La Corte di fronte al perdurare dell’abuso – non solo quantitativo - della decretazione di urgenza con la più recenti sentenze nn. 171/2007 e 128/2008 dichiara incostituzionali le leggi di conversione dei decreti legge prive ab origine dei presupposti di “necessità e urgenza”.
A corollario della limitazione dell’utilizzo della decretazione d’urgenza operata dalla Corte, attraverso un sindacato di legittimità sempre più penetrante, vi è l’aumento dell’utilizzo della delegazione legislativa di cui all’art. 76 della Costituzione. Anche nell’utilizzo di questo strumento normativo si assiste allo svuotamento della funzione legislativa del Parlamento in favore dell’esecutivo, in quanto i “principi e criteri direttivi” - sulla cui esclusiva base è possibile delegare la funzione legislativa - spesso sono di una tale vaghezza da non costituire alcun serio ostacolo alla discrezionalità del governo in merito alla disciplina legislativa da adottarsi.
A completamento della dinamica che vede il governo come vero dominus dell’azione legislativa, si sottolinea come l’utilizzo combinato della decretazione d’urgenza – spesso in forza di presupposti opinabili – e della questione di fiducia sul disegno di legge di conversione del decreto (al solo fine di compattare la maggioranza e rendere impossibile l’emendabilità) ha finito con lo spogliare l’attività parlamentare d’ogni autonomia rispetto ai desiderata del Governo.
GLI ANNI ‘70: LA RIVOLUZIONE DEI DIRITTI CIVILI
Obiezione di coscienza al servizio militare, divorzio, aborto, voto ai
diciottenni, diritti dei transessuali, depenalizzazione delle droghe: il
movimento radicale e referendario dei diritti civili ottiene importanti
conquiste sociali già dalla fine degli anni ’60. E potrebbe dilagare.
Eutanasia, abolizione del Concordato, abolizione dei manicomi, diritti delle
persone omosessuali: le “riforme tabù” di oggi erano già mature
30 anni fa.
7.1 Il
riconoscimento dell’obiezione di coscienza e l’abolizione dei Tribunali
militari
Il riconoscimento legislativo dell’obiezione
di coscienza viene introdotto in Italia dopo che per vent’anni gli obiettori,
con i radicali in prima linea, affrontano detenzioni, processi e condanne per
affermare il principio morale civile o politico di non collaborare con gli
eserciti. Dall’arresto dei fratelli Strik Lievers nel ’66 alla lunga
carcerazione di Roberto Cicciomessere, vice-segretario del Pr, e di molti altri
obiettori, è solo grazie a questa lotta che si arriva nel 1972 alla legge sull’obiezione di
coscienza (la cosiddetta “Legge Marcora”) che, pur mantenendo alcune
discriminazioni superate solo successivamente, permette di optare per il servizio civile
sostitutivo obbligatorio. La lotta per l’obiezione di coscienza è anche
lotta contro l’incostituzionalità dei tribunali militari. Con la legge
180 del 7 maggio 1981 viene approvata una profonda riforma dell'ordinamento giudiziario
militare di pace, che assimila i tribunali militari a quelli ordinari,
sottoponendoli sostanzialmente alla stessa disciplina.
Durante il processo a Cicciomessere la difesa
eccepisce l’incostituzionalità dei Tribunali militari. L'istituzione
giudiziaria militare è infatti espressione di un più generale
atteggiamento di resistenza nei confronti della Costituzione. Inoltre il
diritto civile all'obiezione di coscienza non è ancora riconosciuto
nell’ordinamento giuridico, a differenza di quanto accade negli altri paesi
democratici. Questa situazione determina la violazione del principio di
uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Il procedimento penale, originato
dalla disobbedienza civile di Cicciomessere e degli altri radicali, diviene
“processo alla legge”, pubblica denuncia dello “scandalo” di un vulnus al
dettato costituzionale.
Le disobbedienze civili di massa condizionano
in maniera decisiva l’attività parlamentare. L’azione radicale si pone
sempre come “urgenza” e “necessità” rispetto all’immobilismo del
legislatore. Avendo come riferimento la scala dei valori e degli interessi
tutelati e riconosciuti dal nostro ordinamento, essa esprime la
necessità di assicurare i valori fondamentali riconosciuti dalla
Costituzione. In questo senso, La disobbedienza civile cessa di essere
resistenza al potere, per divenire iniziativa politica democratica.
In seguito, altri due segretari radicali Jean
Fabre e Olivier Dupuis – entrambi belgi – saranno processati e condannati nel
loro paese, fino all’estensione completa del diritto all’obiezione nell’ambito
europeo.
7.2 Aborto, da
reato di massa a legge dello Stato. Come evitare i referendum
Fino al
Nell’autunno del ’74 Adele Faccio annuncia la
costituzione del “Centro informazione sterilizzazione e aborto” (Cisa) con sede
a Milano e consultori in tutta Italia, dove si pratica l’aborto a titolo
praticamente gratuito. Questa disobbedienza civile prosegue per circa un anno,
fino al 9 gennaio 1975, quando i carabinieri fanno irruzione in una clinica di
Firenze, arrestando il ginecologo Giorgio Conciani e i suoi assistenti e
denunciando le oltre 40 donne presenti. Il 13 gennaio viene arrestato il
segretario del Pr, Gianfranco Spadaccia, successivamente saranno arrestate
Adele Faccio ed Emma Bonino.
Il 18 febbraio la Corte costituzionale
dichiara parzialmente illegittima la norma penale che punisce il procurato
aborto. Il 25 marzo in tutta Italia i Carabinieri interrogano gli autori delle
auto-denunce, violando il codice di procedura e il diritto alla difesa. Il 15
aprile parte in tutta Italia la raccolta delle firme. Si riescono a raccogliere
per la prima volta le firme necessarie, che alla fine saranno 750.000. In
ottobre il Cisa ha sedi sparse in molte città italiane. Loris Fortuna
rassegna le dimissioni da deputato, in polemica con il compromesso Dc-Pci
sull’aborto. Il 25 febbraio ‘76 Emma Bonino presenta il bilancio di un anno di
attività del Cisa: sono stati eseguiti 10.141 interventi. Nei mesi di
settembre e ottobre dilaga la campagna di disobbedienza civile in tutta Italia,
con interventi pubblici di aborto.
Con le elezioni anticipate nel ’76, il
referendum slitta al ’78, insieme agli altri quattro sopravvissuti – degli 8
presentati – al giudizio della Corte costituzionale: Commissione inquirente,
legge manicomiale, finanziamento dei partiti e legge Reale (ordine pubblico).
Per evitare a tutti i costi lo scontro sull’aborto, viene varata a maggio la
legge 194, frutto di un compromesso fra Dc e Pci. Questo partito è il
vero “padrino” della legge, che contiene alcune pesanti limitazioni. In cambio
di queste restrizioni, alcuni parlamentari Dc si assentano al momento del voto,
per garantire l’approvazione. I deputati radicali votano contro, reclamando una
legge più liberale, fondata sul principio di autodeterminazione della
donna, che ispirerà il referendum abrogativo parziale del 1981.
I Radicali votano contro anche la nuova legge
180 sui trattamenti psichiatrici, concepita assai più nella fretta di
evitare il referendum che per un autentico impegno riformatore. Nel motivare la
sua opposizione, Pannella prevede facilmente che i malati si ritroveranno
abbandonati a se stessi e alle famiglie. La Commissione inquirente, grande
insabbiatrice di scandali per lunghi decenni, è fatta oggetto di una
pseudo-riforma puramente nominale, che ne lascia sostanzialmente intatto
l’impianto. Per approvare tutte queste leggi in così poco tempo, le
Commissioni parlamentari si riuniscono in sede legislativa contemporaneamente
all’Aula, rendendo fisicamente impossibile la presenza dei soli quattro
deputati radicali.
7.3 Le riforme di
liberazione sessuale “GLBT”
All’inizio degli anni ’70, alle persone
omosessuali è negata la dignità, la piena cittadinanza, spesso la
stessa possibilità di vita, se non a costo di auto-censura, negazione e
inganno. La questione omosessuale assume una dimensione pienamente politica
durante il congresso radicale di Milano del novembre ‘74, quando il Fuori! (il
primo movimento organizzato degli omosessuali) e il Pr sottoscrivono un patto
federativo. Con questa decisione, milioni di italiani senza volto possono
riconquistare la propria identità in tutte le sedi del Partito radicale,
che diventano le sedi anche del movimento.
Inizia così una storia tanto ricca di
iniziative quanto misconosciuta o dimenticata, volta al riconoscimento di
fondamentali diritti civili e sociali. La presentazione nel 1976 - per la prima
volta al mondo in elezioni politiche nazionali - di candidati esplicitamente
omosessuali, e la loro elezione. La manifestazione a difesa degli omosessuali
nei paesi in cui l’omosessualità è punita con il carcere o con la
morte: Pezzana a Mosca nel ‘77, Francone a Teheran nel ‘79 e di nuovo a Mosca
nell’80. Le numerose iniziative in sede Onu e Ue che vedono i Radicali impegnati
a garantire l’accesso alle istituzioni dei rappresentanti delle organizzazioni
GLBT. Infine, la prima legge italiana di riconoscimento delle persone
transessuali (164/1982).
7.4 La depenalizzazione del consumo personale
di droghe
Fin
dalla metà degli anni ‘60 i Radicali si occupano del problema della
diffusione delle droghe illegali, proponendo di governare e di regolamentare il
fenomeno. Dalle “contro-inaugurazioni” dell’anno giudiziario del ’65, in cui
denunciano in tutte le procure della Repubblica il fallimento del
proibizionismo, al convegno su “Libertà e droga” del ‘72, alla lettera
di Marco Pannella al Messaggero dopo l’arresto di 17 giovani romani accusati di
aver fumato hashish, tutta la politica radicale – comprese le disobbedienze
civili che ne contrassegnano la storia fino ai nostri giorni – è
finalizzata alla richiesta di un grande dibattito pubblico per favorire
decisioni democratiche e consapevoli intorno alle leggi in vigore.Di fronte
all’immobilismo delle forze politiche e ai veti incrociati che ne impediscono
l’azione parlamentare, mentre migliaia di giovani finiscono in galera per aver
consumato sostanze stupefacenti, il 2 luglio 1975 Marco Pannella annuncia, con
un telegramma alle forze ordine, che di lì a poche ore fumerà
pubblicamente uno “spinello” e che denuncerà per omissione d’atti
d’ufficio poliziotti e magistrati che non intervengano. Pannella finisce in
carcere per due settimane, dichiarando che non firmerà per la
libertà provvisoria fino a che il Parlamento non avrà calendarizzato
la discussione delle diverse proposte di legge da tempo depositate. I
presidenti delle Camere acconsentono all’apertura del dibattito sul tema e, nel
giro di pochi mesi, nel dicembre del ‘75, è approvata una legge che
distingue lo spacciatore dal consumatore, depenalizzando l’uso di alcune
sostanze.
UNA LETTURA ALTERNATIVA DEGLI ANNI NERI DELLA
REPUBBLICA
“Il sistema dei partiti entra in crisi negli
anni ’60, intanto con le lotte per i diritti civili. (...) Negli anni ’70, la solidarietà
nazionale è un rigurgito esistenziale del sistema dei partiti che si
mette complessivamente contro la società, il pluralismo nella
società; e, utilizzando poi anche l’emergenza del terrorismo,...” (Rino
Formica, più volte Ministro socialista, a Radio Radicale nell’aprile
2009).
8.1 Elezioni
anticipate: i Radicali bruciano i certificati elettorali (1972)
Nel corso degli anni ’70, il processo di
erosione della democrazia italiana conosce una fase di forte accelerazione.
L’unanimismo consociativo nelle commissioni parlamentari ne è la
più evidente riprova. Il 1972 è l’anno delle prime elezioni
anticipate, il 1974 è l’anno di introduzione del finanziamento pubblico
dei partiti. Il processo di saldatura del “monopartitismo imperfetto” diventa
esplicito e formale nella stagione della cosiddetta “unità nazionale”
(1976-79) con i monocolori Dc di Giulio Andreotti . Il 1978 è anche
l’anno del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro.
All’inizio del ‘72 il nuovo capo dello Stato
Giovanni Leone incarica Andreotti di formare il governo. Invece di verificare
l’esistenza di una maggioranza parlamentare, egli forma un monocolore Dc che
giura subito ed entra in carica. Di fronte al Parlamento, il primo governo
Andreotti non ottiene la fiducia. A quel punto – per la prima volta nella
storia della Repubblica - vengono sciolte le Camere e si va alle elezioni
anticipate.
Il paradosso di un governo che pur non avendo
mai ottenuto la fiducia del Parlamento, resta in carica per gestire le elezioni
politiche, rappresenta fatto nuovo e grave. Il motivo reale per il quale si
giunge alla decisione inedita di anticipare le elezioni, è che per la
prima volta i partiti si trovano a fronteggiare una nuova “minaccia”: il
referendum sul divorzio. La legge che introduce il referendum è del
1970, nel ’71 una serie di comitati clericali raccoglie le firme per abrogare
la legge Fortuna-Baslini. La consultazione popolare è vista come il fumo
negli occhi dalle segreterie dei partiti, che la considerano una pericolosa
“spaccatura del Paese”, cioè un disturbo rispetto alle loro manovre di
palazzo. In particolare il referendum, voluto dal Vaticano e dai clericali,
è inviso ai partiti della sinistra tradizionale, che lo temono. I capi
socialisti sono ansiosi di tornare al governo con la Dc, i vertici del Pci
puntano alla strategia del compromesso storico, che verrà esplicitata
l’anno dopo. Piuttosto del “rischio” del referendum, cioè di dare la
parola agli italiani, preferiscono forzare la Costituzione, sciogliere il
Parlamento, indire elezioni anticipate e rinviare quanto più possibile
la consultazione popolare. Così, con un’interpretazione strumentale
delle norme, il referendum viene rinviato non di un anno, bensì di due:
si terrà infatti nel 1974.
Alle elezioni, i partiti non rappresentati in
Parlamento sono esclusi dall’informazione televisiva e condannati
all’emarginazione. A fronte di queste e altre illegalità. i Radicali
decidono di dare vita a una forma di disobbedienza civile: bruceranno
pubblicamente i loro certificati elettorali. In Italia, nel 1972 votare
è obbligatorio. Chi si sottrae a questo “dovere” incorre nei rigori
della legge. Bruciare i certificati elettorali e istigare all’astensione
è un reato, Marco Pannella sarà per questo processato da un
Tribunale della Repubblica. Verrà assolto nel 1975, e grazie a questo
processo le norme in questione saranno abrogate o modificate.
8.2 L’inganno del
cosiddetto “arco costituzionale”
Ai tanti italiani che non si riconoscono nel
cosiddetto “arco costituzionale” e che vogliono superarne l’immobilismo, i
Radicali offrono nella primavera del ‘74 gli “Otto referendum contro il
Regime”. Al progetto aderisce un ampio arco di personalità, che
comprende i socialisti Loris Fortuna e Giorgio Fenoaltea, l’ex presidente della
Corte costituzionale Giuseppe Branca; Norberto Bobbio, Giorgio Benvenuto, Elena
Croce, Bruno de Finetti, Vittorio Foa, Elio Giovannini, decine di altri
politici, intellettuali, sindacalisti. Aderiscono anche i maggiori gruppi della
sinistra extra-parlamentare e decine di comunità cristiane di base.
Parallelamente si svolge la campagna per il referendum sul divorzio. Gli
extraparlamentari si ritirano dall’iniziativa di raccolta firme sugli otto
referendum, sostenendo che è prioritaria la battaglia per la difesa del
divorzio; i Radicali viceversa pensano di difendere il divorzio conquistando
nuovi spazi di diritto e di libertà, abrogando le leggi fasciste e
autoritarie che trent’anni di “democrazia” non hanno cancellato. Da soli,
esclusi dai mezzi di comunicazione, i militanti radicali raccolgono circa
150mila firme autenticate: un risultato ancora insufficiente.
I Radicali si mobilitano sul fronte
dell’informazione. Chiedono alla Rai-Tv due trasmissioni di 15 minuti riservate
alla Lid e al prete del dissenso don Giovanni Franzoni; un’udienza con il
Presidente della Repubblica Leone; alla proprietà de “Il Messaggero” di
rispettare la linea laica assunta dal quotidiano nel referendum sul divorzio;
al Parlamento di calendarizzare il pdl Fortuna sull’aborto, il diritto di voto
ai diciottenni e la riforma del diritto di famiglia.
Marco Pannella e un gruppo di militanti
iniziano il 3 maggio un digiuno che si protrae – salvo brevi interruzioni – per
circa novanta giorni. Si organizzano a Roma le “Dieci giornate contro la
violenza”; si occupa due volte la sede del “Messaggero”, hanno luogo marce e
sit-in, comizi, iniziative dirette contro la censura della Rai. Il 20 maggio
viene diffuso un appello di solidarietà con i digiunatori, firmato tra
gli altri da Norberto Bobbio, Alberto Moravia, Eugenio Montale, Ruggero
Orlando, Leonardo Sciascia, Umberto Terracini.
Il 18 luglio la Tv è “costretta” a
intervistare Marco Pannella, che ignora ostentatamente le domande del
conduttore e parla invece di aborto: per la prima volta gli italiani sentono
parlare di questo argomento in televisione. Il giorno dopo Pannella è
ricevuto dal Presidente della Repubblica. L’ “estate radicale” si conclude il
20 settembre, con una grande manifestazione contro lo strapotere della Dc nella
Rai, che chiede l’allontanamento del presidente Bernabei. Decine di
intellettuali e giornalisti dichiarano che non collaboreranno con la Rai fino a
quando costui resterà in carica. Pressato dall’iniziativa radicale,
qualche giorno prima del 20, Bernabei si dimette.
Sulla stampa scoppia il “caso Pannella”. Il
primo a spezzare la cortina del silenzio è Alberto Bevilacqua, con
l’articolo “Assurdo ostracismo”, sul mensile “Lo Speciale” diretto da Arturo
Tofanelli. Ma la vera rottura è del 16 luglio 1974, quando sulla prima
pagina del “Corriere della Sera” appare un lungo articolo di Pier Paolo
Pasolini, che invita ad “aprire un dibattito sul caso Pannella”. In rapida
successione, intervengono Maurizio Ferrara, Giuseppe Prezzolini, Adolfo
Battaglia, Giovanni Spadolini, e ancora Pasolini. Su altri giornali (“Il
Mondo”, “Panorama”, “L’Espresso”, “La Stampa”, “Il Resto del Carlino”)
intervengono Nicola Matteucci, Guido Calogero, Renato Ghiotto, Giorgio Bocca,
Leonardo Sciascia, Alberto Moravia, Stefano Rodotà, Roberto Gervaso,
Arrigo Benedetti, Vittorio Gorresio e altri ancora.
8.3 Di nuovo
elezioni anticipate, di nuovo contro i referendum (1976)
Così come il primo referendum (sul
divorzio, voluto dai clericali) aveva provocato le prime elezioni anticipate del
‘72, altrettanto il secondo referendum (sull’aborto, voluto dai Radicali)
provoca le seconde elezioni anticipate nel ‘76.
In occasione della presentazione delle liste
elettorali, i Radicali gareggiano con il Pci per arrivare primi nei tribunali,
garantendo al simbolo il primo posto in alto a sinistra nelle schede. Nella
notte che precede la presentazione, i militanti radicali vengono aggrediti e
trascinati via con la forza. In televisione il segretario del Pci Enrico
Berlinguer accusa i Radicali di avere inventato tutto per farsi
pubblicità. Il ministro dell’interno, Francesco Cossiga, assicura di
aver disposto accertamenti e nega anch’egli l’accaduto. I Radicali hanno
esaurito i pochi spazi televisivi a disposizione e non sono in grado di replicare.
Episodi analoghi si ripeteranno, con intensità diverse, nel ’79 e
nell’83, sino a quando non sarà definitivamente accolta la proposta
radicale di assegnare il posto ai simboli sulla scheda per sorteggio.
Il 20 giugno 1976 il Partito radicale
raggiunge il “quorum” che consente per la prima volta l’elezione alla Camera di
quattro deputati (Emma Bonino, Adele Faccio, Mauro Mellini e Marco Pannella)
che contrastano la politica di “unità nazionale” dei governi Andreotti,
cioè l’ammucchiata consociativa dei partiti del regime.
Nella primavera del ’78 il Parlamento sottrae
agli elettori la possibilità di votare i referendum sull’aborto, sui
manicomi e sulla Commissione inquirente. Restano così solo due dei nove
referendum che centinaia di migliaia di cittadini avevano sottoscritto: quelli
sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla legge Reale. Vincono i No, ma in
entrambi i casi per la partitocrazia è una vittoria di Pirro. Sulla
legge Reale i Sì sono oltre il 25 per cento – si vota a meno di un mese
dall’assassinio di Aldo Moro, in un clima assai cupo. Il Pci, che pure nel ’75
aveva votato contro la legge, conduce una violenta polemica contro i
referendum: se le legge Reale sarà abrogata, dichiarano autorevoli
esponenti in televisione, potrebbero uscire di galera Curcio, Concutelli e
Vallanzasca, criminali politici e comuni detenuti per gravissimi reati di
sangue. La propaganda televisiva a senso unico dà i suoi frutti, anche
se un quarto degli italiani decide ugualmente di votare in difesa dello Stato
di diritto. La vittoria della partitocrazia è ancora più ridotta
sull’altro referendum: i Sì all’abrogazione del finanziamento ai partiti
raggiungono il 43%, Un partito che alle elezioni di due anni prima ha raccolto
l’1,1% dei voti, è riuscito da solo a fare emergere la spaccatura
esistente fra la partitocrazia e la società italiana. La legislatura
dell’unità nazionale si concluderà, ancora una volta con le
elezioni anticipate l’anno seguente.
Scheda. Giorgiana Masi: dopo tre decenni, nessuna verità
L’ipotesi prospettata per l’ennesima volta
nel 2005 dall’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che Giorgiana
Masi possa essere stata colpita da “fuoco amico”, cioè da “colpi vaganti
sparati da dimostranti” riapre un caso - in realtà mai chiuso - dopo 28
anni.
L’episodio risale al 12 maggio
Le foto dimostrano il fatto, smentito in un
primo tempo, che nelle strade hanno operato agenti delle forze dell’ordine in
borghese, travestiti da facinorosi. L’allora ministro dell’interno Francesco
Cossiga afferma in seguito: “Fu un momento drammatico, in cui tra l’altro
chiesi scusa al Parlamento, perché mi era stato detto che non vi erano in
piazza agenti di polizia o carabinieri in borghese. Io affermai questo. Avendo
appreso il contrario, quando gli amici de “L`Espresso” mi diedero la
documentazione fotografica, rimossi dal suo incarico uno che era mio amico e
che mi aveva fornito, non per colpa sua, queste informazioni. Poi andai in
Parlamento e chiesi scusa”.
Si parla anni dopo anche della possibile
responsabilità di personaggi dell’estrema destra o dell’estrema
sinistra. Il “pentito” di destra Angelo Izzo dice nel ‘97 che a sparare
è stato Andrea Ghira, usando le armi in possesso del gruppo eversivo
“Drago”, di cui fa parte. L’anno dopo un quotidiano parla di un rapporto della
Digos secondo cui il colpo mortale sarebbe partito da una pistola calibro 22,
poi trovata in un covo delle Br. Ma la verità non verrà mai alla
luce.
Nel 2001, ancora Cossiga dice: “Non vorrei
essere frainteso, ma io dico con estrema onestà che come sia morta
Giorgiana Masi non lo so”. Nel
Scheda. P2, P38, P-Scalfari (e poi Moro, Sindona, Calvi, D’Urso,
Cirillo e altri ancora)
C’è un filo rosso che lega episodi
apparentemente slegati, che hanno segnato l’intero arco degli anni
Settanta-Ottanta. Vicende che prendono il nome dei loro protagonisti: caso
Moro, caso D’Urso, caso Sindona, caso Calvi, caso Cirillo…
Il contesto: siamo negli anni della
“unità nazionale” e del “compromesso storico”, cioè quella
politica della “ammucchiata” che vede all’opposizione i Radicali e pochi altri.
In quell’arco di tempo (1975-1980) si cementa e si costruisce anche visivamente
un’alleanza fatta di spartizione e di occupazione di potere che vede uniti Dc e
Pci e solo episodicamente il Psi e i partiti laici. Sono gli anni in cui
vengono varati provvedimenti in materia di giustizia e di ordine pubblico, che
imprimono allo Stato e alle istituzioni svolte autoritarie, accompagnandosi a
provvedimenti in campo sociale il cui fine è consolidare le strutture di
un regime sempre più corporativo e illiberale.
Oggi appare chiaro quello che allora pochi
osavano sostenere: che accanto a una esibita politica muscolare di repressione,
si accompagnava una sostanziale connivenza con il terrorismo di apparati dei
servizi segreti, di settori più o meno deviati dello Stato e di parte
della classe politica. Il nucleo duro di questo “partito” è costituito
dal Pci, al quale è utile alimentare un clima di emergenza permanente,
per meglio consolidare l’intreccio di potere con la Dc. Il terrorismo e gli
attentati di quegli anni non hanno tanto un effetto destabilizzante, quanto
piuttosto una funzione “stabilizzatrice”: sono il cemento su cui poggia la
“unità nazionale”, che altrimenti non avrebbe trovato giustificazione.
I Radicali denunciano per primi le trame
della Loggia P2 di Licio Gelli e di altre simili consorterie, che vengono
utilizzate non per impadronirsi dello Stato (alla P2 già aderiscono i
vertici di tutte le istituzioni, non hanno bisogno di conquistare il potere: lo
detengono) bensì per consolidare la gestione di affari illeciti.
In questa chiave si può leggere lo
scontro nel ‘78 sul caso Moro, tra le esigue forze che non lasciano nulla di
intentato per salvare il presidente della Dc, attraverso pubbliche iniziative
di “dialogo” e la richiesta di un dibattito parlamentare, e il più
numeroso schieramento che fin dall’inizio accetta la situazione, e invece di
operare per la liberazione di Moro lavora soprattutto per contrastare quanti
cercano di salvarlo. Moro “deve” morire, perché se si salvasse minaccerebbe
gravemente gli equilibri esistenti. In questo senso è ancor oggi
illuminante e preziosa la lettura de “L’Affaire Moro”, scritto da Leonardo
Sciascia, e la sua relazione di minoranza alla Commissione parlamentare
d’inchiesta sulla vicenda.
Della stessa natura il conflitto sul caso del
giudice Giovanni D’Urso, rapito dalle Brigate Rosse nel dicembre del 1980 e
liberato nel gennaio successivo. In quei giorni i Radicali riescono, senza
condurre alcuna trattativa, a sviluppare una straordinaria iniziativa di
“dialogo” con le Br, che si realizza grazie a “Radio Radicale”. Se i Radicali,
spalleggiati dal Psi, non avessero strappato il “miracolo” della salvezza di
D’Urso, probabilmente il cadavere del magistrato sarebbe stato utilizzato come
grimaldello per un’effettiva svolta di regime. A questo scopo erano già
pronte le componenti più autoritarie della partitocrazia, assieme a
forze esterne al Parlamento, mascherate dietro la proposta di un “governo dei
tecnici”, sostenuta dal gruppo editoriale “Repubblica-Espresso” di De Benedetti
e Scalfari e dalla stessa Loggia P2, in quei mesi ai vertici del potere e del
dominio sugli affari, sui servizi segreti e sul mondo politico. Per questo i
Radicali coniano lo slogan “P2, P38, P-Scalfari”.
A queste vicende non è probabilmente
estranea neanche la morte del generale dei Carabinieri Enrico Mino, che si
schianta misteriosamente con il suo elicottero sull’Aspromonte. “Un delitto”,
ha più volte denunciato Pannella senza mai essere smentito, con una
lettura dei fatti originale ma non per questo fantasiosa, che il leader
radicale ha avuto modo di esporre compiutamente solo in un’occasione: quando la
Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, presieduta da Giovanni
Pellegrino, ormai avviata a conclusione, decide di ascoltarlo.
Un viluppo di potere e malaffare, intrecci e
vicende che emergono chiaramente solo a darsi la pena di leggere, per esempio,
le relazioni radicali di minoranza sull’affare Sindona. I Radicali sono i primi
a esigere una commissione d’inchiesta, attraverso la quale viene alla luce il
bubbone della P2; o sui fondi neri dell’Iri; o sul caso del rapimento
dell’assessore napoletano Ciro Cirillo, da parte delle Br di Giovanni Senzani:
tutte vicende paradigmatiche. Quella dei fondi neri Iri costituisce uno dei
maggiori scandali della storia repubblicana, compiuto dai partiti di regime ai
danni dello Stato e della collettività; il caso Cirillo svela un
vergognoso intreccio tra camorra, servizi segreti, Brigate Rosse e Democrazia
Cristiana. Sullo sfondo, il terremoto che ha devastato l’Irpinia e il colossale
latrocinio che si è consumato all’ombra del terremoto. Si può
così arrivare fino agli anni ’80 e al maxi-blitz contro la camorra, che
porta in carcere, tra gli altri, Enzo Tortora.
LA BANCAROTTA DELLO STATO ITALIANO
Le lontane origini
negli anni ’70 e ’80 del dissesto economico e finanziario, solo in parte
frenato dall’adesione dell’Italia all’Eurozona. L’inesorabile crescita del
debito pubblico, la mancanza delle riforme, la politica clientelare dei
partiti, le scelte conservatrici e corporative del padronato e dei sindacati.
9.1. Il tradimento dei vincoli costituzionali di bilancio
Il “monopartitismo imperfetto” del regime
italiano diviene subito evidente e si perfeziona soprattutto nella gestione
consociativa e corporativa, contro Costituzione, del debito e della spesa
pubblica. Secondo Giovanni Sartori, “almeno 3/4 della legislazione italiana tra
il 1948 e il 1968 è stata approvata anche dai comunisti”. Lo stesso
Giuliano Amato, nel ‘76, riflettendo sulla “società italiana degli ultimi
15 anni”, afferma che “il modulo spartitorio non è interno al blocco di
potere democristiano, ma opera più largamente, coinvolge anche le altre
parti sociali e politiche”. Infatti, già a partire dal ’59, quasi tutte
le leggi di spesa sono adottate, per decisione unanime, in Commissione in sede
legislativa (come nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni, dove
rappresentava la regola). Solo dal 1976, quando in Parlamento arriva la
pattuglia radicale, l’informazione sui lavori di commissione, la conoscenza e
il dibattito sull’uso delle risorse pubbliche - negati all’opinione pubblica e
allo stesso Parlamento - il rigore e il rispetto delle procedure di bilancio
diventano dato centrale del confronto politico e parlamentare.
Il dissennato uso clientelare della spesa
pubblica e i bilanci della partitocrazia - non solo il bilancio dello Stato ma
anche i bilanci dei partiti, delle organizzazioni sindacali, delle Regioni
eccetera - giocano un ruolo determinante nelle dinamiche di crescita del debito
pubblico.
L’articolo 81 della Costituzione, che Luigi
Einaudi definisce un “baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore
costituente, allo scopo di impedire che si facciano maggiori spese alla
leggera, senza avere prima provveduto alle relative entrate”, viene subito
attaccato e superato dal “monopartitismo” del debito e della spesa pubblica (e
del finanziamento pubblico).
Nel 1966, la Corte costituzionale consente
“la possibilità di ricorrere, nei confronti della copertura di spese
future, oltre che ai mezzi consueti, quali nuovi tributi o l'inasprimento di
tributi esistenti, la riduzione di spese già autorizzate, l'accertamento
formale di nuove entrate, l'emissione di prestiti e via enumerando, anche alla
previsione di maggiori entrate”, autorizzando di soppiatto, e poi apertamente a
partire dai primi anni ’70, lo scavalcamento del dettato costituzionale. La
legislazione di spesa affida la copertura all’emissione e al collocamento dei
titoli di debito pubblico da parte del Tesoro, con la formula, destinata a divenire
di rito, di chiusura della legge: “Il ministro del Tesoro è autorizzato
ad apportare al bilancio le variazioni occorrenti per il finanziamento della
presente legge”. La denuncia di incostituzionalità da parte della Corte
dei Conti rimane inascoltata.
Il colpo decisivo ai vincoli costituzionali
di bilancio lo assesta l’introduzione nel ‘78 della legge finanziaria e del
bilancio pluriennale. Con lo strumento della finanziaria si riesce, per
utilizzare le parole profetiche di Einaudi, a “girare l’articolo 81,
osservandolo nell’apparenza e violandolo nella realtà”, violando
cioè il divieto di stabilire cumulativamente nuove entrate e nuove spese
riunendole in un testo di legge che cammina in parallelo alla legge di
bilancio. Inoltre, con l’introduzione del bilancio pluriennale, si condizionano
le future annualità con impegni certi di spesa, a fronte di entrate non
ancora certe. Si contribuisce così alla dinamica nota come “ciclo
elettorale di spesa” e si alimenta il circolo vizioso “pressione clientelare -
spesa pubblica - deficit - debito - rafforzamento della partitocrazia - aumento
dell’imposizione fiscale”.
L’evasione fiscale pone l’Italia al primo
posto, non tanto dei paesi Ue o Ocse, ma sul piano mondiale, compresi i paesi
in via di sviluppo e i paesi emergenti. Secondo le diverse e più recenti
stime, in Italia si evade un importo compreso tra 100 e 200 miliardi di euro
all’anno. Si tratta di gettito tributario sottratto, non base imponibile
sottratta, quindi sono davvero entrate tributarie che mancano ogni anno alle
casse dello Stato, e sono tali da – se recuperate pure solo in parte - rendere
non necessarie manovre finanziarie per qualche anno!
Oltre alla dimensione dell’evasione,
v’è anche l’implicazione che essa comporta sull’equità del
sistema tributario. L’articolo 53 della Costituzione, che stabilisce il
pagamento delle imposte in ragione della “capacità contributiva” di
ciascuno e secondo “criteri di progressività”, è disatteso.
L’imposta sul reddito delle persone fisiche è pagata solo dai lavoratori
dipendenti e dai pensionati e, attraverso l’Ire (ex Irpef), la
progressività agisce solo sui redditi da lavoro e da pensione, visto che
quelli da capitale, da professione, da lavoro autonomo e da patrimonio riescono
a sottrarsi in larga parte alla tassazione. I referendum radicali per
l’abolizione del sostituto di imposta presentati nel ’94 e nel ’99 sono, in
entrambi i casi, dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale.
Nel
secondo dopoguerra, grazie alle politiche inaugurate e sostenute da Luigi
Einaudi, si consegue un drastico ridimensionamento del debito che
scenderà progressivamente fino al 1964 (media 1947 – 1964: 39.6%).
Negli
anni ‘70 si assiste a una sua progressiva e inesorabile crescita. Dal 1970 al
1979 il debito passa da 14,3 miliardi (di euro) a 98,6 miliardi: un aumento di
quasi il 700 per cento. Il balzo è evidente anche se – più
correttamente – si considera il rapporto tra il debito e il prodotto interno
lordo, che passa dal 40,5% del 1970 al 60,6% nel 1979.
La crescita spaventosa del debito continua
negli anni ’80: dai 118 miliardi (di euro) del 1980 ai quasi 600 miliardi nel
1989. Conseguentemente il rapporto tra il debito e il prodotto lordo passa dal
58% del 1980 al 93,1% del 1989. Successivamente si ha sì una
decelerazione del tasso di crescita del debito, ma non tale da impedire
l’emblematico “sfondamento” dei mille miliardi nel 1994, con il rapporto
debito/Pil che arriva al massimo storico (121,5%).
Le misure adottate per rientrare nelle
condizioni di adesione all’eurozona favoriranno certamente una decrescita
(113,7% nel 1999, 108,7% nel 2001 e 103,7% nel 2004) ma troppo contenuta per un
reale risanamento dei conti pubblici. Sicuramente molto distante dalle
politiche virtuose seguite da altri paesi, in particolare dal Belgio.
Negli ultimi anni, assistiamo a un
“galleggiamento” intorno al 105%, ma l’enorme volume già accumulato
porta comunque ad aumentare il totale del debito, fino a raggiungere la cifra
record di 1.596,7 miliardi di fine 2007 (103,5% del Pil) e di circa 1.664
miliardi a fine 2008 (105,8%).
Nei primi due mesi del 2009, il già
stratosferico debito pubblico aumenta di ben 44 miliardi di euro sfondando il
muro dei 1.700 miliardi, il che già fa prevedere un nuovo balzo nel 2009
del rapporto debito/Pil a oltre il 110%. Ogni nuovo nato che viene al mondo in
Italia è già gravato di un debito di quasi 28.500 euro.
Il volume totale degli interessi passivi che
l’Italia deve pagare per onorare il proprio debito pubblico assume dimensioni
gigantesche. Nel trentennio che va dal 1979 al 2008 il totale degli interessi
pagati espressi in euro 2008 ammonta a circa 2.740 miliardi di euro. Nel solo
2008, per interessi passivi sul volume del debito, lo Stato italiano spende 81
miliardi, pari al 5,15% del Pil, ma se si considera l’intero trentennio,
l’incidenza degli interessi sul Pil è del 7,7%. Una tassa salatissima, e
solo per pagare oneri finanziari maturati, non a fronte di prestiti necessari
per sostenere investimenti, bensì per finanziare una spesa corrente
spesso di tipo clientelare e di “regime”.
9.3 Cassa integrazione
straordinaria, un altro caso di “privatizzazione dei profitti e socializzazione
delle perdite”
Il disegno originario della Cassa
integrazione guadagni è chiaro e ben definito: strumento di garanzia del
reddito dei lavoratori in costanza di rapporto, da attivare quindi a tempo
determinato (massimo tre mesi) per cause transitorie e involontarie, limitatamente
a eccedenze temporanee e non definitive. Questo assetto viene ben presto
stravolto dal regime consociativo dei partiti di maggioranza e opposizione, dei
sindacati confederali e delle grandi famiglie confindustriali. La magistratura
funge da perfetta interfaccia di questo regime.
Il requisito della transitorietà viene
minato già nel ’64, l’estensione del campo di applicazione della Cassa
è continua e culmina nel ’68 nell’istituzione dell’intervento
straordinario; ma tutto ciò si rivela inadeguato a fronteggiare le crisi
occupazionali, ma soprattutto la fame atavica di aiuti di Stato di Fiat, Alfa
Romeo, Olivetti… al punto che nel ‘72 si elimina del tutto il requisito della
transitorietà, rendendo possibile la concessione di proroghe senza limiti
di tempo. L’introduzione nel ‘75 della crisi di mercato tra le cause
integrabili ordinarie è poi il tipico esempio di ratifica legislativa di
una “prassi” consolidata. Nel ’77 si introduce una nuova ipotesi di causa
integrabile, quella della “crisi aziendale di particolare rilevanza sociale”,
una fattispecie omnibus alla quale vengono ricondotti i “fatti” più
disparati. Subito dopo anche il fallimento diviene causa integrabile e, anno
dopo anno, si assiste alla proliferazione incontrollata di interventi settoriali
e fattispecie speciali di erogazione del trattamento straordinario.
Nel ’91, la legge 223 tenta di mettere ordine
nella materia, ma fallisce i due obiettivi dichiarati, quello di destinare la
cassa integrazione straordinaria solo ai lavoratori temporaneamente eccedenti e
quello di arginare l’abuso di uno strumento tanto costoso per le casse dello
Stato, quanto inutile al fine di salvare posti di lavoro. Negli anni
successivi, si afferma al contrario la prassi amministrativa di concedere un
periodo di integrazione salariale straordinaria, per lavoratori che già
si sa essere in esubero, in palese violazione di legge e nell’assoluta assenza
di sanzioni. In linea di massima, la giurisdizione si limita al controllo sulla
regolarità delle procedure, senza entrare nel merito della effettiva
sussistenza della causa integrabile, giustificativa dell’intervento
straordinario.
In realtà su tutti i fronti –
legislazione, amministrazione, giurisdizione – si procede con il metodo
dell’emergenza: un’emergenza cercata e mantenuta per assicurare i massimi
margini di discrezionalità. Il risultato è una spesa
completamente fuori controllo: solo nel periodo 1977-2002 lo Stato destina alla
Cassa, al netto dei contributi da aziende e dipendenti, 250mila miliardi di
vecchie lire, senza che un solo posto di lavoro sia salvato. Negli anni Duemila
l’istituto registra un consistente attivo, ma alla distorsione “storica” se ne
aggiunge una non meno grave: la Cassa integrazione delle grandi imprese
decotte, sempre regolarmente accontentate dai governi, viene pagata in gran
parte dalle altre imprese, quelle più piccole e competitive, che pur
contribuendo in modo decisivo a finanziare l’istituto raramente ottengono di
accedervi. In questo modo, si ha una distrazione grave di risorse dalla parte
sana del sistema produttivo a quella malata, e un sistema di tutela contro la
disoccupazione involontaria, basato sul massimo di favore per le grandi imprese
e sul completo disinteresse per le imprese più piccole e per i loro
dipendenti: un vero e proprio mercato politico delle tutele, secondo
l’impietosa definizione di Massimo D’Antona.
Per porre fine al sistema della cassa
integrazione straordinaria e creare i presupposti per una riforma degli
ammortizzatori sociali equa, di tipo universalistico, i Radicali promuovono nel
1994 un referendum popolare. La raccolta delle firme si conclude con successo,
ma la Corte costituzionale l’anno dopo boccia il referendum per “la lunghezza e
l'estrema complessità del quesito”. L’ennesima sentenza adottata in base
a criteri ulteriori, rispetto a quelli previsti dall’art. 75 della
Costituzione. I cittadini italiani, “incapaci” di capire, vanno messi sotto
tutela. Tutelato è, invece, il potere dei partiti, dei sindacati e delle
grandi imprese.
L’articolo 39 della Costituzione stabilisce
che “l’organizzazione sindacale è libera” e senza “altro obbligo se non
la loro registrazione presso uffici locali o centrali”, ma a condizione che
“gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base
democratica.” Ogni organizzazione democratica si basa sulla periodica e
regolare verifica del consenso dei propri associati, che devono essere liberi
di aderire o recedere in qualsiasi anno. La mancata attuazione dell’articolo
Negli anni ‘90 il movimento radicale tenta la
via del referendum abrogativo. Il voto del ‘95 registra il raggiungimento del
quorum (57,1%) e la vittoria dei “Sì” (56,2%) che cancella la norma
dello Statuto dei lavoratori che prevede l’obbligatorietà delle
trattenute per l’iscrizione al sindacato. La volontà popolare viene
però truffata dalle “parti sociali”, che si accordano per riprodurre
nella contrattazione collettiva le norme abrogate: il sistema resta
sostanzialmente immutato, e il referendum è come se non si fosse tenuto.
Nel voto della primavera del 2000, questa volta per cancellare le trattenute
per i pensionati, il referendum non raggiunge il quorum (32,2% di votanti,
61,8% di “Sì”), perché centro-sinistra, centro-destra e sindacati si
associano in una martellante campagna mediatica a favore dell’astensione, alla
quale non viene data un’effettiva possibilità di replica. Il sistema
delle trattenute automatiche resta in piedi e continua a fruttare alle
confederazioni sindacali – tra lavoratori attivi e pensionati – oltre un
miliardo di euro ogni anno.
I Radicali cercano di intervenire anche sui
Patronati sindacali con referendum abrogativi, i cui esiti sono gli stessi
registrati in occasione delle trattenute automatiche. I Patronati portano alle
casse del sindacato circa 350 milioni di euro ogni anno e, sommando i 225
milioni di euro che affluiscono dai Centri di assistenza fiscale, si arriva ad
oltre due miliardi di euro ogni anno. A questi dati vanno aggiunte le immense
proprietà immobiliari dei sindacati, il cui valore reale è
impossibile quantificare, non avendo il sindacato un bilancio consolidato. Si
tratta comunque di centinaia di migliaia di metri quadrati di immobili,
ricevuti in regalo dallo Stato nel 1977 e per di più, dal 1992, esentati
dal pagamento dell’Ici.
Nella storia della Repubblica, nessun Governo
si dimostra in grado di affrontare il problema delle pensioni che ha costi
enormi per lo Stato e contribuisce fortemente all’aggravamento del debito.
Almeno fino al ‘92, quando Giuliano Amato vara, con il sostegno della Lista
Pannella, le prime riforme in un quadro di assoluta emergenza finanziaria. Da
quel momento si susseguono gli interventi in materia (Dini 1995, Maroni 2004,
Prodi 2007) connotati tutti da un denominatore comune: scaricare il peso degli
interventi sulle legislature successive e sulle generazioni più giovani,
per salvaguardare gli interessi corporativi e i privilegi difesi innanzitutto
dai sindacati.
Già nel gennaio 1983, Marco Pannella
intraprende uno sciopero della fame e della sete con l’obiettivo di assicurare
immediatamente un sostanziale incremento delle pensioni minime, a cominciare
dalle pensioni sociali, che la proposta radicale mira a elevare da 165.550 lire
mensili ad almeno 300.000. Nell’agosto 1983, all’inizio della nuova
legislatura, gli eletti radicali presentano - subito dopo il discorso
programmatico del Presidente del Consiglio Bettino Craxi - una vera e propria
mozione di fiducia alternativa, che vede la questione delle pensioni tra i
punti centrali: il sistema partitocratico muove per le pensioni integrate al
minimo (in modo indiscriminato, con interventi a carattere puramente
assistenziale) 20.000 miliardi ogni anno per interessi elettorali e
clientelari, mentre l’intervento proposto – destinato solo a chi ne ha
veramente bisogno – richiederebbe circa 1.500 miliardi. Lo scandalo provocato
dai dati forniti dai Radicali porta, nel giro di due anni, al raddoppio delle
pensioni minime.
Nel
‘99, allo scopo di superare le gravi carenze della riforma Dini, i Radicali
promuovono un referendum sulle pensioni di anzianità, che nel gennaio
2000 la Corte costituzionale dichiara inammissibile.
Nel 2006 i parlamentari radicali presentano
una proposta di legge (aggiornata e di nuovo depositata nel 2008) per innalzare
gradualmente l’età pensionabile per tutti, uomini e donne, a 65 anni.
Secondo i calcoli dell’Inps, la riforma radicale porterebbe a risparmiare, a
regime, oltre 7 miliardi di euro all’anno, quanto basta per riformare il
sistema degli ammortizzatori sociali e per adottare politiche di “welfare to
work”. La proposta viene completamente censurata dai media e ignorata da
partiti e sindacati. Intanto la spesa pensionistica continua ad assorbire i due
terzi della spesa sociale e il 15% del prodotto interno lordo. Inoltre, con
Emma Bonino ministro per le Politiche europee, i Radicali denunciano la
discriminazione nei confronti delle donne, la cui età pensionabile (60
anni) è più bassa di quella degli uomini (65). L’appello resta
inascoltato e due anni dopo, con la sentenza del novembre 2008, la Corte di
giustizia delle Comunità europee condanna l’Italia, per aver mantenuto
in vigore una normativa in base alla quale i dipendenti pubblici hanno diritto
a percepire la pensione di vecchiaia a età diverse, a seconda che siano
uomini o donne.
DALLA RIFORMA “AMERICANA” POSSIBILE ALLE
CONTRORIFORME PARTITOCRATICHE
All’inizio degli anni
’90, con l’esplosione di tangentopoli e l’auto-referenzialità del
sistema politico italiano, ormai evidentemente scollegato dalla gestione del
territorio e dei suoi problemi, nella società matura una profonda crisi
di fiducia nelle istituzioni rappresentative repubblicane. Per cercare di
intervenire sull’assetto politico, rompendo l’articolazione bipolare di un
monopartitismo sempre meno imperfetto, si fa ricorso allo strumento del
referendum.
10.1 La scelta della riforma maggioritaria
uninominale, come risposta popolare alla degenerazione del sistema dei partiti
La maggioranza dei cittadini, in modo sempre
più netto, esprime il proprio favore per meccanismi elettorali che
mirano a legare direttamente l’eletto con il corpo elettorale e il territorio. Già
nel 1986 era nata, per iniziativa radicale e con parlamentari di vari partiti
(democristiani, socialisti, liberali) la “Lega per l’uninominale”. Nel ’90 sono
proposti tre referendum: per modificare, in senso uninominale maggioritario, la
legge elettorale per il Senato; per abolire la possibilità di esprimere
più di una preferenza, nell'elezione della Camera dei deputati; per
estendere a tutti i Comuni il sistema elettorale vigente per quelli minori,
dove il sindaco era scelto in modo indiretto dagli elettori. La Corte
costituzionale dichiara inammissibili i due quesiti su Senato e Comuni,
ammettendo solo quello sulla preferenza unica, cioè il referendum
politicamente meno fecondo di conseguenze sistematiche, che però
è approvato dal 98% dei votanti, con una partecipazione al voto del
62,5% degli elettori, nonostante gli inviti all'astensione lanciati da molti
esponenti della classe politica. La clamorosa vittoria è immediatamente
utilizzata per rilanciare altri referendum. Per evitare la consultazione popolare
sulla legge elettorale dei comuni, il Parlamento approva la legge 81/93
sull'elezione diretta del sindaco, ma con il doppio turno, mentre i tentativi
di legiferare anche sul Senato falliscono. Il 18 aprile 1993 il referendum
elettorale sul Senato è approvato con oltre l'80% dei voti: tutti i
maggiori partiti, intuendo l’esito della consultazione, si pronunciano a
favore. Il referendum necessita soltanto di un adeguamento nella ripartizione
dei collegi: il Presidente della Repubblica Scalfaro dichiara che il Parlamento
deve limitarsi a riscrivere le leggi elettorali “sotto dettatura del corpo
elettorale”.
10.2 Il tradimento e il sabotaggio dei
referendum
Un vero e proprio tradimento della
volontà popolare avviene invece con l’approvazione della nuova legge
elettorale per la Camera: il regime partitocratico, proporzionalistico e
consociativo, con una prova di illegalità aggressiva del Parlamento,
giunge all'approvazione della legge “Mattarellum”, che non potendo evitare il
passaggio al sistema uninominale, mantiene una quota del 25% di seggi da
attribuire con il sistema proporzionale, corretto da una soglia di sbarramento
del 4%. Di conseguenza i partiti, anche i più piccoli, sono spinti dalla
legge non ad aggregarsi, bensì a conservare gelosamente la propria
identità e a presentare comunque proprie liste, anche senza alcuna
speranza di superare la soglia di sbarramento, per far valere la propria
percentuale nell’assegnazione dei collegi uninominali all’interno della
coalizione. Il sistema adottato risulta inoltre particolarmente complicato dal
meccanismo dello scorporo, che rafforza ulteriormente l’impatto del
proporzionale. Inoltre i regolamenti parlamentari rimangono rigorosamente
proporzionali e partitocratici, per cui i gruppi parlamentari facilitano la
sopravvivenza, anche economica e burocratica, dei partiti.
Nel 1994 i Radicali raccolgono le firme per
tre referendum abrogativi in materia elettorale: due mirano ad abolire la quota
di recupero del 25% dalle leggi elettorali di Camera e Senato, un altro mira ad
abolire il secondo turno nell'elezione del sindaco. Nella primavera del 1994 si
svolgono le elezioni politiche anticipate, le prime con il nuovo sistema
elettorale: vince Berlusconi con alleanze diverse fra il nord (con la Lega) e
il centro-sud (con Alleanza nazionale). Nel gennaio ‘95, la Consulta dichiara
inammissibili i referendum “incondizionati” promossi nel 1993/94, con la
motivazione che non erano immediatamente “autoapplicativi”, poiché, per
garantire l’elezione del 25% di deputati e senatori, il Parlamento sarebbe
dovuto intervenire con una modifica della legge. In vista delle elezioni
regionali, è approvata la legge “Tatarellum”, sistema proporzionale con
un premio di maggioranza di coalizione ed elezione diretta del presidente della
Regione. Nel giugno 1995 si svolge il referendum sui sindaci, per l'abolizione
del doppio turno che consente ai partiti risultati minori al primo turno di
collegarsi a una delle due coalizioni ammesse al secondo. Gli elettori lo
respingono di misura, con un ruolo decisivo dell’informazione radiotelevisiva.
Nell'autunno si ripropongono diversi quesiti,
già dichiarati inammissibili dalla Corte, tra i quali i due elettorali
su Camera e Senato. Il 21 aprile 1996 si svolgono nuove elezioni politiche
anticipate, vinte dalla coalizione dell'Ulivo, che conquista la maggioranza dei
seggi assegnati nei collegi uninominali ma, a causa della quota proporzionale,
è maggioranza alla Camera soltanto con i voti determinanti di
Rifondazione comunista.
10.3 La
restaurazione partitocratica del “bipolarismo” all’italiana
Nel gennaio ‘97 la Corte costituzionale
dichiara nuovamente inammissibili i quesiti: una nuova campagna di raccolta
firme è lanciata nel febbraio ‘98, sul cosiddetto “uovo di Colombo”,
cioè quesiti che, per seguire la logica capziosa emergente dalla
giurisprudenza costituzionale, sono costruiti in modo tale da ritagliare un
nuovo testo legislativo. La Corte è costretta a giudicarli ammissibili,
ma nella consultazione del 18 aprile ‘99 il quorum dei votanti è mancato
di un soffio: 49,6%. Uno scarto assai inferiore a quello che sarebbe emerso
procedendo alla ripulitura delle liste elettorali dai morti e dai residenti
all’estero irreperibili. Una riforma storica per l’Italia è così
mancata per la patente illegalità istituzionale e informativa, e per il
prevalere, in entrambe le coalizioni, di convergenti pulsioni conservatrici e
partitocratiche.
Dopo le elezioni europee dello stesso anno, i
Radicali avviano una nuova raccolta di firme per il maggioritario alla Camera,
assieme ad altri quesiti liberali e liberisti. Il 21 maggio 2000 sui referendum
sopravvissuti alla scientifica falcidia della Corte manca ancora una volta il
quorum: il referendum per le riforme elettorali risulta uno strumento
accuratamente spuntato dalle manovre del potere. Il leader dell’opposizione
Berlusconi giunge a definire “comunisti” i quesiti in discussione (appoggiati
da An e, nella fase di raccolta delle firme, da una parte della stessa Fi)
candidandosi a governare lui stesso il processo di cambiamento istituzionale;
mentre il centro-sinistra, chiuso in dinamiche burocratiche e consociative, non
riesce a comprendere le storica occasione di riforma che la stagione
referendaria offre al paese.
Alle elezioni del 2001 il centro-destra vince
e governa con le difficoltà tipiche delle coalizioni di partiti che la
legge determina. Sul finire della legislatura è varata la legge 270 del
21 dicembre 2005. S’introduce nuovamente un sistema interamente proporzionale
per l’elezione della Camera; la legge ripartisce 617 seggi in 26 circoscrizioni
(un eletto uninominale in Valle d’Aosta e 12 nella circoscrizione estero) con
un premio di maggioranza, su base nazionale, alla coalizione vincente che non
supera i 340 seggi. I candidati sono scelti direttamente dalle segreterie
nazionali dei partiti ed eletti nell’ordine di collocazione in lista, senza
preferenze. Nelle elezioni dell’aprile 2006 la campagna elettorale si riveste
di mentite forme presidenziali, con indicazione sulle schede, nei simboli
elettorali stessi, del nome del “candidato presidente”, che in realtà
altro non è che il capo della coalizione dei partiti.
Un ulteriore passo nel processo di
concentrazione (e rafforzamento) del potere dei partiti si registra con le
elezioni anticipate dell’aprile 2008: i leader dei due principali partiti
decidono di non coalizzarsi con i partiti minori, fatta eccezione per Lega e
Italia dei Valori. Forti della concentrazione del potere televisivo, dello
sbarramento al 4% e delle liste bloccate, i due “capi” nominano direttamente
buona parte dei Parlamentari. Il “bipartitismo all’italiana” si fonda sulla
negazione del rapporto diretto tra eletto e territorio: l’esatto opposto del
sistema anglosassone.
PARTITOCRAZIA, DISSESTO IDROGEOLOGICO, DISTRUZIONE DELL’AMBIENTE
Le case polverizzate dal terremoto in Abruzzo, sotto
le quali muoiono 300 persone, dopo quelle dei terremoti immediatamente
precedenti di Assisi (Umbria) e di San Giuliano di Puglia (Molise) ci consegnano
l’immagine emblematica di un paese incapace a governare la fragilità del
suo territorio, sismico al 75%, su cui insistono almeno 80mila edifici pubblici
da consolidare, 22mila scuole in zone a rischio, di cui ben 9mila prive di
basilari criteri di sicurezza.
11.1 Un paese vulnerabile
Un problema, quello della
vulnerabilità degli edifici, che non riguarda solo quelli storici o
quelli pubblici, ma i milioni di vani dell’edilizia residenziale post-bellica,
priva di qualità e non antisismica, costruiti nel corso dell’immensa e
irresponsabile espansione urbana che ha invaso l’Italia negli ultimi 60 anni,
in gran parte ignorando le norme antisismiche[10].
Eppure, dei 60 milioni di italiani, oltre la
metà oggi vive in aree soggette ad alluvioni, frane e smottamenti,
terremoti, fenomeni vulcanici. Almeno il 60 per cento dei comuni italiani
è a rischio idrogeologico molto elevato, mentre il 67% si trova in zona
sismiche. Un recente studio dell’Agenzia europea per l’ambiente ha documentato
un progressivo aumento di catastrofi naturali in Italia, con una vertiginosa
impennata a partire dall’inizio degli anni ’90. Terremoti, fenomeni vulcanici,
frane e alluvioni, dal 1998 si stanno verificando con una frequenza tale, da
rendere il nostro Paese tra quelli a più alto rischio di catastrofi
ambientali. Oggi il 38% delle vittime di alluvioni in Europa sono italiane, con
gravi costi - non solo in termini di vite umane - per la collettività
nazionale.
11.2 Una
dissennata gestione del territorio
Le cause più evidenti sono la diffusa
cementificazione che ha invaso anche aree adibite un tempo alle piene dei fiumi
- con evidenti responsabilità degli enti locali, che realizzano gli
interventi più contrastanti con un'impostazione di prevenzione,
giocandosi le sorti delle giunte comunali sui piani urbanistici e sulla
destinazione delle aree edificabili[11]
ed una complessiva dissennata gestione del territorio con deviazioni di fiumi,
costruzioni di dighe, cementificazioni di argini e deforestazioni.
Questo perché l'attenzione dei partiti è
concentrata unicamente sulla realizzazione di opere e sui relativi
finanziamenti. Prova ne è la difficoltà di dotarsi di norme sulla
materia. Solo dopo infruttuosi tentativi negli anni '50 e '60 e i disastri del
Vajont (1963) e dell'alluvione di Firenze (1966) si arriva nel
11.3 Leggi inattuali e azione di surroga della protezione civile
La situazione attuale è di una protezione
civile che, di fatto, surroga le carenze strutturali di un progetto che -
nonostante l’adozione della legge quadro sulla difesa del suolo (la 183/89,
sullo sfondo dell’aspro dibattito sulla ripartizione delle competenze tra
centro e periferia), la produzione di diversi provvedimenti integrativi, la
pubblicazione di due direttive europee, la tormentata vicenda del riordino
delle materie ambientali - ancora non trova modo di soddisfare le
necessità del Paese: una serie di leggi e regolamenti che in compenso
contribuiscono a creare un sistema complesso di enti, con un’esplosione di
competenze che impedisce la realizzazione dei piani necessari alla difesa del
suolo pur previsti sulla carta[12].
Esemplare la vicenda di Napoli, la provincia
più densamente popolata d’Italia, con ben 2 aree vulcaniche - la
vesuviana e la flegrea - ad alto rischio permanente, che oggi si trova in una
condizione letteralmente schizofrenica: da un lato piani di evacuazione,
dall’altro piani di ulteriore sovra-urbanizzazione, come l’Ospedale del Mare in
costruzione nell’area vesuviana ad alto rischio, collocato nell’area “gialla”
cioè da evacuare in caso di evento vulcanico o sismico. Questo ospedale
prevede 450 posti (certo non utilizzabili in caso di calamità naturali)
e costa ad oggi ben 198 milioni di euro.
11.4 Il caso
Napoli: disattesi i progetti di rottamazione edilizia e di area metropolitana
Con l’elezione di Marco Pannella nel consiglio
comunale di Napoli, all’inizio degli anni ’80 – quando la popolazione dell’area
“gialla” era di 200.000 abitanti, mentre ora sono 700.000 - i Radicali pongono
la necessità di un riequilibrio economico-territoriale, da realizzare
con la decongestione dei pesi urbanistici, con l’estensione dell’area
metropolitana oltre la provincia e la rottamazione dell’edilizia post-bellica,
priva di qualità e non antisismica (proposta poi estesa, sul piano
nazionale, con il “Manifesto per la rottamazione edilizia post-bellica priva di
qualità e non antisismica” di Aldo Loris Rossi; e sul piano
internazionale, con il “Manifesto di Torino” dello stesso Rossi approvato nel
2008 dal XXIII congresso mondiale dell’Unione internazionale degli architetti).
Una proposta che sembra farsi strada dopo
l’elezione di Bassolino nel 1993 alla presidenza della Regione Campania, che
recepisce la strategia nei piani regolatori, ma che rischia di essere
definitivamente pregiudicata dallo scandalo dei rifiuti campani. Un fatto
quest’ultimo che ha radici antiche ed è emblematico di come la
partitocrazia abbia stretto in una morsa la Campania, regione-simbolo di un
degrado generalizzato. Infatti si parla per la prima volta di inceneritori ben
46 anni fa, nella legge speciale per Napoli che allo scopo stanzia 3 miliardi.
Dal ‘62 al ‘75 si susseguono ben 10 amministrazioni comunali guidate dalla Dc
(che occupa per 13 anni l’assessorato alla Nettezza urbana, per controllarne il
grande bacino di voti) mentre il costo dell’impianto lievita fino a 10 miliardi
nel ‘73, quando scoppia lo “scandalo dell’inceneritore d’oro” che costringe
l’assessore alle dimissioni.
Dal ‘75 all´83 governa un’amministrazione guidata
dal Pci, che occupa anch’esso per l’intero periodo l’assessorato alla Nettezza
urbana, mentre sono emanate due norme fondamentali: la direttiva europea
442/75, che impone la raccolta differenziata alla Comunità, e il DPR
915/82 che la recepisce in Italia e la precisa. Ma Comune e Regione, nelle
amministrazioni di vario colore che si succedono, le ignorano. Dall´83 al ‘93
torna il vecchio centrosinistra, che continua a disattendere le leggi vigenti,
integrate dalla direttiva europea, la 156/91, ritardando ancora l’avvio della
raccolta differenziata attuata già in tutta Europa.
11.5 La Campania
sepolta dai rifiuti
Nel ‘93 una legge regionale istituisce i consorzi
obbligatori dei Comuni: una legge singolare che costringe anche i più
piccoli e dispersi sulle colline - che per secoli hanno risolto il problema
riciclando i loro modesti rifiuti nelle campagne - a consegnarli due volte alla
settimana a camion che li trasportano in discariche lontane e spesso sature.
Da allora il potere dei consorzi cresce a
dismisura, divenendo il fulcro di una politica centralista che si rafforza nel ‘94
con l’istituzione del commissario straordinario all’emergenza rifiuti.
Un’emergenza che, di proroga in proroga, dura ben 14 anni e si cronicizza.
Intorno al centro decisionale si crea una micidiale rete di lottizzazione
clientelare, che aggrega interessi politici, imprenditoriali, tecnici,
professionali, gestionali, camorristici in un blocco sociale parassitario, che
dilapida 4 miliardi di euro provocando il disastro ambientale in atto. Per
valutare la potenza e la pervasività di tale blocco di interessi, basti
considerare che esso, piuttosto che ridursi, si è rinvigorito con i 10
commissari straordinari, nonostante la presenza tra loro di prefetti e un ex
capo della Polizia di provata esperienza. Se l’emergenza rifiuti ha resistito
anche a questi ultimi, significa che è ormai una “emergenza
democratica”, irrisolvibile se non si smantella il suddetto blocco di interessi
e la politica criminogena, interessata a “non risolvere” il problema.
A nulla serve la consapevolezza della
gravità della situazione complessiva, descritta nella relazione finale
della Commissione bicamerale sui rifiuti del 27 febbraio 2008, dove si legge,
per quanto riguarda ad esempio la Sicilia, che “vi è da parte di Cosa
Nostra l’assunzione in proprio dell’attività d’impresa, senza peraltro
l’assunzione del connesso rischio, potendo contare sulle tecniche di
dissuasione proprie dell’associazione mafiosa”; e che “l’intero affare è
stimato intorno ai 6 miliardi di euro nei prossimi venti anni… Aggiungiamo a
questi numeri 392 milioni di fondi europei provenienti da Agenda 2000 per il
finanziamento delle opere infrastrutturali per la raccolta differenziata.
Stiamo parlando del maggiore afflusso di denaro pubblico in Sicilia degli
ultimi vent’anni”. A questo denaro vanno sommati, con l’ultimo provvedimento
sull’emergenza rifiuti, altri 1,4 miliardi di euro prelevati dal contributo
Cip6 - in violazione della normativa europea (che ne consentirebbe l’utilizzo
solo per la frazione organica) che dovrebbe servire a finanziare fonti
rinnovabili e che in Italia, invece, è destinato a lavorazioni di
derivati dal petrolio.
LO SFASCIO DELLE
ISTITUZIONI: IL “CASO” DEI PLENUM MANCANTI
All’inizio
degli anni 2000, due violazioni della Costituzione minano il funzionamento di
organi costituzionali di primaria importanza. Il primo grave vulnus riguarda la
mancata elezione da parte del Parlamento, per 17 mesi, dei giudici
costituzionali di sua spettanza. Il secondo è costituito dal mancato
plenum della Camera dei deputati nella XIV legislatura.
12.1 Corte
costituzionale
La Costituzione (articolo 135) è tassativa nel fissare in
15 i membri di cui si compone la Corte costituzionale. Accade invece che la
Consulta operi e deliberi con soli 13 membri e, quindi, in assenza del plenum costituzionale
dal 21 novembre 2000 al 24 aprile 2002, da quando cioè scadono il
mandato del presidente Cesare Mirabelli e del vice-presidente Francesco Guizzi.
E’ al Parlamento, in seduta comune, che spetta di reintegrare il
plenum. Per l'elezione è richiesta la maggioranza dei due terzi dei
componenti dell'Assemblea per i primi due scrutini; la maggioranza dei tre
quinti a partire dal quarto scrutinio. Il Parlamento si riunisce ben 19 volte,
ma ogni tentativo naufraga sull’impossibilità di trovare un accordo tra
i partiti e le coalizioni. Solo il 24 aprile 2002, i due giudici costituzionali
sono finalmente eletti. Per ottenere questo risultato sono occorsi 7 giorni di
sciopero della fame e della sete di Marco Pannella, nell’ambito di
un’iniziativa nonviolenta che prosegue successivamente per il reintegro del
plenum della Camera dei deputati.
La storia si ripete nel 2008, quando il giudice costituzionale
Romano Vaccarella si dimette il 4 maggio 2007 e il plenum della Corte rimane
vacante per oltre diciassette mesi. Sarà sostituito da Giuseppe Frigo,
eletto giudice costituzionale il 21 ottobre 2008, alla fine di una lunghissima
trattativa tra i partiti e 22 votazioni del Parlamento andate a vuoto.
12.2
Camera dei deputati
La Costituzione (articolo 56) sancisce che la Camera dei deputati
sia composta da un numero fisso di 630 membri e prescrive che neppure un solo
seggio resti vacante nel corso dell’intera legislatura: lo si desume dalla
lettera della norma, ma anche dalla giurisprudenza costituzionale sull’ammissibilità
dei referendum elettorali.
La legge elettorale del 1993 prevede che l’elezione dei membri
della Camera dei deputati avvenga in collegi uninominali per un numero pari al
75 per cento del totale, ma anche in circoscrizioni proporzionali (con liste
plurinominali bloccate) per il restante 25 per cento dei seggi. Le liste
presentate dai partiti nelle circoscrizioni possono essere collegate, con un
legame espresso e formale, a candidature dei collegi uninominali.
All’attribuzione dei seggi per la quota proporzionale hanno diritto solo le
liste che in ambito nazionale hanno ottenuto almeno il 4 per cento dei voti
(soglia di sbarramento).
Accade che le due più importanti coalizioni, per arginare
gli effetti di un meccanismo ulteriore - che sottrae voti nella quota
proporzionale alle liste collegate a un candidato risultato vincente nella
quota maggioritaria - colleghino diversi candidati, nei collegi uninominali
considerati vincenti, a cosiddette “liste civetta” della quota proporzionale,
create ad hoc confidando nel fatto che non prenderanno parte alla ripartizione
dei seggi nella quota proporzionale, non raggiungendo il quorum del 4 per
cento.
Nelle elezioni del 13 maggio 2001, l’utilizzo di queste liste
“fantasma” crea un problema a Forza Italia, che nella quota proporzionale
raccoglie il 29,5 per cento dei voti su scala nazionale: i seggi assegnati sono
maggiori rispetto al numero di candidati presenti nelle sue liste. La legge
prevede in questo caso che i seggi per i quali non ci sono candidati, siano
attribuiti ai “migliori perdenti” nei collegi uninominali collegati alla lista
che ha superato lo sbarramento del 4% nella circoscrizione proporzionale, ma FI
non ha candidati collegati, se non a “liste civetta” che non hanno raggiunto il
quorum.
A questo punto, sempre secondo la legge, i seggi non attribuiti
vanno ridistribuiti alla lista stessa nella quota proporzionale, dove essa ha
ottenuto i maggiori resti, naturalmente nel caso vi siano non eletti. In tal
modo, 5 dei 7 candidati mancanti per FI sono recuperati nelle circoscrizioni
Marche, Emilia-Romagna, Puglia e Lazio 1 (due seggi).
Rimangono però ancora da attribuire due seggi e l’Ufficio
centrale elettorale presso la Corte di Cassazione ripartisce fra le altre liste
sopra il quorum i seggi non assegnati; cosicché, viene attribuito un seggio
ulteriore ai Ds e alla Margherita. Accade quindi che “obbedendo” a questo
regolamento i voti di cittadini espressi per Forza Italia servano a eleggere
due parlamentari di partiti differenti e, addirittura, appartenenti alla
coalizione avversaria.
Ma anche questo non basta a completare il plenum della Camera, perchè 4 candidati di FI sono già proclamati eletti sia nell’uninominale, sia in una o più circoscrizioni proporzionali, mentre altri 3 sono eletti in più di una circoscrizione proporzionale, situazione questa diversa da quella già “risolta” dalla Cassazione. Così in totale sono 11 i seggi “rimasti vacanti”, per i quali si devono individuare i “subentranti”.
La Giunta delle elezioni della Camera è incaricata di sbrogliare la complicata matassa; trascorrono le settimane e i mesi, ma non si riesce a trovare alcuna soluzione, fino a quando Marco Pannella non solleva pubblicamente la questione con uno sciopero della fame e della sete, iniziativa che segue cronologicamente ma che è strettamente legata a quella per denunciare l’altro mancato plenum, quello della Consulta.
La Camera dei deputati esce dalla sua inerzia e, il 15 luglio 2002, stabilisce di mantenere definitivamente l’assenza di plenum, data la difficoltà riscontrata nell’assegnare gli 11 seggi vacanti (diventati nel frattempo 12 per la morte di un deputato di FI eletto al proporzionale). Lo stato di illegalità permane, ma almeno lo si riconosce ufficialmente, e si prende atto formalmente che non si è in grado di risolverlo.
IL MANCATO RISPETTO DEGLI OBBLIGHI
INTERNAZIONALI DELLA REPUBBLICA ITALIANA
L’inottemperanza di precisi mandati parlamentari e di obblighi derivanti dall'adesione dell’Italia a trattati internazionali, nonché la massiccia violazione delle direttive comunitarie, comportano ritardi e boicottaggi di necessarie e urgenti riforme del diritto internazionale, oltre che ingenti costi a danno della collettività.
Il combinato disposto degli articoli 10 e 11 della Costituzione sancisce la superiorità del diritto internazionale sul diritto interno, laddove dispone che “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute” e che l’Italia “consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”. E’ in base a quest’ultima disposizione che, ad esempio, la normativa comunitaria prevale su quella interna e obbliga le istituzioni ad adeguare laddove necessario la disciplina interna a quella europea.
Allo stesso modo, l’Italia è tenuta a dare esecuzione alle norme di diritto internazionale, sia generale che di origine pattizia. L’inadempienza italiana è clamorosa, ad esempio, nel caso della mancata inclusione, a distanza di vent’anni, del reato di tortura nel suo Codice Penale. E’ il 3 novembre 1988, infatti, che l'Italia autorizza la ratifica della Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All'inizio del 2009, il Senato della Repubblica, a seguito del parere negativo del Governo (!) e malgrado il voto segreto, vota contro la proposta dei Radicali di porre fine a questo ulteriore vulnus legislativo di attuazione degli obblighi internazionali dell'Italia.
13.1 Lotta alla fame nel mondo, un impegno
tradito
Nel 1979 un Rapporto delle Nazioni Unite prevede per l’anno successivo oltre 40 milioni di morti per fame e per denutrizione. Il documento denuncia anche il mancato adempimento, da parte dei paesi industrializzati, dell’impegno assunto al Palazzo di Vetro di destinare lo 0,7% del Prodotto Interno Lordo a programmi di cooperazione allo sviluppo.
Già nel marzo del ’79 il Partito radicale lancia la “Campagna contro lo sterminio per fame nel mondo” che si protrae per anni con azioni nonviolente (marce, scioperi della fame e della sete) e iniziative istituzionali che coinvolgono parlamentari e personalità di tutto il mondo. Nel giugno del 1981, viene lanciato l’Appello “contro la fame e per lo sviluppo” che viene sottoscritto da 113 Premi Nobel.
Nell’agosto del 1981, su iniziativa dei parlamentari Radicali, il Parlamento italiano è convocato - per la prima volta nella sua storia e in via del tutto straordinaria – e approva una mozione che impegna il Governo a destinare a quello scopo 3.000 miliardi di lire, cifra che eleva di almeno dieci volte l’irrisorio stanziamento destinato alla cooperazione. In quelle stesse settimane, su iniziativa degli eurodeputati Radicali, il Parlamento europeo adotta una mozione sulla falsariga di quella italiana. Il documento viene sottoscritto dalla maggioranza assoluta dei parlamentari europei ed entra in vigore senza dover passare al vaglio del dibattito dell’aula. In esso si impegna la Commissione esecutiva e gli stati membri a destinare 5 milioni di Ecu (l’euro di allora) per 5 milioni di vite da salvare. Nel 1984 il Parlamento italiano approva la “legge Piccoli” che istituisce il Fondo Aiuti Italiani contro la fame nel mondo prevedendo l'impiego di 1.900 miliardi di lire per un intervento straordinario contro la fame. Nel giro di 3 anni gli stanziamenti effettivamente decuplicano: il rapporto degli aiuti allo sviluppo rispetto al Pil passa così dallo 0,08% del 1979, anno di inizio della campagna radicale, allo 0,40% del 1986. L’iniziativa italiana provoca un effetto a catena e altri paesi europei aumentano i propri fondi alla cooperazione.
Col passare degli anni, complice il silenzio mediatico, la percentuale di aiuti pubblici allo sviluppo torna alle percentuali degli anni ’70, scendendo nel 2006 all’importo dello 0,11%, il minimo fra i paesi sviluppati, al netto della cancellazione del debito delle nazioni povere. Ad oggi, l’Italia resta il paese meno generoso tra gli stati membri dell’Unione europea.
Nel 1984, per reperire ulteriori fondi per la lotta alla fame nel mondo, all’interno delle norme del Concordato tra Stato e Chiesa cattolica che finanziano alcune denominazioni religiose attraverso il contributo volontario obbligatorio col meccanismo del cosiddetto “8x1000” sul gettito totale Irpef, si prevede l’opzione di finanziare lo Stato per scopi sociali o assistenziali tra i quali, appunto, la fame nel mondo. Nel 2004, ultimo anno con dati attendibili, il gettito complessivo dell’8x1000 è di circa 897 milioni di euro. Solo il 39,6% dei contribuenti esprime la propria scelta, e la somma corrispondente, 355 milioni di euro, è distribuita tra i sette enti previsti dalla legge, tra cui lo Stato. Il 60,4% non si pronuncia, ma la quota corrispondente dell'otto per mille, pari a 541 milioni di euro, è comunque ridistribuita proporzionalmente in base alle opzioni esplicitamente espresse. Lo Stato, che in 25 anni non ha mai fatto pubblicità sulle finalità del suo 8x1000, riceve circa 100 milioni di euro: sottratti gli 80 milioni di euro che a partire dalla finanziaria 2004 vengono trasferiti al bilancio generale, rimangono 20 milioni di euro, di cui solo 880.000 euro (il 4,44%) viene destinato dallo Stato alla “fame nel mondo”.
13.2 L’Italia artefice della Corte Penale a
livello internazionale ma non a livello interno
Tra il ‘93 e il ‘94 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu crea i Tribunali Internazionali per i crimini commessi nella Ex-Jugoslavia e in Ruanda. Malgrado le risoluzioni istitutive obblighino gli Stati membri ad adoperarsi anche per la dotazione budgetaria dei tribunali ad hoc, l’Italia, uno dei paesi maggiormente convinti dell’impresa, non ottempera agli impegni assunti al Palazzo di Vetro, di fatto ritardandone l’avvio dei lavori.
Nel luglio ’98, a conclusione di un processo pluriennale, si tiene a Roma la Conferenza diplomatica di plenipotenziari per l’istituzione della Corte Penale Internazionale, che si conclude con l’adozione dello Statuto della Corte che prende il nome della città ospite. Il 26 luglio 1999, l’Italia diviene il quarto paese a ratificare lo Statuto di Roma che ha giurisdizione su genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Dopo dieci anni dalla decisione, il Governo italiano non provvede ancora ad adeguare le norme dell’ordinamento interno per la collaborare con la Corte. In virtù di ciò, nel caso in cui un ricercato della Cpi - ad esempio il Presidente del Sudan Al-Bashir recentemente incriminato dal Procuratore generale della Corte per i crimini commessi in Darfur - venga a trovarsi sul territorio italiano, il nostro Governo non sarebbe in grado di collaborare all’arresto e al trasferimento dell’imputato al tribunale dell’Aja.
Vi è di più: non solo il Governo non ottempera con decreti legislativi agli obblighi derivanti dalla ratifica dello Statuto di Roma ma, a fronte della presenza di numerosi disegni di legge in materia, né i presidenti delle Commissioni parlamentari competenti, né il Governo concedono mai corsie preferenziali per recuperare la grave lacuna normativa, nonostante le promesse formalmente date in risposta a diverse interrogazioni dei deputati radicali Rita Bernardini e Matteo Mecacci.
13.3 I costi italiani dell’Europa delle
nazioni
Oltre a detenere il triste primato del più alto numero di condanne da parte della Corte europea di Strasburgo per violazione dei diritti umani nella (non) amministrazione della giustizia, l'Italia è da sempre agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda l'utilizzo di fondi Ue previsti per il risparmio energetico, la tutela dell'ambiente e lo sviluppo economico di settori e aree in crisi, ma anche per quanto riguarda il rispetto delle direttive comunitarie.
Il sentimento europeista degli italiani raramente si traduce in azione strutturata da parte dei Governi per fare dell’Italia un paese in grado di contribuire alla costruzione quotidiana dell'Ue. La disattenzione al rispetto delle norme e degli obblighi europei fa sì che l’Italia si collochi oggi ai primi posti della classifica delle frodi comunitarie. Solo a partire dal 2006, grazie anche all’operato del ministro per le politiche europee Emma Bonino, attraverso il Comitato anti-frode e il lavoro del Nucleo della Guardia di Finanza presso il Dipartimento delle Politiche Comunitarie, si riescono a chiudere i quasi 600 casi aperti tra il 1995 e il 2005 per un recupero complessivo di circa 37 milioni di euro.
Secondo dati aggiornati al marzo 2009, il Collegio dei Commissari europei decide per l'Italia 13 archiviazioni, di cui 7 concernenti procedure già aperte e 6 ancora allo stadio di reclamo, ma allo stesso tempo sono aperte 6 nuove procedure d'infrazione. Il numero totale delle procedure d’infrazione a carico dell'Italia si attesta così a 163, di cui 137 riguardano casi di violazione del diritto comunitario mentre 26 attengono al mancato recepimento di direttive nell’ordinamento italiano. Nel 2006, quando Bonino è nominata ministro, le infrazioni erano 275, il numero più alto in Europa, e in 20 mesi si sono ridotte di un terzo.
13.4 Moratoria universale della pena di
morte, dopo quindici anni di inadempienze e rinvii
Il 18 dicembre 2007, l’Assemblea Generale dell’Onu approva a stragrande maggioranza la Risoluzione per una moratoria universale della pena di morte. E’ il momento conclusivo di una mobilitazione radicale iniziata dall’associazione Nessuno tocchi Caino nel 1994, quando per la prima volta viene presentata a New York da parte dell’Italia una risoluzione pro moratoria che viene battuta per otto voti solo perché mancano quelli di 21 governi europei.
Dopo la presentazione, nel ’97 e nel ’98, della risoluzione alla Commissione diritti umani dell’Onu di Ginevra, che puntualmente l’approva, il documento viene riproposto in Assemblea generale dall’Unione europea nel 1999. L’iniziativa “fallisce” non perché sconfitta ai voti, ma perché all’ultimo minuto viene da Bruxelles l’ordine di ritirare la risoluzione già depositata.
Nel luglio, settembre e novembre 2003, il Parlamento italiano discute mozioni sia della maggioranza sia dell’opposizione che impegnano il Governo a “presentare una risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali alla prossima Assemblea generale dell’Onu”. Contro tutto ciò, il Governo si adopera per modificare il merito dei dispositivi delle mozioni tramutandoli nell'opposto di quello che chiedevano. Da parte sua, il Parlamento europeo, nel settembre e ottobre dello stesso anno, impegna la Presidenza italiana dell’Ue a presentare la risoluzione sulla moratoria all’Assemblea generale, ma il ministro Frattini non dà seguito a quei dispositivi chiari e stringenti del Parlamento.
Sin dal gennaio 2003, Nessuno tocchi Caino mette a disposizione del Governo italiano e dei partner europei previsioni puntuali sugli orientamenti di voto dell’Assemblea generale. Malgrado le previsioni di ampie maggioranze la risoluzione non viene mai presentata.
Anche nel 2007, occorrono mozioni e risoluzioni adottate – spesso all’unanimità – dal Parlamento italiano e da quello europeo nonché uno sciopero della fame “a oltranza” di 89 giorni di dirigenti e militanti radicali che “occupano” anche la sede della Rai, per arrivare all’inizio di novembre, finalmente, al deposito del testo al Palazzo di Vetro da parte di una coalizione trans-regionale. Il 18 dicembre, l’Assemblea generale dell’Onu approva la risoluzione che proclama la moratoria universale della pena di morte. Le previsioni di Nessuno tocchi Caino sono confermate per difetto: 104 Paesi dei 192 membri dell’Assemblea generale votano a favore, 54 contro e 29 si astengono.
13.5 Il boicottaggio di “Iraq libero”,
l’unica alternativa alla guerra
Contro la prospettiva di una seconda guerra del Golfo per liberare l’Iraq dal dittatore Saddam Hussein, nel gennaio 2003, Marco Pannella lancia l’iniziativa “Iraq Libero”, rivolta al Parlamento italiano e alla comunità internazionale e incentrata sulla proposta di esilio di Saddam e, conseguentemente, di una amministrazione fiduciaria internazionale per la costruzione di uno Stato democratico da affidare a personaggi di altissimo livello nel quadro di quanto sancito dalla Carta delle Nazioni Unite.
In un mese, l'appello “Iraq Libero” è sottoscritto da 27.344 cittadini di 171 nazioni, da 46 membri del Parlamento europeo e in Italia da 501 parlamentari corrispondenti al 53,5% dei componenti le Camere.
Il 19 febbraio, col parere favorevole del Governo e con 345 sì, 38 no e 52 astenuti, il Parlamento italiano vota una risoluzione sulla proposta radicale che impegna il Governo a sostenere, presso tutti gli organismi internazionali e principalmente presso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l'ipotesi di un esilio del dittatore iracheno e di un Governo provvisorio controllato dall’Onu che ripristini a breve il pieno esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti gli iracheni.
Nel dibattito parlamentare Berlusconi afferma che il Governo italiano “sta operando per questa soluzione nell'ambito di riservatezza che è d’obbligo e tiene costantemente informato il Governo americano e il Presidente del Consiglio dell'Ue dei progressi che si vanno registrando”. Ma l’Italia, non rispettando la delibera della Camera dei deputati, non si fa promotrice della proposta né presso l’Unione europea né presso l’Onu, assentirà silenziosamente a che la Libia di Gheddafi boicotti l’esilio del dittatore iracheno e sceglierà di far parte della “Coalizione dei Volenterosi” di intervento in Iraq. I costi del sabotaggio del progetto “Iraq libero” sono evidenti. Le stime sulle vittime civili e militari irachene della Seconda guerra del Golfo, che costa centinaia di miliardi di dollari, si aggirano sulle centinaia di migliaia, quelle sulle vittime internazionali intorno ai quattromila.
13.6 Italia-Libia, trattato contro il
diritto internazionale
Nel febbraio 2009, il Parlamento italiano ratifica un trattato di “Amicizia, Partenariato e Cooperazione” con la Libia che, nella pratica, prevede che l'Italia doni alla Libia 5 miliardi per i prossimi vent’anni e che, soprattutto, ignora il rispetto di alcune importanti norme internazionali.
In primo luogo, il trattato Italia-Libia, all’articolo 2, stabilisce che i due paesi “rispettano il diritto di ciascuna delle Parti di scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale”. Una clausola che non tiene conto del fatto che, da quarant'anni, il regime libico si caratterizza per la sistematica persecuzione di ogni forma di dissenso politico, per l'assenza assoluta di organi di stampa indipendenti, per l'incarcerazione o la sparizione degli oppositori politici, nonché per la pratica della tortura e della pena di morte.
In secondo luogo, all’articolo 4, il trattato vincola l’Italia a non concedere l’uso delle basi militari presenti sul suo territorio per attacchi militari contro la Libia. Questa norma rappresenta una chiara violazione degli impegni sottoscritti dal nostro paese con l’adesione al Patto Atlantico, in particolare dell’art. 5 che regola l’autodifesa collettiva. Se infatti è consuetudine che un trattato di “amicizia” impegni le parti a non attaccarsi militarmente, in questo caso l’Italia si impegna a non concedere l’uso delle basi militari presenti sul suo territorio (e dunque anche basi Nato) pure nel caso in cui un altro paese membro dell’Alleanza Atlantica (Spagna, Turchia, Francia…) sia attaccato dalla Libia.
In terzo luogo, l’Italia sancisce una collaborazione formale nella lotta all’immigrazione clandestina, anche attraverso “pattugliamenti congiunti” di navi libiche e italiane nel Mediterraneo, con un paese che ancora non ratifica la Convenzione Onu per i Rifugiati e dove la condizione degli immigrati e dei rifugiati in fuga, ad esempio dal Darfur, è denunciata quotidianamente dalle organizzazioni umanitarie. In questo modo l’Italia collabora nella gestione dell’immigrazione con un regime noto per i maltrattamenti e le torture, senza nessuna garanzia che questo non avvenga anche nei confronti degli immigrati “intercettati” dalle nostre forze armate.
Contro la ratifica del trattato i Parlamentari radicali conducono una dura battaglia parlamentare presentando oltre 6.000 emendamenti; una battaglia che, se non impedisce l’approvazione del Trattato voluta oltre che dalla maggioranza anche dal principale partito dell’opposizione, consente quantomeno di aumentare gli indennizzi agli esuli italiani dalla Libia cui il colonnello Gheddafi, nei decenni scorsi, ha espropriato illegalmente beni e proprietà.
LA NEGAZIONE
DEL DIRITTO ALLA CONOSCENZA
L’avvento
della Repubblica per lungo tempo non produce mutamenti nella disciplina della
radiodiffusione voluta dal regime fascista, imperniata sulla riserva allo Stato
dell’attività radiotelevisiva e sul penetrante controllo politico circa
l’assetto societario ed i contenuti dei programmi. Nell’Italia repubblicana, il
controllo del consenso e del dissenso continua a essere assicurato
principalmente attraverso il controllo del mezzo radiotelevisivo, in
continuità con l’uso che il fascismo fece della radio e del cinema.
14.1 Dall’Eiar a Raiset
Una immutabilità segnata persino dalla continuità giuridica, oltre che delle strutture e del personale giornalistico, della concessionaria unica Rai rispetto all’Eiar, l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche cui il fascismo ha riservato l’attività radiofonica.
Occorre aspettare il 1974 per vedere cancellato, sia pure parzialmente, il monopolio statale delle trasmissioni radiotelevisive, in virtù di due sentenze della Corte costituzionale che aprono il settore alle televisioni estere e a quelle via cavo. E’ lo stesso Presidente della Corte costituzionale, Francesco Paolo Bonifacio, in un articolo pubblicato sul Corriere della sera a due mesi dalla cessazione della sua funzione, a dare atto al Partito Radicale di aver contribuito a creare - attraverso la mobilitazione popolare intorno alla petizione contro il decreto Togni, che smantella i ripetitori delle tv estere, e alla raccolta firme per un referendum abrogativo delle norme del Codice postale che vietano le tv via cavo, purché si limitino all'ambito locale - il clima e le condizioni che spingono la Corte ad approvare quelle sentenze rivoluzionarie che porteranno al superamento del “monopolio pubblico” dell'informazione, per realizzare il “servizio pubblico”.
Comincia così il periodo delle radio libere in tutta Italia e, quasi subito, la comparsa anche delle prime televisioni private. L’entrata in scena di alcuni editori (Rusconi, Rizzoli, Mondadori) proiettano le televisioni oltre la dimensione locale (con accorgimenti tecnici che Radio Radicale è una delle prime a mettere in atto nel campo radiofonico).
La sentenza della Corte, dal valore dirompente ma transitorio, mette in moto un processo che occorre però regolare per legge. Gli orfani del monopolio Rai (i sindacati dei giornalisti radiotelevisivi, molti intellettuali di sinistra, i partiti di opposizione, una parte consistente della Dc che ha controllato fino ad allora il servizio pubblico) impediscono che questa legge si faccia, adottando un atteggiamento di boicottaggio e di difesa degli equilibri esistenti.
A beneficiare più di tutti dell’assenza di una nuova
regolamentazione del sistema televisivo, mentre contemporaneamente aggira la
normativa esistente, è Silvio Berlusconi. La posizione di monopolio
della Fininvest nel settore privato, viene dapprima consentita di fatto, quindi
ratificata a più riprese dalla partitocrazia: prima con il baratto del
1985, del quale si rende protagonista anche il Pci (che ottiene il controllo di
Rai
Una convergenza di interessi partitocratici che prosegue fino a oggi,
nonostante la spinta a favore della concorrenza proveniente dall’Unione
europea. Il 15 giugno 2002 il Parlamento europeo ha approvato una mozione nella
quale esprime preoccupazione “per la situazione in Italia, dove la gran parte
dei media e del mercato della pubblicità è controllato in forme
diverse dalla stessa persona”, situazione che “potrebbe costituire una grave
violazione dei diritti fondamentali a norma dell’articolo 7 del Trattato
dell’Unione europea modificato dal Trattato di Nizza”. A ciò si
aggiungono le reiterate sentenze della Corte costituzionale, di cui il caso
“Europa
In tal modo, il tanto declamato pluralismo della comunicazione – pubblica e privata – finisce per rispecchiare, salvo poche e poco rilevanti eccezioni, il “pluralismo” interno al sistema dei partiti, affidando alla mediazione dei loro apparati burocratici finanziati dallo Stato la gestione della comunicazione. Nel frattempo, in sessant'anni non è mai avvenuto un ricambio generazionale dei dirigenti e dei giornalisti della concessionaria pubblica.
14.2 La sistematica ed impunita violazione delle regole
dell’informazione politica
Nel primo periodo della Repubblica non esiste regola che disciplini l’informazione e la propaganda politica attraverso il mezzo radiotelevisivo.
A parte l’immediato dopoguerra, quando la radio pubblica è caratterizzata da un dibattito politico vivace, contraddistinto da personalità e da temi anche anticonformisti (come quelli trattati nel dibattito pressoché giornaliero che si teneva nella rubrica radiofonica “Il convegno dei cinque”), ben presto la rottura dei governi del Cln - dovuta alla scelta atlantica ed europea della Repubblica italiana - riporta l’informazione politica sotto il rigido controllo del Governo, escludendo dal confronto non solo i partiti di opposizione (il Pci, il Psi di allora, il Msi) ma in gran parte anche gli alleati laici dei governi democristiani.
L’assenza di regole sull’informazione falsa palesemente le competizioni elettorali: nel 1958 il Partito radicale ed il Partito repubblicano, presenti alle elezioni politiche con liste comuni, devono rivolgersi al Presidente della Repubblica per denunciare la loro totale esclusione dall’informazione elettorale.
La situazione, nonostante l’entrata in scena della televisione a metà degli anni ‘50, si protrae fino al 1963 quando, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale del 1960, i partiti di opposizione riescono a ottenere vere e proprie tribune elettorali, con dibattiti e conferenze stampa trasmesse dalla Rai dalle quali però sono escluse le forze politiche non rappresentate in Parlamento. I partiti del regime si assicurano così l'utilizzazione monopolistica della radio e della televisione, escludendone rigorosamente tutte le forze nuove che potrebbero in qualche modo turbare o concorrere a modificare gli equilibri, insieme immobili e logori, della vita politica italiana.
Gli anni successivi, grazie alle lotte del Partito radicale, sono caratterizzati dalla progressiva conquista di regole che restaurano presupposti minimi per la validità della consultazione elettorale. Nel 1968 e nel 1972 il Partito radicale denuncia l’illegalità delle elezioni politiche, decidendo di non presentare propri candidati e di invitare gli elettori a votare scheda bianca, e in pochi anni si ottiene, attraverso forti iniziative nonviolente e giudiziarie, una serie di storiche riforme: l’accesso alle tribune politiche dei partiti non rappresentati in Parlamento; la garanzia dell’equal time per tutti i competitori elettorali; il sorteggio dell’ordine di intervento; l’accesso alle tribune dei rappresentanti dei Comitati promotori dei referendum (ottenuto in occasione del referendum sul divorzio dopo 78 giorni di digiuno di Marco Pannella).
Sempre grazie a uno sciopero della fame e poi della sete di Marco Pannella, alle elezioni politiche del 1976 viene riconosciuto per la prima volta il principio della “riparazione” per soggetti politici cui è stato illegittimamente impedito l’accesso. [13]
Da quel momento, la Rai e la Commissione parlamentare di vigilanza pongono in essere un'opera di smantellamento delle tribune, spostandole in fasce orarie di scarso ascolto, riducendone il tempo complessivo e adottando format che sterilizzano le tribune rendendole prive di interesse.
In breve tempo le tribune televisive passano da un ascolto medio di 19 milioni di telespettatori nel 1976 al milione e mezzo del 1986, ulteriormente dimezzatosi nel corso degli anni.
Contemporaneamente, dinanzi all'importanza assunta dalle consultazioni referendarie, gli spazi di accesso sono contratti, negando la peculiarità del Comitato promotore e diluendone la presenza con l'ammissione paritaria di decine di altri soggetti, tra partiti e comitati, ivi inclusi gli astensionisti.
Ottenuta la sostanziale eliminazione della possibilità per i cittadini di conoscere il dibattito politico secondo regole democratiche[14], a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 si verifica lo spostamento della comunicazione politica nei programmi di intrattenimento, sottratti a qualsiasi vincolo regolamentare e controllati nelle conduzioni, così come i telegiornali, dalla lottizzazione partitocratica della Rai. Quando il legislatore completa il vuoto di regole per i programmi di informazione, l'applicazione della legge viene demandata a organismi di garanzia privi di adeguati poteri cogenti e comunque incapaci di assolvere le loro funzioni.
Alle elezioni del
Gli anni seguenti sono segnati dalla costante violazione della legge
28/2000[16],
in primo luogo attraverso regolamenti di attuazione volti a limitare l'accesso
alla televisione dei soggetti politici alternativi alle due coalizioni Polo e
Ulivo. Dal
14.3
Le questioni popolari cancellate dall’agenda
In questo regime dell’informazione, la principale preoccupazione è di negare ai cittadini la conoscenza e il dibattito politico e culturale su temi che possano mettere in difficoltà i poteri dominanti. Si ottiene questo attraverso il controllo dell'agenda televisiva, con le sue attualità ed i suoi approfondimenti. Da subito, ad esempio, viene sostanzialmente esclusa l'informazione sull'attività di organi costituzionali come la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura. Sono accuratamente sottratte alla conoscenza vicende quali i poteri del Presidente della Repubblica (dal potere di esternazione a quello di grazia), l'assenza di plenum della Corte costituzionale e dello stesso Parlamento.
Sulle grandi questioni
della politica italiana ed internazionale, sui temi popolari che toccano il
vissuto dei singoli, mai è consentito un vero confronto. Dal divorzio
all'aborto, dal finanziamento pubblico dei partiti alla giustizia, dal debito
pubblico ai codici penali, dalla legislazione sindacale a quella sul lavoro,
dalla fame nel mondo ai diritti umani, gli italiani non beneficiano mai di un
serio confronto tra proposte alternative, oltre che di una informazione
completa e imparziale. In questo modo, vicende fondamentali per la vita
democratica sono trattate come questioni private.
Si spiega così anche l'accanimento antireferendario, che vede la Rai in prima fila nel tentativo –riuscito - di sabotare alla radice lo strumento costituzionale di democrazia diretta. I referendum, infatti, oltre che “spaccare” la compattezza del sistema partitico, sono per loro natura predisposti al confronto di posizioni su temi concreti, favorendo il contraddittorio e la riflessione sui fatti. Il silenzio informativo e l'assenza di approfondimento garantiscono a volte il fallimento della raccolta firme, altre volte il mancato raggiungimento del quorum, altre ancora l'impunita vanificazione delle vittorie referendarie.[19]
Grazie al Centro d'ascolto dell'informazione radiotelevisiva, creato nel 1981 dal gruppo parlamentare radicale, per supplire alla mancanza di un servizio di monitoraggio pubblico dei programmi televisivi, che possa consentire un reale esercizio dei propri compiti alle istituzioni preposte al controllo e all’indirizzo della Rai, sin dai primi anni '80 sono prodotti studi statistici, incontestati, che dimostrano l' utilizzo della televisione a tal fine.
Nel primo Libro
bianco, il Centro d'ascolto analizza i radio e telegiornali Rai sotto il
profilo dello spazio dato ai diversi argomenti al centro dell’agenda politica e
istituzionale di quegli anni: i temi della fame nel mondo e del finanziamento
pubblico dei partiti appaiono marginali rispetto allo spazio dedicato ad avvenimenti
strettamente di partito come la Festa dell’amicizia e il Festival
dell’Unità. Alla fame nel mondo l’informazione Rai dedica un totale di
33 minuti, mentre al finanziamento pubblico dei partiti è riservato poco
più di un minuto, contro i 56 minuti dedicati al Festival
dell’Unità e l’ora e 48 minuti alla Festa dell’amicizia. In pratica,
l'informazione privilegia non la notizia, ma il partito.
Pochi anni
dopo, nel 1984, un secondo Libro bianco analizza il periodo di 9 mesi in cui si
svolge il processo nei confronti di Enzo Tortora, il presentatore che sceglie
di fare del suo caso un'occasione affinché il paese affronti uno dei suoi
problemi più endemici, la mala giustizia, e per questo è eletto
al Parlamento europeo, da cui si dimette per poter essere processato senza
l'immunità parlamentare. I dati mostrano come in quei nove mesi Tortora
sia stato intervistato una sola volta dal Tg1, per 38 secondi, in occasione
della sua deposizione in un aula di tribunale, e analogo trattamento viene
tenuto dalla Rai nei confronti degli esponenti del Partito che sta combattendo
la sua battaglia. Pochi anni dopo, in occasione del referendum radicale per una
“giustizia giusta”, il popolo italiano mostra di avere in grande considerazione
la questione, votando in massa per il “Sì”.
Il tema
giustizia è di fatto sempre cancellato dall'informazione e
dall'approfondimento politico della concessionaria di servizio pubblico anche
nei decenni successivi, nonostante l'inefficienza dei nostri tribunali e
l'incredibile numero di condanne internazionali subite dall'Italia per la
lunghezza dei processi.
Stesso
trattamento è riservato ai grandi successi italiani di politica
internazionale degli ultimi 15 anni: sull'istituzione del Tribunale
internazionale contro i crimini di guerra e contro l'umanità così
come sull'approvazione all’Onu della moratoria delle esecuzioni capitali (che
vedono l'Italia giocare un ruolo determinante), gli italiani hanno potuto a
malapena apprenderne la notizia[20].
Anche quando il Parlamento italiano si esprime con decisioni importanti e
uniche nel panorama mondiale - ad esempio in occasione del tentativo nel 2002
di scongiurare la guerra in Iraq attraverso una seria trattativa per l'esilio
di Saddam Hussein - il blocco Raiset sottrae letteralmente ogni possibilità
di conoscenza agli italiani e, di conseguenza, svuota la forza di quelle
proposte istituzionali e politiche.
Le tecniche di
predeterminazione dell'agenda politica attraverso il controllo dell'agenda
televisiva via via si perfezionano: quegli stessi temi che sono stati dapprima
esclusi dal pubblico dibattito al fine di soffocare le spinte di riforma
provenienti dalla società civile, sono dopo anni proposti solo quando si
compie il processo che può aprire la strada alla “controriforma”.
E’ il caso dei temi cosiddetti
bioetici, cioè sulle libertà individuali.
Nel 2001,
quando Luca Coscioni - un ricercatore universitario colpito dalla sclerosi
laterale amiotrofica - diviene dirigente radicale e capolista alle elezioni
politiche per dare corpo e parola all'idea di laicità della ricerca
scientifica e delle istituzioni, 50 premi Nobel (tra cui il fisico inglese
Stephen Hawking e lo scrittore Josè Saramago) e oltre 500 scienziati di
tutto il mondo sottoscrivono un appello a sostegno della sua candidatura. Pur
in presenza di uno sciopero della sete di Emma Bonino, dell'autoriduzione dei
farmaci dello stesso Coscioni e di interventi pubblici del Presidente della
Repubblica Ciampi e del Presidente del Consiglio Giuliano Amato, i temi della
ricerca scientifica, del rapporto tra Stato ed individuo in materia di vita e
di morte, sono completamente esclusi dai palinsesti televisivi di informazione
e di approfondimento, salvo essere trattati a senso unico e contrario pochi
giorni prima del voto su Rai 1, con 14 milioni di ascolto, nella trasmissione
di Adriano Celentano, senza diritto di replica.
Negli anni
successivi, a dispetto delle dichiarazioni dei due principali candidati premier
di allora, Berlusconi e Rutelli, che giudicano tali argomenti estranei al
confronto politico perché afferenti alle coscienze, proprio quei temi saranno
oggetto di importanti atti legislativi e di governo.
In assenza di
confronti televisivi, viene prima approvata la legge 40/2004 che vieta la
ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali e limita fortemente la
fecondazione assistita, poi sabotati i referendum abrogativi assicurando il
mancato raggiungimento del quorum.
Una situazione
analoga si ripete con la vicenda di Piergiorgio Welby, altro dirigente radicale
affetto da distrofia muscolare e militante per la legalizzazione del testamento
biologico e dell’eutanasia. Dopo che nell'inverno del 2006 la drammatica lotta
di Welby per una morte degna “buca” la cortina di silenzio eretta dalle
televisioni, gli italiani vengono letteralmente bombardati per due anni da
messaggi di contenuto proibizionista e fondamentalista, diffusi principalmente
dalla Rai. Nello stesso periodo la concessionaria pubblica riserva agli
interventi del Papa e delle gerarchie vaticane, nell'informazione e nei programmi
di intrattenimento, enormi spazi di presenza - addirittura superiori a quelli
dei partiti sommati insieme - con modalità che non hanno precedenti
nella storia italiana e persino negli stati islamici. Quando poi nel 2009
giunge a compimento un'altra storia che coinvolge gli italiani, quella di
Eluana Englaro, telegiornali e programmi di approfondimento di Rai e Mediaset
si mobilitano nel fornire una informazione scorretta e parziale, al fine di
preparare il terreno al decreto legge del Governo che impedisca al papà
di Eluana l'esercizio del diritto della figlia a rifiutare le terapie
riconosciuto dall'articolo 32 della Costituzione.
Un altro studio
del Centro d'ascolto, effettuato dopo le elezioni politiche del 2008, mostra le
modalità con cui la questione “sicurezza” - nonostante i dati del
Ministero dell'Interno certifichino una generale riduzione dei reati - diventi
una delle principali questioni elettorali in conseguenza di una abnorme
sovra-rappresentazione televisiva, nei due anni precedenti il voto, delle
notizie di cronaca nera, giudiziaria e di criminalità organizzata. Nei
telegiornali il tempo di esposizione di tali eventi è raddoppiato dal
10,4% del 2003 al 23,7% del 2007, divenendo spesso la notizia di apertura oltre
che l'argomento maggiormente trattato dalle testate giornalistiche. Le
innumerevoli puntate dedicate dai programmi di approfondimento contribuiscono
poi a far perdere la temporalità dell'evento e a rendere sempre attuali
gli episodi criminosi. Rarissimi invece sono i casi in cui la notizia riguarda
in termini positivi la riabilitazione di detenuti o una immagine positiva
dell'immigrato.
14.4
L’imposizione di protagonisti e antagonisti di Regime
L'operazione di indirizzo tematico del paese, del “di cosa si può parlare”, va perfezionandosi con l'imposizione mediatica dei protagonisti e degli antagonisti della vita politica.
La perimetrazione degli attori politici protagonisti – di volta in volta Dc e Pci, Polo e Ulivo, Pdl e Pd - è assicurata fino al 1976 con la formale esclusione delle forze non rappresentate in Parlamento e successivamente con la lottizzazione dei telegiornali e dei talk show, supportata dalle regolamentazioni fuorilegge della Commissione parlamentare di vigilanza e dalla oggettiva connivenza degli organismi di garanzia.
Nelle elezioni politiche del 2001, ad esempio, a fronte di cinque candidati premier, vanno in onda per oltre un mese comizi di un’ora ciascuno dei soli Berlusconi e Rutelli senza che siano presi provvedimenti efficaci per ripristinare la par condicio violata. Contemporaneamente, come documentato da una ricerca condotta dell’Università di Perugia, sono esclusi tutti i temi non funzionali alla contrapposizione tra questi due leader: l'unico tema che domina la campagna elettorale è “Berlusconi ed il conflitto di interessi”.
Gli anni seguenti sono caratterizzati dalla progressiva e tacita riserva degli spazi principali e delle interviste con le maggiori potenzialità di ascolto ai rappresentanti delle due coalizioni dominanti. Le analisi scientifiche sui telegiornali dimostrano che l'informazione televisiva privilegia non la notizia ma il partito, facendo del servizio pubblico uno strumento partitocratico di selezione dei temi e delle forze politiche ammesse al dibattito. Così determinati i protagonisti della vita politica, negli ultimi quindici anni il perfezionamento nel controllo del mezzo televisivo al fine di soffocare le spinte della società civile avviene tramite la promozione dell'antagonista ufficiale. Gli esempi più recenti sono quelli relativi a Rifondazione Comunista ed Italia dei Valori, o meglio, ai loro leader Fausto Bertinotti e Antonio Di Pietro. Tra il 2000 ed il 2005, infatti, Bertinotti è il politico più presente nella principale trasmissione di approfondimento politico della Rai, Porta a Porta: 68 volte (per una comparazione, Marco Pannella è presente 12 volte). Questa straordinaria presenza mediatica, sproporzionata anche rispetto al peso elettorale del suo partito è dunque necessariamente voluta. Per anni fornisce agli italiani l'indicazione dell'antagonista ufficiale, sottraendo spazio a forze politiche che agiscono come alternativa al sistema dei partiti. Qualcosa di analogo accade oggi con Antonio Di Pietro: basta rilevare che, successivamente alle elezioni politiche del 2008, Di Pietro è il leader politico più presente nelle tre principali trasmissioni della Rai, Ballarò (8 volte), Annozero (6 volte) e Porta a Porta (7 volte).
14.5 Il “genocidio politico e
culturale” del movimento radicale
Nei sessantanni di Repubblica, dunque, le condizioni generali della vita politica istituzionale rendono sempre più difficile il “conoscere per deliberare”, principio base della vita democratica. In particolare, il controllo dei mezzi di comunicazione, dei temi come dei soggetti ammessi, fa si che non vi sia spazio per un partito che voglia concorrere, come vuole la Costituzione, alla determinazione della politica nazionale esclusivamente con le proprie proposte ideali e programmatiche. Proprio per la sua capacità di incardinare lotte istituzionali e politiche sui temi più popolari del paese, ancorati al vissuto dei singoli, il Partito radicale è dapprima marginalizzato dalla radiotelevisione, poi leso nella sua immagine e identità e infine cancellato.
Lo attestano quarant'anni di provvedimenti e di riconoscimenti provenienti dai massimi organismi istituzionali, giurisdizionali, politici e culturali.
La prima competizione elettorale cui il Partito radicale partecipa nel 1976, è preceduta da una trasmissione ad esso riservata quale simbolica riparazione riconosciuta dallo stesso Direttore generale della Rai per gli anni di ingiusta e totale assenza dalla televisione.
Due anni prima, dopo essere stati protagonisti insieme con la Lid della battaglia popolare per ottenere la legge sul divorzio, venivano del tutto esclusi dalle tribune referendarie precedenti il voto. E’ Pier Paolo Pasolini a rompere il muro di silenzio che circonda l’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame di Marco Pannella[21], con un articolo sul Corriere della sera nel quale sostiene che il motivo per cui “il mondo del potere – Governo e opposizione – ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita un assassinio” è legato alla “sua prassi politica realistica. Infatti è il Partito radicale, la Lid (e il loro leader Marco Pannella) che sono i reali vincitori del referendum del 12 maggio. Ed è per l’appunto questo che non viene loro perdonato da nessuno”.
Nello stesso anno l'appello con cui i radicali convocano la prima marcia contro la Rai è sottoscritto da artisti ed intellettuali del calibro di Arrigo Benedetti, Alessandro Galante Garrone, Tinto Brass, Adriano Buzzati, Ignazio Silone, oltre a Pasolini.
Il 28 settembre del 1995, durante uno sciopero della sete di Marco Pannella di fronte al silenzio del sistema dell’informazione nei confronti della campagna referendaria in corso, ben 485 deputati e senatori sottoscrivono un appello al Presidente della Repubblica per denunciare che “è in corso un attentato ai diritti politici del cittadino” e per chiedergli di intervenire.[22]
Il 19 novembre del 1997, la Commissione
parlamentare di vigilanza, visionati i dati e “rilevata la pressoché totale
assenza dai dibattiti e dai confronti televisivi di temi sollevati con
molteplici iniziative dal Movimento dei Club Pannella e dai suoi leader”,
chiede alla Rai “di inserire tempestivamente nella programmazione televisiva
trasmissioni di dibattito e di confronto su quei temi”.
Di fronte ai dati di presenza addirittura peggiori
di quelli precedenti, la Commissione il 10 marzo 1998 dichiara che la Rai non
ha “ottemperato agli indirizzi della Commissione. Infatti, dall’approvazione
della risoluzione dello scorso 19 novembre, la Rai non ha programmato neppure
un dibattito televisivo sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla riforma
elettorale, ed ha fatto partecipare in modo saltuario gli esponenti della
‘Lista Pannella’ alla gran parte dei dibattiti dedicati al tema delle droga.”
Il 15 maggio del
Dal 1998 al
Questi comportamenti contra legem si verificano sia nei telegiornali che nei cosiddetti programmi di approfondimento e persino nelle tribune politiche, nei momenti decisivi dei periodi elettorali e con lunghe assenze nei periodi non elettorali.
Se si considera il triennio 2006-2008, il Tg1 è condannato cinque volte per comportamenti a danno dei Radicali, il Tg2 e il Tg3 quattro volte.[24] Le principali trasmissioni di approfondimento vedono invece Porta a Porta subire sette volte provvedimenti per il danno arrecato ai Radicali; Ballarò cinque volte; Primo Piano e Telecamere tre volte; i programmi di Santoro due volte.[25] Matrix, principale trasmissione di Mediaset, cinque volte.
Infine, l’intera programmazione informativa della Rai è oggetto di richiamo per squilibri nei confronti dei Radicali da parte dell’Autorità nel 1999, nel 2001 e nel 2006, da parte della Commissione parlamentare di vigilanza nel 1997, nel 1998, nel 2001, nel 2002 e nel 2007. Si tratta di un unicum nel panorama italiano e forse mondiale: non esiste infatti altro soggetto politico che possa in modo anche parziale avvicinarsi per numero, gravità, varietà e durata degli accertamenti di squilibri editoriali e violazioni degli obblighi di informazione. Parimenti, non esiste caso di leader politico che sia così marginalizzato come Marco Pannella, agli ultimi posti delle classifiche di presenza sia nei telegiornali che nelle trasmissioni di approfondimento, nonostante l'oggettiva straordinaria rilevanza della sua attività politica.
Nel marzo 2009, di fronte all'evidenza di questa strutturale e sistemica mancanza di apertura nei confronti della forza politica e culturale radicale, l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per la prima volta, contesta alla Rai, ai sensi dell'articolo 48 del Testo unico della radiotelevisione, l'inadempimento degli obblighi di servizio pubblico.
14.6 Il compiuto attentato ai diritti civili e politici
La radio prima e la televisione poi sono state asservite all’esigenza di circoscrivere gli argomenti ammessi alla pubblica conoscenza e di predeterminare i soggetti cui consentire l’accesso, con l’obiettivo di abolire l’agenda reale del paese ed imporre protagonisti ed antagonisti di regime.
Un obiettivo perseguito e raggiunto innanzitutto impedendo concorrenza e libertà di impresa, difendendo il monopolio pubblico della Rai ed il successivo monopolio privato di Mediaset anche contro le sentenze dei massimi organi giurisdizionali nazionali ed europei. Facendo del servizio pubblico il luogo di spartizione partitocratica, dapprima a uso esclusivo delle forze di governo e successivamente oggetto di scientifica lottizzazione da parte dei maggiori partiti.
Ogni qualvolta poi sono conquistate regole democratiche che assicurino ai cittadini informazione e conoscenza, esse sono sistematicamente violate nella certezza della totale impunità, garantita dal costante rifiuto all’esercizio dell’attività giurisdizionale da quella stessa magistratura che rappresenta da anni la ragione sostanziale della mancata tutela dell’onore e della reputazione in Italia.
Lo strutturale asservimento dei più popolari mezzi di comunicazione si è da subito legato con la forte limitazione del diritto alla libertà di espressione, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, realizzata con l’istituzione nel 1963 dell’Ordine dei giornalisti e subordinando la liceità di ogni pubblicazione all’iscrizione all’albo dei giornalisti del suo direttore responsabile (a questo proposito è tuttora in corso il processo a Pippo Maniaci, direttore della tv Telejato, combattuto dalla mafia e contestato dall’Ordine dei giornalisti perchè “non iscritto”). Una norma illiberale, che ha origine nel periodo fascista e non trova eguali negli altri stati democratici, sottoposta a referendum nel 1997 per iniziativa dei Radicali dopo che gli stessi hanno tentato di vanificarne gli effetti offrendosi come direttori responsabili delle principali testate dei movimenti extraparlamentari. La maggioranza dei votanti si esprime per l’abrogazione dell'Ordine dei giornalisti, ma dopo una campagna elettorale silenziata dal sistema dei media non è raggiunto il quorum.
Su tutto questo, sul sistema radiotelevisivo e sulle modalità con cui garantire la circolazione delle idee e rendere possibile la conoscenza, in 60 anni il paese non può mai avere un pubblico dibattito.
L’unica eccezione si ha nel
La funzionalità di tale assetto di potere a un sistema politico che per sopravvivere è costretto a violare la propria legalità, trova conferma nel fatto che su questo tema nessuna grande manifestazione è mai convocata da chi ne ha la possibilità effettiva. Solo il Partito radicale tenta di investire l’opinione pubblica del problema informazione, a partire dalla prima marcia contro la Rai che si tiene il 20 settembre 1974 e che porta alle dimissioni di Ettore Bernabei, il Direttore generale che ha governato per vent'anni la Rai a monocolore democristiano.
I pochi strumenti scientifici di monitoraggio della democrazia, del “quarto potere”, vengono ridotti all’impotenza dopo che per anni se ne era impedita l’esistenza. È il caso del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva, il primo e più autorevole centro di monitoraggio televisivo che, proprio in ragione della sua indipendenza ed autorevolezza scientifica, nel 2008 è stato privato dei contratti con l’amministrazione pubblica e costretto a interrompere le sue attività. Si elimina così persino la possibilità effettiva di conoscere la realtà del sistema radiotelevisivo.
L’interesse è impedire che ai cittadini italiani giunga una informazione completa e imparziale del reale dibattito politico, come quella ad esempio assicurata dal servizio pubblico di Radio Radicale, che dal 1976 porta nelle case degli italiani dibattiti che avvengono in Parlamento e nei congressi di partito.
Da decenni i Radicali agiscono come attivatori di legalità, dei diritti di libertà costituzionali, attraverso la conquista di regole e la lotta per il rispetto delle leggi vigenti.
Proprio per questo, sono l’unica forza politica che da cinquant’anni viene costantemente ostracizzata, diffamata, cancellata, nel timore che dando accesso ai Radicali si aprano spazi di conoscenza su argomenti scomodi al regime e potenzialmente generatori di aggregazioni politiche e sociali alternative.
GLI ULTIMI ANNI DEL REGIME
Dalla
marcia per l’amnistia alla cancellazione della Commissione di vigilanza, il
perfezionarsi della non-democrazia verso le prossime elezioni europee.
15.1 Sugli “obblighi
costituzionali inderogabili” e sulla partecipazione dei Radicali alle elezioni
europee
Per
ottenere condizioni simili a quelle che si sono determinate in vista delle cosiddette
“elezioni europee” del giugno ’09, in altri tempi sarebbe stato necessario far
ricorso ai “colonnelli”: tribune elettorali cancellate per un anno; cancellata
la Commissione parlamentare di vigilanza assieme a quelle funzioni
costituzionali di controllo ad essa attribuite. Lo stesso Presidente della
Repubblica, nell’estate 2008, era intervenuto per richiamare gli “obblighi
costituzionali inderogabili” che invece erano disattesi, ma anche il suo
intervento rimase completamente inascoltato.
Si preparano così elezioni europee prive di connotazioni democratiche nel senso tecnico, riservate e garantite unicamente alle diverse “gambe” del regime monopartitico e agli “oppositori” scelti come ufficiali. Per aiutare i massimi responsabili istituzionali a trovare soluzioni a questa situazione, i Radicali hanno fatto di tutto: scioperi della fame e della sete, occupazione di luoghi istituzionali, iniziative giudiziarie. La partecipazione della Lista Bonino-Pannella alle prossime elezioni è finalizzata ad approfittare anche di questa occasione per cercare di svelarne i suoi connotati sostanzialmente violenti e autoritari.
Di seguito, sono ripercorse alcune delle vicende degli ultimi anni attraverso le quali è possibili leggere l’aggravarsi delle condizioni di negazione dello Stato di diritto.
15.2 La marcia di Natale 2005 per
l’amnistia, la giustizia, la libertà. Perché nove milioni di processi
pendenti sono la più grande questione sociale del paese
(…) “Quello che di impressionante vi è da sottolineare immediatamente all'attenzione di tutti voi è la mole dei procedimenti pendenti, cioè, detto in termini più diretti, dell'arretrato o meglio ancora del debito giudiziario dello stato nei confronti dei cittadini: 5 milioni e 425 mila i procedimenti civili pendenti, 3 milioni e 262 mila quelli penali. Ma il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente, senza riuscire neppure ad eliminare un numero almeno pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema.” [Ministro della Giustizia Angelino Alfano, 27 gennaio 2009, aula della Camera dei deputati, relazione sull’amministrazione della giustizia]
La situazione delle carceri italiane è “fuori della Costituzione”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano intervenendo al convegno Rete Italia in corso a Riva del Garda. [ANSA 15 marzo 2009].
Basterebbero queste due dichiarazioni del Ministro in carica per comprendere che quella della “giustizia” è la più grande questione sociale del paese. Ma c’è dell’altro.
In un suo rapporto il Commissario per i diritti umani del Consiglio
d’Europa è sferzante: “Solo per il periodo che va dal gennaio
Quando si dice “in attesa”, significa che c’è chi quell’attesa la trascorre in carcere; e gli istituti di pena italiani sono tali nel senso letterale:
“La realtà penitenziaria continua ad essere caratterizzata dal preoccupante dato del crescente sovraffollamento delle strutture detentive. Gli effetti dell'indulto approvato dal Parlamento con legge 31 luglio del 2006, n. 241, si sono ben presto rivelati del tutto insufficienti e provvisori, se è vero che da un totale di 38 mila e 847 presenze registrato il 31 agosto del 2006 si è passati alle 43 mila e 957 del 30 giugno 2007, per giungere alle 52 mila e 613 del maggio 2008. La scorsa notte hanno dormito nelle nostre carceri 58 mila e 692 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 42 mila e 957 posti e di una cosiddetta di necessità di 63 mila e 443 posti: dati che indicano chiaramente come la crescita dell'andamento delle carcerazioni si stia rapidamente attestando sui livelli drammatici del periodo preindulto.” [Ministro della Giustizia Angelino Alfano, 27 gennaio 2009, aula della Camera dei deputati, relazione sull’amministrazione della giustizia]
All’inizio di marzo i detenuti nelle carceri italiane avevano raggiunto la cifra di 60.570 e, secondo l’associazione Antigone “a Napoli siamo addirittura a 2.700 detenuti per 1.300 posti: quello di Poggioreale è il carcere più affollato d’Europa. Lì come nel resto d’Italia l’effetto indulto è stato annullato da tempo e siamo tornati alla situazione di sempre.” [Corriere della Sera, 15 marzo 2009]
I rapporti ufficiali del Dipartimento per l’Amministrazione della Giustizia dicono che almeno la metà degli istituti penitenziari dovrebbero essere chiusi, luoghi di tortura più che di riabilitazione come la Costituzione prevede e prescrive: celle dove si ammassano il doppio dei detenuti previsti, condizioni igieniche e sanitarie da terzo mondo, assistenza insufficiente, personale ridotto che si trova a lavorare anch’esso in condizioni di estremo disagio. Un numero impressionante di suicidi e tentati suicidi, spesso di ragazzi che decidono di farla finita dopo pochi giorni di detenzione… Intanto nei tribunali i processi si trascinano, si accumulano; ogni anno cadono in prescrizione 140.000 processi penali: un’amnistia strisciante, continua, di classe: perché chi ha disponibilità economica e si può permettere un principe del foro che conosce tutte le scappatoie che la legge e i codici consentono, è in grado di trascinare il procedimento per mesi ed anni, fino a quando “per legge” si estingue. Il povero diavolo invece, paga subito. Per non dire dei “detenuti in attesa di giudizio”: persone che finiscono in carcere per un tempo imprecisato, e col tempo – ma con comodo – si scopre magari che sono vittime di un errore, di un’omonimia, di una suggestione; e dopo settimane e mesi di ingiusta detenzione sono scarcerati.
Questo quadro, per sommi capi, è quello che porta nel novembre
del 2005 Pannella – che già aveva condotto uno sciopero totale della
fame e della sete per sette giorni coincidenti con l’agonia e la morte di Papa
Giovanni Paolo II che fin dal
L’appello che costituisce la piattaforma dell’iniziativa politica chiede un indulto di almeno due anni, “che possa sgravare di un terzo il carico umano che soffre - in tutte le sue componenti, i detenuti, il personale amministrativo e di custodia - la condizione disastrosa delle prigioni”. Contestualmente si chiede un’amnistia, “la più ampia possibile; l’obiettivo è quello di ridurre di almeno un terzo il carico processuale della Amministrazione della Giustizia perché essa possa, liberata da processi meno gravi, proficuamente impegnarsi a concludere quelli più gravi”.
Tra le varie iniziative messe in campo, una “Marcia di Natale 2005 per l’amnistia, la giustizia, la libertà. Perché 9 milioni di processi pendenti sono la più grande questione sociale del paese”. E’ la prima volta che in Italia si manifesta, in queste forme “di massa”, per la Giustizia Giusta. Mai prima un grande partito o sindacato si era mai impegnato su questo tema. E anche dopo…
Giungono le prime adesioni, un arco di forze amplissimo, capeggiato dai senatori a vita Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Giorgio Napolitano.
Il 7 dicembre Pannella inizia uno sciopero della fame: “tre giorni di dialogo, di incoraggiamento e di amicizia”. Si rivolge in primo luogo al Presidente del Consiglio Romano Prodi, a Piero Fassino, leader dei Ds; e ai tre segretari di Cgil, Cisl e Uil, Guglielmo Epifani, Savino Pezzotta, Luigi Angeletti: “i responsabili della organizzazioni che in questi anni si sono specializzate nella convocazione delle grandi manifestazioni di massa”.
Qui conviene ripercorrere le tappe salienti dell’iniziativa pro-amnistia e pro-indulto.
Il 14 dicembre un comunicato firmato da Prodi, Fassino e Rutelli rompe il silenzio sulla questione amnistia: «L'Unione chiede alla maggioranza di governo di dare una risposta chiara ed inequivocabile».
Crescono le adesioni al comitato promotore della marcia. Ne fanno parte tra gli altri: don Antonio Mazzi, presidente della Fondazione Exodus; i senatori a vita Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Rita Levi Montalcini, Giorgio Napolitano, Sergio Pininfarina; i presidenti emeriti della Corte costituzionale Giuliano Vassalli e Antonio Baldassarre; don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, don Andrea Gallo, fondatore della Comunità San Benedetto al Porto di Genova, Mario Marazziti, portavoce della Comunità di Sant’Egidio…
Il 17 dicembre il parlamentare della Margherita Roberto Giachetti chiede la convocazione straordinaria della Camera. Il 22 dicembre Giachetti annuncia di aver raccolto il numero di firme necessario per la convocazione della seduta straordinaria.
La mattina del 25 dicembre la “Marcia per l’amnistia e la giustizia, la libertà”, aperta da don Mazzi e don Gallo, da Napolitano, Cossiga e Pannella, parte da Castel Sant’Angelo e transita poi davanti al carcere di Regina Coeli, al Senato, alla Camera dei Deputati, a Palazzo Chigi per poi concludersi di fronte al Quirinale.
Il 27 dicembre sono 136 i deputati che partecipano alla seduta straordinaria della Camera per dibattere di amnistia. La stragrande maggioranza di loro (93) aveva aderito alla richiesta di convocazione promossa dall’onorevole Giachetti e sottoscritta da 205 colleghi. La Camera non vota il provvedimento: il presidente dell'assemblea Casini incarica la Commissione giustizia di Montecitorio di riunirsi e discutere un testo su un provvedimento di clemenza per l'inizio di gennaio.
Il 13 gennaio 2006 la Camera dei deputati dice no al testo licenziato dalla Commissione giustizia per l'amnistia e l'indulto. Viene infine votato (con l’opposizione di Lega e An) un provvedimento di indulto che decongestiona temporaneamente le carceri sovraffollate; la proposta di amnistia, che avrebbe eliminato una quantità di procedimenti destinati comunque a finire prescritti consentendo ai magistrati di potersi dedicare ai reati più gravi e urgenti, in seguito a una furibonda campagna di stampa condotta dal centro-destra (ma anche, bisogna ricordarlo, con la complice ignavia del centro-sinistra) non viene mai votata.
Il provvedimento, monco, consente benefici limitati e temporanei. Al provvedimento di indulto non fa seguito alcuna politica tesa al reinserimento nella società del detenuto liberato; cosicché si creano tutti i presupposti perché torni a delinquere e ritorni in carcere. Ora la situazione della giustizia è tornata ad essere quella in cui versava prima dell’indulto: carceri sovraffollate, oltre sessantamila detenuti, ventimila in più di quelli che gli istituti di pena sono in grado di “ospitare”, la metà circa in attesa di giudizio. L’ex ministro della giustizia Clemente Mastella, recentemente intervistato, ha ricordato che l’indulto era stato voluto da tutti, e che sarebbe stato necessario anche un provvedimento di amnistia. Ma oggi come ieri si preferisce l’amnistia strisciante, quotidiana e di classe per prescrizione, fenomeno che lascia completamente indifferenti chi allora, in nome di un malinteso senso di giustizia, si oppose all’iniziativa radicale. Un’amnistia all’italiana insomma, che si verifica nei fatti e di cui nessuno si assume la responsabilità politica.
15.3 Il “Porcellum” del 21 dicembre 2005
La legge del 21 dicembre 2005 n.270 introduce un sistema per l’elezione della Camera dei deputati di tipo interamente proporzionale, con l’eventuale attribuzione di un premio di maggioranza in ambito nazionale che sostituisce quello misto, precedentemente in vigore.
I deputati sono eletti in proporzione ai voti ottenuti dalle liste concorrenti presentate nelle 26 circoscrizioni (un deputato viene eletto con metodo maggioritario nel collegio uninominale della Valle d’Aosta). La legge prevede che i partiti che intendono presentare liste di candidati possono collegarsi tra loro in coalizioni; i partiti che si candidano a governare, inoltre, depositano il loro programma e indicano il nome del loro leader. Quanto alle modalità di votazione, l’elettore può esprimere un solo voto per la lista prescelta; non è inoltre previsto alcun voto di preferenza.
Tecnicamente è una legge proporzionale con il premio di maggioranza, garantisce cioè una governabilità certa almeno alla Camera, sommando però tre sistemi di elezione molto diversi tra loro: uno per la Camera dei deputati, un altro per il Senato della Repubblica, un altro ancora per gli italiani all'estero.
La legge, che è la pietra tombale al sistema elettorale maggioritario, voluto dagli elettori con un referendum nel 1993, contiene una clausola grazie alla quale, di fatto, tutti i partiti sono liberati dall’onere di raccogliere le firme, al contrario di quanto avveniva con la legge precedente; tutti tranne uno: la Rosa nel Pugno, la forza politica nata dall'unione tra Radicali e Socialisti. Questo nonostante lo Sdi, uno dei due soggetti costituenti, disponga di ben diciassette parlamentari nazionali e di quattro al Parlamento europeo e i radicali dispongano di due parlamentari europei;.
I Radicali e i Socialisti della Rosa nel Pugno sono così costretti a raccogliere 180mila firme in tutta Italia, e la raccolta di firme deve essere fatta sulle liste dei candidati; il che significa dover presentare i propri candidati quasi un mese prima rispetto agli altri partiti, per poter poi raccogliere le firme sulle liste chiuse. Una disparità, che pregiudica la stessa effettiva “legittimità del voto”. Gli avversari politici esentati dalla raccolta firme possono infatti definire le loro liste anche all’ultimo momento, e conoscere in anticipo chi sarà il candidato di quelle liste obbligate alla raccolta di sottoscrizioni; hanno così la possibilità di scegliere i candidati più appropriati da opporre nei diversi collegi.
Il Senato respinge tutti gli emendamenti migliorativi al decreto: quelli sulla raccolta delle firme per la presentazione del simbolo; e quelli che propongono di raccogliere le firme solo sul simbolo e non anche sui candidati. Camera e Senato inoltre respingono la mozione che chiede al Governo un nuovo decreto o, almeno, un’interpretazione autentica della norma sulle modalità di presentazione delle liste, per eliminare la discriminazione ai danni della Rosa nel Pugno. Il Governo si dichiara contrario a entrambe le richieste. La mozione è respinta con soli 11 voti di scarto.
15.4 Elezioni politiche 2006 –
dall’applicazione all’interpretazione della legge: 8 senatori nominati al posto
di quelli legittimamente eletti
Nel corso delle elezioni del 2006 per il rinnovo del Senato quattro uffici elettorali regionali - Piemonte, Lazio, Campania e Puglia - decidono di interpretare la legge elettorale applicando una inesistente soglia del 3%; alterando il risultato elettorale e nominando 8 senatori al posto di quelli legittimamente eletti.
Il ministro degli interni pro tempore Giuliano Amato, in Parlamento riferisce: “Il Ministero degli Interni...non ha emanato alcuna direttiva o istruzione o documento interpretativo della legge elettorale; ha semplicemente assolto ad un compito - che ha di fatto perché nessuna legge glielo attribuisce - che è quello della predisposizione del modello di verbale per gli uffici elettorali regionali che per tradizione viene fatto dal Ministero degli Interni così come, per tradizione, il Ministero degli Interni comunica oralmente i risultati delle elezioni accertati in via provvisoria e che provvisori rimangono perché poi i risultati veri delle elezioni sono quelli che vengono forniti dagli uffici regionali e, nel caso della Camera, dall’Ufficio Circoscrizionale Centrale. Ora, è vero peraltro che il modulo predisposto dal Ministero degli Interni era costruito in modo da presupporre l’interpretazione della legge elettorale alla quale Lei ha fatto riferimento e che Lei non condivide. Questa interpretazione del resto il Ministero l’ha enunciata in vario modo ma non attraverso una direttiva ed è un’interpretazione in base alla “ratio” complessiva della legge che l’ha portato a ritenere in via analogica applicabile anche al Senato il riferimento alle sole liste che avessero superato lo sbarramento anche nel caso di conseguimento del premio di maggioranza. Questi sono i fatti. Se vuole sapere la mia opinione, è anche possibile che se io fossi stato allora Ministro degli Interni avrei discusso con l’Amministrazione questa interpretazione perché personalmente tendo a ritenere che l’applicazione analogica in questa materia sia molto opinabile quando si risolva in limiti a diritti politici fondamentali e qui un limite all’elettorato passivo ha finito per essere imposto per interpretazione analogica in una situazione nella quale un emendamento noto del Senatore Mancino al Senato per specificarlo era stato respinto. Sappiamo che era stato respinto per evitare che la legge tornasse alla Camera, ma era stato respinto e questo sull’interpretazione pesa.”
La Giunta delle elezioni del Senato per tutta la durata della procedura si muove all’unanimità, ad eccezione del senatore Manzione, che il 5 luglio è nominato relatore per la Regione Piemonte.
L’11 ottobre, relazionando alla Giunta, Manzione propone di costituire un Comitato inquirente, incaricato di svolgere alcuni adempimenti istruttori. In sette sedute svoltesi tra novembre e dicembre 2006, tali adempimenti si sono articolati nelle audizioni dei professori Giuliano Vassalli, Fulco Lanchester, Mario Patrono, Massimo Luciani, Antonio Agosta e Stefano Ceccanti, nonché nell’audizione del presidente dell’Ufficio elettorale regionale del Piemonte, dottor Quaini, e del segretario responsabile, signora Ruscazio.
Il 6 dicembre la Giunta decide di procedere alla revisione totale delle schede nulle, bianche e contenenti voti nulli o contestati, di alcune circoscrizioni regionali riservandosi, nel caso si rivelino scostamenti significativi rispetto ai dati di proclamazione, di estendere la procedura di revisione delle schede anche alle altre regioni. Decisione presa in violazione del capo III del Regolamento per la verifica dei poteri secondo cui tutta l'attività istruttoria della Giunta è imperniata sulle proposte formulate per ciascuna regione dal relatore all'esito dell'esame da parte dello stesso di tutta la documentazione elettorale concernente la regione medesima.
Il 6 marzo 2007 la Giunta delle elezioni estende la revisione alle schede valide. Un ulteriore provvedimento per rinviare sine die la trattazione dei ricorsi, anche quando attengono ad una regione - il Piemonte - non inclusa nelle attività di revisione delle schede, già pronta per l’esame, il cui relatore ha già depositato le sue conclusioni.
Il 21 gennaio
Convalida contro la quale non è stato possibile ricorrere alla Cassazione - come accade per la Camera dei deputati - in quanto nella precedente legislatura questo diritto previsto dal regolamento della Giunta del Senato è stato cancellato dalla maggioranza parlamentare. La truffa si è consumata: otto senatori regolarmente eletti non vengono nominati. Al loro posto, altrettanti abusivi.
15.5 La Commissione di vigilanza Rai nella
XV legislatura e il Centro d’Ascolto dell’informazione radiotelevisiva
Il 14 novembre 2006 la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi approva all’unanimità una risoluzione che impone alla Rai di trasmettere alla Commissione periodicamente tutti i dati di monitoraggio politico, sociale e tematico relativo alle trasmissioni Rai nazionali, regionali, televisive e radiofoniche.
Il provvedimento intende colmare una lacuna storica: la Commissione parlamentare non è materialmente in grado di svolgere i suoi compiti istituzionali non avendo a disposizione i dati del monitoraggio televisivo Rai. La risoluzione tuttavia non ottiene alcuna concreta applicazione: perché vengono forniti solo dati parziali, con grave ritardo e discontinuità. Nonostante ciò l’Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) non adotta alcun provvedimento per assicurare l’ottemperanza alla delibera.
Nel frattempo non viene rinnovato il contratto tra Rai-tv e Centro di
Ascolto dell’informazione radiotelevisiva radicale, che si vede costretto prima
a ridurre la sua attività, e, nel luglio del
Il Centro di Ascolto è la prima società italiana di monitoraggio televisivo; era già stato escluso dal servizio di fornitura in esclusiva all’Agcom dei dati del monitoraggio che aveva assicurato sin dall’inizio dei lavori dell’Autorità. Non sono così più disponibili i dati periodici del monitoraggio che solo il Centro di Ascolto forniva, mentre l’Agcom, assegnato il monitoraggio ad altra società tramite procedura di evidenza pubblica, li rende disponibili sul proprio sito con ritardi di mesi e mesi, rendendo così quasi impossibile l’esercizio dell’attività di denuncia dei soggetti interessati per violazione della par condicio.
Un rapido sguardo alla situazione chiarisce la funzione essenziale di controllo del Centro d’Ascolto, i dati raccolti “descrivono” la situazione di sostanziale e formale illegalità e la violazione della funzione di servizio pubblico (e, se si vuole, anche le ragioni che hanno portato alla sua morte).
Nel 2006, le tre testate dei telegiornali Rai, nelle loro edizioni
principali, relegano gli esponenti della Rosa nel Pugno all’11° posto in
termini di contatti raggiunti, dopo Forza Italia, Alleanza Nazionale, L’Unione,
L’Ulivo, i Democratici di Sinistra, l’Udc, la Margherita, Rifondazione
Comunista, Lega e Verdi, con 374 interventi in totale per 1h
L’esponente della Rosa nel Pugno maggiormente intervistato dalle tre testate Rai nel loro complesso è Enrico Boselli, al 20° posto nella classifica per contatti raggiunti del tempo di parola degli esponenti politici. Gli interventi sono 149 per un totale di 42’08’’ distribuiti in 76 giorni su 364 e 570 milioni di contatti.
Ad Emma Bonino, al 45° posto, sono concessi 17’25’’ in 57 interventi (quasi tre volte in meno il tempo dedicato a Boselli) in 35 giorni su 364 dell’anno, potendo contattare meno della metà di spettatori di Enrico Boselli (260 milioni contro i 570). Marco Pannella, con 54 interventi, è al 47° posto avendo 233 milioni di contatti nei 20’24’’ di interventi in voce in 25 giorni dell’anno.
15.6 Il caso della Commissione di vigilanza
sulla Rai nella XVI legislatura
Il Parlamento della XVI legislatura si insedia il 29 aprile 2008.
Il 4 giugno i Presidenti di Camera e Senato su indicazione dei gruppi parlamentari nominano i componenti della “Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi”.
Dalla settimana successiva, la Commissione è impedita a svolgere il suo lavoro per l’impossibilità di eleggere il suo presidente; le votazioni sono annullate per la sistematica assenza del numero legale: la maggioranza non concorda sull’indicazione del candidato indicato delle opposizioni, Leoluca Orlando; l’opposizione non è disposta a mutare candidato. Una situazione che si protrae per molti mesi.
L’insediamento della Commissione è un atto costituzionalmente obbligato. I Radicali, a partire dal 23 luglio, danno vita ad azioni nonviolente per chiedere che sia finalmente insediato l’Ufficio di presidenza della Commissione; contestualmente si chiede che finalmente sia eletto il giudice della Corte costituzionale mancante da oltre 15 mesi. L’aula della Commissione di vigilanza è occupata dai parlamentari radicali per nove giorni. L’azione viene sospesa quando i Presidenti di Senato e Camera si impegnano formalmente per convocazioni “finalizzate all’adempimento di obblighi costituzionali...ad oltranza” sino a voto utile.
A settembre si registra un nuovo impasse sempre sul nome del Presidente della Commissione, e senza che i Presidenti delle Camere mantengano l’impegno di convocazioni ad oltranza; per far cessare tutto ciò, Pannella inizia uno sciopero della fame e della sete, accompagnato dallo sciopero della fame di circa 250 fra dirigenti, militanti, parlamentari radicali e non. Inoltre per otto giorni i parlamentari radicali occupano un corridoio di Palazzo S. Macuto, sede della Vigilanza. Il 3 ottobre, il Presidente della Repubblica Napolitano, definisce l’elezione del giudice della Corte costituzionale da parte del Parlamento e l’insediamento della Commissione di vigilanza, “inderogabili doveri costituzionali da adempiere”. Ben 530 parlamentari sottoscrivono la richiesta di convocazioni ad oltranza sino all’espletamento degli obblighi costituzionali, e il 20 ottobre i parlamentari radicali occupano l’aula della Camera dei deputati.
Il 21 ottobre, con un ritardo di circa 18 mesi, viene eletto il giudice della Corte costituzionale; e il 13 novembre la sola maggioranza elegge presidente della Vigilanza il senatore del Pd Riccardo Villari. Qualche giorno dopo si completa l’Ufficio di presidenza, la Commissione è dunque finalmente insediata. Inizia così un’altra sconcertante vicenda che bloccherà ancora i lavori della Commissione: dopo appena due giorni dall’elezione di Villari, maggioranza e opposizione comunicano di aver raggiunto un accordo: affidare la presidenza della Commissione al senatore Sergio Zavoli, e chiedono a Villari di dimettersi; Villari rifiuta, non sussiste alcuno strumento giuridico per farlo dimettere. Solo i Radicali e il commissario del Movimento per l’Autonomia si oppongono a questa ulteriore illegalità. La Commissione, con la sola presenza dei membri di maggioranza e di quello radicale di opposizione, adotta con ritardo il regolamento della par condicio Rai per le elezioni amministrative in Abruzzo (soltanto 15 gg. prima del voto, oltre un mese e mezzo sulla data obbligatoria fissata dalla legge 28/2000), mentre non viene adottato alcun regolamento per le elezioni nelle Province autonome di Trento e Bolzano, perché la Commissione non viene insediata in tempo.
Il 4 dicembre Villari è espulso dal Pd. Il Presidente del Senato Schifani annuncia l’inizio di una inedita procedura di revoca di Villari da componente della Commissione, presso la Giunta del Regolamento del Senato, procedura la cui fondatezza è contestata dai più importanti costituzionalisti italiani.
Entro il 31 dicembre la Commissione deve approvare anche il regolamento per la par condicio per le elezioni regionali in Sardegna, adempimento disatteso quando a gennaio la presidenza dei gruppi parlamentari di maggioranza comunica l’intenzione di non partecipare più ai lavori della commissione sino alle dimissioni di Villari; manca così il numero legale.
Il 15 gennaio 2009 Pannella inizia uno sciopero della fame e della sete per chiedere che la Commissione di vigilanza possa infine funzionare ed adempiere agli atti obbligati ormai in ritardo da 10 mesi; contemporaneamente Marco Beltrandi torna ad occupare la sede della Commissione, e inizia uno sciopero della fame. La mattina del 16 gennaio Marco Pannella deposita una denuncia che ha ad oggetto la situazione in cui versa la Commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi, i cui lavori vengono preordinatamene disertati dai parlamentari (Beltrandi e Sardelli esclusi) al fine di costringere il presidente regolarmente eletto a dimettersi. Nella denuncia si ipotizzano alternativamente i reati di cui agli artt. 289 c.p. (attentato contro gli organi costituzionali dello Stato e contro le assemblee legislative) e 340 c.p. (interruzione di un pubblico ufficio o servizio). Il 19 gennaio maggioranza e opposizione, tranne il componente radicale e il Presidente Villari, si dimettono dalla Commissione, e il 21 gennaio, con una inaudita decisione dei presidenti di Senato e Camera, l’intera Commissione di vigilanza viene sciolta. L’obiettivo è estromettere il solo Villari dalla presidenza e dalla Commissione; tutti gli altri componenti, infatti, sono confermati. Si verifica così un fatto paradossale: il presidente che vuole far funzionare la Commissione è cacciato; chi, al contrario, ha la responsabilità di aver paralizzato i lavori della Commissione, è riconfermato.
Eletto Sergio Zavoli Presidente della Commissione, e nuovamente insediato l’Ufficio di presidenza, neppure a questo punto vengono messi all’ordine del giorno gli atti obbligati che non si compiono da molti mesi, con l’eccezione dell’approvazione del regolamento sulla par condicio per le elezioni sarde (che viene adottato solo 10 giorni prima del voto, a campagna televisiva già compromessa a vantaggio evidente di un solo candidato, con un ritardo di oltre un mese). Zavoli convoca la Commissione per la sola elezione dei membri del Cda Rai, peraltro impedendo ogni attività istruttoria o dibattito preventivo della Commissione. L’11 marzo l'Ufficio di presidenza della Commissione impegna la Commissione ad adempiere gli atti obbligati, anche a seguito dell'ennesima iniziativa nonviolenta dei radicali: tuttavia con vari pretesti le forze politiche, con la complicità attiva del presidente Zavoli, rinviano l'esame dei provvedimenti. Si arriva alla seduta dell'8 aprile, quando si constata che le tribune in periodo non elettorale non si possono più fare perché ai sensi della legge 28/2000 i termini sono scaduti. E’ così provato che le elites che controllano i due maggiori partiti italiani hanno fattivamente e continuativamente operato proprio per impedire il funzionamento della Commissione, con la complicità dei Presidenti delle Camere, e il silenzio del Presidente della Repubblica.
PERCHÉ LA
RESISTENZA PUÒ ANCORA VINCERE
A vedere la televisione, i
talk show di Bruno Vespa, l’inflazione di trasmissioni religiose, i discorsi
del Papa puntualmente rilanciati da tutti i telegiornali, ma anche i salotti
televisivi di Floris, di Santoro, di Matrix, di Primo Piano, si direbbe che in
Italia viga su questioni particolarmente delicate che riguardano la vita di
tutti o che investono l’ordinamento e il funzionamento del sistema politico, un
pensiero se non proprio unico come negli stati teocratici e negli stati
formalmente totalitari, almeno nettamente prevalente contrastato da una isolata
minoranza che tenta inutilmente di opporvisi. E’ questa l’immagine del paese
che i media trasmettono ogni giorno e che riflette su tali questioni le scelte
del Parlamento e gli orientamenti delle forze politiche, di centro destra come
di centro sinistra. Ma è davvero così? I referendum e i sondaggi
ci raccontano un’altra storia.
16.1 Dal 1974 la storia
raccontata attraverso i referendum: l’altra faccia del paese
Quando nel 1974 il referendum abrogativo del divorzio, promosso dalla Chiesa, riesce a giungere al voto, il 60% degli elettori dice No alla abrogazione della legge Fortuna e, secondo le ricerche demoscopiche, tra di essi una cospicua parte di elettori democristiani e missini che si dissociano dalle scelte e dalle indicazioni dei loro partiti. Grande è la sorpresa dei partiti laici e del partito comunista, convinti che di andare incontro a una sconfitta o a una vittoria di stretta misura. Sette anni più tardi un’analoga richiesta di abrogazione della legge 194 sulla legalizzazione dell’aborto viene bocciata da una maggioranza del 70% di elettori.
Si dice: “ma si trattava di diritti civili ed era in atto in quegli anni un grande cambiamento dei costumi, la politica però è un’altra cosa”. Eppure anche sulla politica, sul fondamento stesso della politica – l’organizzazione dei partiti, i metodi di selezione della classe dirigente, la legge elettorale – i risultati sono ugualmente dissonanti rispetto alle volontà prevalenti dei partiti. Nel 1978 il referendum abrogativo del finanziamento pubblico, promosso dai radicali che rappresentano un misero 1% dell’elettorato, ottiene il consenso del 43,6% dei votanti, nonostante la legge venga difesa da uno schieramento, dal Msi al Pci, che rappresenta in Parlamento il 99% degli elettori. Ma anche sulla legge Reale, la prima delle leggi speciali sull’ordine pubblico, i favorevoli alla abrogazione sono quasi un quarto dei votanti.
Non si tratta solo del frutto di una temporanea e breve stagione politica. Quando quasi un quindicennio dopo, nel 1993, si torna a votare in condizioni di maggiore informazione sul finanziamento pubblico, a favore dell’abrogazione si esprime oltre il 90% degli elettori sul 77% dei votanti. Risultati non meno clamorosi ottiene il referendum che abroga il meccanismo proporzionale nella legge elettorale del Senato e dovrebbe aprire la strada all’ uninominale (82,7% di favorevoli). Una schiacciante maggioranza sceglie un diverso tipo di organizzazione e di finanziamento dei partiti politici e si dichiara a favore di un sistema elettorale di tipo anglosassone. Risultati ugualmente netti e consistenti hanno nello stesso anno i referendum per l’abolizione dei ministeri delle Partecipazioni statali (crocevia dei rapporti fra partiti e imprese pubbliche e strumento di intervento dello Stato nell’economia), dell’Agricoltura e del Turismo (competenze che la Costituzione assegna alle Regioni), il referendum abrogativo delle nomine governative nei consigli di amministrazione delle banche, l’abrogazione delle parti peggiori della legge sulle tossicodipendenze. Ancora due anni dopo, tre referendum riformatori sono vinti: sul soggiorno cautelare (63,7% di sì) sulla privatizzazione della Rai (54,9) per l’abolizione della ritenuta automatica delle trattenute sindacali su salari e stipendi (56,2); uno sull’abrogazione del secondo turno nella legge elettorale per l’elezione dei Sindaci è perso per poche centinaia di migliaia di voti (49,4 contro 50,6%), altri due ottengono il consenso di minoranze superiori al 30% (licenze commerciali e orari dei negozi).
16.2 L’annullamento dei referendum
attraverso gli appelli all’astensione
Da allora praticamente tutti i referendum sono stati vanificati dagli appelli all’astensione. Da metà degli anni ’90 gli oppositori delle richieste di abrogazione preferiscono bloccarli con l’astensionismo (sommando le astensioni indotte dai loro appelli all’astensionismo fisiologico) anziché battersi a viso aperto per farli respingere con il voto. Solo nel ‘99 sul referendum che abroga la quota proporzionale della legge elettorale si è perso il quorum per un soffio, perché il governo non ha provveduto a ripulire le liste elettorali, soprattutto tra gli italiani all’estero, ma anche dei morti e dei non più residenti che ancora le affollavano: in quella occasione si recano alle urne il 49,6% degli elettori, oltre 24 milioni 477 mila su un totale di 49 milioni 309 mila e di questi vota a favore il 94,6%. In quel caso l’appello astensionistico viene lanciato dalla Lega Nord per interessi comprensibili, oltre che da Rifondazione comunista e dagli altri partiti minori (verdi, socialisti, Mastella, Udc) tutti interessati al mantenimento del proporzionale (con quanta miopia lo dimostrerà poi l’introduzione della soglia di sbarramento del 4%).
Un appello analogo viene promosso invece l’anno dopo da Berlusconi, che li definisce “referendum comunisti”: riguardano di nuovo l’abolizione della quota proporzionale della legge elettorale della Camera, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti sotto la nuova truffaldina forma di rimborso elettorale, ma anche temi come la disciplina dei licenziamenti, la separazione delle carriere e il divieto di incarichi extragiudiziari dei magistrati, tutte proposte che, a parole, facevano parte del suo programma di governo: Su tutti questi temi, se si esclude la disciplina dei licenziamenti, i referendum ottengono vaste maggioranze di votanti fra coloro (oltre il 35% dell’elettorato) che si recano alle urne.
16.3 La scandalosa campagna della Chiesa
sulla legge 40
La campagna astensionistica più grave e scandalosa è anche la più recente: quella promossa dalla Chiesa, in aperto contrasto con le norme elettorali che espressamente vietano gli appelli all’astensione da parte dei ministri del culto, contro i referendum abrogativi riguardanti la legge 40 del 2004 sulla fecondazione assistita. La Chiesa italiana ne ha fatto il cavallo di battaglia per conseguire un ulteriore e più stretto condizionamento della politica e del Parlamento. Inoltre, contrabbandando l’astensione come una esplicita bocciatura dei referendum, ne ha fatto lo strumento di una rivincita culturale del clericalismo nei confronti della laicità dello Stato. In realtà il forte astensionismo è il prodotto di diversi fattori: la complicazione e la difficile comprensione dei quesiti rimasti in vita, dopo che era stato dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale il referendum abrogativo dell’intera legge; la cattiva informazione, scarsa e manipolata; una campagna intimidatoria e menzognera di carattere pseudoscientifico, contro la quale i migliori scienziati devono continuamente cimentarsi; la sistematica depoliticizzazione del dibattito purtroppo subita e non sufficientemente contrastata da una parte dello schieramento referendario. Se la Chiesa fosse stata così convinta di poter sconfiggere l’opinione pubblica laica, avrebbe scelto la strada della chiara opposizione alla richiesta di abrogazione referendaria. Se così avesse fatto, si sarebbero confrontate lealmente due forze ugualmente motivate e ugualmente intense: con ogni probabilità le posizioni laiche sarebbero uscite nettamente vincitrici.
16.4 Dai sondaggi un’Italia laica e non in
sintonia con i partiti
Se davvero le cose stessero come pretende di presentarle il pensiero – come chiamarlo? unico? dominante? – che la Chiesa, gran parte della classe politica, l’intera informazione televisiva, molte testate giornalistiche tendono ad accreditare, non solo non si spiegherebbero questi risultati referendari (anche quelli nei quali non è stato raggiunto il quorum), ma non si spiegherebbe neppure il responso univoco che da quasi quaranta anni danno tutti i sondaggi, condotti dalle più diverse e accreditate società demoscopiche. L’andamento di queste risposte, costante nel tempo, dimostra che la società italiana è, nei suoi valori e nei suoi orientamenti di fondo, niente affatto in sintonia con la Chiesa per quanto riguarda i diritti civili e le questioni cosiddette etiche e con i partiti sulle grandi scelte istituzionali e politiche. Al contrario, se una sintonia c’è e si mantiene intatta con il trascorrere del tempo, è proprio con coloro come i radicali che si oppongono a questa immagine artefatta della società italiana e sono per questo oscurati e messi a tacere.
Il caso più significativo è quello dei sondaggi sull’eutanasia, un’ipotesi condannata dalla Chiesa alla stregua di un omicidio e che l’intera classe politica senza eccezioni considera inattuale ed esclude tassativamente di prendere in considerazione nell’agenda politica. I sondaggi registrano puntualmente, in un ragguardevole lasso di tempo, maggioranze favorevoli a un legge sull’eutanasia.[26] Percentuali assai più alte si sono registrate sul caso Welby e anche sul caso Englaro nonostante la campagna criminalizzante negli ultimi giorni di Eluana e l’intervento del governo nella questione. Ugualmente nette le maggioranze persistenti degli intervistati che si dichiarano favorevoli all’aborto. Ma anche sulla procreazioni assistita, sulla quale si è svolto da poco un referendum che non ha raggiunto il quorum, si registrano percentuali favorevoli a riprendere in considerazione la legge[27].
Peraltro
questi orientamenti coinvolgono almeno in parte la comunità dei
cattolici praticanti. Lo stesso Pontefice ha dovuto recentemente lamentare la
dissociazione esistente la comunità dei fedeli e i dettami della Chiesa
di Roma, nei comportamenti riguardanti la moralità sessuale (in
particolare per quanto riguarda divorzio e uso dei contraccettivi) [28].
Quando sono interpellati sulla riforma dello Stato e dell’economia, sulla liberalizzazione del mercato del lavoro, sui partiti o sui sindacati, il che accade per la verità meno spesso di quanto non avvenga sui temi cosiddetti etici, gli italiani mostrano di avere idee abbastanza chiare sul tipo di Stato che vorrebbero e appaiono molto meno conservatori nei confronti del sistema esistente, di quanto sia la “classe” che pretende di rappresentarli, e anche in questo caso consonanti con chi propone riforme radicali[29].
Hanno dunque torto quei politici, quei costituzionalisti, quei politologi che attribuiscono alla scarsa o nulla cultura democratica degli italiani la crisi del nostro sistema politico. Le poche volte che il popolo italiano è stato investito di un reale confronto democratico, ha dimostrato di esserne all’altezza e di saper compiere scelte democratiche, liberali, riformatrici. Da tempo questo non è più possibile. Non è il popolo a essere poco democratico, è la partitocrazia che soffoca e impedisce l’esercizio della democrazia, sostituito con compromessi di potere cui corrispondono contrapposizioni fittizie che allontanano e precludono all’agenda politica i temi che riguardano la vita del diritto e il diritto alla vita.
CAMPAGNE ELETTORALI
RADICALI: “CERTIFICATI BRUCIATI”, “SCIOPERO DEL VOTO”, “VOTA EMMA”, “SATYAGRAHA
Campagne
elettorali radicali diversissime, che molti “osservatori” definirebbero opposte
nelle forme e nei contenuti, rappresentano in realtà il tentativo di
rispondere a un unico problema: l’affermazione del diritto a conoscere per
deliberare.
1972 e 1983: dal bruciare i
certificati elettorali allo sciopero del voto
Dopo
aver già bruciato le schede nel 1972, affrontando per questo denunce e
processi, alle elezioni politiche del 1983 il Partito radicale decide di
praticare l’”astensionismo votante”. Questa strategia deriva dalla
consapevolezza che “ogni residuo diritto politico e costituzionale è
stato ulteriormente sequestrato riservandone l'esercizio solamente alle forze
politiche che abbiano depositato liste elettorali” e dunque, la presentazione
delle liste elettorali si rende indispensabile “quale strumento
tecnico-politico pregiudizialmente necessario” per garantire il proseguimento
dell'azione antipartitocratica, e informare il maggior numero di cittadini.
Viene
adottata così una forma di “sciopero del voto”, che si concretizza come
un “boicottaggio nonviolento” delle elezioni, la cui pratica è
chiaramente espressa nel volantino che il Pr distribuisce in campagna
elettorale, ove si legge: “Il nostro
primo impegno è di ottenere che il massimo numero di cittadini neghi a
queste elezioni dignità e legittimità democratiche, con
comportamenti capaci di costringere i partiti a cambiare politica: “scheda
nulla, scheda bianca, astensione”. Anche noi faremo così: annulleremo le
nostre schede, scriveremo su di esse i nostri programmi, le firmeremo perché
siano riconoscibili”. Lo stesso volantino cita una “doppia diga” contro la
partitocrazia e infatti agli elettori si propone anche una seconda opzione di
voto: il voto alle liste radicali. “Per
tutti coloro, invece, che non se la sentiranno di seguirci nel rifiuto, per
coloro che non sono del tutto convinti o intendono comunque votare un partito,
abbiamo predisposto una seconda diga per impedire che anche stavolta prevalga
un voto partitocratico: le liste radicali”.
Tutti
i partiti si mobilitano contro l’astensionismo. “Astensionismo è
diserzione” recita ad esempio uno slogan del Msi, “Se non ti occupi di
politica, la politica si occupa di te” è lo slogan del Pci, che in un
altro slogan utilizza l’analogia dei colori: “il voto bianco è voto Dc”.
“Non serve una scheda bianca, serve una scheda pulita” è lo slogan del
Pli, pronunciato da una voce fuori campo durante uno spot televisivo. La
campagna elettorale del 1983 è la prima campagna in cui il mezzo
televisivo viene utilizzato in maniera sistematica. Anche per questo, pressoché
quotidianamente si moltiplicano le iniziative radicali per garantire una corretta
informazione, giungendo a investire la stessa magistratura denunciando l’allora
Presidente della Rai Sergio Zavoli e i componenti del Consiglio di
amministrazione della Rai-Tv per il reato di attentato ai diritti civili e
politici del cittadino.
Il
Pr chiede in concreto di ripristinare quelle condizioni atte a “garantire parità di condizioni,
completezza ed obiettività di informazione”, e si rivolge alla
magistratura, quale “ultima linea di
difesa contro una occupazione dei pubblici poteri e servizi da parte di
soggetti privati, quali i partiti, che li esercitano a fini di parte”.
Le
urne danno al Pr il 2,2% dei voti con l'elezione di 11 deputati ed un senatore:
nonostante la scelta astensionista, dunque, i Radicali tornano in Parlamento.
In quella IX legislatura gli eletti radicali assumono un comportamento senza
precedenti, rifiutandosi di partecipare alle votazioni in aula.
1999: “Vota Emma”, vendita
degli averi per ricomprarsi l’informazione rubata
In
occasione della campagna elettorale per le europee del ‘99 i Radicali riescono
a dare non solo la dimostrazione concreta dell’importanza di informazione e
comunicazione nella democraticità delle elezioni, ma anche della portata
dirompente delle loro proposte. Riescono infatti a prendere alla sprovvista il
regime, disponendo per la prima volta di ciò che in precedenza era
mancato loro: le risorse finanziarie.
A
sorpresa, infatti, decidono di investire parte del loro patrimonio (vendendo
l’emittente Radio Radicale 2, una quota di minoranza di Radio Radicale, e il
100% di Agorà Telematica, uno dei primi internet provider italiani) al
fine di conquistare per sé e per i cittadini italiani quel diritto a “conoscere
per deliberare” che sino ad allora era stato negato. Viene così
realizzata una massiccia campagna di propaganda elettorale sui mezzi di
comunicazione: 406 spot televisivi sulle reti Mediaset, 100 su Telemontecarlo e
5.056 sulle emittenti locali, più 45 milioni di lettere autografe di
Emma Bonino inviate in quattro diverse spedizioni postali. Per un investimento
totale pari 24.450.000.000 di lire.
La
strategia comunicativa si caratterizza per la capacità di trasmettere
agli elettori la durata e l’efficacia delle lotte e iniziative radicali degli
ultimi 30 anni, espressa attraverso l’immagine e l’identità di Emma
Bonino e canalizzata nella fiducia di garantire ancora quelle azioni politiche
che ne avevano contraddistinto la storia.
In
pratica, la lista Emma Bonino riesce a ribaltare il deficit comunicativo
determinato dalla sostanziale assenza nei programmi di informazione, attraverso
un investimento finanziario in messaggio politico “diretto”, che consente di
raggiungere un numero elevato di cittadini italiani, anche attraverso
l’innovativo incrocio dei diversi canali disponibili: pubblicità sui media,
invii postali e internet, telefonate.
Una
circostanza irripetibile. L’impresa politica compiuta alle elezioni europee del
‘99 dai Radicali non è, oggi, in alcun modo riproponibile perché
è stata messa fuorilegge. Infatti, nel febbraio del 2000 è
approvata la legge n.28 (della cosiddetta par
condicio), la quale, nel disciplinare l’accesso ai mezzi di informazione
politica radiotelevisiva, comprime enormemente la possibilità per un
soggetto politico di svolgere propaganda elettorale attraverso spot televisivi.
In pratica, si passa da un regime in cui lo spot può essere acquistato
dal singolo partito e collocato liberamente nei palinsesti (dovendo rispondere
esclusivamente a leggi di mercato) a un regime in cui se ne limita la frequenza
giornaliera, la collocazione nel palinsesto e persino in parte il contenuto.
Al
sostanziale divieto di spot elettorali introdotto dalla legge sulla par condicio (basti pensare che da
allora ciascun soggetto gode in media di meno di 2 messaggi autogestiti al mese
sulle reti Rai, in orari e con modalità di basso ascolto) non segue
tuttavia un incremento rilevante degli spazi di comunicazione politica offerti
a parità di condizioni. Infatti, sebbene la legge 28/2000 preveda
l’obbligo per le emittenti nazionali di trasmettere programmi di comunicazione
politica, l’applicazione effettiva data dalle emittenti, in violazione di legge
- con la colpevole inerzia delle istituzioni di controllo, in primis
l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - fa sì che la
comunicazione politica sia a lungo marginalizzata e addirittura negata,
nonostante essa sia la giustificazione adottata per vietare gli spot televisivi
a pagamento.
A
fronte della sistematica riduzione degli unici spazi ad accesso diretto e
garantito, cioè quelli di comunicazione politica (messaggi politici
sterilizzati e tribune sospese, marginalizzate o, addirittura abrogate, come
è accaduto da un anno a questa parte) è costantemente cresciuta
la centralità delle trasmissioni “gestite” da un singolo conduttore televisivo,
artificiosamente ridotte a trasmissioni di informazione al solo scopo di
eludere il rispetto di una più stringente normativa.
Tutto
ciò, unitamente a una giurisprudenza lassista degli organi di controllo,
ha determinato una compressione della capacità di raggiungere
l’elettorato - sia nei periodi normali che in quelli di campagna elettorale –
da parte delle forze politiche estranee all’assetto politico di potere che,
nella realtà dei fatti, si è trasformato in un monopartitismo
perfetto.
La
giustificazione politico-ideologica del divieto di spot televisivi, introdotto
con la legge 28/2000, si è dimostrata dunque puramente strumentale al
monoblocco partitocratico, rispetto a qualsiasi proposta politica “alternativa”
a quella prevalente.
Satyagraha 2009
Oggi
come allora - in vista delle elezioni europee del giugno 2009 per le quali sono
già negati i diritti democratici di chi non appartiene a una delle due
gambe del regime di monopartitismo e agli “oppositori” scelti come ufficiali -
i Radicali si impegnano in “un’azione diretta nonviolenta di Satyagraha 2009
per la verità storica sulla scomparsa dello Stato di diritto e della
Democrazia compiuta dal regime partitocratrico”, a partire dalla redazione di
questa documentazione sul Sessantennio di storia repubblicana seguito al
Ventennio fascista. In tal modo essi preannunciano la partecipazione alle
elezioni con la “Lista Bonino-Pannella”, volta innanzitutto a utilizzare i
residui strumenti di campagna elettorale per informare i cittadini sull’avvenuta
cancellazione della democrazia e sulla necessaria lotta di liberazione.
RADICALI IN GALERA (DAL '
Buona
parte della classe dirigente radicale (43 persone), a partire dal suo leader
Marco Pannella, tra il 1995 e il 2003 è arrestata e processata nel corso
di iniziative pubbliche di cessione a titolo gratuito di hashish e marijuana.
Le sentenze dei tribunali di mezza Italia sono controverse: condanne in alcuni
casi (14 persone), ma anche molte assoluzioni (17 persone), fino al riconoscimento
a Marco Pannella che il reato “di lieve entità” commesso nel
1966 |
marzo |
Milano |
Andrea e Lorenzo Strik Lievers |
Arrestati per la distribuzione di un volantino antimilitarista |
1967 |
2 giugno |
Milano |
Andrea Valcarenghi,
Aligi Taschera, Giorgio Cavalli |
Arrestati mentre distribuiscono volantini antimilitaristi satirici. |
1967 |
24 agosto |
Roma |
Angiolo Bandinelli,
Rendi, Gianfranco Spadaccia |
Il 1° settembre vengono denunciati a piede libero per “vilipendio di Capo di Stato estero e manifestazione non autorizzata” dopo aver bruciato una fotografia del re greco Costantino davanti all’ambasciata greca in una manifestazione contro il regime militare dei colonnelli. |
1968 |
agosto |
Sofia |
Marco Pannella,
Marcello Baraghini, Antonio Azzolini, Silvia Leonardi |
Nell'agosto del |
1972 |
11 marzo |
Torino |
Roberto
Cicciomessere |
L’ex segretario del PR, si consegnava insieme ad una decina di altri obiettori alle autorità militari, continuando quindi la lotta all'interno del carcere militare di Peschiera. La nuova legge sull'obiezione di coscienza, che fu approvata nel successivo mese di dicembre, era il risultato di un drammatico sciopero della fame collettivo di radicali proseguito ad oltranza da Marco Pannella e dal radicale credente Alberto Gardin interrotto nel momento in cui l'allora presidente della Camera Sandro Pertini assicurò che la questione sarebbe stata posta rapidamente all'ordine del giorno. La legge sull’obiezione di coscienza verrà approvata il 15 dicembre del 1972. |
1974 |
2 giugno |
Roma |
Sei militanti |
In occasione della parata militare che celebra la festa della Repubblica, i Radicali, come di consueto, organizzano un lancio di volantini in cui si contesta che una Repubblica fondata sul lavoro sia festeggiata con una parata militare. Sei militanti sono arrestati e immediatamente rilasciati il libertà condizionata, per vilipendio delle forze armate. |
1975 |
9 gennaio |
Firenze |
Giorgio Conciani |
I carabinieri fanno irruzione nella clinica del CISA a Firenze, arrestando il dr. Giorgio Conciani e i suoi assistenti ed identificando e denunciando le oltre 40 donne che vi si trovavano. |
1975 |
13 gennaio |
Firenze |
Gianfranco
Spadaccia |
Arrestato e incarcerato per aver dichiarato, in quanto Segretario del Pr, di aver promosso la costituzione del CISA (Centro Italiano Sterilizzazione e Aborto) e le sue iniziative di disobbedienza fra cui la clinica di Firenze dove venivano praticati aborti con il metodo Karmann. La legge verrà approvata nel 1978 per evitare il referendum radicale sul quale Radicali e Socialisti raccolsero le firme nella primavera/estate del 1975. |
1975 |
26 gennaio |
Roma |
Adele Faccio |
Sul palco del teatro Adriano a Roma, davanti a migliaia di persone viene arrestata la Presidente del CISA Adele Faccio che, raggiunta da mandato di cattura decide di consegnarsi alle forze dell’ordine. |
1975 |
5 giugno |
Bra (Cn) |
Emma Bonino |
Emma Bonino, che era subentrata come responsabile dell'attività del Cisa a Milano dopo l'arresto della Faccio, e contro cui era stato successivamente spiccato un mandato di cattura, si consegnava al momento di votare, il 5 giugno, a Bra, sua città natale, e veniva poi subito scarcerata. |
1975 |
giugno |
Roma |
Marco Pannella |
Antiproibizionismo: Marco Pannella fuma marijuana in pubblico e si fa arrestare per ottenere la rapida approvazione della legge che non punisce il consumo personale di droghe: grazie a questa iniziativa la legge sarà approvata poco tempo dopo. Il poliziotto che lo arresta gli manifesta solidarietà per il suo gesto di disobbedienza civile e per questo viene trasferito. |
1975 |
9 settembre |
Firenze |
Giorgio Conciani e
sette militanti |
Ennesimo arresto del dottor Conciani e di sette militanti del Cisa per procurato aborto. |
1976 |
dicembre |
Roma |
Angiolo Bandinelli |
Il consigliere comunale radicale in Campidoglio, Angiolo Bandinelli, offre spinelli nel corso di una seduta del consiglio comunale. Viene immediatamente arrestato. |
1977 |
maggio |
Roma |
Valter Vecellio |
Durante le cariche della polizia sui manifestanti giunti per seguire la manifestazione del Partito Radicale a Piazza Navona indetta per l'anniversario della vittoria sul divorzio e la campagna di raccolta firme per nuovi referendum, viene uccisa Giorgiana Masi. Numerosi gli arresti anche tra i radicali tra i quali quella di Valter Vecellio, redattore di Notizia Radicali, che sarà condannato a 6 mesi per oltraggio, per aver difeso il parlamentare Mimmo Pinto picchiato dalla polizia davanti al Senato. 49 i fermi di polizia. |
1977 |
novembre |
Mosca |
Angelo Pezzana |
Angelo Pezzana, fondatore del Fuori, viene arrestato a Mosca nel novembre 1977 per un solitario sit-in contro la prigionia del regista gay Sergej Paradjanov. |
1977 |
dicembre |
Roma |
Bruno De Finetti, Giancarlo
Cancellieri, Valter Vecellio, Andrea Tosa, Roberto
Cicciomessere |
Il fermo del matematico Accademico dei Lincei Bruno De Finetti e dei radicali Valter Vecellio, Giancarlo Cancellieri, Andrea Tosa, avvenne “per associazione sovversiva e istigazione dei militari a disobbedire”, nell'ambito delle indagini sui cosiddetti “Proletari in divisa”. Il mandato di cattura venne revocato in tempo per limitare l'esperienza di De Finetti all' ufficio matricola del carcere di Regina Coeli, ma l'episodio provocò ugualmente le proteste di moltissimi uomini di cultura. Nell’ambito delle stesse indagini venne detenuto in carcere per sette giorni Roberto Cicciomessere. |
1978 |
2 giugno |
Roma |
Gianfranco
Spadaccia ed altri 13 |
In occasione della parata militare, un gruppo di giovani radicali organizza una manifestazione contro le forze armate. Agenti di Polizia fermano 14 persone, tra le quali il Segretrario del Pr, che vengono in seguito denunciati per vilipendio delle forze armate. |
1979 |
marzo |
Teheran |
Enzo Francone |
Enzo Francone, Segretario del FUORI!, viene arrestato a Teheran per la prima protesta contro Khomeini sulla persecuzione dell’omosessualità in Iran. |
1979 |
4 e 5 ottobre |
Roma |
Angiolo Bandinelli,
Jean Fabre |
Angiolo Bandinelli, consigliere comunale radicale di Roma viene arrestato per avere fumato uno spinello durante una seduta del Consiglio Comunale; il giorno successivo viene arrestato il segretario del Partito Radicale Jean Fabre, che compie il medesimo gesto nell'ambito di una conferenza stampa. |
1979 |
dicembre |
Roma |
Jean Fabre |
Fumando marijuana nel corso di una conferenza stampa a Roma, l’allora segretario del Partito radicale mette in atto una azione di disobbedienza civile per sollecitare la depenalizzazione delle non-droghe. Arrestato. |
1983 |
giugno |
|
Sergio Rovasio, Paolo Pietrosanti, Ivan Novelli e
altri |
20 fermati e denunciati, tra gli altri Sergio Rovasio, Paolo Pietrosanti e Ivan Novelli per la contro-parata in mutande in Via dei Fori Imperiali. |
1983 |
agosto |
Comiso (Rg) |
Alfonso Navarra, Paolo Pietrosanti,
Gaetano |
Antimilitaristi radicali entrano nella base missilistica di Comiso, violando la recinzione. Arrestati con l'imputazione di “Introduzione clandestina in luoghi militari e possesso ingiustificato di mezzi di spionaggio”, art. 260 c.p., sono rimessi in libertà provvisoria dopo sette giorni di detenzione nel carcere di Ragusa. Al processo il capo d'imputazione viene derubricato in “Ingresso arbitrario in luoghi ove l’accesso è vietato nell’interesse militare dello Stato”, reato contravvenzionale successivamente amnistiato nel 1990. |
1983 |
ottobre |
Praga |
Vari militanti |
Viene fermato alla frontiera cecoslovacca un pullman di militanti radicali diretti a Praga per celebrare la Giornata mondiale per il disarmo e la pace, indetta dall’ONU, e per manifestare contro le installazioni di missili in Europa. I militanti decidono di presidiare simbolicamente il posto di frontiera fino al giorno successivo, quando tre attivisti riusciranno comunque a raggiungere la città e ad aprire uno striscione nella piazza San Venceslao. Verranno arrestati e poi espulsi. |
1984 |
settembre |
Pescara |
Luigi Del Gatto |
Gino Del Gatto, medico ed esponente radicale, viene arrestato a Pescara per aver prescritto ricette di sostanze stupefacenti a tossicodipendenti. Viene successivamente assolto dal tribunale. |
1984 |
novembre |
Roma |
Sandro Ottoni |
Nell'ambito della campagna per l'affermazione di coscienza, al 30° Congresso del Partito radicale si autoconsegna Sandro Ottoni, obiettore di coscienza e disertore poiché la sua domanda di servizio civile è stata respinta dal Ministero della Difesa. E' incarcerato a Peschiera del Garda e detenuto per cinque mesi e mezzo; in seguito a nuova domanda di riconoscimento, ottiene lo status di obiettore. |
1984 |
novembre |
Roma |
Sergio Rovasio, Paolo Pietrosanti |
Sono fermati e denunciati (rinchiusi nella cella di sicurezza del primo distretto di Ps) per una manifestazione davanti a Palazzo Chigi con Francesco Rutelli contro l'invio di soldati in Libano che, anziché garantire la pace, sostengono un governo autoritario. Sono entrati a Palazzo Chigi con i cartelli su un taxi. |
1985 |
ottobre |
Bruxelles |
Olivier
Dupuis |
Dupuis compie la sua affermazione di coscienza di fronte all'esercito ed all’autorità giudiziaria militare ed affronta quasi un anno di carcere per testimoniare con una proposta positiva di valore europeo l'alternativa al militarismo, alle strutture militari ed ai problemi della difesa europei secondo una rinnovata tradizione socialista, antiautoritaria e nonviolenta. |
1985 |
maggio |
Roma |
Gaetano Dentamaro |
Gaetano Dentamaro, “affermatore” di coscienza radicale, renitente alla leva, si consegna al seggio elettorale “per fondare in Europa una politica di difesa, di pace e di disarmo a partire dalla sopravvivenza degli sterminandi per fame, dalla difesa dei diritti umani (...)”. Rimesso in libertà dopo 17 giorni di detenzione nel carcere di Forte Boccea, con l'obbligo di presentarsi in caserma a La Spezia, rifiuta ed è nuovamente arrestato il 2 giugno. Condotto a La Spezia, viene ancora rimesso in libertà, poiché il Procuratore militare considera la sua lettera al Ministro della Difesa come “domanda di obiezione di coscienza”. Ammesso al servizio civile, nuovamente rifiuta di presentarsi ma il reato viene poi amnistiato nel 1990. |
1985 |
agosto |
Washington, Mosca, Varsavia, Budapest, Praga, Berlino Est, BerlinoOvestBelgrado, Atene, Ankara, Bruxelles, Parigi, Roma, Madrid. |
Gianfranco
Spadaccia, Gaetano Dentamaro, Maurizio Turco |
A Washington, Mosca, Varsavia, Budapest, Praga, Berlino Est ed Ovest, Belgrado, Atene, Ankara, Bruxelles, Parigi, Roma, Madrid, militanti radicali espongono striscioni e distribuiscono volantini per ricordare Hiroshima. Chiedono interventi straordinari contro la fame e leggi per l'obiezione/affermazione di coscienza. Ad Ankara fermati dalla polizia il deputato Gianfranco Spadaccia e due obiettori di coscienza: Gaetano Dentamaro e Maurizio Turco. L'arresto dura lo spazio di un pomeriggio e di una notte, poi vengono espulsi dalla Turchia. |
1985 |
settembre |
Belgrado, Dubrovnik, Zagabria |
Olivier Dupuis,
Andrea Tamburi e altri |
500.000 volantini e autoadesivi per l'ingresso della Jugoslavia nella CEE e per la libertà di espressione vengono distribuiti da radicali italiani, francesi e belgi, a Belgrado, Dubrovnik e Zagabria. Solo dopo qualche giorno i radicali verranno arrestati, processati ed espulsi. |
1986 |
giugno |
Varsavia |
Franco Corleone, Ivan Novelli, Paolo Pietrosanti |
Un gruppo di radicali, fra i quali Pietrosanti, Novelli, il deputato italiano Franco Corleone, aprono uno striscione davanti alla sede del congresso dei comunisti polacchi, congresso di trionfo per la normalizzazione di Jaruzelski, mentre interviene Gorbaciov. Distribuiscono inoltre volantini per la libertà dei 250 detenuti politici e di circa mille obiettori di coscienza incarcerati. Arrestati per due giorni, nutriti con pane secco, strutto rancido ed acqua, verranno processati ed espulsi. |
1987 |
gennaio |
Varsavia |
Emma Bonino,
Angiolo Bandinelli, Olivia Ratti, Roberto Cicciomessere, Antonio Stango |
Vengono arrestati e poi espulsi per avere distribuito volantini, esposto cartelloni e diffuso con altoparlante messaggi in lingua polacca in sostegno a Solidarnosc e contro il regime di Jaruzelski, in quei giorni in visita in Italia. |
1987 |
settembre |
Mosca |
Sergio Rovasio,
Valentina Pietrosanti, Sabrina Coletta, Vittorio Conti |
Nel settembre 1987 Sergio Rovasio, Valentina Pietrosanti, Sabrina Coletta e Vittorio Conti sono arrestati a Mosca e quindi espulsi per avere distribuito volantini in lingua russa contro la guerra in Afghanistan, il cui testo era stato preparato dal Partito Radicale insieme con Vladimir Bukovskij. |
1988 |
marzo |
Spalato |
Maria Teresa Di
Lascia, Massimo Lensi,
Gaetano Dentamaro, Mario Cocozza e altri |
Tra coloro che colmano lo stadio per assistere alla
partita di calcio tra Jugoslavia e Italia anche numerosi militanti radicali
che aprono, davanti alle televisioni, striscioni per l'adesione della
Jugoslavia alla CEE. Vengono arrestati, processati, condannati al pagamento
di una ammenda ed espulsi. |
1988 |
agosto |
Praga |
Vari militanti |
Nel ventennale dell'invasione sovietica della Cecoslovacchia, radicali belgi, italiani, spagnoli e statunitensi distribuiscono in varie zone del paese decine di migliaia di volantini: »Non è sufficiente ricordare – è scritto nel volantino - noi siamo oggi in Cecoslovacchia per reclamare con la nonviolenza più rigorosa la libertà per i nostri fratelli perseguitati; noi chiediamo il rispetto dei diritti umani e civili fondamentali in Cecoslovacchia come in ogni altro paese. I radicali agiscono indisturbati per due giorni, finché alcuni vengono fermati, sottoposti a lunghi interrogatori e infine costretti a leggere il testo del volantino davanti ad una telecamera. Il 18 agosto l'azione nonviolenta si sposta in Piazza San Venceslao, la piazza di Jan Palach, dove viene aperto uno striscione di venti metri che reca la scritta: “Spolecneza demokracii; Sovetska vojska Prycze zeme; Svoboda; Lidska prava'' (Insieme per la democrazia; fuori le truppe sovietiche, libertà; diritti civili). Contemporaneamente un altro gruppo apre davanti alla statua di San Venceslao un altro striscione con la scritta “Svoboda''. Dopo pochi minuti gli striscioni vengono strappati dalla polizia ceca e i radicali vengono arrestati. Nella sede della polizia i radicali sono costretti ad aprire gli striscioni davanti alle telecamere. Il filmato sui “pericolosi terroristi'' occidentali viene trasmesso dalla Televisione di Stato. Dopo pochi giorni, il 21 agosto, migliaia di cittadini cecoslovacchi scendono in piazza nel ventennale dell'invasione sovietica. Il portavoce del governo di Praga accusa, nel corso di una conferenza stampa, i radicali di aver promosso e provocato la prima grande manifestazione dei cecoslovacchi dopo l'invasione sovietica. |
1989 |
agosto |
Mosca |
Antonio Stango |
Antonio Stango della segreteria del Partito Radicale, viene arrestato a Mosca e quindi espulso per avere preso parte, con un gruppo di iscritti russi al Partito Radicale, ad una manifestazione nel cinquantennale del Patto Molotov-Ribbentrop per la verità sull'accordo fra nazismo e Unione Sovietica e la libertà degli Stati baltici. |
1990 |
novembre |
|
Emma Bonino, Marco Taradash |
La Presidente del Partito Radicale transnazionale Emma Bonino e il segretario del CORA Marco Taradash si fanno arrestare per aver distribuito siringhe sterili ai tossicodipendenti. Ripeteranno l'iniziativa nell'aprile seguente e saranno nuovamente arrestati. |
1995 - 2004 |
|
Roma |
Marco Pannella (2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) + 8 mesi di libertà vigilata Rita Bernardini (2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) Alessandro Caforio (2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) Antonio Borrelli (2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) Cristiana Pugliese (2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) Mauro Zanella (2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) Pigi Camici (2 giorni di arresti domiciliari nel 1997) |
Alle 27 disobbedienze civili su hashish e marijuana
organizzate dai radicali tra il 1995 e il 2004, 43 sono i dirigenti e i
militanti radicali che vi hanno preso parte autodenunciandosi; 14 di loro
hanno avuto condanne definitive; 17 sono stati assolti in via definitiva;
alcuni procedimenti sono ancora in corso. La nuova stagione di disobbedienze
civili fu aperta il 27 agosto |
2000 |
5 novembre |
Città del Vaticano |
Michele De Lucia,
Sabrina Gasparrini, Simone
Sapienza, Maura Bonifazi, Flavio Di Dio,
Alessandra Spalletta |
In occasione della celebrazione del Giubileo dei politici,
in Piazza San Pietro, i radicali italiani manifestano contro la posizione e
le iniziative del Pontefice e della Chiesa Cattolica in tema di contraccezione,
di sessualità e di aborto. Dopo aver innalzato sul sagrato di Piazza
San Pietro uno striscione con la scritta: “Sì al condom - Sì
alla RU |
2001 |
26 ottobre |
Vientiane (Laos) |
Olivier Dupuis, Nikolai Kramov, Silvja Manzi, Bruno Mellano,
Massimo Lensi |
Per avere manifestato a Vientiane per i diritti civili, politici e democratici del popolo laotiano, i 5 esponenti radicali sono condannati a due anni di carcere (considerati estinti con i quindici giorni passati nel carcere laotiano) e a una multa. Sono stati espulsi dal Laos dopo un processo farsa che li ha visti imputati di vari reati tra cui “per interferenza negli affari interni del Paese”. L’iniziativa radicale era stata organizzata in occasione del secondo anniversario della manifestazione per la libertà, la democrazia e la riconciliazione nazionale organizzata dagli studenti laotiani il 26 ottobre 1999 i cui 5 organizzatori arrestati dal regime risultano tuttora “desaparecidos”. |
2001 |
20 dicembre |
Manchester (GB) |
Marco Cappato |
Presso la Stazione di Polizia di Stockport, Marco Cappato effettua una cessione di cannabis in solidarietà con il deputato Chris Davies. Il 28 ottobre l’eurodeputato radicale viene condannato ad una multa di 100 sterline (circa 150 Euro) o sette giorni di carcere, oltre alla copertura integrale delle spese processuali e di polizia. Cappato paga tutte le spese processuali e di polizia, ma si rifiuta di pagare la multa: per questo va in galera per 4 giorni. |
2007 |
maggio |
Mosca |
Marco Cappato, Ottavio Marzocchi, Nickolay Khramov, Sergey
Kostantinov, Nikolai Alexeiev. |
Marco Cappato, parlamentare europeo radicale, e il militante radicale Ottavio Marzocchi, in delegazione per il Partito radicale a Mosca, sono stati arrestati nel corso di una manifestazione per consegnare una lettera al Sindaco di Mosca, dopo il divieto per la tenuta del Gay Pride russo. Saranno liberati nel pomeriggio. Rimangono fino all' 8 giugno in carcere Nickolay Khramov, Sergey Kostantinov e Nikolai Alexeiev, militanti radicali in Russia. Saranno condannati per ‘disobbedienza alle pretese legittime degli agenti di polizia’ al pagamento di una multa di mille rubli. |
RADICALI FAMOSI E PERCIO’ CLANDESTINI
“Allora c’è
un problema di mezzi. Se i nostri ascoltatori sapessero che questo è
stato il Partito in cui si è iscritto Ionesco, a cui Sartre voleva iscriversi,
con tutto il resto. La doppia tessera è un modo per distruggere il
valore sacrale della tessera. E l’hanno fatta compagni del Partito Comunista
degli anni ’60, con quel partito!”.
“Forse dovremmo
riguadagnare quella naturalezza per parlare di queste nostre cose, dopo 40-50
anni. Abbiamo urgenza. Quando uno in più
si iscrive, è un evento, viste anche le nostre dimensioni”. Marco
Pannella
A
chi vuole fare carriera, un posto in un ente di Stato, in Rai-Tv, la tessera
radicale non serve, è anzi un danno. Ad altro, per raggiungere altri
obiettivi serve quel cartoncino plastificato con la testa che raffigura Gandhi.
E allora, se non è un partito di potere, di insediamento che fa leva
sull’occupazione delle poltrone locali e nazionali, se non è neppure un
partito ideologico, per quale ragione iscriversi al Partito radicale?
La
risposta la si può condensare in una specie di slogan: per proseguire ed
intensificare la battaglia per riconquistare all’Italia la legalità e la
certezza del diritto. Per la difesa e il “ritorno” alla Costituzione scritta,
in contrapposizione esplicita con quella “materiale”, che altro non è se
non la regola perversa che con la forza e l’arroganza il regime partitocratico
e potentati di ogni genere hanno imposto al paese.
La
scommessa giocata da sempre dai radicali, insomma, è quella di essere il
Partito della Democrazia: per esempio ridimensionare i partiti, riconducendoli
al loro posto, porre un freno alle loro prevaricazioni, ristabilire le regole
del gioco per cui le leggi devono essere applicate, rendere i cittadini eguali
fra loro e non sudditi rispetto allo Stato ed ai potentati, restituire al
Parlamento la sua funzione di luogo nel quale effettivamente si prendono le
decisioni, riconquistare un’informazione degna di questo nome da parte del
servizio pubblico. In una parola: lo Stato di diritto contro lo Stato dei
partiti.
Ecco
dunque che di volta in volta, al Partito radicale hanno aderito e vi hanno
militato persone con alle spalle le più diverse esperienze e culture, ma
con un comune denominatore: riconquistare lo Stato di diritto e la
Costituzione.
“Un
Partito Radicale”, ebbe a dire Jean Paul Sartre, “internazionale, che non
avesse nulla in comune con i partiti radicali attuali in Francia? E che avesse,
ad esempio, una sezione italiana, una sezione francese, ecc.? Conosco Marco
Pannella, ho visto i radicali italiani e le loro idee, le loro azioni; mi sono
piaciuti. Penso che ancora oggi occorrano dei partiti, solo più tardi la
politica sarà senza partiti. Certamente dunque sarei amico di un simile
organismo internazionale”.
Di
questa presa di posizione di Sartre nessuno mai ha avuto modo di sapere, perché
nessuna trasmissione televisiva e nessun giornale si è interrogato sul
perché di questa sua adesione.
E’
sterminata la lista degli iscritti e degli aderenti al Partito radicale in
questi anni: alcuni tra gli scrittori più significativi del Novecento
italiano: Elio Vittorini (del Pr diviene presidente e consigliere comunale),
Leonardo Sciascia, Pier Paolo Pasolini. E ancora, alla rinfusa: la figlia di
Benedetto Croce, Elena; Loris Fortuna; Piero Dorazio; Adriano Sofri; Dario
Argento; Franco Brusati; Liliana Cavani; Damiano Damiani; Salvatore Samperi;
Giorgio Albertazzi; Pino Caruso; Ilaria Occhini; Raffaele La Capria; Sergio
Citti; Carlo Giuffré; Nantas Salvalaggio; Ugo Tognazzi, Mario Scaccia, Carlo
Croccolo; Lindsey Kemp; Pierangelo Bertoli; Miguel Bosé; Angelo Branduardi;
Lelio Luttazzi, Domenico Modugno; Claudio Villa; Vasco Rossi; Franco Battiato;
Oliviero Toscani; Erminia Manfredi; Barbara Alberti; Goliarda Sapienza.
Non
solo: dall’estero, si iscrivono Eugene Ionesco (“Lo giuro: tutte le mie deboli
forze saranno dedicate a far vivere il Partito Radicale, questo partito di cui
non so nulla e di cui ignoravo l’esistenza…”); Marek Halter; il premio Nobel
George Wardl; Arturo Goetz, Aristodemo Pinotti, Saikou Sabally, Vladimir
Bukovskij, Leonid Pliusc.
Dalla
solitudine e dal dolore del carcere giungono al Partito radicale centinaia di
iscrizioni, detenuti comuni e politici. A Rebibbia si iscrivono 22 detenuti
della cosiddetta “area omogenea”: Alberto Franceschini, Cavallina, D’Elia,
Cesaroni, Calmieri, Busato, Frassineti, Cozzani, Di Stefano, Lai, Potenza,
Gidoni, Cristofoli, Litta, Piroch, Vitelli, Martino, Bignami, Melchionda,
Maraschi, Scotoni, Andriani: “Da non radicali”, scrivono, “da detenuti politici
e – speriamo presto – da cittadini liberi, ci iscriviamo al Partito radicale.
E’ il contributo minimo che possiamo dare alla forza politica che espresse
tensioni di crescita civile e democratica negli anni ’70 e che oggi continua a
lottare su questo terreno, affinché tutti i non garantiti, la stessa non
coscienza civile non perdano questo spazio per i diritti vecchi e nuovi. Come
detenuti politici è un modesto segno di solidarietà e di affetto
a chi seppe essere vicino ai problemi del carcere e della giustizia, con tanta
intelligenza, abnegazione e amore”.
Si
iscrivono, tra gli altri i pluriergastolani Vincenzo Andraous, Giuseppe
Piromalli, Cesare Chiti e Angelo Andraous.
Centinaia,
migliaia di iscrizioni e di adesioni che restano “ignote” anche quando
l’iscritto per la sua storia e la sua attività è un
“personaggio”. Il radicale non fa, non è “notizia”. Eppure dal
“pretesto” di questo o quell’iscritto si poteva avviare un dibattito-confronto
sulla forma partito, la libertà di iscriversi a più partiti,
l’impossibilità di espellere chiunque dal Partito radicale che accoglie
l’iscrizione, non la “concede”. Invece nulla, silenzio: non un solo dibattito
pubblico sulle ragioni che hanno indotto migliaia di cittadini a iscriversi al
Partito radicale, nessuna trasmissione che abbia ascoltato e registrato le loro
ragioni.
Eppure
è il partito che con pochi militanti e un numero irrisorio di iscritti
(se paragonato a quello di altre organizzazioni politiche), grazie a criteri di
organizzazione nonviolenta, rigorossima e libertaria, ha saputo realizzare
quanto non hanno fatto in milioni, tutti gli altri partiti messi insieme. E’
forse questa una delle ragioni per cui dei radicali non si deve e non si
può parlare?
[1] Vedi le due citazioni di Giuseppe Maranini e
Giuliano Amato, pag. 7.
[2] Cfr. E. Bettinelli, Itinerari
della convenzione antireferendaria, in Politica del diritto, 1978, p. 516.
[3] Legge n. 352 del 1970.
[4] Cfr. L. Paladin, Diritto
costituzionale, Padova, 1995, p. 484.
[5] Legge costituzionale dell'11
marzo del 1953 che all'articolo 2 letteralmente dispone:«Spetta alla Corte
costituzionale giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma
dell'art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma
dell'articolo stesso».
[6] Sentenze nn. 10 del 1972 e 251
del 1975; in queste sentenze prevale l'interpretazione letterale del dato
normativo tanto che in merito al significato da darsi all'elenco delle leggi
sottratte a referendum la Corte espressamente ribadisce che «Le sole
disposizioni legislative che non possono essere sottoposte a referendum
abrogativo sono quelle che riguardano le materie tassativamente indicate nel secondo
comma dell'art. 75 Cost.[...]».
[7] Dalla
sent. 16 del 1978 (estratto dalla massima n.1496): «L'indicazione delle cause
di inammissibilità di cui al capoverso dell'art. 75 della Costituzione -
indicazione che non e' dimostrato abbia carattere rigorosamente tassativo -
presuppone una serie di cause inespresse, inerenti alle caratteristiche
essenziali e necessarie dell'istituto e riguardo alle quali, in quanto presenti
nell'ordinamento costituzionale del referendum abrogativo, sarebbe
contraddittorio sostenere che la Corte costituzionale non possa considerarle
nel giudizio di ammissibilità dello stesso referendum, ad esse
demandato».
[8] Il
giudizio critico sulla giurisprudenza della Corte in tema di chiarezza dei
criteri di inammissibilità è pressoché unanime. Per restare ai
primi commentatori della sola sentenza n. 16 del 1978 si veda A. Baldassarre,
La commedia degli errori, in Politica del diritto,
[9]
Intervento riportato in D. Capezzone, M. Eramo, G. Micheletta, M. Staderini, (a
cura di) Tornare alla Costituzione, atti del convegno organizzato dalla Lista
Bonino il 6 e 7 dicembre 1999, Torino, 2000, pp. 165-168. Parimenti è
esemplificativo quanto ebbe a dire il Presidente Emerito della CorteVincenzo Caianiello in un
intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica, il 23 gennaio
[10] La
prima legge antisismica risale al 1974 ma è stata ampiamente disattesa,
né sono stati fatti investimenti per la messa in sicurezza dei fabbricati
costruiti prima di quella data (i più a rischio sono gli edifici degli
anni ’50 e ’60) e i due terzi delle abitazioni sorte in questi ultimi 35 anni
non sono a norme. Sono poi dovuti trascorrere 21 anni dal terremoto in Irpinia
(1980) 14 dall’alluvione in Valtellina (1987) 3 dalla frana di Sarno (1998) per
avere nel 2001 un testo unico di edilizia che ha disposto la successiva
emanazione di specifiche tecniche per le costruzioni in zone sismiche,
specifiche che sono arrivate nel 2005, dopo che un terremoto, neppure tanto forte,
quello a San Giuliano di Puglia, ha causato il crollo di una scuola, sotto le
cui macerie sono morti 27 bambini e una maestra. Ma le nuove norme non sono
tuttora applicate, a causa di due proroghe. Nel 2008 è stato previsto
l’obbligo di utilizzare il calcestruzzo certificato per gli edifici di
“interesse strategico”, mentre per le costruzioni private se ne può fare
a meno grazie appunto alle proroghe concesse, sotto le pressioni di costruttori
e ingegneri, dai governi di destra e di sinistra che si sono succeduti.
[11] Un processo che ha
visto negli ultimi 20 anni, secondo dati Eurostat, sottrarre al suolo agricolo
circa
[12] Tra gli enti che la
legge 183 del 1989 prevede vi sono: il Comitato nazionale per la difesa del
suolo, le Autorità di bacino di rilievo nazionale, i Comitati tecnici di
bacino di rilievo regionale e quelli di rilievo interregionale; la legge 225
del 1992 prevede il Consiglio nazionale della protezione civile, la Commissione
nazionale per la previsione e prevenzione dei grandi rischi, il Comitato
operativo e i Comitati regionali e provinciali di protezione civile; la legge
36 del 1994 rivisita tutto il problema della utilizzazione delle acque
istituendo per ciascuno degli ambiti territoriali ottimali il servizio idrico
integrato che deve essere gestito in modo unitario; la stessa legge prevede
l’istituzione del Comitato per la vigilanza dell’uso delle risorse idriche e
dell’Osservatorio dei servizi idrici. La legge 61 del 1994 prevede
l’istituzione dell’Agenzia nazionale per la protezione ambientale, delle
Agenzie regionali, articolate in dipartimenti provinciali e sub-provinciali e
delle Agenzie per le province autonome. Questi organismi si inseriscono in un
quadro ancora più articolato, nel quale operano comitati
interministeriali, ministeri, la conferenza Stato-Regioni, in cui sono
soprattutto le regioni e le province a ricoprire un ruolo decisivo.
Un’esplosione di competenze che di fatto impedisce l’attuazione dei piani di
bacino, in un paese che è tra i primi, se non proprio al primo posto in
Europa, per quanto riguarda le aree a pericolosità e rischio
idrogeologico.
[13] Il Direttore generale della Rai Michele Principe
programma una trasmissione di un’ora e un quarto interamente dedicata al
Partito radicale, alla quale partecipano lo stesso Pannella, Gianfranco
Spadaccia e Adele Faccio.
[14]Ancora una volta denunciata dal Partito radicale,
che nel 1983 presenta le proprie liste alle elezioni “quale strumento tecnico-politico” per potere informare della illegalità
della prova elettorale ma invitando i cittadini a votare scheda nulla, scheda
bianca o ad astenersi.
[15]Peraltro l'unico modo per giustificare la
marginalizzazione della lista Bonino, che alle elezioni europee del 1999
raccoglie l'8,5% dei consensi.
[16]Legge che contiene la prima
disciplina organica dell'informazione e della comunicazione politica
[17]Il divieto di spot elettorali è introdotto
nel febbraio del 2000, nonostante il loro uso massiccio sia iniziato sin dai
primi anni '
[18] Il
principale capo di accusa contro la magistratura per aver di fatto annullato
quanto previsto dalla legge a difesa dell’onore e della reputazione è
rappresentato dall'avere letteralmente annullato il requisito della prontezza
della pena, violando la legge per praticare un rito illegittimo in luogo di
quello per direttissima, ritenuto dalla dottrina e dalla norma dei nostri
codici assolutamente necessario per la verità e la giustizia. Altri importanti
aspetti sono l'avere vanificato gli sforzi del legislatore in tema di rettifica
e non avere mai contestato la recidiva.
[19]Un caso di clamorosa e manifesta
illegalità avviene nel
[20]Nel caso della moratoria universale nel 2007 la
Commissione parlamentare di vigilanza adotta anche una risoluzione nei
confronti della Rai affinché programmi spazi di informazione e approfondimento,
risoluzione non rispettata.
[21]Per ottenere, tra l'altro, due
spazi televisivi di un quarto d'ora per la Lid e per il cattolico del No don
Franzoni.
[22]A novembre, poi, 59 parlamentari
di tutti i partiti si offrono di sostituirsi per un giorno allo sciopero della
fame intanto intrapreso da alcuni parlamentari e militanti radicali.
[23]Tra il 24 gennaio e il 30 aprile del 1998, la
presenza diretta dei radicali nei telegiornali Rai è stata per il TG1,
pari allo 0,01%, per il TG2 pari allo 0,2% e per il TG3 pari allo 0,6%. Del
tutto assenti i radicali, invece, dai talk show della concessionaria.
[24]Provvedimenti
assunti, rispettivamente, nei confronti del Tg1 in occasione delle elezioni
politiche del 2006, della amministrative del 2006, e di due lunghi periodi non
elettorali nel 2007 e nel 2008; del Tg2 in occasione delle elezioni politiche
del 2006, della amministrative del 2006, e di due lunghi periodi non elettorali
nel 2007 e nel 2008; il Tg3 in occasione delle elezioni politiche del 2006 e di
due lunghi periodi non elettorali nel 2007 e nel 2008, cui va aggiunta la
condanna durante le elezioni europee del 2004.
[25]Rispettivamente
nei confronti di Porta a Porta in occasione delle elezioni regionali del 2000,
delle europee del 2004, delle politiche del
[26] Sondaggio SWG del 26 aprile 2002, fonte ANSA:
favorevoli alla legalizzazione dell’eutanasia 46%, contrari 35%, interlocutori
(in attesa di conoscere la soluzione legislativa) il 13% , incerti il 6%.
Sondaggio Eurispes del 31 gennaio 2003 (Rapporto Italia), fonte ANSA:
favorevoli il 60%, contrari il 27. Nel rapporto Italia del 1987 i contrari
erano invece il 40%, il 24,5% favorevole
e il 20% solo in presenza di casi disperati
Sondaggio Vanity Fair del 23 febbraio 2005, fonte ANSA: il 50%
favorevole per i malati terminali, il 37% contrario.
Sondaggio DOXA del 24 marzo 2005, fonte ANSA. Il 60% degli
intervistati è favorevole alla legalizzazione: il 78% di essi l’ammette
solo se richiesta dal paziente, il 73%
Sondaggio SWG del 14 dicembre 2006 condotto fra gli elettori del
centro sinistra, fonte ANSA: il 61%
degli intervistati favorevole all’eutanasia, l’87% si dicono contrari
alle pratiche mediche che tengono in vita i malati ad ogni costo, l’85%
favorevole a una legge sul testamento biologico.
Sondaggio ISPO- Corriere della Sera
del settembre 2006: il 58% ritiene opportuno legalizzare l’eutanasia, il
37% è contrario.
Sondaggio IPSOS, pubblicato da Vanity Fair nel dicembre 2008: il 57& non è d’accordo
con la Chiesa che ha ribadito il suo NO a ogni ipotesi di interruzione della
vita”
[27] Su
tali questioni riportiamo alcuni sondaggi.
Procreazione medicalmente assistita.
Sondaggio Ipsos, pubblicato da
Vanity Fair nell’aprile 2007. Il 50% degli intervistati si dichiara favorevole
alla fecondazione eterologa, il 45% contrario; il 62% favorevole alla ricerca
sulle staminali embrionali, solo il 30% contrario; il 50% favorevole alla
diagnosi reimpianto, il 37% contrario.
Aborto
Sondaggio IPSOS, pubblicato da
Vanity Fair nel dicembre 2008. Il 53% non condivide la posizione della Chiesa
sull’aborto, il 62% non condivide la posizione sul divorzio. Il 63% non
condivide l’opposizione alla ricerca sulle staminali embrionali.
Sondaggio ISPO, pubblicato dal
Corriere della Sera nel gennaio 2005: il
65% ritiene che su temi come l’aborto e la fecondazione assistita gli italiani
debbano poter scegliere secondo la propria coscienza e solo il 26% che lo Stato
debba porre dei limiti a questa scelta.
Coppie di fatto
Sondaggio Demos e Pi Eurisko,
pubblicato da Repubblica nel marzo 2007. Il 61,4% ritiene sbagliato che la
Chiesa indichi a parlamentari cattolici di votare contro le coppie di fatto.
[28]Una
ricerca statistica condotta dall’Università cattolica di Milano sulla
religiosità degli italiani rilevava nel novembre 1995 che il 63% degli
intervistati era favorevole al divorzio, il 70%
riteneva leciti i rapporti prematrimoniali, il 55,4% era favorevole
all’uso dei contraccettivi, il 70% riteneva che si potesse essere buoni
cattolici senza seguire il Papa. Nella
stessa intervista oltre il 35,1% si dichiarava favorevole al
mantenimento del celibato sacerdotale e solo il 31,5% all’ordinazione sacerdotale
delle donne. Alcuni anni dopo, nel 2003,
un sondaggio Swg.Espresso su un campione di cattolici praticanti il 70%
rispondeva di non condividere la condanna della Humanae vitae nei confronti
dell’uso dei contraccettivi, il 68,9% era in disaccordo con la norma
ecclesiastica che vieta ai divorziati di accostarsi ai sacramenti, due
cattolici su tre dichiaravano di preferire il divorzio a un cattivo matrimonio,
il 38,7% contro il 42% ammetteva l’aborto in alcuni casi, il 24% considerava
superata la proibizione assoluta dell’eutanasia.
[29] Secondo un sondaggio Ipsos del febbraio 2008
l’86% degli italiani si dichiarava contraria alla eccessiva frammentazione
provocata dalla legge elettorale proporzionale. Secondo un altro sondaggio
Ipsos del 2007 il 73% degli italiani si dichiarava favorevole a un sistema
presidenziale. Questo sondaggio confermava i risultati di una inchiesta Censis
in occasione delle elezioni europee del 2004
che dava il 73% degli italiani favorevoli alla elezione diretta del capo
dell’esecutivo.
Per quanto riguarda i sindacati il 50% degli intervistati di un
sondaggio Ispo-Corriere della Sera del
novembre 2008 riteneva che, nel loro insieme, non riuscissero a rappresentare
davvero gli interessi della maggioranza dei lavoratori. Oltre 20 anni prima,
nel settembre
Sul mercato del lavoro sia un sondaggio ISPO- Corriere della Sera
dell’ottobre 2008 sia un sondaggio Ipsos pubblicato da Vanity Fair nel luglio
2996 rilevavano maggioranze relative degli intervistati favorevoli a una
maggiore libertà nel mercato del lavoro a fronte di maggiori
opportunità e garanzie per i disoccupati e gli stessi occupati.
Sulla libertà di commercio un sondaggio Demos e Pi del 2006
registrava il 52% di favorevoli a una maggiore libertà contro il 39,7%.
Sulla libertà di antenna il 42,9%, secondo lo stesso
sondaggio, riteneva che la TV dovesse essere affidata in parte alle aziende
private ma con il controllo pubblico, il 19,3% prevalentemente ad aziende
private, il 32,4% prevalentemente al pubblico.
Su una importante obiettivo di politica internazionale ed europea
sostenuto dai radicali (ingresso di Israele nell’Unione europea, secondo un
sondaggio Ferrari Nasi e Grisantelli del 2007, il 45,5% degli intervistati si
dichiara favorevole, il 27,7 contrario. Sullo stesso argomento un sondaggio
ISPO-Corriere della sera il 49% si dichiara favorevole a una partnership
privilegiata dell’UE con Israele.