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Documento
inserito: 25-4-2020 Il PuntO n° 396 La scuola. Dalle pagine di discussione del Cenacolo dei Cogitanti
(2009). Di Mauro Novelli. Pagine
ripubblicate il 25-4-2020 Riporto alcuni interventi
sulla scuola accolti dalle pagine del Cenacolo dei Cogitanti, [http://www.mauronovelli.it/Cog.%20in%20Cenacolo.htm#_2)_Mauro_(18-4-2009)].
Mi sembrano ancora molto attuali. Sulla scuola
elementare. Sono figlio di due insegnanti elementari (passati da
tempo a miglior vita), tanto votati alla missione quanto esigenti. Da giovani maestri, hanno insegnato in vari paesetti
della Sabina, dove hanno seminato i loro tre figli. Prima di concludere
(negli anni ’60 e ’70) la loro “carriera” a Roma,
mio padre aveva insegnato (pluriclasse) nella campagna reatina. Parliamo
della prima metà degli anni ’50. Non potendo contare su adeguati sussidi
didattici, comprava lui quaderni, matite e penne e pennini per tutti. Andava
fiero del fatto che non pochi ex scolari, a distanza di anni, lo
ricercavano per chiedere consiglio al vecchio maestro prima di
inserirsi nel mondo del lavoro o iscriversi all’università. Mia madre andava fiera per una cosa diversa: quando
tornava a gestire una prima elementare, a Natale dava il grande annuncio alla
famiglia: “Anche in questa prima alcuni bambini mi hanno chiamato mamma….”. Ho recuperato questi vecchi ricordi non per motivi
sentimentali, ma per fornire la fonte intellettuale delle considerazioni che
sto per fare. Ho sempre considerato la scuola (almeno fino alle
medie superiori) una sorta di allenamento che la società deve offrire (imporre?)
ai cittadini per metterli in condizione di affrontare preparati, per quanto
possibile, la partita della vita: individuale, interpersonale e sociale. E,
si sa, è opportuno effettuare gli allenamenti proprio quando le condizioni di
contorno sono negative: ci si allena con la pioggia, perché se “giocheremo”
col tempo brutto, saremo allenati, se il tempo sarà bello, saremo avvantaggiati. La scuola quindi, oltre ad essere una fonte di
nozioni e di metodi, è un microcosmo della società ( quella
dei grandi) nella quale tutti, passata l’età scolare, dovremo approdare. Proprio a scuola, il giovane che comincia a mettere
il naso al di fuori delle ovattate protezioni familiari, “prova” ad ampliare
il proprio orizzonte, viene allenato a riconoscere le grandi architetture in
cui è strutturata la società (autorità, ruoli, doveri, diritti, valori); si
esercita ad assumere impegni nuovi, ad operare insieme ad altri, a capire le
dinamiche comportamentali, a prenderle come metro di misura del proprio
agire, a misurare i personali progressi nell’apprendimento e nel vivere
civile, a giudicare gli altri e se stesso, a pretendere il giusto da se stesso
e dagli altri. Insomma a diventare cittadini di una polis e non semplici
gregari. A cinque sei anni, quindi, si entra in società
attraverso l’opera di un maestro che deve assumere le caratteristiche
rassicuranti dei genitori e, contemporaneamente, il ruolo di chi è incaricato
di procede a giudizi su quello che facciamo, su come impariamo a farlo, su
quello che dimostriamo di saper fare. Questa operazione non può che essere appannaggio di
un solo personaggio, il maestro/maestra, in grado di operare con serenità
come compagno di viaggio del bambino e, al tempo
stesso, di offrire un primo esempio di “autorevole (si spera) autorità” di
origine non familiare. Sono quindi d’accordo col maestro unico della
Gelmini, almeno per i primi tre anni della scuola elementare, proprio perché
un bimbo di cinque, sei anni non è in grado di gestire una pluralità di
personaggi assegnatigli solo perché non si sa dove metterli, magari in
contrasto professionale tra loro, in una scuola costruita per chi pretende di
insegnare e non per chi deve pretendere di imparare e diventare un cittadino
utile a sé ed agli altri. Questo non vuol dire che poi attorno al nuovo e
diverso “genitore sociale” non possano ruotare “specialisti” come insegnanti
di lingua, di internet, di educazione stradale, di musica ecc.; ma il
rapporto fondamentale, il “calzante” utilizzato dalla società per accogliere
il nuovo cittadino ancora in età evolutiva, ritengo debba essere costituito
da un solo personaggio. Solo così il bimbo potrà cominciare a misurarsi con
l’innesto del giudizio esterno sul tronco affettivo costituito dalla
famiglia. Per concludere senza concludere: ritengo che la
famiglia accorta non possa non vedere nella scuola una protesi per potenziare
il suo stesso ruolo, protesi che i genitori naturali devono imparare ad
utilizzare, evitando di limitarsi a considerare gli anni di studio come
parcheggio temporale dove tenere i figli in attesa dell’attestato di
ignoranza. E’ questa concezione che in seguito, esaltata dal
complesso di colpa derivante dal trascurare la prole (perché “troppo
impegnati nel lavoro”), tenderà ad atteggiamenti iperprotettivi in grado di
produrre giovani fondamentalmente disadattati e, quindi, cittadini, di fatto,
asociali. Insomma, l’eccesso di protezione, i continui cedimenti
alle richieste, le giustificazioni anche in caso di mancanze gravi, la
complicità a tutti i costi tranquillizzano mamma e papà (“… e se ti bocciano,
ricorriamo al TAR…”), ma non giova ai figli: è facile e comodo atteggiarsi a
loro amici contro la società ostile, anzi nemica e causa di ogni disagio (la
scuola e gli insegnanti, nello specifico), quando invece dovremmo rivestire
il difficile ed impegnativo ruolo di educatori, mediando con altri educatori. Ma, si sa, la cosa costa fatica e ruba il tempo al
Grande Fratello…. Sulla scuola media. Se agli esami detti “di ammissione alla scuola
media”, fosse “scappato” anche un solo errore di ortografia, si sarebbe
ripetuta la quinta elementare. In prima media, si studiava tutta la mitologia
greca; in seconda, si leggeva e si commentava tutta l’Iliade; in terza, tutta
l’Odissea. Uno dei Cogitanti (Roberto) ama affermare che se
avesse studiato più compiutamente i due poemi omerici, sarebbe stato un
medico migliore. Forse, in prima media, tradurre 50 frasette di
latino come compito a casa, fin dai primi giorni di scuola, era eccessivo: si
impegnava un pomeriggio intero e si finiva con un mal di testa. Ma,
all’università, scoprii che il saper mettere in italiano accettabile tre
frasi o le decine di pagine di una tesi mi derivava dal latino studiato alle
medie e al liceo, articolato con l’applicazione dell’analisi logica (i cui
rudimenti erano appresi già in quinta elementare). Si ripeteva l’anno se agli esami di terza media
fosse “scappato” qualche errore di sintassi. Ritengo che l’eliminazione del latino alle medie sia
stata la più maramaldesca fregatura appioppata agli studenti italiani. Perché
il latino non era una lingua (morta), era una matematica, una storia, una
filosofia, una letteratura. Il suo studio comportava la messa a punto (forse
inconsapevole per lo studente, ma impareggiabile dal punto di vista culturale) di un metodo di apprendimento, di
capacità di organizzazione delle informazioni, di elasticità intellettuale
nel passare da una disciplina all’altra pur restando impegnati in una
semplice versione di dieci righe. Il latino era una vera e propria tecnologia
culturale messa a disposizione di chi, non più bambino e ancora non
adolescente, avrebbe dovuto cominciare a crearsi strumenti personali per “prendere
le misure” alla vita. Chi fu l’autore dello scempio? Non me lo ricordo. Sui disastri degli
ultimi decenni. Alla luce dei disastri scolastici degli ultimi 35
anni, mi chiedo:” Quanti genitori ritengono di dover pretendere che la scuola
frequentata dai figli sia valida, puntuale, efficace, con il giusto rigore
nell’applicare le regole interne ed esterne?”. “Quanti considerano utili per
il futuro dei loro figli i quindici, venti anni passati sui libri?” Al di là delle chiacchiere promosse da personaggi in
mala fede, nel ’68 (diciamo fino al 1971-1972) si studiava due volte: una per
superare l’esame, come richiesto dalla prassi meritocratica vigente da
generazioni, l’altra per avere gli strumenti culturali per “far fuoco sul
quartier generale”, come indicava Mao. Capita velocemente l’antifona: l’allora classe
dirigente si accorse che i rampolli che uscivano dall’università non
rappresentavano più (come era stato per secoli) i rincalzi per mantenere in
piedi il sistema, ma puntavano apertamente a rivoluzionarlo. In breve tempo,
la scuola pubblica fu disarticolata. Dal ’73, ’74 non si studiò più: tutti
promossi. Ricordo i commenti di un amico di architettura che, ridendo, mi informava della prassi: uno fa il
disegno e 15 vengono promossi. Nel frattempo, la classe dirigente trovò altri
criteri di formazione dei successori predestinati: scuola privata, corsi di
perfezionamento, magari all’estero, qualificazioni aziendali ecc. O altri
canali: cursus honorum nei partiti politici o come clientes,
ad esempio. Per la prima volta le famiglie “normali” furono
costrette a decidere che il tempo scolastico dei figli era tempo perso, da
far passare in fretta (se mi bocciano il ragazzo, ricorro al Tar!) perché
altre e di diversa natura ( a partire dal
censo) erano le promozioni personali da coltivare per permettere
l’ingresso nel mondo del lavoro: la raccomandazione del potente di turno, tra
le altre. Perciò, a che serve studiare? Certo, pronti a manifestare per la
scuola pubblica, diciamo meglio “gratuita”, ma maestri e professori non
devono rompere con inutilità come formazione, meritocrazia, educazione,
impegno, regole: promuovano e forniscano gli attestati. E tanto basti!. Con gli anni ’70 si disarticola definitivamente
l’alleanza famiglia-scuola. Conclusione: siamo passati da qualche possibilità
offerta a chi “era bravo” indipendentemente dal ceto sociale (parlo degli
anni ’50 e ’60), al “tutti promossi, tutti
ignoranti” (anni ’70, ’80, ’90). Con grande vantaggio per i
“predestinati”. Pur ignoranti, e sempre promossi come tutti, costoro
avranno una vita facile e già tracciata; gli altri, i “normali”, non saranno
in grado di accampare alcuna pretesa, perché da
ignoranti, non potranno più neanche far leva sulla meritocrazia. Alla classe al potere non mancano rampolli in grado
di rimpiazzare adeguatamente il genitore, il padrino o il padrone, e di ereditarne gli strumenti di dominio. Sono proprio questi
rampolli che non metteranno assolutamente in discussione un sistema che li
garantisce (né avrebbero gli strumenti per farlo). Per concludere, la scuola italiana sta formando
cittadini acritici, non istruiti, tanto meno colti, speranzosi solo in un colpo
di fortuna: questo è il miglior livello di progettualità espressa dalla
media. Con questa scuola si alimenta la fonte maggiore di conservatorismo: è
questo il peggior guasto prodotto dalla scuola italiana. |
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