PRIVILEGIA
NE IRROGANTO Documento
inserito il: 1-12-2012 |
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Il PuntO
n° 251 La
politica ritrovata? Cominciamo
da Fermare il Declino. Di Mauro
Novelli 1-12-2012 In calce
un articolo Noi e Loro. Perché una differenza c'è! Di A. Margiotta. Da www.fermareildeclino.it
In Italia abbiamo un problema: la classe dirigente non è scelta dai cittadini, ma viene promossa per cooptazione dei fedelissimi (quasi mai intelligenti) da parte dei politici al potere, Ne consegue che prima degli interessi generali, la classe dirigente ha pensato a perpetuare se stessa attingendo all’Erario (maiuscolo). Approfondiamo, collegandoli, i dieci punti programmatici che Fermare il Declino propone quale nuova componente di una offerta politica nostrana, da sempre carente in termini di concretezza e di coerenza rispetto alle realizzazioni successive, quasi sempre mancate per i saccheggi perpetrati ai danni dei cittadini da una classe politica diversamente mafiosa. Soprattutto negli ultimi 30
anni, questo atteggiamento saccheggiatore ha causato l’esplosione del debito
pubblico (Punto
1). Andamento del Debito pubblico e del PIL
del paese dal 1970 al 2009. Rapporto Debito/PIL (1995-2011) Il rapporto Debito/Pil si attesterà a fine anno 2012 al 126,7 %. [Ritengo non funzionale la valutazione del peso del Debito sul PIL.
E’ certamente più indicativo il rapporto Debito su Entrate dello Stato.
Occorrerà approfondire l’argomento.] Dopo “mani pulite” la classe politica ha pensato bene di mettere i “funzionari di partito” a carico della P.A. (cioè dell’Erario e facendo lievitare il Debito pubblico). Quel personale, una volta gravava sui loro bilanci. La partitocrazia ha proceduto quindi ad aumentare le province (fino a 124 prevedeva il “piano”, con conseguenti uffici collaterali di consigli provinciali, Prefetture, Questure ecc.); a costituire municipalizzate e comunità montane; ha dimenticato di procedere alla eliminazione degli enti inutili; ha allettato grands commis, già consolidati o di nuova creazione, alleandoseli con stipendi che non hanno paragone nel mondo civile”. Per quanto riguarda la politica finanziaria dei vari governi avvicendatisi dal 1996, eccone gli effetti sull’andamento del debito pubblico. (Fonte Adusbef).
Questa “manovra” ha generato una seconda esplosione, quella della spesa pubblica[1] (Punto2). Spesa corrente e
Spesa in conto capitale Il grafico precedente mette in evidenza l’andamento della spesa corrente (tratto blu) e quello della spesa in conto capitale (tratto rosso). Dal 1999 ad oggi la crescita della spesa corrente è in costante ascesa, segno che i governi avvicendatisi negli ultimi 15 anni non sanno, non possono o non vogliono correggerne l’andamento. Secondo gli ultimi dati ISTAT, nell’anno 2011 l’ammontare complessivo della spesa per redditi delle amministrazioni pubbliche è stato pari a 170,052 miliardi di euro, composto per il 70 per cento circa da spesa per retribuzioni e per il restante 30 per cento da contributi sociali. La tabella che segue mostra il numero complessivo dei dipendenti pubblici ed il rapporto con la popolazione attiva. Numero dei
dipendenti pubblici (2010)
Ed ecco la ripartizione del pubblico impiego per settore (Fonte 1° Rapporto 2012 del MEF):
Fermare il
Declino si impegna ad eliminare parte della spesa corrente, specie se
improduttiva o a bassa produttività,
per ridimensionare il livello del debito pubblico, finora utilizzato
per mantenerne la crescita continua.
Ne deriverà un corrispondente abbassamento delle aliquote fiscali
gravanti sui cittadini che pagano le tasse. (Punto 3). A questo punto, quando cioè la spesa corrente non graverà più sul Debito forzandone la crescita, sarà possibile procedere alla vendita ragionata del demanio. Gli introiti dovranno servire unicamente ad abbassare ulteriormente il livello del Debito. Ricordiamo che i dati relativi ai livelli di pressione fiscale [oltre 43%] sono nominali: se non consideriamo l’apporto del sommerso al Prodotto interno lordo, tale rapporto cresce di oltre 10 punti [55%] non potendosi considerare gli evasori[2]. Questa politica “obbligata” libererà risorse finora gestite mafiosamente, e il nostro impegno è quello di orientarle verso settori (più) produttivi. Negli anni ’90 abbiamo proceduto a finte privatizzazioni: banche, Telecom, INA ecc. Diciamo finte perché un settore (in condizioni di monopolio pubblico) può essere privatizzato purché si proceda prima a liberalizzarlo (Punto 4). Altrimenti il vecchio monopolio pubblico si trasforma in monopolio privato. E’ quanto è successo alle privatizzazioni di cui sopra (concesse agli amici) che hanno continuato a godere di assenza di concorrenza nei settori di riferimento, quindi accantonando ogni criterio meritocratico ed anzi precostituendo ostacoli, anche normativi, all’ingresso di nuovi operatori. Questo complesso di problemi, risolti sempre alla luce delle esigenze della casta, ha coinvolto anche i rapporti industriali (azienda/sindacati). I sindacati hanno accettato il meccanismo conseguente, che non mira a proteggere il cittadino che perde il lavoro[3], ma a salvaguardare il posto di lavoro. (Punto 5) Si è così proceduto per decenni a finanziare aziende decotte e ad indulgere nelle “rottamazioni” per rinnovare la domanda dei loro prodotti. [Per inciso, i vantaggi della rottamazione del parco auto (con
risorse a carico dell’Erario) sono andati per il 30 % alla Fiat (questa era la
sua quota di mercato interno), il 70 % a costruttori d’oltralpe]. Questo andamento viziato della nostra economia non sarebbe potuto durare così a lungo se parte della casta non avesse potuto approfittare della detenzione della quasi totalità degli strumenti di informazione di massa. E’ stata pertanto ritardata l’informazione reale dello stato delle nostre cose. (Punto 6) E’ opportuno quindi che i cittadini definiscano le caratteristiche proprietarie e finanziarie di coloro che si candidano alla gestione della cosa pubblica. Ad arte, in maniera
pianificata e cinica, la classe dominante ha ridotto il “potere giudiziario”
a semplice “servizio” della Pubblica amministrazione. Nella costruzione
teorica di Montesquieu avrebbe dovuto godere, come il legislativo e
l’esecutivo, di indipendenza, non solo operativa ma anche di bilancio. Il
nostro sistema giudiziario (adeguatamente trascurato da decenni) è soggetto
invece agli umori del Ministro della giustizia (potere esecutivo) anche per i finanziamenti necessari al suo
funzionamento. (Punto 7). [Per mancanza di fondi, Il
ministro Severino, qualche giorno fa, ha suggerito ai tribunali di redigere i
verbali a mano]. Contemporaneamente, è stato fatto passare, tra i cittadini, il messaggio in base al quale per giudicare le eventuali malefatte di un politico occorre attendere il terzo grado di giudizio. Mi si passino gli esempi forse abusati: se la baby sitter di un bambino viene accusata di pedofilia, i genitori del bimbo dovrebbero aspettare il terzo grado di giudizio per sostituirla? Se l’amministratore di un condominio è accusato di furto, i condomini dovrebbero attendere il pronunciamento della Cassazione per rimpiazzarlo? Su questo versante siamo stati convinti che il ricorso ad un giudizio di opportunità non doveva essere considerato. Noi invece dobbiamo tenerci gentaglia in Parlamento, al Governo, nei consigli di amministrazione di banche e di assicurazioni, presso le Authorities. Questa costruzione ha generato
un ambiente produttivo e burocratico completamente avulso sia da elementi di
concorrenza che da valutazioni meritocratiche. (Punto 8). Troppe aziende sopravvivono solo per gli affarucci di ritorno garantiti utilizzando i rapporti con la P.A. del potente di riferimento. Il quale non ha problemi a collocare in posti di rilievo presso i suoi clientes, parenti e amici al di là del valore individuale. Ne derivano conseguenze gravissime: un abbassamento della produttività, una scarsa propensione ad investire, una non considerazione del declino delle capacità competitive in mercati interni ed esteri. Vengono così colpiti giovani e soprattutto giovani donne. La tabella che segue (Elaborazioni Bankitalia - Fonte Istat) pone in evidenza l’andamento negli ultimi anni di alcune grandezze macro. Oltre a quello del PIL, è evidente il crollo degli investimenti fissi4
Da circa un decennio le imprese italiane stanno deprimendo gli investimenti. E’ evidente che in periodi in cui la tecnologia fa passi da gigante, l’assenza di investimenti fa perdere di produttività e rende molto problematica la possibilità di un suo recupero nei confronti dei concorrenti. Poiché la meritocrazia è stata
considerata non più utile, è stato trascurato da decenni il vero investimento
che proietta una società verso il futuro: la cultura, quindi la scuola e l’
università. (Punto
9). Negli anni ’50 e ’60 la scuola era ancora un luogo di riscatto sociale: il figlio bravo del contadino aveva maggiori chances socio-lavorative del figlio capra dell’avvocato. Con gli anni ’70, attraverso riforme continue si è strutturata la scuola non per i suoi fini peculiari, non per gli studenti, ma per tenere occupati centinaia di migliaia di insegnanti, di professori e di docenti in sovrappiù. Contenti sindacati e politici alla ricerca del consenso, meno lieto il Debito pubblico e l’Erario (per favore maiuscolo). [Dal
2001 sono state impostate decine di inutili facoltà ed di inutili Università.
Corsi di laurea molto particolari: "Scienze per la pace" di Pisa,
"Scienze del fiore e del verde" di Pavia, "Scienze e
tecnologie del fitness" di Camerino. Fino alle "Scienze e tecniche
equine" di Parma. E ancora, ”Benessere e igiene del cane e del gatto”,
“Allevamento del cane di razza”, “Scienza della produzione e della
trasformazione del latte”, Non poche facoltà hanno un solo studente iscritto
ma decine di docenti occupati a far poco, ma che avevano bisogno di
visibilità. E non si può tornare indietro se non con iniziative che devono
passare al vaglio di coloro che hanno messo in piedi l’affare. E comunque, i
docenti assunti sono difficilmente rimovibili. Il
massimo di incoscienza (e di saccheggio dell’Erario) è stato raggiunto nel
2006: l’Università italiana contava circa 5.400 corsi di laurea (più del
doppio del 2001) di cui 37 con un solo studente. Vai all’articolo di Stella e Rizzo comparso sul
Corriere della Sera nel dicembre 2006. Dal
2008 i corsi di laurea si vanno riducendo. Per pudore?] Quindi “tutti promossi, tutti ignoranti, tutti col pezzo di carta – quasi - straccia” (passatemi la grossolanità). Ma, a differenza degli anni del boom, oggi gode di migliori opportunità il figlio capra dell’avvocato – che vanta conoscenze ed entrature più spendibili - rispetto al figlio bravo del contadino. Nel 2010 i dipendenti del Ministero della pubblica istruzione erano 1.043.691: nel mondo occidentale, il nostro MPI è secondo ente per numerosità dopo l’Esercito americano. Complessivamente il corpo insegnante supera le 900mila unità (a cui si sommano circa 90 insegnanti di scuole private). Mentre il corpo insegnante è in crescita, i discenti negli ultimi decenni sono in calo: sono scesi sotto i 9 milioni nel 1978; sotto gli 8 milioni nel 1993; dal 2000 sono circa 7 milioni, stabilizzati dai figli degli immigrati. Questa componente del declino è forse la più grave per una nazione che vuole affrontare il futuro con le sue risorse impiegate al meglio. Se attuassimo, infine, quei provvedimenti che Fermare il Declino ha qui individuato, il federalismo (Punto 10) non avrebbe il sapore che la Lega gli ha voluto dare per mantenere il consenso al Nord. Comunque, ritengo che, oltre al problema del Mezzogiorno, siamo in presenza di un altrettanto serio problema del Nord. Soprattutto del NordEst: non dimentichiamo che il Triveneto era, negli anni ’50 e ’60 terra di dura emigrazione. In 3 decenni, i Veneti sono stati in grado di ribaltare la situazione. Hanno quindi sulla pelle il delta socio-economico che – con veri sacrifici - son riusciti a realizzare rispetto ai decenni di povertà. Con l’integrazione europea, gli accordi di Maastricht e l’introduzione dell’euro, delle tre leve a disposizione dei governi nazionali (fiscale, monetaria e dei cambi, di azione sul debito pubblico) è rimasta quella fiscale. Le altre sono state praticamente tolte dalle facoltà governative nazionali: l’azione sui cambi cassata dall’introduzione dell’euro; la possibilità di far lievitare, oltre certi livelli, il debito pubblico dai ratios imposti da Maastricht e – più recentemente – dai vincoli imposti dai mercati (anche speculativi) internazionali. Questa classe al potere, Monti compreso, dovendo garantire il suo stesso mantenimento, ha agito sulla leva fiscale piuttosto che sulla revisione drastica della spesa corrente: avrebbe nuociuto al consenso. In periodi di vacche grasse i cittadini possono anche resistere. Ma, col protrarsi della crisi, sempre più larghe fasce entrano in difficoltà. [ 427mila italiani campano bene di politica, di questi circa 150mila
sono eletti (UE, Parlamento, Regioni, Province, Comuni): ogni 140 cittadini
mantengono un satrapetto centrale o locale. Anche
per questo motivo nessun partito se la sente di togliere le province:
dovrebbe mettersi contro i capibastone di partito locali, gestori di consenso
e procacciatori di fondi] A differenza dei paesi del nord in generale ed anglosassoni in particolare, la nostra cellula antropologica non è l’individuo, ma la famiglia. [Occorrerà parlare di pregi e difetti di questa caratteristica
peculiare]. Sta di fatto che le famiglie italiane, considerate nel pianeta tra le più risparmiose (ce la battiamo con giapponesi e belgi) sono state obbligate a ridurre fortemente la loro propensione al risparmio. Ecco i dati sull’andamento del risparmio familiare in Italia negli ultimi 10 anni: Risparmio familiare in Italia Fonte: Relazioni del Governatore della Banca
d’Italia (miliardi di euro)
I 10 punti di Fermare il Declino nulla indicano su questo fronte. Siamo pertanto obbligati ad affrontarlo con decisione e serietà strada facendo. Ultima considerazione. Dobbiamo competere con nazioni (Francia, Inghilterra, Germania) che hanno una domanda interna in grado di sostenere ancora il versante dell’offerta ed i loro settori produttivi. Noi dobbiamo ringraziare sindacati e Confindustria che, negli ultimi 15 anni, hanno dato luogo ad una politica salariale sciagurata e ad una altrettanto sciagurata politica industriale di investimenti e innovazioni. Oggi i nostri salari non sono in grado di sostenere i consumi. E le famiglie, nel dubbio per il futuro, non consumano (breve periodo) e non fanno figli (lungo periodo). Le nostre aziende stentano a competere con concorrenti esteri dal momento che, da tre lustri non hanno investito né in tecnologia, né in innovazione, né in risorse umane. Abbiamo una classe dirigente che da decenni trascura gli “interessi
nazionali” per dedicarsi a saccheggi di parte. O ci mettiamo di buzzo buono
per fermare il declino, o il declino ci farà dare una musata di quelle
epocali, di cui si parlerà nel day after. NOTE (1)
Spese dello stato: spese correnti
+ spese in conto capitale Spese correnti Dette anche di funzionamento, costituiscono l'insieme della
spesa pubblica
necessaria all'ordinaria conduzione della struttura statale. Rappresentano la
parte più cospicua della spesa pubblica. L'altra è costituita dalle spese
in conto capitale Spese in conto
capitale (2)
Fisco: italiani tartassati. Pressione
fiscale verso quota 55% A stimare questa impennata è il presidente di
Confindustria, Giorgio Squinzi, che durante un'audizione nella commissione
Finanze della Camera sulla delega fiscale prevede l’aumento nei prossimi
anni. «Nell'ipotesi della completa attuazione di tutte le misure
fiscali previste dalle ultime manovre finanziarie, la pressione fiscale
italiana - ha detto Squinzi - si collocherebbe nei prossimi anni intorno al
45% rispetto al 42,1% del 2011», ma questo 45%, ha aggiunto il presidente
degli industriali, «diventa quasi il 55% se il calcolo viene fatto sottraendo
il Pil sommerso». 20 / 09 / 2012 (3)
Non a caso, in Italia gli ammortizzatori sociali sono a
carico delle famiglie di riferimento del lavoratore entrato in difficoltà. Il
disoccupato tedesco o francese è a carico di Merkel
o di Hollande. In
Italia è protetto praticamente dalla sola famiglia. (4)
Investimenti
fissi lordi. Sono le acquisizioni di capitale fisso effettuati dai
produttori residenti in un determinato Paese. Il capitale fisso è costituito
dai beni materiali e immateriali prodotti destinati a essere utilizzati nei
processi produttivi per un periodo superiore ai dodici mesi. Dal
Corriere della Sera del 27
dicembre 2006
Università, 37 corsi di laurea con un solo studenteDa Bologna a
Moncrivello: i casi in tutta Italia. E il numero totale è raddoppiato in 5
anni Di G.A. Stella e S. Rizzo C'è un Robinson disperso su un'isoletta
universitaria di Forlì che non ha neanche un Venerdì con cui
parlare: è l'unico iscritto al corso di Scienze della mediazione linguistica.
Ma con chi può mediare, se non c'è un selvaggio con cui aprir bocca? Una
solitudine da incubo. La stessa che deve provare l'unico iscritto a
Scienze storiche a Bologna e l'unico a Ingegneria industriale a Rende
e l'unico a Scienze e tecnologie farmaceutiche a Camerino e insomma tutti i
solitari frequentatori di 37 corsi universitari sparsi per la penisola. Avete letto bene: ci sono trentasette mini-facoltà
con un solo studente. Poi ce ne sono dieci con 2 frequentatori, altre dieci
con 3, altre quindici con 4, altre otto con cinque e altre ventitré con 6 giù
giù fino a un totale di 323 «universitine»
che non arrivano a 15 iscritti. Con alcune situazioni piuttosto curiose. Come
quella di Termoli, che come patrono ha San Basso ma accademicamente vola
alto: dal sito del Comitato nazionale per la valutazione del sistema
universitario si può apprendere infatti che i ragazzi della cittadina
molisana che non si sentono predisposti ai viaggi, hanno a disposizione non
una ma addirittura due possibilità di diventar dottori sotto casa. La prima
viene loro offerta dalla facoltà di medicina e chirurgia dell'Ateneo del
Molise (29 iscritti), la seconda dalla Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
La quale, invogliata dalle nuove normative, è salita ormai a 21 sedi diverse,
posizionandosi anche in metropoli quali Guidonia Montecelio (32 iscritti a
medicina), Pescopagano (33), Larino (37) e Moncrivello, ridente paesino in
provincia di Vercelli con 1.477 abitanti, dei quali 14 decisi a diventare
chirurghi, urologi o anestesisti. Un record da dedicare al santuario del Trompone, il cui nome ha una tale assonanza con certi
professoroni universitari che il destino, diciamolo, era già prefigurato. Ma
un record battuto, appunto, da Termoli. Dove gli iscritti a medicina,
versante Cattolica, sono sei. Meno male: tre maschi e tre femmine. Direte:
quanto costeranno, certi atenei in miniatura? Valeva la pena di incoraggiare
questa moltiplicazione di pani, pesci e cattedre finendo fatalmente per
abbassare il livello medio degli insegnanti, visto che come nel calcio e
nella lirica non ci sono abbastanza Totti e abbastanza Pavarotti per tutti
gli stadi e tutti i teatri e occorre dunque ricorrere sempre più spesso a
brocchi e ronzini? E' quanto cercheremo di spiegare. Partendo da alcuni
numeri. Primo fra tutti quello delle università "storiche",
italiane. Erano 27, figlie di una tradizione spesso secolare, e sono rimaste
tali per un sacco di tempo. Salendo poi lentissimamente, dalla metà degli
anni Cinquanta in avanti, fino ad arrivare alla fine del millennio a 41.
Bene, da allora (c'è chi dice a causa delle scelte del ministro «rosso» Luigi
Berlinguer e a causa di quelle del ministro «azzurro » Letizia Moratti) sono
dilagate. Arrivando in una manciata di anni a 78. Più «ospiti» quali
l'Università di Malta, più le «private» (sulle quali avremo modo di
sorridere), più undici «telematiche» sulle quali esistono dettagli piuttosto
curiosi da raccontare. Totale? Quelle col «bollino» sono 94. Ma il caos è ormai
tale che la somma totale degli «atenei» veri o presunti (e meno male che
qualcuno è stato burocraticamente raso al suolo da Fabio Mussi come quello
fondato in una palazzina di Villa San Giovanni da un certo Francesco Ranieri
che la dedicò al suo omonimo nonno) è ormai difficile da calcolare.
«Evviva!», esulteranno certi liberisti nostrani: tante università, tanta
concorrenza. Tanta concorrenza, tanta selezione. Tanta selezione, tante
eccellenze. E' vero o no che lo stesso Salvatore Settis,
acerrimo nemico della proliferazione, ha scritto che in America le cose
chiamate «università» sono circa quattromila e dunque noi abbiamo ancora
spazio per altre sei o settecento «atenei»? Verissimo, sulla carta. Non fosse
per due dettagli sottolineati dal direttore della Normale di Pisa. Il primo è che negli Stati Uniti chi non è
all'altezza si arrangia: se trova studenti che pagano la retta per andarci
bene, sennò chiude. Il secondo è che il titolo di studio, lì, non ha alcun
valore legale: hai preso la laurea ad Harvard? Ti assumono tutti. L'hai presa
in una pseudo- università allestita da un mestierante senza la biblioteca e
senza laboratori e senza docenti di un certo livello? Non ti fila nessuno.
Affari tuoi, se ti sei fatto imbrogliare. E non c'è concorso dove possa
giocarti una laurea ridicola per accumulare punti in graduatoria e prenderti
un posto immeritato. Qui è la prima contraddizione, denunciata da Francesco
Giavazzi e Piero Ichino e Roberto Perotti e altri
ancora: il via libera alla moltiplicazione degli atenei senza aver prima
abolito il valore legale del titolo di studio è un errore fatale. Che toglie
risorse, chiedendo una distribuzione a pioggia di stampo clientelare, alle
università vere. Quelle serie. Sobrie. Spesso straordinarie. Che ci fanno onore
in Italia e all'estero. Che hanno già levato alta la loro protesta. E oggi
sono spesso costrette a mettersi in concorrenza coi furboni. E a cedere alla
tentazione di aprire in città e paesi e borghi e contrade più o meno vicine
nuove facoltà e nuovi corsi di laurea. Meglio: nuovi punti vendita. Basti
pensare che questi corsi (per i quali non occorre l'autorizzazione
ministeriale) erano 2.444 nel 2000/2001 e alla fine del 2005 erano già
schizzati a 5.400. Numero destinato a un successivo incremento (più 861)
nonostante, scrive l'ultimo rapporto del Miur, «le
raccomandazioni a livello centrale di procedere a una semplificazione
dell'offerta». E così, se le Università sono diventate 94, le facoltà sono
cresciute fino a 610 e i dipartimenti fino a 1.864 e gli istituti a 319 e i
«centri universitari» a vario titolo fino a 1.269. Fino a casi abnormi come
quello della «Sapienza». Che da Roma ha alluvionato di sedi e «sedine» tutta l'Italia centrale fino ad avere oltre
duecento (chissà se almeno il rettore conosce il numero esatto) indirizzi
postali differenti. Dove sono stati coriandolizzati
la bellezza di 341 corsi diversi: dall'infermieristica a Bracciano a
logopedia ad Ariccia, dalle tecniche di laboratorio biomedico a Pozzilli
all'architettura degli interni a Pomezia. Per un totale (professori ordinari
e assistenti e ricercatori) di 4.766 docenti. Tutti bravi come Totti?
Difficile da credere. Ma certo anche tra di loro c'è chi ama giocare. Come i
docenti che hanno organizzato, tempo fa, un «corso di composizione floreale
per imparare a realizzare decorazioni di Natale con rametti di pino, candele
e bacche colorate». E poi dicono che l'Università italiana non punta sulle
specializzazioni... Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella Da www.fermareildeclino.it
Noi e
Loro. Perché una differenza c'è!
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[1] Spese
correnti
Dette
anche di funzionamento, costituiscono l'insieme della spesa
pubblica necessaria all'ordinaria conduzione della struttura statale.
Rappresentano la parte più cospicua della spesa pubblica. L'altra è costituita
dalle spese
in conto capitale
Spese in
conto capitale
Dette anche di investimento, sono quelle spese con le quali lo Stato mira a
svolgere una politica attiva nell'ambito economico nazionale.
Le spese in conto capitale comprendono:
— le spese per investimenti, sia diretti che indiretti (attuati questi
ultimi mediante assegnazioni di fondi ad altri soggetti);
— le spese per l'acquisizione di partecipazioni, azioni, per
conferimenti e per concessioni di crediti per finalità produttive, ecc. Esse
rappresentano, in definitiva, il contributo che lo Stato dà alla formazione del
capitale produttivo del paese.
A stimare questa impennata è il presidente di
Confindustria, Giorgio Squinzi, che durante un'audizione nella commissione
Finanze della Camera sulla delega fiscale prevede l’aumento nei prossimi anni.
«Nell'ipotesi della completa attuazione di tutte le
misure fiscali previste dalle ultime manovre finanziarie, la pressione fiscale
italiana - ha detto Squinzi - si collocherebbe nei prossimi anni intorno al 45%
rispetto al 42,1% del 2011», ma questo 45%, ha aggiunto il presidente degli
industriali, «diventa quasi il 55% se il calcolo viene fatto sottraendo il Pil sommerso».
20 / 09 / 2012
[3] Non a caso, in Italia gli
ammortizzatori sociali sono a carico delle famiglie di riferimento del
lavoratore entrato in difficoltà. Il disoccupato tedesco o francese è a carico
di Merkel o di Hollande.
In Italia è protetto praticamente dalla
sola famiglia.