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Documento inserito il:30-9-2012

 

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Pubblico giornale 29-9-2012

[Orwell] Filosofia, o il compito di non sapere mai abbastanza

di Paolo Pecere

 

Scriveva Kant che «non si può imparare la filosofia», mandando a memoria il contenuto di un libro, «si può tutt’al più imparare a filosofare». Si trattava, in primo luogo, di richiamare l’attenzione sulla ripugnanza che la filosofia ha sempre avuto nei confronti di qualsiasi ortodossia e sul compito critico del pensiero, che non consiste nel collezionare e difendere certezze, bensì nel «conoscere i nostri confini».

Ma nel richiamo kantiano c’era di più. Per esercitare la sua vocazione, il filosofo deve – ha sempre dovuto – impicciarsi nei saperi altrui e mettere in discussione le competenze dei professionisti. Così faceva Socrate, che irritava politici e maestri vita con i suoi interrogativi insistenti e addentrandosi in ogni disciplina diceva la sua sulla santità senza essere sacerdote, sulla giustizia senza essere magistrato, sulla dimostrazione senza essere matematico, sulla bellezza senza essere pittore. Professando metodologicamente la propria (e nostra comune) ignoranza sulle idee fondamentali dei saperi “tecnici”, Socrate preveniva un malinteso e un tradimento mille volte compiuti, per cui la filosofia si è presentata addirittura come un supersapere.

Il filosofo deve infatti continuamente cominciare da capo, ripensando metodi e inventandone di nuovi, per mettere in discussione quanto insegnano i maestri. Deve dunque, anche, capire i saperi istituzionalizzati, trovarvi attrito, per non finire ingoiato nel vortice gassoso dei propri ragionamenti. In questo senso Galilei diceva che gli aristotelici del suo tempo, che ripetevano l’aristotelismo, non potevano dirsi «filosofi» – come Aristotele, e come lo stesso Galilei, che si mettevano alla prova direttamente con il “libro della natura” ­- ma piuttosto «dottori di memoria».

In ogni epoca la filosofia è rinata da un simile sforzo dei filosofi di estendere le proprie conoscenze al di fuori dei presunti confini disciplinari, per interrogare meglio questi confini e criticare il dato ed il presente: così, oltre a meditare i libri filosofici e religiosi della tradizione, Descartes sezionava cadaveri e tagliava lenti, Kant si affaticava con la fisica e la matematica, Nietzsche si cimentava con la biologia cellulare, Foucault apriva dossier psichiatrici accanto a libri di poesia. Questo orizzonte intrinsecamente transdisciplinare, spesso alimentato da pensatori operanti al di fuori delle università, era del resto radicato fin dagli inizi nello stesso insegnamento universitario della filosofia, che oltre alla logica includeva – dopo avere affrontato una breve opposizione ecclesiastica nel XIII secolo – discipline come la matematica, la fisica, l’astronomia e la musica, e costituiva il passaggio obbligato verso ogni altra specializzazione disciplinare.

Così un confine invisibile, che attraversa tutta la storia della filosofia, divide la fedeltà al compito critico dall’infinito tradimento delle mode e dei gerghi filosofici che ha di volta in volta dominato la scena pubblica – platonismo, aristotelismo, hegelismo, heideggerismo, filosofia analitica. Da questo confine è sempre sorta l’autentica innovazione, che dalla filosofia si è spesso irradiata nelle discipline speciali.

Per esempio Einstein raccomandava a un insegnante di fisica di insegnare la storia e la filosofia della scienza, perché «l’indipendenza creata dallo sguardo filosofico è il marchio distintivo tra un mero specialista e un vero indagatore della verità», paragonando gli scienziati professionisti che non se ne interessavano a chi «ha visto mille alberi, ma non ha mai visto una foresta». Questa lettera inedita è stata recentemente ricordata da Don Howard, che in Scientific Philosophy. Its Origins and Development (1850-1950) sta per pubblicare una ricostruzione della grande epoca dei filosofi-scienziati; in generale, negli Stati Uniti è grande l’attenzione per la compresenza della filosofia nelle scienze e per il ruolo che la filosofia ha avuto nelle rivoluzioni scientifiche (si pensi agli studi di Michael Friedman).

Simili auspici che la filosofia torni in sé – cioè fuori di sé – non sono mancati anche in Italia, parallelamente all’importazione dei vari dogmatismi alla moda, sempre attraverso gesti d’infrazione dei confini disciplinari. Per esempio, al termine della stagione semiotica Emilio Garroni riscoprì una filosofia del «senso», riflessione «non-speciale» che risale alla genesi di ogni significato determinato confrontandosi con il suo «altro», le scienze, le arti, l’esperienza in genere. E più di recente Carlo Cellucci, nel suo Perché ancora la filosofia?, ha concluso una decennale demolizione del paradigma dimostrativo della logica matematica rilanciando l’idea di filosofia come «indagine sul mondo», che non può sussistere se non come orientamento vitale incarnato in molteplici competenze. Simili percorsi intellettuali richiamano sempre di nuovo a un ripensamento dell’attività del filosofo, che non può e non deve rinchiudersi in un’esclusiva «professionalità», ponendosi magari in competizione con altre figure su un presunto “mercato” dei saperi, ma tornare a un più umile – e più impegnativo – compito socratico: esaminare l’orizzonte dei saperi, restando uno che non sa mai abbastanza, e insomma ­– esemplarmente per tutti – un eterno studente.