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inserito il: 31-10-2012 |
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Da
Pubblico giornale 30-10-2012 La differenza italiana Cos’è l’Italian Theory
Di Roberto Ciccarelli (@furiacervelli)
30 ottobre 2012 alle 08:51 A differenza di altri paesi europei,
la Spagna, l’Inghilterra o la Francia, e poi la Germania, la filosofia italiana
non ha accompagnato la creazione di uno Stato nazionale. Non ne ha costruito
l’apologo, né celebrato la fine. La politica, come la storia, sono state
pensate da Machiavelli e Bruno, Vico o Leopardi al di là della costituzione
di uno Stato, radicandosi in una dimensione prestatale che ha alimentato una
critica contro l’autorità politica, ma anche l’opposto: una radicale
diffidenza rispetto ad ogni forma di vincolo politico statale a beneficio dei
legami comunitari o municipalisti. In entrambi i casi l’atto
iniziale del pensiero politico in Italia risuona nell’universale, e
contraddittoria, assenza del territorio e di un’autorità. L’apolidia della
filosofia è così diventata l’oggetto stesso della riflessione, il suo reale
contenuto politico. C’è una tradizione che ha
sottolineato i limiti di questa anomalia che ha impedito la formazione di una
cultura condivisa. De
Sanctis, Croce, Gramsci e Garin
hanno battuto un argomento ancora attuale: in Italia i pensatori, come gli
intellettuali, sono stati orfani di un’autorità, maturando l’aspirazione
fallace di governare gli affari dello dello Stato,
oppure condizionarli. Salvo poi confessare, loro stessi, il sogno degenerato
dell’autonomia rispetto allo Stato che oggi si è diffuso in maniera uniforme
in tutta la società sotto forma del desiderio
di familismo e cooptazione. Ma questo aspetto degenerativo
dell’intellettuale italiano non è l’unico, né quello determinante, nell’«Italian
Theory». L’assenza di una vocazione
nazionale del pensiero non rappresenta più il sintomo di una condizione
«cosmopolita», espressione con la quale Gramsci stigmatizzava l’intellettuale
distaccato dalla politica delle masse, ma l’insorgenza di un materialismo radicale.
Un rovesciamento che sarebbe
avvenuto dopo la fine della guerra fredda, facendo emergere un tratto della
filosofia italiana largamente trascurato visto che la figura del pensatore,
come quella dello scrittore o poeta, è stata presa in considerazione solo per
la sua individualità. È un retaggio della cultura storicista, affascinata più
da singolarità esemplari che dalle storie politiche di cui esse erano
l’espressione. Un limite che, paradossalmente, torna anche nell’«Italian Theory» quando
sottolinea la risonanza internazionale riscontrata dai libri di Giorgio Agamben, di Toni
Negri o Roberto Esposito. Questa diffusione è stata possibile
perché nelle filosofie «italiane» – il plurale è obbligatorio considerata la
diversità degli approcci e delle prospettive – risuona favorevolmente un
contesto politico sensibile alla radicalità del pensiero e alla ricerca del
conflitto contro le politiche dell’austerità imposte dal neoliberismo. Una situazione simile si affermò nel
periodo fondativo della «differenza italiana»
tra il XVI e il XVII secolo. Se Giordano
Bruno – ad esempio – passò buona parte della sua vita vagando
per le corti, le università o le prigioni europee, lo fece perché seguiva le
rotte dell’emigrazione intellettuale di una strana, e pericolosa, generazione. In
quegli anni Hobbes sosteneva nel Behemoth che
il vero pericolo sociale per la corte d’Inghilterra, come per tutte quelle
europee, si annidava nelle bettole dove i chierici vaganti sobillavano onesti
artigiani e lavoranti di bottega al libero esercizio del pensiero e
all’insurrezione contro i regnanti. Da bravo uomo d’ordine consigliava al Re
inglese di arrestarli tutti. Il suggerimento venne accolto, ma non impedì a
questa fiumana di ingrossare la corrente tra la fine del XVI secolo fino alla
Rivoluzione Francese. L’Europa era attraversata da una moltitudine di trickster, picari, pirati di terra alla ricerca del porto
sicuro di un ingaggio quotidiano. C’erano gli attori della Commedia
dell’arte, i pittori e architetti del Rinascimento italiano al servizio
dell’Ancien Régime, da Madrid a Pietroburgo: da
Tiziano a Piranesi, solo per restare alla
Repubblica di Venezia, esistono decine di storie che raccontano l’imponenza
di una «fuga
dei cervelli» dalle ristrettezze economiche in cui papi e
cardinali, nobili e dogi tenevano le intelligenze che lavoravano al loro
servizio. Questa è anche la storia della filosofia italiana. Una volta
considerato questa prospettiva, il canone dell’identità nazionale non sarà
più lo stesso. L’«italiano» in sé non esiste, non
perché sia evaporato nella nuvola delle sue tipologie dialettali, ma perché
la sua identità è scaturita da un nomadismo che si è difeso dalle pretese
predatorie delle autorità, dedicandosi alla creazione di una nuova forma di
vita individuale e collettiva. Ovunque si trovi. [pubblicato su Orwell del
13/10/2012.] |
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