CENACOLO  DEI  COGITANTI

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DOCUMENTO DEL 13-2-2009

CRONOLOGIA DELLE COGITAZIONI DI  MAURO NOVELLI

 

 

 

I “principi” (etica) sono cosa diversa dai “valori” (morale).

Ma i principi dei potenti sono di rango superiore ai nostri?

 

Mauro Novelli Cogitante

 

 

Quelle che seguono sembrano affermazioni, ma sono altrettanti argomenti da sfaccettare. Insomma, è come se tutto terminasse con un punto interrogativo.

I due termini vengono usati (anzi abusati) alternativamente come se fossero sinonimi: “..dobbiamo trasmettere ai figli i nostri principi, i nostri valori….”, “… con la carta dei valori, la nostra società ha inteso promuovere i principi …”.

Ma i due termini sottendono concetti operanti su piani diversi.

I “principi” costituiscono la sorgente intellettuale/culturale/educativa che determina  le azioni ed i comportamenti di una persona. Quindi costituiscono la griglia di valutazione che informa la condotta individuale. Possiamo definirli come intelaiatura etica personale. Non sono inscrivibili in una graduatoria, perché il mio agire è dettato dalla loro capacità di motivarmi, quindi nessuno dei miei principi è più importante o ha valore superiore agli altri.”

Faccio un esempio (teorico?). Io non rubo, non mi faccio corrompere, non infierisco su un più debole per principio. E’ evidente l’impossibilità di una graduatoria.

 

I “valori” (quindi, roba soggetta a valutazione) rappresentano la proiezione sociale dei principi (ripetiamo individuali). Una società strutturata, costituita da cittadini che (di norma) hanno principi analoghi, ha un interesse a che quei principi siano valorizzati e protetti, e reagirà (dovrebbe reagire) ad ogni tentativo di violazione da parte di membri che individualmente agiscono mossi da principi diversi o, addirittura, opposti.

I valori sono tali proprio perché al di fuori della sfera del singolo: per valutare, cioè dare un valore ad un bene occorre che se ne interessino almeno due cittadini: se fossi solo su questo pianeta che valore avrebbe tutto l’oro di Fort Knox? Sono quindi inseribili (essi, sì) in una  graduatoria che faccia emergere l’interesse sociale relativo al loro rispetto e, in parallelo, valuti le conseguenze dannose di una loro eventuale violazione.

Quindi, mentre i “principi” costituiscono la personale intelaiatura etica, i “valori” danno luogo alla intelaiatura morale (quindi di costume) sociale.

 

Per continuare con un esempio, se l’insieme dei cittadini ha come principio quello di non farsi corrompere, la società farà in modo di acquisire il “non farsi corrompere” come “valore”, ne apprezzerà l’utilità e ne sanzionerà le violazioni.

Le due categorie antropologiche si influenzano – è chiaro - biunivocamente.

Infatti, se diminuisce il numero relativo dei cittadini che non si fanno corrompere per principio, a favore di coloro che invece cederebbero volentieri alle avances del corruttore, le quotazioni del “valore” sociale che spinge a proteggersi dal fenomeno della corruzione diminuiscono. Si arriverà al punto in cui trasmettere ad un figlio il principio di non farsi corrompere, darà luogo ad un individuo portatore di principi (considerati) sani ma che non hanno riscontro in un valore sociale (se non nominale), costituendo, nei fatti, un disvalore: “Papà… ma che cosa mi hai insegnato?”. In queste condizioni, la società potrebbe non avere gli strumenti per reagire seriamente al fenomeno della corruzione.

Ma al di là della numerosità, è evidente che chi acquisisce posizioni di potere (politico, economico, culturale, di informazione) ed è soggetto ad una devianza dai principi della maggioranza dei cittadini, anche se minoritario in società, ha gli strumenti per trasformare molto agevolmente  i suoi principi (di potenziale corruttibilità, per continuare nell’esempio), in valori protetti, anche se nominalmente li condanna. Trasformerà quindi con facilità la sua etica individuale  in morale sociale.

I nostri antenati ben conoscevano i guasti derivanti dal promuovere a rango di legge (quindi di comportamento sociale, di “valore”) la scelta che il privato effettua per suo vantaggio (“privilegia ne irroganto”: è l’unico frammento rimasto della Nona delle Dodici tavole delle leggi scritte nel bronzo dal Decemviri di Roma quasi 2500 anni fa.

Come fare in modo che il potente deviato non abbia questa facoltà? Che anche in questo campo si torni a “Una testa, un voto”?

Come deve reagire chi ancora crede nella validità dei suoi principi affinché la società sviluppi gli anticorpi in grado di non permettere, anzi di contrastare, una troppo agevole traduzione dell’etica di pochi in morale collettiva?

L’”avviso” della Corte dei Conti dovrebbe farci riflettere e compattarci nel tentativo di reagire.

Non sarà il caso di progettare, con fantasia, strumenti di recupero ?

Cominciamo a dire la nostra.

E non serve alzare la voce.

 

CRITICA