PRIVILEGIA NE IRROGANTO

Documento inserito il: 2-3-2013

 

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La PignattA n° 75

DOSSIER SULLE FONDAZIONI BANCARIE

 

Da noisefromamerika.org

 


Sommario

 

DOCUMENTI CORRELATI 1

Fondazioni bancarie e sistema bancario: riassunto del convegno. 2

Dei risparmi e delle banche. 10

Articolo quinto. 12

Utili idioti 14

Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo. 15

Fondazioni nunc et semper 18

A Ma’! Versace ‘n artro LTRO!!!! (*) 19

Conti correnti gratis? Per tutti! 21

 



 

 

Fondazioni bancarie e sistema bancario: riassunto del convegno

2 marzo 2013 giulio zanella e Francesco Pesci

Per chi c'era (per continuare a discutere) e per chi non c'era (per iniziare a farlo) ecco un riassunto dei punti salienti del convegno su banche e fondazioni bancarie, organizzato dalla Fondazione NFA sabato 16 febbraio a Firenze. Nel post trovate anche linkate tutte le slides usate dai relatori, che ringraziamo per averle rese disponibili.

La questione del rapporto tra fondazioni bancarie e banche italiane e' tutt'altro che nuova. Si trascina, infatti, da ormai quasi un quarto di secolo; da quando, cioe', si inizio' il processo di privatizzazione con la "legge Amato" nel 1990 (legge n. 218 del 1990). Come nella migliore tradizione delle grandi riforme italiane, a tutt'oggi questo processo e' incompiuto. Il tema, latente appunto da quasi 25 anni, e' esploso in modo caotico a fine gennaio quando sono venuti al pettine i noti del caso piu' emblematico di commistione tra banche e politica, il caso Monte dei Paschi di Siena (MPS). La reazione delle forze politiche, in piena campagna elettorale, allo scoppio del bubbone MPS, e' stata a dir poco patetica. Avendo tutti quanti (ad eccezione delle forze politiche emergenti, per forza di cose) le mani nella marmellata senese o in altre specialita' regionali da Lodi a Cagliari passando per Catanzaro, o temendo di pestare calli sensibili i piu' hanno taciuto e chi ha parlato si e' limitato a balbettare qualcosa sulla necessita' di rivedere il rapporto tra banche e fondazioni. Tranne poi far finta di dimenticarsene, confidando nella smemoratezza (questa vera, purtroppo) del popolo italiano.

Per questo la Fondazione NFA (una fondazione non bancaria finanziata dai nostri lettori :-)) ha organizzato in tutta fretta un convegno sul tema, che si e' svolto sabato 16 febbraio a Firenze. Abbiamo messo insieme molti tra quelli che piu' hanno riflettuto sul tema negli anni scorsi, per battere il ferro mentre era ancora caldo e prima che si raffreddasse di nuovo (nota di attualita': questo e' evidentemente gia' accaduto; il Movimento 5 Stelle (M5S) aveva urlato alla rivoluzione del sistema a Siena col suo portavoce Grillo, ma non c'e' traccia della questione nelle priorita' sottoposte dagli elettori del M5S a Grillo per una breve legislatura di riforme). I partecipanti e i titoli degli interventi al convegno li trovate qui.

L'esplosione caotica del tema col caso MPS ha fatto confondere due questioni che sono e vanno tenute invece ben distinte. La prima e': chi controlla le banche in Italia e come le gestisce? La seconda e': qual e' il ruolo delle fondazioni filantropiche, ivi incluse le fondazioni di origine bancaria? Approfittando della confusione sono state gettate nella mischia due teorie che corrispondono ad altrettanti equivoci da rigettare. Si veda, per tutte, la reazione di Giuseppe Guzzetti (con intervista su Avvenire il 30 gennaio scorso e una risposta pubblicata su nFA), 80 anni l'anno prossimo, gia' presidente DC della Regione Lombardia dal 1979 al 1987, poi senatore per due legislature, poi presidente della Fondazione Cariplo dal 2000 a tutt'oggi presidente dell'Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio (ACRI), un esempio di carriera politico-bancaria senza soluzione di continuita' piuttosto comune in Italia.

La prima e' la teoria della mela marcia, secondo la quale quello di MPS sarebbe un caso isolato di mala gestione. Noi crediamo invece che MPS non sia affatto un caso isolato ma la manifestazione di una chiara questione sistemica nella governance delle banche (chiaramente emersa al convegno, si veda oltre). Incidentalmente, se Guzzetti e' oggi convinto che la Fondazione MPS ha commesso errori cruciali non si capisce perche', ieri, si era scelto (o aveva concorso a scegliere) in sequenza come due ultimi vicepresidenti Giuseppe Mussari (Fondazione MPS, allora) e Gabriello Mancini (Fondazione MPS, a tutt'oggi).

La seconda e' le teoria del complotto contro le fondazioni bancarie. Nessuno, in realta', mette in dubbio l'utilita' delle fondazioni private filantropiche. Al contrario. Di tali fondazioni ve ne sono dappertutto in giro per il mondo e svolgono certamente un importante ruolo nelle comunita' di riferimento. Le fondazioni bancarie italiane, per esempio, forniscono sostegno finanziario alla ricerca, alla sanita' locale, e alle iniziative artistiche e culturali. Quest'attivita' e' certamente di grande valore per la societa'. Va notato pero' che questo si puo' fare (e anzi, si fa tipicamente meglio) senza avere un interesse significativo, o senza evere interesse alcuno, nel sistema bancario. Non c'e' motivo di perseguire quest'ultimo. Si veda oltre l'interessante caso della Fondazione Roma. Il patto per cui tu accetti che chi siede nei consigli delle fondazioni bancarie eserciti un'influenza determinante sul sistema del credito in cambio di un po' di erogazioni al territorio e' scellerato.

Si, perche' tutte le maggiori banche italiane sono controllate da fondazioni "di origine bancaria", e una buona parte di queste ultime detiene una quota significativa del capitale azionario sulla loro banca di origine, in violazione del principio basilare di differenziazione del portafoglio (che detto in termini di economia domestica significa, semplicemente, che non devi mettere tutte le uova -- ma neppure una parte significativa delle stesse -- nello stesso paniere). Raccomandiamo la lettura dello studio "Italian Banking Foundations" di Andrea Filtri e Antonio Guglielmi, che contiene interessanti dati su questo e altri aspetti (Andrea Filtri era stato invitato al convegno e sarebbe venuto volentieri, ma vivendo a Londra purtroppo non ce l'ha fatta ad organizzarsi. Lo ringraziamo, di nuovo, lo stesso). Il dato riportato nella figura sotto, prodotto da Filtri e Guglielmi e utilizzato anche da Tito Boeri durante il suo intervento, mostra che solo il 18% delle fondazioni bancarie italiane ha abbandonato l'azionariato bancario. Il 15%, invece, possiede oltre il 50% delle azioni della banca di riferimento. Oltre la meta' delle fondazioni bancarie italiane hanno oltre il 5% delle azioni della banca di riferimento. Considerando quanto e' frammentato l'azionariato delle grandi banche questo significa una forte presa delle fondazioni (cioe', quasi sempre, dei politici che le controllano direttamente o le influenzano) sul sistema del credito.

 

filtri-guglielmiTra quel 18% che ha abbandonato l'azionario bancario c'e' l'interessante caso (portato alla nostra attenzione dal sempre ottimo Francesco Lippi) della Fondazione Roma, che ha venduto il pacchetto di azioni della banca di riferimento (la Banca di Roma) e che oggi ha un patrimonio ben diversificato e redditizio che le permette di fare quello che le fondazioni dovrebbero fare, cioe' cose utili alla comunita' -- non attivita' di influenza sulle banche. Cosi' scrive il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele:

le fondazioni ex bancarie, e quelle che, come la Fondazione Roma, dopo aver definitivamente interrotto il legame con la banca conferitaria ed aver concentrato ogni attenzione ed ogni energia esclusivamente nell’attività filantropica e di rilevanza sociale, possono ormai definirsi fondazioni di diritto civile, occupano, insieme agli altri soggetti del terzo settore, gli spazi sempre più ampi non presidiati dal pubblico e dal mercato, grazie alla loro provata capacità, associata alla disponibilità di risorse adeguate, di rappresentare un punto di riferimento progettuale e organizzativo per idee ed interventi di alta qualità sociale, che non trovano accoglienza da parte degli altri soggetti economici.

Sante parole! La Fondazione Roma oggi ha persino un proprio (e importante, a quanto pare) museo. Indubbiamente meglio fare un museo e lasciare che siano i banchieri a fare i banchieri. Col senno di poi (ma a dire il vero in questo caso sarebbe bastato anche il senno di prima) se la Fondazione MPS avesse fatto allora la stessa cosa (cioe' vendere le azioni della banca e investire un patrimonio di svariati miliardi di euro in un portafoglio diversificato), oggi il suo patrimonio sarebbe intatto e continuerebbe a fruttare in abbondanza a beneficio di Siena e del suo territorio. Essendo Siena una citta' di 60mila abitanti contro i quasi 3 milioni di Roma  ed avendo la Fondazione Roma un patrimonio di soli 1,3 miliardi di euro contro gli oltre 5 che, ahiloro, aveva la Fondazione MPS, e' facile fare le proporzioni e immaginare cosa sarebbe stata oggi e nei prossimi 50 anni Siena. Tanto e' costata ai senesi la brama di tenersi stretto "il Monte".

C'e' inoltre un briciolo di evidenza che l'intensita' di controllo e' in qualche modo correlata con la perdita di capitalizzazione tra il 2006 e il 2012. Durante l'introduzione al convegno, uno di noi (Giulio) ha mostrato questa figura che non ha alcuna pretesa di scientificita' (impossibile con cinque osservazioni!) ma che suggerisce qualcosa. Nella figura ci sono le prime cinque banche italiane (se escludiamo Mediobanca): Unicredit (UNI, nella figura), Intesa-San Paolo (ISP), Monte dei Paschi (MPS), Cassa Risparmio Genova (CRG) e UBI Banca (UBI). Sull'asse orizzontale c'e' il ranking secondo la perdita di capitalizzazione dal 2006 al 2012, misurata come perdita di valore del titolo di proprieta' (il valore delle azioni). Rank 1 significa che si e' subita la maggiore perdita, 2 la seconda maggiore perdita, ecc. Sull'asse verticale c'e' il ranking secondo la quota di capitale della banca (tra tutti i proprietari che possiedono almeno il 2% del capitale) detenuto dalle fondazioni bancarie nel 2011-2012. Rank 1 significa che la banca ha la piu' alta quota di capitale in mano a una fondazione, 2 la seconda piu' alta quota, ecc. Se consideriamo che Unicredit e UBI sono diverse dalle altre tre in quanto in qualche modo piu' internazionali, allora la figura suggerisce una correlazione positiva tra i due rankings (lo sappiamo che e' ridicolo pretendere di identificare una retta usando due punti, per quello abbiamo detto che non c'e' alcuna pretesa di scientificita'), ovvero laddove piu' controllano le fondazioni li' c'e' stata maggiore perdita di capitale.

 

rank1Da dove viene questo stato di cose? Franco Debenedetti ha ripercorso la genesi e i punti critici delle fondazioni bancarie in Italia. Queste sono nate a seguito di diversi interventi del legislatore nazionale nel corso degli anni ’90 del secolo scorso (vedi il sito dell’ACRI e le pp. 14-15 dello stesso studio di Filtri e Guglielmi) che hanno incentivato la trasformazione delle Casse di Risparmio e degli Istituti di Credito di Diritto Pubblico in società per azioni, attraverso modalità tra le quali, ad esempio, i conferimenti delle aziende bancarie da parte di Casse e Istituti in società per azioni, i cui pacchetti di controllo restavano di proprietà di Casse e Istituti conferenti. Il legislatore ha disciplinato la natura giuridica e operativa e il regime fiscale di tali enti conferenti, definendoli col termine “fondazioni” a partire dalla legge 23 dicembre 1998, n. 461 (art. 2, cosiddetta “legge Ciampi”). Le fondazioni sono enti non profit che operano, con finalità definite "di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico" (art. 2, comma 1, l. 461/1998), su scala perlopiù provinciale, interprovinciale o regionale. Come azionisti di controllo di banche, le fondazioni hanno il potere di scegliere la maggioranza dei membri dei consigli di amministrazione delle banche stesse. A loro volta, i vertici delle fondazioni, in base a norme statutarie, sono nominati, in buona parte, da enti locali (comuni e province, ad esempio) che amministrano il territorio in cui le fondazioni stesse esercitano la propria attività e, dunque, da politici (ad esempio, sindaci, presidenti di provincia, consiglieri comunali e provinciali; per lo piu', passatecelo che la verita' non e' sempre elegante, politici incapaci e/o trombati in cerca di un premio di consolazione). Questi ultimi, attraverso la scelta dei vertici delle fondazioni, possono esercitare un controllo sulla nomina degli amministratori delle banche e, dunque, sulla gestione delle banche stesse. Si veda, per esempio, il caso della Fondazione Cariplo, che “svolge la propria attività prevalentemente nel territorio e per le Comunità delle province della Lombardia, di Novara e di Verbania” (art. 3, comma 3 dello statuto). Lo statuto prevede (art. 11) che 19 dei 40 membri della Commissione Centrale di Beneficenza (l’organo di indirizzo che nomina il Consiglio di Amministrazione) della fondazione siano scelti dalla Commissione uscente all’interno di liste proposte dalle provincie lombarde, di Novara e di Verbania, dal Comune di Milano e dalla Regione Lombardia. La Fondazione Cariplo, inoltre, è proprietaria del 4,95% delle azioni di Intesa Sanpaolo, dove tutti gli azionisti con quote superiori al 2% sono, a parte Assicurazioni Generali, fondazioni (vedi la pagina “Azionariato” nel sito di Intesa Sanpaolo).

Debenedetti ha ripercorso l’iter che ha portato all’approvazione della “legge Dini-Ciampi”, iter nel quale si è anche impegnato personalmente quando sedeva in Parlamento, non riuscendo a far passare norme che avrebbero forzato le fondazioni a vendere i pacchetti di controllo delle banche, specificamente la subordinazione dell'approvazione degli statuti delle fondazioni alla perdita del controllo sulle banche di riferimento; pare che a Ciampi piacesse l'idea ma ritenne che non sarebbe mai piaciuta al parlamento e che percio' era da accantonare. Mentre, infatti, la precedente "legge Amato" imponeva agli enti conferenti di conservare il controllo, la legge "Dini-Ciampi" si limito' alla fine a dare blandi incentivi a dismettere. Una volta approvati gli statuti le fondazioni diventano soggetti di diritto privato, e qui sta l'inghippo: in quanto soggetti formalmente privati non si poteva poi obbligarli a vendere. La legge si limitava quindi a dire che le fondazioni dovevano andare nella direzione di perdere il controllo (si veda l'articolo di Debenedetti "La proprietà primo problema", Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2013). Fatto questo, secondo Debenedetti non c'e piu' niente da fare: non e' possibile forzare le fondazioni ad abbandonare il controllo delle banche, né attraverso confische o obblighi di vendita, né (anche se si è espresso meno apertamente su questo punto) attraverso l’introduzione di diversi regimi fiscali per le fondazioni stesse. Il controllo delle fondazioni sulle banche finirà, dice Debenedetti citando Alessandro Penati, quando la cattiva gestione delle banche esaurirà il patrimonio delle fondazioni investito in esse. Monte dei Paschi e' la prima fondazione a realizzare questa profezia. In realta' a noi pare che qualcosa da fare ci sia. Non solo, come ha correttamente osservato Giordano Masini durante il dibattito, l'attivita' antitrust impone spesso e volentieri di vendere per cui non si capisce perche' non si possano creare strumenti giuridici che applichino lo stesso principio a settori cruciali come quello bancario. Ma inoltre, ha notato Michele Boldrin, basterebbe che la Banca d'Italia riconoscesse apertamente che le banche italiane sono sottocapitalizzate e le forzasse a ricapitalizzarsi facendo entrare nuovi soci e diluendo in questo modo le quote di controllo ancora possedute dalle fondazioni. Probabilmente queste vie non sono facilmente praticabili, ma e noi pare che indichino che la posizione "siccome le fondazioni sono soggetti privati non ci si puo' fare piu' nulla" sia eccessivamente pessimista.

A quello di Debenedetti e' seguito l'intervento di Fabrizio Pezzani, l'unico "banchiere" presente (oltre a essere docente in Bocconi, Pezzani e' vice presidente della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza), il quale ha osservato che istituzioni e regole non sono buone o cattive in sé: più delle istituzioni e delle regole contano gli uomini che "vivono" (o meno) le istituzioni e rispettano (o meno) le regole. Neppure la governance delle fondazioni e il controllo delle banche da parte delle fondazioni e sono istituzioni o regole buone o cattive per sé, ha concluso Pezzani. Questo e' sicuramente vero dal suo osservatorio. Cariparma sembra infatti aver fatto le scelte giuste facendosi acquisire per l'85% nel 2007 dal Crédit Agricole. Inoltre, stando ai dati che piu' tardi ci ha fatto vedere Tito Boeri, nella Fondazione Cariparma solo un consigliere su 5 ha alle spalle una carriera politica (contro i 14 su 24 in MPS!) Tuttavia, a noi pare ovvio che non si puo' fare affidamento sulla bonta' delle persone per far funzionare le istituzioni. Queste ultime devono essere disegnate in modo tale da fornire alle persone gli incentivi giusti perche' anche quando le persone non sono buone queste facciano il minor danno possibile. Le regole vanno fatte per i cattivi, non per i buoni, no?

Il resto del convegno e' stato sostanzialmente evidenza sul perche' sia una buona idea separare politica e banche.

Luigi Guiso, nel suo intervento pomeridiano, ha fatto notare come le fondazioni bancarie non possano essere proprietari efficienti, nel senso che sono in media disinteressati alla buona gestione della banca. Il patrimonio e i denari investiti nelle banche dalle fondazioni, infatti, appartengono alle fondazioni stesse e non agli amministratori delle fondazioni o ai politici degli enti locali. Gli amministratori delle fondazioni e i politici non mettono a rischio il proprio patrimonio e non subiscono perdite o mancati guadagni dovuti a una cattiva gestione delle banche. Essi, si può dire, investono il denaro degli altri senza risponderne, in ultima istanza, e per questo non sono particolarmente interessati al massimo rendimento dell’investimento.

Guiso ha poi applicato questa logica del proprietario inefficiente al caso dell’esposto inviato da un anonimo dipendente Mps alla Consob "che evidenzia le pratiche messe in piedi dal capo dell'area finanza assieme ad altri funzionari […] che si sostanziavano in una sistematica sottrazione di profitti agli azionisti di Mps". Perché, si è chiesto Guiso, avvertire la Consob, e non il principale azionista della banca, la Fondazione Mps? Sarebbe come scoprire che la domestica (o il domestico?) del nostro vicino gli fa la cresta sulla spesa e avvertire i carabinieri e non lui. E se invece la Fondazione è stata avvertita (potrebbe essere così, senza che noi lo sappiamo), perché non è mai intervenuta? Secondo Guiso, la risposta è, appunto, che le fondazioni hanno “incentivi deboli” a essere proprietari attenti. Pertanto è logico non rivolgersi ad esse per denunciare azioni che vanno a detrimento della redditività e del patrimonio delle banche, ed è logico che esse non intervengano (o lo facciano blandamente) qualora sospettino o vengano a conoscenza di tali azioni. La vicenda MPS, conclude Guiso, è "un problema di cattiva struttura proprietaria: la separazione tra proprietà e controllo con l’aggravante che la gestione della dotazione è affidata a politici". Un'altro fattore aggravante e' la mancanza di indipendenza dalla politica, negli ultimi anni, della Consob, che pare aver ignorato la segnalazione dei gravi fatti portati alla sua attenzione dall'anonimo dipendente. Consigliamo anche la lettura dell'articolo di Guiso "Per evitare abusi, meglio dare le banche in mano a padroni veri", Il Sole 24 Ore, 14 febbraio 2013.

L’intervento di Guiso è stato preceduto da quelli di Elena Carletti e di Michele Boldrin, che hanno spiegato in breve i sistemi bancari di due nostri vicini europei: Germania e Spagna, rispettivamente. Boldrin ha sottolineato come le banche spagnole in crisi, in quanto coinvolte nella cosiddetta bolla immobiliare, siano le casse di risparmio (o le banche nate dalle fusioni tra casse di risparmio, orchestrate dal regolatore come tentativi di salvataggio delle casse stesse) nei cui consigli di amministrazione siedono persone scelte dai politici locali e dove il credito viene erogato con criteri, per così dire, non sempre ispirati a una sana e prudente gestione del rischio. Boldrin si è anche soffermato sul ruolo del regolatore (la banca centrale) nel "coprire", per alcuni anni, la situazione di dissesto di diverse casse di risparmio.

Il sistema bancario tedesco, invece, ha spiegato Carletti [slides qui], è caratterizzato da tre pilastri: le banche commerciali private, che possono operare su tutto il territorio nazionale, le banche cooperative/popolari e le casse di risparmio, la cui operatività è, per legge, limitata territorialmente. Inoltre, all’interno del pilastro cooperative/popolari e del pilastro casse, le banche godono di un’esclusiva territoriale: in altre parole, le banche cooperative/popolari non possono fare concorrenza ad altre cooperative/popolari e le casse non possono fare concorrenza ad altre casse. Due gli aspetti su cui Carletti si è soffermata. Il primo è la mancanza di dati pubblici che consentano di valutare l’efficienza dell’allocazione del credito da parte di banche cooperative/popolari e casse, in quanto la banca centrale tedesca, a differenza, ad esempio, di quella italiana, non li raccoglie o non li rende pubblici (forse per una scelta "ideologica”"della banca centrale stessa, poco incline a far sì che il modello a tre pilastri possa essere messo in discussione, anche attraverso la diffusione e l’analisi di dati). I pochi studi effettuati sui pochi dati disponibili suggeriscono la presenza di inefficienze nell’allocazione del credito da parte di banche cooperative/popolari e casse e di cicli di credito che seguono i cicli elettorali: in altre parole, di un’espansione del credito da parte di cooperative/popolari e casse in prossimità delle elezioni. Il secondo è la crisi delle Landesbank (banche regionali), partecipate dalle casse di risparmio e dal governo del Land (regione) di riferimento. Le Landesbank sono una sorta di "banche centrali regionali" che offrono servizi (ad esempio di risk-management o di gestione della liquidità) alle casse di risparmio operanti nel Land di riferimento. Esse, inoltre, col tempo, hanno diversificato le proprie attività nell’ambito del corporate banking per clienti e progetti troppo grandi per le piccole casse di risparmio, dell’investment banking e del private banking. Per decenni le Landesbank hanno goduto di una garanzia pubblica sui propri debiti e, grazie a tale garanzia, di oneri di finanziamento inferiori a quelli delle banche private. Quando nel 2001, a seguito di una decisione della Commissione Europea, si decise di rimuovere tale garanzia pubblica, fu anche concesso un periodo "di grazia" per i debiti che le Landesbank avrebbero contratto entro il 2005 e con scadenza prima del 2015. Le Landesbank approfittarono della proroga della garanzia per aumentare enormemente il proprio indebitamento senza migliorare la qualità (o, in altre parole, la gestione del rischio) dei propri investimenti (investendo ad esempio, in subprime mortgage-based securities).

La crisi è esplosa alla fine dello scorso decennio e il governo tedesco è intervenuto ricapitalizzando le Landesbank per evitarne il fallimento (una è tuttavia fallita). In altre parole: la presa della politica sul sistema bancario e' molto piu' forte in Germania che in Italia e infatti in Germania il sistema bancario e' collassato molto piu' spettacolarmente che in Italia (esempio da usare: a volte anche i tedeschi fanno peggio).

Gli interventi della seconda parte della mattinata si sono concentrati su alcune caratteristiche degli amministratori delle fondazioni e degli alti dirigenti (amministratori delegati, membri dei cda bancari o equivalenti, direttori generali o equivalenti) delle banche italiane. Caratteristiche quali la “vicinanza” alla politica e la scarsa o nulla correlazione, in media, tra compensazione di un banchiere e performance della “sua” banca e tra permanenza di un banchiere al vertice di una banca e performance della banca stessa.

Tito Boeri ha presentato interessanti (e difficili da raccogliere) dati per mostrare, tra l’altro, che:

·        numerosi amministratori di fondazioni e membri dei CdA bancari hanno avuto una carriera politica prima di entrare nelle fondazioni o nelle banche,

·        i banchieri italiani sono piu' avanti con gli anni, meno istruiti, meno economisti, molto politici e con carriere molto lunghe (auguri a Giovanni Bazolim che quest'anno compie 27 anni da banchiere, n.d.r.) rispetto ai loro omologhi in Europa e USA;

·        gli amministratori delegati delle banche dedicano agli incontri con i politici un quota di tempo più alta rispetto ai colleghi di altri settori (con l’eccezione degli ad delle public utilities),

·        gli amministratori delegati delle banche sono in media più pagati dei loro colleghi di numerosi paesi OCSE e i loro salari sono poco correlati alle performance della banca di cui sono dirigenti.

Difficile non concludere che la folta presenza di persone con carriera politica alle spalle tra gli alti dirigenti di fondazioni e banche rappresenti una forma di collocamento per politici a fine carriera. Il risultato e' che questi finiscono per essere interessati a massimizzare il "char-holder value" (il valore della poltrona) piuttosto che lo share-holder value (il valore a vantaggio dei proprietari nella banca).

Bruno Parigi  ha sintetizzato i risultati di uno studio ("Connections and Performance in Banker’s Turnover", con Eric Battistin e Clara Graziano, European Economic Review, vol. 56, 2012) sulle connessioni locali degli alti dirigenti di un campione piuttosto numeroso di banche italiane, dove per locali s’intende nell’area in cui la banca ha la sua sede principale. La distanza tra la provincia di nascita di un banchiere e quella in cui si trova l’headquarter della “sua” banca è usata come proxy per misurare l’intensità delle connessioni locali del banchiere, supponendo che quanto minore e' la distanza, tanto maggiori/più intense sono le connessioni (e viceversa). Forse non troppo sorprendentemente, la distanza è nulla nella maggioranza del campione (con differenze tra banche di diversa forma giuridica e manager di ruolo diverso). Lo studio esamina:

·        gli effetti delle connessioni locali sulla probabilità di “sopravvivenza” (nel senso di mantenimento del proprio posto di lavoro) dei banchieri, controllando per la performance delle banche (in altre parole, considerando banche con all’incirca gli stessi livelli di performance): l’effetto è positivo;

·        gli effetti delle connessioni locali e sulla probabilità di sopravvivenza delle banche: l’effetto è negativo;

·        gli effetti della performance delle banche sulla probabilità di sopravvivenza dei banchieri controllando per l’intensità della connessioni: l’effetto è quasi nullo, come dire che le connessione locali dei banchieri sono buone per i banchieri stessi, ma non per le banche, e che i “fantini” (banchieri) continuano a restare “in sella” ai loro “cavalli” (le banche) indipendentemente dai risultati.

Abbiamo concluso con un'interessante tavola rotonda improvvisata su varie amenities accademiche come la dimensione ottimale delle banche, il leverage, e le interconnessioni tra banche. Ma queste non ve le raccontiamo, cosi' come non vi raccontiamo quant'erano buone le crespelle alla fiorentina e la schiacciata alla fiorentina con la crema chantilly che ci siamo mangiati nell'intervallo. Cosi' imparate e la prossima volta venite al convengo invece di leggere solo il riassunto.

Il convegno e' stato reso possibile dal sostegno dei lettori alla Fondazione NFA. Continuate a sostenerla con una donazione per permetterci di continuare a organizzare eventi come questo!


 

Dei risparmi e delle banche

30 novembre 2012 giulio zanella

 

Un articolo di Enrico Grazzini su "economia e politica" argomenta che bisogna "rifondare" le fondazioni bancarie indebolendo il loro legame con la politica ma rinforzando il loro controllo sul sistema del credito. Il motivo sarebbe la presunta natura di "bene comune" del risparmio nazionale. Quest'ultimo, a detta di Grazzini, sarebbe in pericolo se le fondazioni bancarie, invece, dismettessero i loro pacchetti di controllo delle banche italiane per diversificare i loro patrimoni. In questo post commento brevemente, in quattro punti, queste stravaganti (a mio modo di vedere) idee.

(1) Neo-liberisti. Nell'articolo ricorre la retorica dell'attacco neo-liberista, che consisterebbe nella raccomandazione di (a) eliminare il controllo che la politica esercita sul sistema bancario mediante le fondazioni bancarie, e (b) obbligare le fondazioni bancarie a diversificare i titoli in cui e' investito il loro patrimonio, il che richiede la vendita dei pacchetti di controllo delle banche di riferimento. Il sostantivo "neo-liberista" compare 4 volte nell'articolo. C'e' poi una quinta apparizione, alla fine, senza il neo. Ammetto di essere un ignorante con un diploma in ragioneria, e di aver dovuto (per ragioni assicurative, provenendo da una famiglia fondamentalmente proletaria) studiare stenografia e dattilografia invece della filosofia (o della dermatologia, per cogliere la differenza tra un neo e un non-neo), ma ancora non capisco chi siano i liberisti, e come i neo-liberisti si distinguano dai vetero-liberisti, o i turbo-liberisti dagli aspirato-liberisti. Ieri sera, durante il confronto su Rai1 in vista del ballotaggio alla primarie del PD, sia Pierluigi Bersani sia Matteo Renzi hanno affermato che liberalizzare e' di sinistra. Entrambi neo-liberisti? Sono confuso. Chiedere che i panettieri facciano il pane e i meccanici riparino le auto e' vetero-liberista? E perche' chiedere che i politici facciano i politici e i banchieri i facciano banchieri sarebbe neo-liberista? Chiedere che l'INPS non investa la meta' dei fondi pensioni pubblici nelle azioni della AS Roma e l'altra meta' nelle azioni della Juventus FC e' liberista? E perche' chiedere che le fondazioni bancarie non investano tutto il loro patrimonio (che e', quello si, patrimonio pubblico) nelle banche locali sarebbe turbo-liberista? La matassa s'ingarbuglia. A questo punto tra i non-liberisti restano soltanto (in ordine decrescente di grado di vetero-liberismo) Niki Vendola, Papa Ratzinger, e la madre superiora dell'Abbazia di Frittole, 96 anni. Sogno il giorno in cui la smetteremo di appiccicare maldestramente etichette e discuteremo di fatti e sostanza delle idee.

(2) Risparmio bene comune. Nell'articolo ricorre la bizzarra idea per cui il risparmio delle famiglie italiane sarebbe un "bene comune" (common) e che le Fondazioni bancarie siano necessarie alla gestione di questo particolare bene. Un bene comune, e' bene ricordarlo, e' una risorsa posseduta o utilizzata in comune da un gruppo di persone, senza che alcuna specifica persona abbia un diritto di proprieta' sulla risorsa. Tecnicamente, un bene comune e' un bene non rivale (il fatto che lo usi io non impedisce a un altro di usarlo) ma escludibile (posso impedire a qualcuno di usarlo), a differenza di un bene pubblico che e' sia non rivale sia non escludibile. Il risparmio di una famiglia (in Italia, almeno) non e' ne' un bene pubblico ne' un bene comune. Che non sia bene pubblico, e' evidente: se il risparmio depositato nel conto corrente intestato a Enrico Grazzini fosse un bene pubblico, per esempio, allora io potrei liberamente e legalmente far addebitare su quel conto corrente le mie bollette della luce o del gas. Mi piacerebbe. Ma non e' neppure un bene comune. Se lo fosse, allora Enrico Grazzini non potrebbe svuotare il suo conto corrente per far fronte a un'ingente spesa imprevista. Non gli piacerebbe. Il fatto che il risparmio depositato presso le banche venga convogliato attraverso il canale del credito ad altri soggetti che vogliono prendere a prestito non lo rende un bene comune. Lungi da me il fare l'esegeta di Grazzini, ma forse lui intende dire che ci sono esternalita' positive associate al risparmio perche' piu' c'e' risparmio piu' ci sono risorse per investire anche in progetti comuni. Le esternalita', in estrema sintesi, sono gli effetti diretti (non mediati dal mercato) dell'azione di qualcuno sul benessere di qualcun altro. Anche in questa interpretazione, l'argomento non regge. Se una massa piu' abbondante di risparmio e' disponibile, questo influenza certamente il benessere di chi puo' prendere di piu' a prestito. Ma l'effetto e' interamente mediato dal mercato del credito, dove i tassi di interesse riflettono (tra le altre cose) la scarsita' e l'abbondanza della massa di risparmio. Non ci sono ne' beni comuni ne' esternalita', insomma. L'argomento teorico di Grazzini, quindi, decade in tronco. Decaduto questo resta ben poco, vediamo cosa nei prossimi due punti.

(3) Mai agli speculatori stranieri. Nell'articolo ricorre la sindrome dello speculatore straniero che, se dismettiamo le azioni delle banche in mano alle fondazioni bancarie, si impadronisce e porta via i risparmi degli italiani e quindi il loro futuro. E' utile innanzitutto ricordare che i risparmi degli italiani non sono tutti dentro le banche. Gli italiani acquistano anche immobili, obbligazioni, azioni, assicurazioni, quote di fondi comuni, ecc. ecc. Solo una parte della ricchezza e' depositata presso le banche. Secondo l'articolo, se arrivano gli speculatori stranieri e si comprano le banche italiane, allora questa parte della ricchezza sparisce. Vale per "speculatore" quanto detto sopra per "neo-liberista", ma soprassediamo. Veniamo al punto: cosa e' successo nel 2005 quando gli "speculatori stranieri" di ABN AMRO si sono comprati Antonveneta? I conti correnti sono stati svuotati e i risparmi dei correntisti portati ad Amsterdam in sacchi di tela con sopra stampato € con una carovana di furgoni blindati scortati dall'esercito olandese? L'idea, vedete, e' sciocca. Ma, si puo' obiettare, poi gli olandesi dispodendo dei nostri risparmi non ci fanno piu' credito! Perche' mai dovrebbe essere profittevole fare credito alle start-up austriache, francesi, e olandesi ma non a quelle italiane?

(4) La rifondazione delle Fondazioni. Nell'articolo si propone (sulla base di una premessa logicamente fallace, vedi #2) di rifondare le fondazioni lasciando intatto il loro controllo sulle banche italiane ma facendo nominare i vertici "democraticamente dalle comunità di riferimento, dai cittadini e dalle associazioni della società civile". Mi permetto di far notare che e' gia' cosi, oggi. Prendiamo il caso emblematico, la Fondazione Monte dei Paschi. I vertici sono nominati, tra gli altri, dal Comune (l'istituzione democratica della comunita' di riferimento, per eccellenza), dalla Provincia (l'istituzione democratica della comunita' allargata di riferimento, per eccellenza), dalla curia (l'istituzione non democratica stavolta, ok, di una comunita' di riferimento, per Sua Eccellenza). Cosa rifonderebbe la rifondazione proposta nell'articolo, e' quindi un mistero. Vogliamo l'elezione diretta dei vertici? Chi sceglie i candidati? La posta in gioco (il controllo delle banche) e' alta, crediamo che i partiti non riescano anche qui a cambiare tutto per non cambiare niente? Ah, le rifondazioni. Il problema non e' il controllo democratico delle fondazioni, ma il controllo che i politici italiani, mediante le fondazioni, si ostinano a voler esercitare sul sistema bancario. E' questa ostinazione che ha bruciato una fetta della ricchezza degli italiani (i patrimoni non diversificati delle fondazioni), e ha portato via loro un pezzo di futuro rendendo il sistema bancario italiano altamente inefficiente. Un esempio? Se MPS fosse stata gestita da chi di professione fa il banchiere (con qualunque passaporto) anziche' il politico, molto probabilmente invece di comprare 25 miliardi di BTP avrebbe fatto un po' piu' di credito alle moltissime famiglie e imprese nella "comunita' di riferimento" e oltre. Che il mercato del credito sia popolato da perfidi speculatori stranieri mentre i politici italiani democraticamente eletti siano benevolenti benefattori e' una delle dannose misconcezioni che hanno aggravato la crisi economica del paese. La condanna definitiva di Antonio Fazio e' una lapide che commemora questo fatto.


 

Articolo quinto

10 giugno 2012 sabino patruno

 

C’era una volta una piccola banca di credito cooperativo della benestante provincia italiana.

Nel giorno in cui i giornali danno la notizia che le banche spagnole saranno salvate (forse) da una iniezione di liquidità di 100 miliardi, racconto le vicissitudini di una piccola banca di di credito cooperativo, la cui storia però ci insegna molte cose.

Le BCC, una volta note come casse rurali ed artigiane, sono delle banche di piccole dimensioni, molto radicate nel territorio, che hanno la forma giuridica di società cooperativa, il che vuol dire che non distribuiscono utili, ma per la maggior parte li reinvestono nel rafforzamento del loro patrimonio e, per una piccola parte, usano gli utili per fare  beneficenza e in aiuto ad attività sociali del territorio di appartenenza.

Le BCC, come la vecchia denominazione di “cassa rurale ed artigiana” lascia intendere, hanno tradizionalmente concesso credito alle piccole imprese e alle famiglie, con un occhio particolare ai soci, ai quali vengono applicate condizioni di relativo favore. In quanto cooperative, poi, per queste banche vale il principio per il quale non può esserci un socio di maggioranza, ma il voto di ciascun socio pesa in pari misura, indipendentemente dalla sua partecipazione al capitale.
Il principio “un socio-un voto”, comporta una partecipazione relativamente intensa e “democratica” dei soci alla vita della banca e le assemblee di queste società si risolvono spesso in occasioni per esercizi di retorica e per manovre di tipo politico, con vere e proprie campagne elettorali per la raccolta delle deleghe e dei voti quando c’è da rinnovare le cariche sociali o da prendere decisioni importanti per il futuro della banca.

L’aspetto positivo di questo tipo di banche è che sono effettivamente espressione del territorio, le assemblee e i consigli di amministrazione vedono veramente fianco a fianco e, almeno apparentemente, sullo stesso piano, il piccolo artigiano e l’industriale, l’avvocato ed il contadino.

L’aspetto negativo, come intuitivo, è che si crea una contiguità tra la banca che dà il credito e i soggetti che si indebitano, col rischio di un allentamento dei criteri di meritevolezza del credito e di favorire eccessivamente gli amici o gli amici degli amici. In tempi di vacche grasse questi rischi sono gestibili, in tempi di vacche magre i nodi vengono al pettine.

Chi scrive, ha avuto l’onore e l’onere di partecipare professionalmente all’assemblea di una piccola BCC marchigiana, che sino a tre anni fa vedeva i bilanci in utile, il patrimonio e gli impieghi in crescita, il personale contento e ben pagato. Erano gli anni del credito facile e anche la nostra banca, dimenticando forse i principi di oculatezza e buona gestione, si era data  a concedere con larghezza mutui e affidamenti ad amici, amici degli amici e sconosciuti. L’arrivo della crisi ha comportato un brusco risveglio.

La Banca d’Italia dopo un’ispezione ha costretto la banca ad una drastica svalutazione dei crediti e del patrimonio e, senza entrare troppo nei dettagli e nei tecnicismi, il risultato è stata la chiusura in forte perdita del bilancio dell’anno scorso e una disperata ricerca di liquidità per rispettare i requisiti di patrimonialità necessari a continuare l’attività bancaria. L’assemblea a cui ho assistito doveva affrontare tutto questo e decidere se la banca dovesse rinunciare ad una parte della propria autonomia in cambio di una iniezione di liquidità da parte del fondo di garanzia delle BCC, che è, per l’appunto, un fondo alimentato da tutte le banche di credito cooperativo, che arriva in salvataggio di quelle in difficoltà. Il fondo di garanzia  mette i soldi, sotto forma di finanziamento, ma esprime il proprio gradimento sugli amministratori e in pratica entra nella stanza dei bottoni.

Su questo scenario, ho visto la democrazia societaria all'opera, con 1200 soci riuniti in un centro sportivo a decidere il futuro della banca e gli interventi in assemblea, (tranne alcuni che parlavano dei massimi sistemi, la Democrazia, l'Autonomia, il Territorio) sono stati molto concreti e "trasversali" dato che si andava dall'industriale al contadino, con un forte attaccamento alla istituzione-banca, ma anche la consapevolezza della gravità del momento. Alla fine l’assemblea ha approvato la modifica statutaria, che consegna la banca alla tutela del fondo di garanzia e eletto come suo presidente un professore di economia ovviamente gradito al fondo.

Da parte sua, il consiglio di amministrazione si è tagliato i compensi, ha ridotto i finanziamenti eccessivi ai grossi debitori, aumentandoli ai piccoli, ha tagliato i costi del personale, che per i prossimi tre anni dice addio al premio di produzione, ridotto le spese non necessarie  e così via. Ci saranno anni di vacche magre, ma insomma, la strada è quella: si tagliano le spese, si puliscono i crediti e soprattuto, si chiede patrimonio a chi lo può dare. 

Sembrerebbe una storia a lieto fine e apparentemente lo è, tanto che da quest'anno la banca è di nuovo in utile, però non bisogna perdere di vista il quadro d’insieme. Il taglio dei costi, degli stipendi, dei gettoni di presenza, la migliore gestione dei finanziamenti, insomma “l’austerità”, sarebbero stati del tutto insufficienti senza la liquidità in arrivo dall’esterno.Solo che questo aiuto, per almeno dieci, anni limiterà la autonomia dei soci e, in definitiva, la democrazia societaria cui erano abituati, perchè, come ovvio, alla fine nessuno regala niente e se sto fallendo e qualcuno mi dà dei soldi per salvarmi, questa persona vuole anche vedere bene come li spendo.

Non so quanto questa piccola storia possa applicarsi alle banche spagnole ed agli stati nazionali in disperato bisogno di liquidità, però mi chiedo quanto la democrazia, così come noi oggi  la conosciamo, dovrà essere sacrificata alle necessità di cassa, così come è avvenuto per la piccola BCC marchigiana. Come detto, nessuno dà niente senza contropartite, sicchè a me tutta questa storia ha fatto venire in mente la regola degli antichi mercanti veneti: “articolo quinto: chi schei vinto”.


Utili idioti

1 giugno 2012 alberto bisin

 

Uno sfogo come un altro davanti ad una crisi che ci sta scivolando di mano. 

Vorrei proporre una sintetica interpretazione di cosa stia succedendo in almeno un sottoinsieme dei paesi Europei  travolti dalla crisi, diciamo Grecia, Italia, e anche Francia (la dinamica della crisi per Spagna e Irlanda e' diversa; del Portogallo non so nulla). Argomentero' poi che almeno parte della colpa di cosa sta succedendo vada addossata alla piega che ha preso il dibattito economico in questi paesi (e nel resto d'Europa). Infine trarro' le mie conclusioni su chi guadagna da questa situazione. Questo mi aiuta ad identificare gli utili idioti della situazione.

Cosa sta succedendo. I nostri tre moschettieri (Grecia, Italia, Francia) hanno goduto di tassi di interesse sui debiti sovrani molto favorevoli dalla nascita dell'EuroZona nel 1999 per Italia e Francia; dalla sua entrata nel 2001 per la Grecia. E' stato cosi' fino alla crisi (l'estate scorsa, piu' o meno). Essi hanno pero' evitato il riconsolidamento del debito pregresso (Italia e Francia) o addirittura (Grecia), hanno finanziato una espansione fiscale. La crisi finanziaria del 2008 e la realizzazione delle situazione critica della Grecia (che aveva addirittura maneggiato le statistiche per nasconderla) hanno reso nervosi i mercati dei capitali (i creditori di Italia, Francia, e Grecia), e gli spread sono saliti. Di qui tutto il can-can.

Il dibattito. I tre moschettieri hanno quindi iniziato a chiedere a gran voce l'intervento della Germania, in varie forme e con varie argomentazioni. Per spirito analitico possiamo distinguere le argomentazioni in due tipologie principali: gli argomenti economici errati, le minacce. Tra i primi vanno per la maggiore i seguenti:

i) non siamo noi moschettieri ad essere poco produttivi, sono i tedeschi ad esserlo troppo;

ii) i tedeschi hanno guadagnato per anni da questa situazione - a chi hanno venduto le loro BMW?;

iii) i tedeschi stanno guadagnando ora da questa situazione, visto che i capitali scappano in Germania e loro si trovano con un tasso vicino a 0;

iv) il problema e' che l'Europa non ha un prestatore di ultima istanza come la FED, la BCE dovrebbe comprare i titoli sovrani emessi dai tre moschettieri (e da altri paesi in crisi);

v) il problema e' che non c'e' abbastanza Europa, avanti con l'integrazione e gli Eurobond;

vi) la crisi di domanda si combatte con investimenti  pubblici, o anche spesa pubblica tout court, a debito.

La minaccia invece e' una sola: se ci costringete all'austerita' noi diventiamo fascisti ( o comunisti, che e' lo stesso), andiamo in strada,  e sarebbe la terza volta che l'Europa e' distrutta per colpa vostra, tedeschi maledetti. 

Il risultato. La Germania ha avuto gioco facile a rifiutarsi di prendere in considerazione un intervento a sostegno dei moschettieri (che poi non finirebbe solo li', che Spagna e Portogallo sarebbero a ruota, suppongo).  I tedeschi non sono flessibili e hanno poco senso dell'ironia, ai bambini capricciosi tendono a rispondere come si deve ai bambini capricciosi. E poi conveniva anche a loro temporeggiare, io credo, per vari motivi. ma non e' questo il punto, il punto e' che non sono stati mai affrontati con proposte serie e ragionevoli che non supponessero un atteggiamento "chiagni e fotti".

A furia di temporeggiare stiamo rischiando brutto pero'. Ci sono indicazioni che fanno temere una corsa ai depositi (intesi generalmente come  liquidita') in Euro: guardare agli avanzi e disavanzi del sistema di pagamenti della BCE, Target2.  A quel punto, speriamo non succeda, bisognera' intervenire - sospetto che la stessa Germania lo fara'. Saranno interventi sulle banche - in mezzo al panico del pubblico e dei regolatori- come negli Stati Uniti nel 2008. 

Chi ci guadagna? Le banche. Quelle che avevano prestato ai tre moschettieri sovrani e che hanno continuato a farlo su loro suggerimento fino ad oggi (o a ieri). Le banche, il cui peccato originario e' una componente fondamentale di tutto 'sto casino. Le banche, la cui mancata integrazione in Europa e' servita e serve a mantenerle sotto il controllo della politica. In Italia, lo sappiamo, attraverso le Fondazioni,  istituzioni private solo sulla carta ma in realta’  legate a (e dipendenti da) la politica.  Le recenti inchieste giudiziarie riguardanti il Monte dei Paschi e la Banca Popolare di Milano non rappresentano che la degenerazione estrema di una gestione economica fallimentare del sistema bancario, piegato agli interessi della politica.  L’esposizione delle banche nei confronti dei titoli pubblici ne e’ un’altra, gravissima, rappresentazione.  [In Spagna, le cose non stanno molto diversamente a quanto capisco su questo punto: alla radice della crisi bancaria sta la stessa commistione di interessi economici e politici che osserviamo in Italia - non per niente la Caja Madrid (la maggior cassa di risparmio in Bankia) e’ da tempo legata alla comunita’ autonoma di Madrid e la Catalunya Caixa alla amministrazione provinciale di Barcellona]. 

Ci guadagneranno le banche perche' quando i risparmiatori corrono agli sportelli e i capitali volano che e' un piacere poi non si puo' andare troppo per il sottile, e si finisce sempre che un Paulson qualunque va in Parlamento a chiedere una montagna di miliardi che senno' domani chiudiamo i Bancomat. 

E allora chiudiamo il cerchio. Quelli che, a seconda delle interpretazioni, hanno costretto o aiutato i tedeschi a temporeggiare, quelli che hanno prodotto tutti quegli argomenti errati di cui sopra conditi con la minaccia di un arrivo di un nuovo baffone (o pelatone), quelli li', sono gli stessi che odiano il neo-liberismo, gli speculatori, i mercati, che occupano Wall Street, che .... Alla fine, stanno aiutando le banche a uscire da questa situazione coi soldi dei contribuenti, come negli Stati Uniti.   

Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

12 febbraio 2012 John Cochrane

 

L'Europa è piena di cattivi debiti tanto quanto è piena di cattive idee. La saggezza popolare suggerisce che il default di uno stato significhi la fine dell'euro: se la Grecia fallisce, deve lasciare la moneta unica. I contribuenti tedeschi devono salvare i governi del sud per salvare anche l'unione. Questa è una sciocchezza. 

Alcuni stati degli Stati Uniti e alcuni governi locali sono falliti con debiti in dollari, esattamente come falliscono le imprese. Una moneta è semplicemente un'unità di valore, come i metri sono un’unità di lunghezza. Se i greci avessero “fatto la cresta” sull’olio di oliva nelle bottiglie da un litro, questo non avrebbe messo a rischio il sistema metrico decimale.

I salvataggi sono la vera minaccia per l'Euro. La Banca Centrale Europea ha comprato debito pubblico greco, italiano, portoghese e spagnolo. Ha prestato soldi alle banche che, a loro volta, acquistano debito pubblico. C'è una forte pressione sulla BCE affinché ne acquisti o ne garantisca ancor di più. Quando i governi debitori alla fine  diverranno insolventi, o  il resto d'Europa  raccoglierà migliaia di miliardi di  Euro in nuove tasse per ricostituire la banca centrale, oppure l'Euro si inflazionerà comunque.

Abbandonare l'Euro sarebbe un disastro per la Grecia, l'Italia e gli altri. Il ritorno alla moneta nazionale durante una crisi del debito comporterebbe un’espropriazione dei risparmi, un controllo del capitale che distruggerebbe il commercio, una spirale d’inflazione ed un isolamento che ammazzerebbe la crescita. E uscire dall’Euro non aiuterà questi paesi a evitare il default, perché il loro debito promette euro, non dracme o lire. 

I pericoli della svalutazione. I difensori [della strategia di svalutazione] pensano che la svalutazione illuderebbe i lavoratori e li spingerebbe verso una maggiore “competitività”, come se la gente non si rendesse conto di essere pagata con il denaro del  Monopoli. Se la svalutazione della moneta rendesse i paesi competitivi, lo Zimbabwe sarebbe il paese più ricco sulla Terra. Nessun elettore di Chicago vorrebbe lasciare al governatore del proprio stato la possibilità di svalutare la moneta per crearsi una sua via di fuga dai problemi di bilancio e dalle difficoltà economiche. Perché mai gli economisti pensano che i politici greci siano molto più saggi?

I piani più recenti prevedono che l’Europa sia più dura nel far rispettare regole sul deficit che sono simili a quelle stesse regole che i governi hanno allegramente ignorato per oltre 10 anni. Ma siamo sicuri che una direttiva da Bruxelles basterà a spingere i greci a darsi da fare? Immaginate quanto poco successo avrebbero avuto il Fondo Monetario Internazionale o le Nazioni Unite se avessero cercato di porre il veto sul deficit di bilancio degli Stati Uniti (ovvero, se il nostro Congresso avesse anzitutto approvato il bilancio). Questo piano è principalmente un modo per salvare la faccia alla BCE e lasciarle comprare crediti inesigibili con Euro freschi di stampa.

Una maggiore unione fiscale danneggia l’Euro. Pensate alla Polonia o alla Slovacchia. Un tempo utilizzare l’Euro  era  una  scelta  scontata:  aveva un senso usare la stessa moneta che usano tutti gli altri piccoli stati confinanti, esattamente come l’Illinois vuole usare la stessa moneta dell’Indiana (e  la Toscana  quella dell’Umbria). Ad oggi, non è più così scontato: se usare la stessa moneta significa pagare per salvare la Grecia e l'Italia, allora forse l'adozione dell'euro non è un’idea così buona. Una moneta comune senza un’unione fiscale  avrebbe un appeal universale. Un’unione monetaria con un’unione fiscale basata sul salvataggio rimarrà invece un piccolo affare.

I leader europei pensano che il loro compito sia di fermare il "contagio", per "calmare i mercati." Danno la colpa alla  "speculazione" per i loro guai. Continuano ad aspettare il Grande Annuncio che imbonisca i mercali e li spinga a comprare qualche altro centinaio di miliardi di  euro di  debiti Ahimè, il problema  è la realtà, non la psicologia, e i governi sono pessimi psicologi. Non si può riempire un buco da mille miliardi di Euro con la psicologia.

Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha detto che la Grecia è come Lehman Brothers, e il suo collasso farebbe cadere il sistema finanziario. La Grecia non è Lehman. Non ha migliaia di miliardi di dollari di contratti derivati. Non è un broker-dealer, il cui fallimento congelerebbe ogni tipo di attività finanziaria. I suoi creditori non hanno il diritto legale alla confisca dei beni dovuti alle controparti. La Grecia è solo un semplice debitore sovrano, come quelli che sono stati inadempienti da quanto Edoardo III imbrogliò la banca Peruzzi nel 1340.

Il debito delle banche. Il default del debito sovrano danneggerebbe il sistema finanziario, comunque, per la semplice ragione che l’Europa ha permesso alle sue banche di  caricare in portafoglio questo  debito, tenerlo a bilancio al valore nominale, e trattarlo come privo di rischio, senza nessun capitale accantonato che facesse da cuscinetto. I governi indebitati hanno fatto pressione sulle banche affinché acquistassero più debito pubblico, e non meno. La scorsa estate, per aumentare i loro indici di bilancio le banche hanno  acquistato  ancor più debito sovrano “senza rischio”, che ora possono usare come garanzia collaterale ai prestiti della BCE. La grande "operazione liquidità" della BCE darà alle banche centinaia di miliardi di euro per aumentare le loro scommesse sul debito sovrano. I correntisti bancari e i creditori l’hanno capito, e stanno correndo verso l’uscita.

Imbottendo le banche con il debito sovrano, i politici e regolatori europei stanno rendendo l’inevitabile default molto più rischioso dal punto di vista finanziario.  Questa è una importante lezione per tutti  quelli  che si aspettano che la regolamentazione terrà al sicuro le banche! L’errore fatale dell'euro non è stato di unire zone con diversi livelli e tipi di sviluppo sotto un’unica valuta. Dopo tutto, il Mississippi e Manhattan (e Milano e Palermo) utilizzano gli stessi soldi. E non è stato neanche quello di privare i governi dei piaceri effimeri della svalutazione. Né  è stato l’immaginare  un’unione monetaria senza unione fiscale. L’errore fatale dell’Euro è stato la mancata regolamentazione bancaria. Il debito sovrano, che può sempre evitare il default esplicito quando lo stato stampa moneta, non rimane senza rischio in un’unione monetaria.

Ciononostante, gli organi di regolamentazione bancaria e le regole  della  BCE continueranno a fingere il contrario. Quindi, dall’abile applicazione di idee sbagliate, l’Europa ha preso una normale ristrutturazione del debito sovrano e l’ha trasformata prima in una crisi bancaria, poi in una crisi monetaria, poi in una crisi fiscale, e ora in una crisi politica.Quando finirà l'era delle pie illusioni, l'Europa dovrà  affrontare una scelta difficile. Potrà avere un’unione monetaria senza default sovrani. Questa opzione significa unione fiscale, accettando veri controlli da parte dei tedeschi sui budget greci e italiani (e forse francese). Nessuno lo vuole, per ovvie ragioni. Oppure l’Europa potrà avere un'unione monetaria senza unione fiscale. Che funzionerebbe bene, ma deve essere basata su due idee fondamentali: gli stati devono poter fallire esattamente come le società private, e le banche, inclusa la banca centrale, devono trattare come rischioso il debito sovrano, esattamente come trattano il debito delle aziende.

La terza e ultima opzione è una rottura, probabilmente dopo una crisi e l’inflazione. L'euro, come il metro, è una grande idea. Gettarlo via sarebbe una vera e inutile tragedia.

Tra le Letture per il fine settimana della settimana scorsa avevamo suggerito il nuovo blog di John Cochrane. John ha subito notato un flusso di lettori da NFA e ci ha mandato uno dei suoi articoli sulla crisi europea che aveva li', bello e pronto in italiano. E' un piacere pubblicarlo. L’articolo originale è apparso su Bloomberg. La traduzione in italiano è di Duccio M. Gasparri.


 

Fondazioni nunc et semper

11 giugno 2012 Franco Debenedetti

 

Sulla nascita delle Fondazioni bancarie - un bignami della vicenda.  

It’s a bird, it’s a plane, it’s Supermario”. Monti alla RAI, twittava un uomo politico di primo piano del centrosinistra, per rivoluzionarla, rifondarla, delottizzarla. Monti dia un “segnale” sulle fondazioni, hanno scritto Roberto Perotti e Luigi Zingales, per “togliere l'humus di cui si alimenta il sottobosco della politica e del clientelismo”. Per gli uomini comuni, conviene precisare.

Per oltre 50 anni, dalla legge del 1936, tutte le banche, comprese le Casse di Risparmio, sono state pubbliche. Non ne bastano 20 per privatizzarle del tutto. Si incomincia con la  legge Amato-Carli (1990) che scinde le due attività, da un lato le banche a fare le banche, dall’altro, a fare le “opere di bene”, le all’uopo create Fondazioni, perciò dette di origine bancaria. Per Perotti e Zingales questo è il “pasticcio legislativo [in cui le Fondazioni avrebbero] strappato lo status di enti di diritto privato”. È che per privatizzare ci vogliono i privati; e mentre per fare lo stato padrone, basta un tratto di penna, per creare padroni possono volerci generazioni. C’erano altre strade? Nazionalizzare tutto e poi vendere: ma visto cosa (non) sta succedendo col gas, si dovrebbe ringraziare per lo scampato pericolo. Consentire alle banche di detenere, in deroga temporanea, il 100% delle proprie azioni e ricapitalizzarsi vendendole un po’ per volta sul mercato? Il progetto, attribuito a un grande giurista bolognese, sarebbe stato giudicato troppo drastico da Bankitalia. Provare con i voucher*? Con Alessandro De Nicola, Francesco Giavazzi e Alessandro Penati elaboriamo un progetto, presento (1995 e 1997) il relativo disegno di legge. Ricordo Nino Andreatta: ”Non ho capito tutto, ma quel che ho capito non mi piace”.  Mi guadagno un premio (lo stesso che avevano dato ad Andreatta 6 anni prima), scontri e battibecchi a volontà.  

La storia della privatizzazione è la storia di questa tuttora incompiuta separazione. Con Amato-Carli (1990) le Fondazioni hanno l’obbligo di detenere il 50% delle banche, con Dini (1994) hanno incentivi fiscali per dismetterle, e le perdono se non lo fanno entro 5 anni  (1995). La battaglia decisiva si gioca sulla legge delega Ciampi (1998), 2 anni di un estenuante  percorso parlamentare. Sorvegliata a vista dal sottosegretario Roberto Pinza, con la sponda del sen. Grillo nel centrodestra, coi DS nell’Ulivo anche loro preoccupati di non perdere contatti col “territorio”, la commissione respinge uno dopo l’altro gli emendamenti volti a fare delle Fondazioni fondi di investimento e non holding di partecipazioni. Il presidente dell’ACRI, avv. Guzzetti, a distanza di anni mi accusa pubblicamente di avere organizzato l’opposizione a inserire, tra le attività delle Fondazioni, oltre agli “scopi di utilità sociale” anche la “promozione dello sviluppo economico”, un cavallo di Troia che, in altre mani, potrebbe consentire di tutto. E si arriva all’ultima spiaggia: far mettere in legge che solo se contengono il divieto di controllare e di partecipare al controllo di qualsiasi attività economica, gli statuti avrebbero avuto l’approvazione del Tesoro necessaria per il riconoscimento di soggetti privati, capo II, libro primo, codice civile. Mi sembrò sinceramente dispiaciuta la voce di Ciampi, quando mi rispose che su questo non ci sarebbe stato l’appoggio del Governo e che ci si doveva accontentare della vigilanza del Ministero dell’Economia per le Fondazioni che hanno posizioni di controllo.  

Giulio Tremonti consegna al Sole24Ore propositi bellicosi: “Le Fondazioni? Una legge da azzerare” è il titolo dell’intervista (20 Novembre 2000). Vinte le elezioni, vara una “riforma” (2001) che riduce l’autonomia statutaria delle Fondazioni. Solo per prendersi una clamorosa bocciatura della Corte Costituzionale: con la sentenza (2001) che sancisce che sono soggetti privati, espressione delle libertà sociali, tutelate costituzionalmente, la partita Fondazioni si chiude. E per Tremonti si apre la fase del corteggiamento, concluso con le nozze in Cassa Depositi e Prestiti: a proposito di partecipare al controllo.

Se, come riconoscono Perotti e Zingales, i cittadini sono “legittimi proprietari delle vecchie casse di risparmio pubbliche“, è logico che a gestire le Fondazioni siano persone scelte, direttamente o indirettamente, dai cittadini: con il voto politico locale conferiscono, insieme agli altri poteri, anche quello di gestire quel patrimonio e di destinarne gli utili a “opere di bene”: e ogni 5 anni si verifica. E’ quando il potere di decidere “su opere di bene” si unisce al potere di gestire attività for profit che le acque si intorbidiscono. Come ancora accade.

In misura però nettamente decrescente, ed irreversibile: e poco importa se ciò sia stato per la dinamica dei mercati, per la indubbia “virtù” di alcuni uomini, o per la buona e la cattiva sorte. C’ è chi ha venduto, e si compiace; chi no, e tace. In generale le partecipazioni nelle banche sono diminuite di importanza, anche per effetto di fusioni e concentrazioni, avvenute quando al vertice della Banca d’Italia c’era chi voleva che tutto seguisse il suo “piano regolatore”. Unicredit è stata sostenuta dalle Fondazioni nei tempi buoni della crescita internazionale, e nei tempi grami della crisi. MPS, già dagli anni ’90 appariva a Massimo D’Alema come un curioso residuo medioevale. Le banche popolari, con voto capitario, hanno problemi di governance assai peggiori.

Look! Up in the sky! allora? Per le Fondazioni, cari amici, ormai perfino per SuperMario è troppo tardi.

* buoni di acquisto scambiati su un mercato secondario. Sistema descritto in dettaglio in http://ww.francodebenedetti.it/disegno-di-legge-privatizzazione-delle-banche-controllate-da-fondazioniassociazioni/

 In un recente articolo su Repubblica ho scritto una castroneria sulla nascita delle Fondazioni bancarie. Franco Debenedetti, che a tale nascita ha partecipato, mi ha giustamente (ma gentilemente) bacchettato. In compenso NFA ci ha guadagnato questo post. [Alberto]


 

A Ma’! Versace ‘n artro LTRO!!!! (*)

7 marzo 2012 fabio scacciavillani

 

Ora che la seconda operazione di rifinanziamento a lungo termine (LTRO) della BCE è andata a segno sarebbe ora di fare un po’ di pulizia semantica sul concetto di “prestatore di ultima istanza” (“Lender of Last Resort”, LoLR) per riposizionare qualche puntino sulle “i”. 

La funzione di LoLR si riferisce al sistema bancario, non agli Stati, come viene erroneamente inteso nel dibattito tra dattilografi di lusso, che affollano le redazioni e soubrettes (ambosessi), che sgomitano negli studi televisivi.

Alla Bce non erano state conferite né funzioni di LoLR per le banche né funzioni di salvatggio per governi in bancarotta. Il Trattato di Maastricht non poteva essere più esplicito. L'art. 104 recita "È vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della BCE o da parte delle Banche centrali degli Stati membri, a istituzioni o organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l'acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle Banche centrali nazionali". Quando fu firmato non c’era assolutamente alcun dissenso in materia. Poi l’incalzare della crisi ha reso questo divieto, insieme ai limiti su debito e deficit pubblico “chiffons de papier” secondo una venerabile definizione tedesca dei trattati internazionali.

Oggi dopo 5 anni di danze della pioggia per fermare la crisi siamo a questo punto:

1) E’ saltata la distinzione logico-funzionale tra i bilanci di banca centrale, banche commerciali e governo. Le passività di queste entità sono in realtà un unico calderone, o, se preferite, le tasche di un unico pantalone (nel guardaroba di Pantalone). L’indipendenza della Bce è sbiadita mentre il settore bancario, forte dell’appoggio politico, ha di fatto nazionalizzato le perdite, ma privatizzato enormi proventi da arbitraggi a zero rischi a spese del contribuente tramite le operazioni di liquidita' della Bce.

2) La Bce (sulla scia di Fed, Banca d’Inghilterra e Banca del Giappone) è diventata il LoLR di governi alla canna del gas, attraverso una finzione contabile che utilizza i bilanci della banche come foglia (alquanto trasparente) di fico per coprire le pudenda alla vista dell'opinione pubblica tedesca.

L’Es  pragmatico potrebbe freudianamente sussurrare che non è il caso di farne una tragedia. Di fronte alla crisi epocale meglio le foglie di fico che i fichi secchi. Però al sussurro (Ingmar docet) opporrei un grido.

La funzione LoLR va a braccetto con la supervisione bancaria. Le banche centrali forniscono liquidità come LoLR alle banche illiquide, ma non a quelle insolventi. Siccome la distinzione tra le due situazioni è complessa, questo compito viene svolto dalla banca centrale che ha l’obbligo di mettere in liquidazione le banche ritenute insolventi e passare i documenti alla magistratura se ravvisa ipotesi di reato.

La Bce invece sta riversando una fiumana di soldi senza sapere quali sono le banche insolventi perché la supervisione bancaria è demandata alle banche centrali (o alle agenzie) nazionali che non si scambiano informazioni, anzi le tengono segrete per paura di scoperchiare i letamai e dare un dispiacere ai potentati politici che quei letamai concimano (vedi le Fondazioni in Italia). Insomma la Bce tiene in vita degli zombies finanziari senza sapere nemmeno chi sono e quanto siano deleteri per la stabilità europea e mondiale.

Esiste una sorta di autorità di supervisione a livello europeo, la European Bank Authority (EBA) ma è sostanzialmente una parodia, in cui recitano guitti con il colabrodo in testa e le spade di latta, senza poteri effettivi. Sotto l’egida di questa EBA sono stati condotti due stress test a distanza di un anno che hanno concluso “Tutto bene Madama Marchesa”. Tre mesi dopo il primo test e’ fallito il sistema bancario dell’Irlanda, e dopo il secondo ha rischiato di collassare l’intero sistema bancario europeo per il congelamento del credito interbancario (proprio perché nessuno si fidava dello stress test).

Tutto il sistema di  regolamentazioni bancarie e' inefficientemente prociclico:  ti impongono di ingozzarti ai pranzi di matrimonio e poi ti impongono di non mangiare durante un'arrampicata. E cosi' l’EBA adesso costringe le banche a raccogliere fondi con il cappello in mano oppure a tagliare gli attivi, cioé il credito al settore privato (visto che quello al settore pubblico è incagliato), aggravando la recessione già in atto.

Insomma questo sistema di regolamentazione bancaria  è diventato una mina vagante di incompetenza, che andrebbe disattivata. Le funzioni di supervisione sul settore finanziario, ora gestite a livello nazionale, dovrebbero essere trasferite sotto l’autorità della Bce, che dovrebbe procedere alla liquidazione coatta delle banche insolventi. Invece di cincischiare in inconcludenti vertici europei, i leader europei farebbero meglio a procedere speditamente in questo senso, in modo da rimuovere la gravissima anomalia di una Bce che a colpi di mezzo trilione di euro beneficia un sistema bancario di cui non ha modo di accertare la salute. 

Ma che questa salute sia molto cagionevole lo prova un dato inquietante: i depositi overnight delle banche presso la Bce hanno raggiunto la cifra stratosferica di 777 miliardi di euro. Le banche prendono a prestito dalla Bce, ma quelle che hanno eccedenze di liquidità a fine giornata non si fidano a prestarle ad altre banche attraverso il mercato interbancario e preferiscono il porto sicuro dell'Eurotower anche a tassi infimi. Usque tandem?


 

Conti correnti gratis? Per tutti!

26 febbraio 2012 andrea moro

 

I pensionati con una pensione inferiore a 1500 euro potranno aprire un conto corrente senza spese per deposito e prelievo. Dettagli a parte, così sembra prevedere un emendamento approvato in Commissione Industria del Senato. Non è chiaro se questa sia stata un’idea di qualche senatore o se l’emendamento sia stato proposto dal Migliore Governo della Storia Repubblicana. Certo è che il governo non sembra, per ora, dare segnali di vita su un provvedimento che denota la solita mancanza di cultura economica.

Il “governo delle banche" sembra dimenticare che la diminuzione delle spese di tenuta del conto si attua in un solo modo: aumentando la concorrenzialità del sistema bancario. Mandati e imposizioni di prezzo, invece, sono una pessima idea, senza alcun fondamento.

Primo, perché il mandato potrebbe essere inutile, almeno in parte: le banche reagiranno (comprensibilmente) al forzato azzeramento di una commissione con l’aumento di un'altra commissione, magari sulle stesse tipologie di conto. Insomma, il mandato finirà per gravare sui pensionati che dovessero effettuare operazioni bancarie non previste dall’emendamento, o sugli altri detentori di conti correnti, aggiungendo un ulteriore balzello gravante su chi lavora e produce.

Secondo, perché il mandato è inefficiente. Oppure è efficiente, e allora andrebbe esteso a tutti. Ci sarà un motivo per cui le banche impongono commissioni  sui servizi offerti, pagando interessi sui depositi. Alterare queste decisioni significa forzare le banche a scelte inefficienti. Oppure le banche stanno facendo politiche di prezzo sbagliate - in quel caso perché non azzerare per legge i costi di tutti i conti, anziché solo quelli dei pensionati ''under 1500''? Oppure le banche stanno applicando prezzi esageratamente alti perché costituiscono un odioso oligopolio.  Anche in quel caso, imporre prezzi più bassi -per tutti- sarebbe la misura efficiente - salvo la possibilità per le banche di neutralizzarla attuando aumenti di commissioni per operazioni non esenti. L’unica soluzione veramente efficace consiste in misure generalizzate che garantiscano la concorrenza dell’intero settore.

Terzo,  perché il mandato è ingiusto. Le origini del mandato vengono dal nuovo divieto alla pubblica amministrazione di effettuare pagamenti superiori ai 1000 euro in contanti.  Questo forza i pensionati abituati a riscuotere la pensione mensilmente alle poste ad aprire un conto corrente e pagarne le spese. Certamente ingiusto per i poveri pensionati, ma che dire dei ricchi pensionati con basse pensioni? La misura forse non grava anche sui poveri giovani lavoratori?

Insomma, ad un mandato che limita la libera scelta degli individui con l’imposizione di un costo monetario si provvede con un altro mandato che limita la libera scelta dell’imprenditore di operare politiche di prezzo che ritiene efficienti. Il provvedimento, inserito in un pacchetto legislativo curiosamente denominato “decreto liberalizzazioni” denota l’ennesima mancanza di cultura economica di parlamento e governo che pretedono di imporre l’efficienza per decreto, con misure ad hoc imposte dall’alto, piuttosto che facilitando l’entrata e la concorrenza nel settore bancario.