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PRIVILEGIA
NE IRROGANTO Documento
inserito il: 2-3-2013 |
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La PignattA n° 75 DOSSIER
SULLE FONDAZIONI BANCARIE Da noisefromamerika.org Sommario Fondazioni
bancarie e sistema bancario: riassunto del convegno Come
le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo A
Ma’! Versace ‘n artro LTRO!!!! (*) Conti
correnti gratis? Per tutti! Fondazioni bancarie e sistema bancario: riassunto del convegno
2 marzo 2013 • giulio zanella
e Francesco Pesci Per chi c'era
(per continuare a discutere) e per chi non c'era (per iniziare a farlo) ecco
un riassunto dei punti salienti del convegno su banche e
fondazioni bancarie, organizzato dalla Fondazione NFA sabato
16 febbraio a Firenze. Nel post trovate anche linkate tutte le slides usate dai relatori, che ringraziamo per averle
rese disponibili. La questione
del rapporto tra fondazioni bancarie e banche italiane e'
tutt'altro che nuova. Si trascina, infatti, da ormai quasi un quarto di
secolo; da quando, cioe', si inizio'
il processo di privatizzazione con la "legge Amato" nel 1990 (legge
n. 218 del 1990). Come nella migliore tradizione delle grandi riforme
italiane, a tutt'oggi questo processo e'
incompiuto. Il tema, latente appunto da quasi 25 anni, e'
esploso in modo caotico a fine gennaio quando sono venuti al pettine i noti
del caso piu' emblematico di commistione tra banche
e politica, il caso Monte dei Paschi di Siena (MPS). La reazione delle forze
politiche, in piena campagna elettorale, allo scoppio del bubbone MPS, e' stata a dir poco patetica. Avendo tutti quanti (ad
eccezione delle forze politiche emergenti, per forza di cose) le mani nella
marmellata senese o in altre specialita' regionali
da Lodi a Cagliari passando per Catanzaro, o temendo di pestare calli
sensibili i piu' hanno taciuto e chi ha parlato si e' limitato a balbettare qualcosa sulla necessita' di rivedere il rapporto tra banche e
fondazioni. Tranne poi far finta di dimenticarsene, confidando nella
smemoratezza (questa vera, purtroppo) del popolo italiano. Per questo la
Fondazione NFA (una fondazione non bancaria finanziata dai nostri lettori
:-)) ha organizzato in tutta fretta un convegno sul tema, che si e' svolto sabato 16 febbraio a Firenze. Abbiamo messo
insieme molti tra quelli che piu' hanno riflettuto
sul tema negli anni scorsi, per battere il ferro mentre era ancora caldo e
prima che si raffreddasse di nuovo (nota di attualita':
questo e' evidentemente gia'
accaduto; il Movimento 5 Stelle (M5S) aveva urlato alla rivoluzione del
sistema a Siena col suo portavoce Grillo, ma non c'e'
traccia della questione nelle priorita' sottoposte dagli elettori del
M5S a Grillo per una breve legislatura di riforme). I
partecipanti e i titoli degli interventi al convegno li trovate qui. L'esplosione
caotica del tema col caso MPS ha fatto confondere due questioni che sono e
vanno tenute invece ben distinte. La prima e': chi
controlla le banche in Italia e come le gestisce? La seconda e': qual e' il ruolo delle fondazioni
filantropiche, ivi incluse le fondazioni di origine bancaria? Approfittando
della confusione sono state gettate nella mischia due teorie che
corrispondono ad altrettanti equivoci da rigettare. Si veda, per tutte, la
reazione di Giuseppe Guzzetti (con intervista su Avvenire
il 30 gennaio scorso e una risposta pubblicata su nFA), 80 anni l'anno prossimo, gia' presidente DC della Regione Lombardia dal 1979 al
1987, poi senatore per due legislature, poi presidente della Fondazione
Cariplo dal 2000 a tutt'oggi presidente dell'Associazione di Fondazioni e Casse
di Risparmio (ACRI), un esempio di carriera politico-bancaria senza soluzione
di continuita' piuttosto comune in Italia. La prima e' la teoria della mela marcia, secondo la quale quello
di MPS sarebbe un caso isolato di mala gestione. Noi crediamo invece che MPS
non sia affatto un caso isolato ma la manifestazione di una chiara questione
sistemica nella governance delle banche
(chiaramente emersa al convegno, si veda oltre). Incidentalmente, se Guzzetti e' oggi convinto che
la Fondazione MPS ha commesso errori cruciali non si capisce perche', ieri, si era scelto (o aveva concorso a
scegliere) in sequenza come due ultimi vicepresidenti Giuseppe Mussari (Fondazione MPS, allora) e Gabriello Mancini
(Fondazione MPS, a tutt'oggi). La seconda e' le teoria del complotto contro le fondazioni bancarie.
Nessuno, in realta', mette in dubbio l'utilita' delle fondazioni private filantropiche. Al
contrario. Di tali fondazioni ve ne sono dappertutto in giro per il mondo e
svolgono certamente un importante ruolo nelle comunita'
di riferimento. Le fondazioni bancarie italiane, per esempio, forniscono
sostegno finanziario alla ricerca, alla sanita'
locale, e alle iniziative artistiche e culturali. Quest'attivita'
e' certamente di grande valore per la societa'. Va notato pero' che
questo si puo' fare (e anzi, si fa tipicamente
meglio) senza avere un interesse significativo, o senza evere
interesse alcuno, nel sistema bancario. Non c'e'
motivo di perseguire quest'ultimo. Si veda oltre l'interessante caso della
Fondazione Roma. Il patto per cui tu accetti che chi siede nei consigli delle
fondazioni bancarie eserciti un'influenza determinante sul sistema del
credito in cambio di un po' di erogazioni al territorio e'
scellerato. Si, perche' tutte le maggiori banche italiane sono controllate
da fondazioni "di origine bancaria", e una buona parte di queste
ultime detiene una quota significativa del capitale azionario sulla loro
banca di origine, in violazione del principio basilare di differenziazione
del portafoglio (che detto in termini di economia domestica significa,
semplicemente, che non devi mettere tutte le uova -- ma neppure una parte
significativa delle stesse -- nello stesso paniere). Raccomandiamo la lettura
dello studio "Italian Banking Foundations"
di Andrea Filtri e Antonio Guglielmi, che contiene
interessanti dati su questo e altri aspetti (Andrea Filtri era stato invitato
al convegno e sarebbe venuto volentieri, ma vivendo a Londra purtroppo non ce
l'ha fatta ad organizzarsi. Lo ringraziamo, di nuovo, lo stesso). Il dato
riportato nella figura sotto, prodotto da Filtri e Guglielmi e utilizzato
anche da Tito Boeri durante il suo intervento, mostra che solo il 18% delle
fondazioni bancarie italiane ha abbandonato l'azionariato bancario. Il 15%,
invece, possiede oltre il 50% delle azioni della banca di riferimento. Oltre
la meta' delle fondazioni bancarie italiane hanno
oltre il 5% delle azioni della banca di riferimento. Considerando quanto e' frammentato l'azionariato delle grandi banche questo
significa una forte presa delle fondazioni (cioe',
quasi sempre, dei politici che le controllano direttamente o le influenzano)
sul sistema del credito. Tra quel 18%
che ha abbandonato l'azionario bancario c'e'
l'interessante caso (portato alla nostra attenzione dal sempre ottimo
Francesco Lippi) della Fondazione Roma,
che ha venduto il pacchetto di azioni della banca di riferimento (la Banca di
Roma) e che oggi ha un patrimonio ben diversificato e redditizio che le
permette di fare quello che le fondazioni dovrebbero fare, cioe' cose utili alla comunita'
-- non attivita' di influenza sulle banche. Cosi' scrive il
presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele: le fondazioni
ex bancarie, e quelle che, come la Fondazione Roma, dopo aver definitivamente
interrotto il legame con la banca conferitaria ed aver concentrato ogni
attenzione ed ogni energia esclusivamente nell’attività filantropica e di
rilevanza sociale, possono ormai definirsi fondazioni di diritto civile,
occupano, insieme agli altri soggetti del terzo settore, gli spazi sempre più
ampi non presidiati dal pubblico e dal mercato, grazie alla loro provata
capacità, associata alla disponibilità di risorse adeguate, di rappresentare
un punto di riferimento progettuale e organizzativo per idee ed interventi di
alta qualità sociale, che non trovano accoglienza da parte degli altri
soggetti economici. Sante parole!
La Fondazione Roma oggi ha persino un proprio (e importante, a
quanto pare) museo. Indubbiamente meglio fare un museo e
lasciare che siano i banchieri a fare i banchieri. Col senno di poi (ma
a dire il vero in questo caso sarebbe bastato anche il senno di prima) se la
Fondazione MPS avesse fatto allora la stessa cosa (cioe'
vendere le azioni della banca e investire un patrimonio di svariati miliardi
di euro in un portafoglio diversificato), oggi il suo patrimonio sarebbe
intatto e continuerebbe a fruttare in abbondanza a beneficio di Siena e del
suo territorio. Essendo Siena una citta' di 60mila
abitanti contro i quasi 3 milioni di Roma ed avendo la Fondazione Roma
un patrimonio di soli 1,3 miliardi di euro contro gli oltre 5 che, ahiloro, aveva la Fondazione MPS, e'
facile fare le proporzioni e immaginare cosa sarebbe stata oggi e nei prossimi
50 anni Siena. Tanto e' costata ai senesi la brama
di tenersi stretto "il Monte". C'e' inoltre un briciolo di evidenza che l'intensita' di controllo e' in
qualche modo correlata con la perdita di capitalizzazione tra il 2006 e il
2012. Durante l'introduzione al convegno, uno di noi (Giulio) ha mostrato
questa figura che non ha alcuna pretesa di scientificita'
(impossibile con cinque osservazioni!) ma che suggerisce qualcosa. Nella
figura ci sono le prime cinque banche italiane (se escludiamo Mediobanca):
Unicredit (UNI, nella figura), Intesa-San Paolo (ISP), Monte dei Paschi
(MPS), Cassa Risparmio Genova (CRG) e UBI Banca (UBI). Sull'asse orizzontale c'e' il ranking secondo la perdita di capitalizzazione
dal 2006 al 2012, misurata come perdita di valore del titolo di proprieta' (il valore delle azioni). Rank
1 significa che si e' subita la maggiore perdita, 2
la seconda maggiore perdita, ecc. Sull'asse verticale c'e'
il ranking secondo la quota di capitale della banca (tra tutti i proprietari
che possiedono almeno il 2% del capitale) detenuto dalle fondazioni bancarie
nel 2011-2012. Rank 1 significa che la banca ha la piu' alta quota di capitale in mano a una fondazione, 2
la seconda piu' alta quota, ecc. Se consideriamo
che Unicredit e UBI sono diverse dalle altre tre in quanto in qualche modo piu' internazionali, allora la figura suggerisce una
correlazione positiva tra i due rankings (lo
sappiamo che e' ridicolo pretendere di identificare
una retta usando due punti, per quello abbiamo detto che non c'e' alcuna pretesa di scientificita'),
ovvero laddove piu' controllano le fondazioni li' c'e' stata maggiore perdita
di capitale. Da dove viene questo stato di
cose? Franco Debenedetti ha ripercorso la genesi e i punti critici delle
fondazioni bancarie in Italia. Queste sono nate a seguito di diversi
interventi del legislatore nazionale nel corso degli anni ’90 del secolo
scorso (vedi il sito dell’ACRI
e le pp. 14-15 dello stesso studio di Filtri e Guglielmi) che hanno
incentivato la trasformazione delle Casse di Risparmio e degli Istituti di
Credito di Diritto Pubblico in società per azioni, attraverso modalità tra le
quali, ad esempio, i conferimenti delle aziende bancarie da parte di Casse e
Istituti in società per azioni, i cui pacchetti di controllo restavano di
proprietà di Casse e Istituti conferenti. Il legislatore ha disciplinato la
natura giuridica e operativa e il regime fiscale di tali enti conferenti,
definendoli col termine “fondazioni” a partire dalla legge 23 dicembre 1998, n. 461
(art. 2, cosiddetta “legge Ciampi”). Le fondazioni sono enti non profit che
operano, con finalità definite "di utilità sociale e di promozione dello
sviluppo economico" (art. 2, comma 1, l. 461/1998), su scala perlopiù
provinciale, interprovinciale o regionale. Come azionisti di controllo di
banche, le fondazioni hanno il potere di scegliere la maggioranza dei membri
dei consigli di amministrazione delle banche stesse. A loro volta, i vertici
delle fondazioni, in base a norme statutarie, sono nominati, in buona parte,
da enti locali (comuni e province, ad esempio) che amministrano il territorio
in cui le fondazioni stesse esercitano la propria attività e, dunque, da
politici (ad esempio, sindaci, presidenti di provincia, consiglieri comunali
e provinciali; per lo piu', passatecelo che la verita' non e' sempre elegante,
politici incapaci e/o trombati in cerca di un premio di consolazione). Questi
ultimi, attraverso la scelta dei vertici delle fondazioni, possono esercitare
un controllo sulla nomina degli amministratori delle banche e, dunque, sulla
gestione delle banche stesse. Si veda, per esempio, il caso della Fondazione
Cariplo, che “svolge la propria attività prevalentemente nel territorio e per
le Comunità delle province della Lombardia, di Novara e di Verbania” (art. 3,
comma 3 dello statuto). Lo
statuto prevede (art. 11) che 19 dei 40 membri della Commissione Centrale di
Beneficenza (l’organo di indirizzo che nomina il Consiglio di
Amministrazione) della fondazione siano scelti dalla Commissione uscente
all’interno di liste proposte dalle provincie lombarde, di Novara e di
Verbania, dal Comune di Milano e dalla Regione Lombardia. La Fondazione
Cariplo, inoltre, è proprietaria del 4,95% delle azioni di Intesa Sanpaolo,
dove tutti gli azionisti con quote superiori al 2% sono, a parte
Assicurazioni Generali, fondazioni (vedi la pagina “Azionariato” nel sito di Intesa Sanpaolo). Debenedetti
ha ripercorso l’iter che ha portato all’approvazione della “legge
Dini-Ciampi”, iter nel quale si è anche impegnato personalmente quando sedeva
in Parlamento, non riuscendo a far passare norme che avrebbero forzato le
fondazioni a vendere i pacchetti di controllo delle banche, specificamente la
subordinazione dell'approvazione degli statuti delle fondazioni alla perdita
del controllo sulle banche di riferimento; pare che a Ciampi piacesse l'idea
ma ritenne che non sarebbe mai piaciuta al parlamento e che percio' era da accantonare. Mentre, infatti, la
precedente "legge Amato" imponeva agli enti conferenti di
conservare il controllo, la legge "Dini-Ciampi" si limito' alla fine a dare blandi incentivi a dismettere.
Una volta approvati gli statuti le fondazioni diventano soggetti di diritto
privato, e qui sta l'inghippo: in quanto soggetti formalmente privati non si
poteva poi obbligarli a vendere. La legge si limitava quindi a dire che le
fondazioni dovevano andare nella direzione di perdere il controllo (si veda
l'articolo di Debenedetti "La proprietà primo problema",
Il Sole 24 Ore, 30 gennaio 2013). Fatto questo, secondo Debenedetti non c'e piu' niente da fare: non e' possibile forzare le fondazioni ad abbandonare il
controllo delle banche, né attraverso confische o obblighi di vendita, né
(anche se si è espresso meno apertamente su questo punto) attraverso
l’introduzione di diversi regimi fiscali per le fondazioni stesse. Il
controllo delle fondazioni sulle banche finirà, dice Debenedetti citando
Alessandro Penati, quando la cattiva gestione delle banche esaurirà il
patrimonio delle fondazioni investito in esse. Monte dei Paschi e' la prima fondazione a realizzare questa profezia. In realta' a noi pare che qualcosa da fare ci sia. Non solo,
come ha correttamente osservato Giordano Masini durante il dibattito, l'attivita' antitrust impone spesso e volentieri di
vendere per cui non si capisce perche' non si
possano creare strumenti giuridici che applichino lo stesso principio a
settori cruciali come quello bancario. Ma inoltre, ha notato Michele Boldrin,
basterebbe che la Banca d'Italia riconoscesse apertamente che le banche
italiane sono sottocapitalizzate e le forzasse a ricapitalizzarsi facendo
entrare nuovi soci e diluendo in questo modo le quote di controllo ancora
possedute dalle fondazioni. Probabilmente queste vie non sono facilmente
praticabili, ma e noi pare che indichino che la posizione "siccome le
fondazioni sono soggetti privati non ci si puo'
fare piu' nulla" sia eccessivamente
pessimista. A quello di
Debenedetti e' seguito l'intervento di Fabrizio
Pezzani, l'unico "banchiere" presente (oltre a essere docente in
Bocconi, Pezzani e' vice presidente
della Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza), il quale
ha osservato che istituzioni e regole non sono buone o cattive in sé:
più delle istituzioni e delle regole contano gli uomini che
"vivono" (o meno) le istituzioni e rispettano (o meno) le regole.
Neppure la governance delle fondazioni e il
controllo delle banche da parte delle fondazioni e sono istituzioni o regole
buone o cattive per sé, ha concluso Pezzani. Questo e'
sicuramente vero dal suo osservatorio. Cariparma
sembra infatti aver fatto le scelte giuste facendosi acquisire per l'85% nel
2007 dal Crédit Agricole. Inoltre, stando ai
dati che piu' tardi ci ha fatto vedere Tito Boeri,
nella Fondazione Cariparma solo un consigliere su 5
ha alle spalle una carriera politica (contro i 14 su 24 in MPS!) Tuttavia, a
noi pare ovvio che non si puo' fare affidamento
sulla bonta' delle persone per far funzionare le
istituzioni. Queste ultime devono essere disegnate in modo tale da fornire
alle persone gli incentivi giusti perche' anche
quando le persone non sono buone queste facciano il minor danno possibile. Le
regole vanno fatte per i cattivi, non per i buoni, no? Il resto del
convegno e' stato sostanzialmente evidenza sul perche' sia una buona idea separare politica e banche. Luigi Guiso, nel suo intervento pomeridiano, ha fatto notare
come le fondazioni bancarie non possano essere proprietari efficienti, nel
senso che sono in media disinteressati alla buona gestione della banca. Il
patrimonio e i denari investiti nelle banche dalle fondazioni, infatti,
appartengono alle fondazioni stesse e non agli amministratori delle
fondazioni o ai politici degli enti locali. Gli amministratori delle
fondazioni e i politici non mettono a rischio il proprio patrimonio e non
subiscono perdite o mancati guadagni dovuti a una cattiva gestione delle
banche. Essi, si può dire, investono il denaro degli altri senza risponderne,
in ultima istanza, e per questo non sono particolarmente interessati al
massimo rendimento dell’investimento. Guiso ha poi applicato questa logica del proprietario
inefficiente al caso dell’esposto inviato da un anonimo dipendente Mps alla Consob "che
evidenzia le pratiche messe in piedi dal capo dell'area finanza assieme ad
altri funzionari […] che si sostanziavano in una sistematica sottrazione di
profitti agli azionisti di Mps". Perché, si è
chiesto Guiso, avvertire la Consob,
e non il principale azionista della banca, la Fondazione Mps?
Sarebbe come scoprire che la domestica (o il domestico?) del nostro vicino
gli fa la cresta sulla spesa e avvertire i carabinieri e non lui. E se invece
la Fondazione è stata avvertita (potrebbe essere così, senza che noi lo
sappiamo), perché non è mai intervenuta? Secondo Guiso,
la risposta è, appunto, che le fondazioni hanno “incentivi deboli” a essere
proprietari attenti. Pertanto è logico non rivolgersi ad esse per denunciare
azioni che vanno a detrimento della redditività e del patrimonio delle
banche, ed è logico che esse non intervengano (o lo facciano blandamente)
qualora sospettino o vengano a conoscenza di tali azioni. La vicenda
MPS, conclude Guiso, è "un problema di cattiva
struttura proprietaria: la separazione tra proprietà e controllo con
l’aggravante che la gestione della dotazione è affidata a politici". Un'altro fattore aggravante e'
la mancanza di indipendenza dalla politica, negli ultimi anni, della Consob, che pare aver ignorato la segnalazione dei gravi
fatti portati alla sua attenzione dall'anonimo dipendente. Consigliamo anche
la lettura dell'articolo di Guiso "Per evitare
abusi, meglio dare le banche in mano a padroni veri", Il Sole 24 Ore, 14
febbraio 2013. L’intervento
di Guiso è stato preceduto da quelli di Elena
Carletti e di Michele Boldrin, che hanno spiegato in breve i sistemi bancari
di due nostri vicini europei: Germania e Spagna, rispettivamente. Boldrin ha
sottolineato come le banche spagnole in crisi, in quanto coinvolte nella
cosiddetta bolla immobiliare, siano le casse di risparmio (o le banche nate
dalle fusioni tra casse di risparmio, orchestrate dal regolatore come
tentativi di salvataggio delle casse stesse) nei cui consigli di amministrazione
siedono persone scelte dai politici locali e dove il credito viene erogato
con criteri, per così dire, non sempre ispirati a una sana e prudente
gestione del rischio. Boldrin si è anche soffermato sul ruolo del regolatore
(la banca centrale) nel "coprire", per alcuni anni, la situazione
di dissesto di diverse casse di risparmio. Il sistema
bancario tedesco, invece, ha spiegato Carletti [slides qui],
è caratterizzato da tre pilastri: le banche commerciali private, che possono
operare su tutto il territorio nazionale, le banche cooperative/popolari e le
casse di risparmio, la cui operatività è, per legge, limitata
territorialmente. Inoltre, all’interno del pilastro cooperative/popolari e
del pilastro casse, le banche godono di un’esclusiva territoriale: in altre
parole, le banche cooperative/popolari non possono fare concorrenza ad altre
cooperative/popolari e le casse non possono fare concorrenza ad altre casse.
Due gli aspetti su cui Carletti si è soffermata. Il primo è la mancanza di
dati pubblici che consentano di valutare l’efficienza dell’allocazione del
credito da parte di banche cooperative/popolari e casse, in quanto la banca
centrale tedesca, a differenza, ad esempio, di quella italiana, non li
raccoglie o non li rende pubblici (forse per una scelta "ideologica”"della banca centrale stessa, poco
incline a far sì che il modello a tre pilastri possa essere messo in
discussione, anche attraverso la diffusione e l’analisi di dati). I pochi
studi effettuati sui pochi dati disponibili suggeriscono la presenza di
inefficienze nell’allocazione del credito da parte di banche
cooperative/popolari e casse e di cicli di credito che seguono i cicli
elettorali: in altre parole, di un’espansione del credito da parte di
cooperative/popolari e casse in prossimità delle elezioni. Il secondo è la
crisi delle Landesbank (banche regionali),
partecipate dalle casse di risparmio e dal governo del Land (regione) di
riferimento. Le Landesbank sono una sorta di
"banche centrali regionali" che offrono servizi (ad esempio di risk-management o di gestione della liquidità) alle casse
di risparmio operanti nel Land di riferimento. Esse, inoltre, col tempo,
hanno diversificato le proprie attività nell’ambito del corporate banking per
clienti e progetti troppo grandi per le piccole casse di risparmio, dell’investment banking e del private banking. Per decenni le Landesbank hanno goduto di una garanzia pubblica sui
propri debiti e, grazie a tale garanzia, di oneri di finanziamento inferiori
a quelli delle banche private. Quando nel 2001, a seguito di una decisione
della Commissione Europea, si decise di rimuovere tale garanzia pubblica, fu
anche concesso un periodo "di grazia" per i debiti che le Landesbank avrebbero contratto entro il 2005 e con
scadenza prima del 2015. Le Landesbank
approfittarono della proroga della garanzia per aumentare enormemente il
proprio indebitamento senza migliorare la qualità (o, in altre parole, la
gestione del rischio) dei propri investimenti (investendo ad esempio, in subprime mortgage-based securities). La crisi è
esplosa alla fine dello scorso decennio e il governo tedesco è intervenuto
ricapitalizzando le Landesbank per evitarne il
fallimento (una è tuttavia fallita). In altre parole: la presa della politica
sul sistema bancario e' molto piu'
forte in Germania che in Italia e infatti in Germania il sistema bancario e' collassato molto piu'
spettacolarmente che in Italia (esempio da usare: a volte anche i tedeschi
fanno peggio). Gli
interventi della seconda parte della mattinata si sono concentrati su alcune
caratteristiche degli amministratori delle fondazioni e degli alti dirigenti
(amministratori delegati, membri dei cda bancari o
equivalenti, direttori generali o equivalenti) delle banche italiane.
Caratteristiche quali la “vicinanza” alla politica e la scarsa o nulla
correlazione, in media, tra compensazione di un banchiere e performance della
“sua” banca e tra permanenza di un banchiere al vertice di una banca e performance
della banca stessa. Tito Boeri ha
presentato interessanti (e difficili da raccogliere) dati per mostrare, tra
l’altro, che: ·
numerosi amministratori di
fondazioni e membri dei CdA bancari hanno avuto una
carriera politica prima di entrare nelle fondazioni o nelle banche, ·
i banchieri italiani sono piu' avanti con gli anni, meno istruiti, meno economisti,
molto politici e con carriere molto lunghe (auguri a Giovanni Bazolim che quest'anno compie 27 anni da banchiere, n.d.r.) rispetto ai loro omologhi in Europa e USA; ·
gli amministratori delegati delle
banche dedicano agli incontri con i politici un quota di tempo più alta
rispetto ai colleghi di altri settori (con l’eccezione degli ad delle public
utilities), ·
gli amministratori delegati delle
banche sono in media più pagati dei loro colleghi di numerosi paesi OCSE e i
loro salari sono poco correlati alle performance della banca di cui sono
dirigenti. Difficile non
concludere che la folta presenza di persone con carriera politica alle spalle
tra gli alti dirigenti di fondazioni e banche rappresenti una forma di
collocamento per politici a fine carriera. Il risultato e'
che questi finiscono per essere interessati a massimizzare il "char-holder value" (il
valore della poltrona) piuttosto che lo share-holder
value (il valore a vantaggio dei proprietari nella
banca). Bruno Parigi ha sintetizzato i risultati di uno studio
("Connections and Performance in Banker’s
Turnover", con Eric Battistin e
Clara Graziano, European Economic
Review, vol. 56, 2012) sulle connessioni
locali degli alti dirigenti di un campione piuttosto numeroso di banche
italiane, dove per locali s’intende nell’area in cui la banca ha la sua sede
principale. La distanza tra la provincia di nascita di un banchiere e quella
in cui si trova l’headquarter della “sua” banca è
usata come proxy per misurare l’intensità delle
connessioni locali del banchiere, supponendo che quanto minore e' la distanza, tanto maggiori/più intense sono le
connessioni (e viceversa). Forse non troppo sorprendentemente, la distanza è
nulla nella maggioranza del campione (con differenze tra banche di diversa
forma giuridica e manager di ruolo diverso). Lo studio esamina: ·
gli effetti delle connessioni
locali sulla probabilità di “sopravvivenza” (nel senso di mantenimento del
proprio posto di lavoro) dei banchieri, controllando per la performance delle
banche (in altre parole, considerando banche con all’incirca gli stessi
livelli di performance): l’effetto è positivo; ·
gli effetti delle connessioni
locali e sulla probabilità di sopravvivenza delle banche: l’effetto è
negativo; ·
gli effetti della performance
delle banche sulla probabilità di sopravvivenza dei banchieri controllando
per l’intensità della connessioni: l’effetto è quasi nullo, come dire
che le connessione locali dei banchieri sono buone per i banchieri stessi, ma
non per le banche, e che i “fantini” (banchieri) continuano a restare “in
sella” ai loro “cavalli” (le banche) indipendentemente dai risultati. Abbiamo
concluso con un'interessante tavola rotonda improvvisata su varie amenities accademiche come la dimensione ottimale delle
banche, il leverage, e le interconnessioni tra
banche. Ma queste non ve le raccontiamo, cosi' come
non vi raccontiamo quant'erano buone le crespelle alla fiorentina e la
schiacciata alla fiorentina con la crema chantilly che ci siamo mangiati
nell'intervallo. Cosi' imparate e la prossima volta
venite al convengo invece di leggere solo il riassunto. Il convegno e' stato reso possibile dal sostegno dei lettori alla
Fondazione NFA. Continuate a sostenerla con una donazione
per permetterci di continuare a organizzare eventi come questo! 30
novembre 2012 • giulio zanella Un articolo di Enrico Grazzini su
"economia e politica" argomenta che bisogna
"rifondare" le fondazioni bancarie indebolendo il loro legame con
la politica ma rinforzando il loro controllo sul sistema del credito. Il
motivo sarebbe la presunta natura di "bene comune" del risparmio
nazionale. Quest'ultimo, a detta di Grazzini,
sarebbe in pericolo se le fondazioni bancarie, invece, dismettessero i loro
pacchetti di controllo delle banche italiane per diversificare i loro
patrimoni. In questo post commento brevemente, in quattro punti, queste
stravaganti (a mio modo di vedere) idee. (1) Neo-liberisti. Nell'articolo ricorre
la retorica dell'attacco neo-liberista, che consisterebbe nella
raccomandazione di (a) eliminare il controllo che la politica esercita sul
sistema bancario mediante le fondazioni bancarie, e (b) obbligare le
fondazioni bancarie a diversificare i titoli in cui e'
investito il loro patrimonio, il che richiede la vendita dei pacchetti di
controllo delle banche di riferimento. Il sostantivo
"neo-liberista" compare 4 volte nell'articolo. C'e'
poi una quinta apparizione, alla fine, senza il neo. Ammetto di essere
un ignorante con un diploma in ragioneria, e di aver dovuto (per ragioni
assicurative, provenendo da una famiglia fondamentalmente proletaria)
studiare stenografia e dattilografia invece della filosofia (o della
dermatologia, per cogliere la differenza tra un neo e un non-neo), ma ancora
non capisco chi siano i liberisti, e come i neo-liberisti si distinguano dai vetero-liberisti, o i turbo-liberisti dagli
aspirato-liberisti. Ieri sera, durante il confronto su Rai1 in vista del ballotaggio alla primarie del PD, sia Pierluigi
Bersani sia Matteo Renzi hanno affermato che
liberalizzare e' di sinistra. Entrambi
neo-liberisti? Sono confuso. Chiedere che i panettieri facciano il pane e i
meccanici riparino le auto e' vetero-liberista?
E perche' chiedere che i politici facciano i
politici e i banchieri i facciano banchieri sarebbe neo-liberista? Chiedere
che l'INPS non investa la meta' dei fondi pensioni
pubblici nelle azioni della AS Roma e l'altra meta'
nelle azioni della Juventus FC e' liberista? E perche' chiedere che le fondazioni bancarie non investano
tutto il loro patrimonio (che e', quello si,
patrimonio pubblico) nelle banche locali sarebbe turbo-liberista? La matassa
s'ingarbuglia. A questo punto tra i non-liberisti restano soltanto (in ordine
decrescente di grado di vetero-liberismo) Niki
Vendola, Papa Ratzinger, e la madre superiora dell'Abbazia di Frittole, 96
anni. Sogno il giorno in cui la smetteremo di appiccicare maldestramente
etichette e discuteremo di fatti e sostanza delle idee. (2) Risparmio bene comune. Nell'articolo
ricorre la bizzarra idea per cui il risparmio delle famiglie italiane sarebbe
un "bene comune" (common) e che le Fondazioni bancarie
siano necessarie alla gestione di questo particolare bene. Un bene comune, e' bene ricordarlo, e' una
risorsa posseduta o utilizzata in comune da un gruppo di persone, senza che
alcuna specifica persona abbia un diritto di proprieta'
sulla risorsa. Tecnicamente, un bene comune e' un
bene non rivale (il fatto che lo usi io non impedisce a un altro di usarlo)
ma escludibile (posso impedire a qualcuno di usarlo), a differenza di un bene
pubblico che e' sia non rivale sia non
escludibile. Il risparmio di una famiglia (in Italia, almeno) non e' ne' un bene pubblico ne' un bene comune. Che non sia
bene pubblico, e' evidente: se il risparmio
depositato nel conto corrente intestato a Enrico Grazzini
fosse un bene pubblico, per esempio, allora io potrei liberamente e
legalmente far addebitare su quel conto corrente le mie bollette della
luce o del gas. Mi piacerebbe. Ma non e'
neppure un bene comune. Se lo fosse, allora Enrico Grazzini
non potrebbe svuotare il suo conto corrente per far fronte a un'ingente spesa
imprevista. Non gli piacerebbe. Il fatto che il risparmio depositato presso
le banche venga convogliato attraverso il canale del credito ad altri
soggetti che vogliono prendere a prestito non lo rende un bene comune. Lungi
da me il fare l'esegeta di Grazzini, ma forse lui
intende dire che ci sono esternalita' positive
associate al risparmio perche' piu'
c'e' risparmio piu' ci
sono risorse per investire anche in progetti comuni. Le esternalita',
in estrema sintesi, sono gli effetti diretti (non mediati dal mercato)
dell'azione di qualcuno sul benessere di qualcun altro. Anche in questa
interpretazione, l'argomento non regge. Se una massa piu'
abbondante di risparmio e' disponibile, questo
influenza certamente il benessere di chi puo'
prendere di piu' a prestito. Ma l'effetto e' interamente mediato dal mercato del credito, dove i
tassi di interesse riflettono (tra le altre cose) la scarsita'
e l'abbondanza della massa di risparmio. Non ci sono ne' beni comuni ne' esternalita', insomma. L'argomento teorico di Grazzini, quindi, decade in tronco. Decaduto questo resta
ben poco, vediamo cosa nei prossimi due punti. (3) Mai agli speculatori stranieri.
Nell'articolo ricorre la sindrome dello speculatore straniero che, se
dismettiamo le azioni delle banche in mano alle fondazioni bancarie, si
impadronisce e porta via i risparmi degli italiani e quindi il loro futuro.
E' utile innanzitutto ricordare che i risparmi degli italiani non sono tutti
dentro le banche. Gli italiani acquistano anche immobili, obbligazioni,
azioni, assicurazioni, quote di fondi comuni, ecc. ecc. Solo una parte della
ricchezza e' depositata presso le banche. Secondo
l'articolo, se arrivano gli speculatori stranieri e si comprano le banche
italiane, allora questa parte della ricchezza sparisce. Vale per
"speculatore" quanto detto sopra per "neo-liberista", ma
soprassediamo. Veniamo al punto: cosa e' successo
nel 2005 quando gli "speculatori stranieri" di ABN AMRO si sono
comprati Antonveneta? I conti correnti sono stati svuotati e i risparmi dei
correntisti portati ad Amsterdam in sacchi di tela con sopra stampato
€ con una carovana di furgoni blindati scortati dall'esercito olandese?
L'idea, vedete, e' sciocca. Ma, si puo' obiettare, poi gli olandesi dispodendo
dei nostri risparmi non ci fanno piu' credito! Perche' mai dovrebbe essere profittevole fare credito
alle start-up austriache, francesi, e olandesi ma non a quelle italiane? (4) La rifondazione delle Fondazioni.
Nell'articolo si propone (sulla base di una premessa logicamente fallace,
vedi #2) di rifondare le fondazioni lasciando intatto il loro controllo sulle
banche italiane ma facendo nominare i vertici "democraticamente dalle comunità
di riferimento, dai cittadini e dalle associazioni della società
civile". Mi permetto di far notare che e' gia' cosi, oggi. Prendiamo il caso emblematico, la
Fondazione Monte dei Paschi. I vertici sono nominati, tra gli altri, dal
Comune (l'istituzione democratica della comunita'
di riferimento, per eccellenza), dalla Provincia (l'istituzione
democratica della comunita' allargata di
riferimento, per eccellenza), dalla curia (l'istituzione non democratica
stavolta, ok, di una comunita' di riferimento, per
Sua Eccellenza). Cosa rifonderebbe la rifondazione proposta nell'articolo, e' quindi un mistero. Vogliamo l'elezione diretta dei
vertici? Chi sceglie i candidati? La posta in gioco (il controllo delle
banche) e' alta, crediamo che i partiti non riescano
anche qui a cambiare tutto per non cambiare niente? Ah, le rifondazioni. Il
problema non e' il controllo democratico delle
fondazioni, ma il controllo che i politici italiani, mediante le fondazioni,
si ostinano a voler esercitare sul sistema bancario. E' questa ostinazione
che ha bruciato una fetta della ricchezza degli italiani (i patrimoni non
diversificati delle fondazioni), e ha portato via loro un pezzo di
futuro rendendo il sistema bancario italiano altamente inefficiente. Un
esempio? Se MPS fosse stata gestita da chi di professione fa il banchiere
(con qualunque passaporto) anziche' il politico,
molto probabilmente invece di comprare 25 miliardi di BTP
avrebbe fatto un po' piu' di credito alle
moltissime famiglie e imprese nella "comunita'
di riferimento" e oltre. Che il mercato del credito sia popolato da
perfidi speculatori stranieri mentre i politici italiani democraticamente
eletti siano benevolenti benefattori e' una delle
dannose misconcezioni che hanno aggravato la crisi
economica del paese. La condanna definitiva di
Antonio Fazio e' una lapide che
commemora questo fatto. 10
giugno 2012 • sabino patruno C’era una
volta una piccola banca di credito cooperativo della benestante provincia
italiana. Nel giorno in
cui i giornali danno la notizia che le banche spagnole saranno salvate
(forse) da una iniezione di liquidità di 100 miliardi, racconto le
vicissitudini di una piccola banca di di credito
cooperativo, la cui storia però ci insegna molte cose. Le BCC, una
volta note come casse rurali ed artigiane, sono delle banche di piccole
dimensioni, molto radicate nel territorio, che hanno la forma giuridica di
società cooperativa, il che vuol dire che non distribuiscono utili, ma per la
maggior parte li reinvestono nel rafforzamento del loro patrimonio e, per una
piccola parte, usano gli utili per fare beneficenza e in aiuto ad
attività sociali del territorio di appartenenza. Le BCC, come
la vecchia denominazione di “cassa rurale ed artigiana” lascia
intendere, hanno tradizionalmente concesso credito alle piccole imprese
e alle famiglie, con un occhio particolare ai soci, ai quali vengono
applicate condizioni di relativo favore. In quanto cooperative, poi, per
queste banche vale il principio per il quale non può esserci un socio di maggioranza,
ma il voto di ciascun socio pesa in pari misura, indipendentemente dalla sua
partecipazione al capitale. L’aspetto
positivo di questo tipo di banche è che sono effettivamente espressione del
territorio, le assemblee e i consigli di amministrazione vedono veramente
fianco a fianco e, almeno apparentemente, sullo stesso piano, il piccolo
artigiano e l’industriale, l’avvocato ed il contadino. L’aspetto
negativo, come intuitivo, è che si crea una contiguità tra la banca che dà il
credito e i soggetti che si indebitano, col rischio di un allentamento dei
criteri di meritevolezza del credito e di favorire
eccessivamente gli amici o gli amici degli amici. In tempi di vacche grasse
questi rischi sono gestibili, in tempi di vacche magre i nodi vengono al
pettine. Chi scrive,
ha avuto l’onore e l’onere di partecipare professionalmente all’assemblea di
una piccola BCC marchigiana, che sino a tre anni fa vedeva i bilanci in
utile, il patrimonio e gli impieghi in crescita, il personale contento e ben
pagato. Erano gli anni del credito facile e anche la nostra banca,
dimenticando forse i principi di oculatezza e buona gestione, si era data
a concedere con larghezza mutui e affidamenti ad amici, amici degli
amici e sconosciuti. L’arrivo della crisi ha comportato un brusco risveglio. La Banca
d’Italia dopo un’ispezione ha costretto la banca ad una drastica svalutazione
dei crediti e del patrimonio e, senza entrare troppo nei dettagli e nei
tecnicismi, il risultato è stata la chiusura in forte perdita del bilancio
dell’anno scorso e una disperata ricerca di liquidità per rispettare i
requisiti di patrimonialità necessari a continuare l’attività bancaria.
L’assemblea a cui ho assistito doveva affrontare tutto questo e decidere se
la banca dovesse rinunciare ad una parte della propria autonomia in cambio di
una iniezione di liquidità da parte del fondo di garanzia delle BCC, che è,
per l’appunto, un fondo alimentato da tutte le banche di credito cooperativo,
che arriva in salvataggio di quelle in difficoltà. Il fondo di garanzia
mette i soldi, sotto forma di finanziamento, ma esprime il proprio
gradimento sugli amministratori e in pratica entra nella stanza dei bottoni. Su questo
scenario, ho visto la democrazia societaria all'opera, con 1200 soci riuniti
in un centro sportivo a decidere il futuro della banca e gli interventi in
assemblea, (tranne alcuni che parlavano dei massimi sistemi, la Democrazia,
l'Autonomia, il Territorio) sono stati molto concreti e
"trasversali" dato che si andava dall'industriale al contadino, con
un forte attaccamento alla istituzione-banca, ma anche la consapevolezza
della gravità del momento. Alla fine l’assemblea ha approvato la modifica
statutaria, che consegna la banca alla tutela del fondo di garanzia e eletto
come suo presidente un professore di economia ovviamente gradito al fondo. Da parte sua,
il consiglio di amministrazione si è tagliato i compensi, ha ridotto i
finanziamenti eccessivi ai grossi debitori, aumentandoli ai piccoli, ha tagliato
i costi del personale, che per i prossimi tre anni dice addio al premio di
produzione, ridotto le spese non necessarie e così via. Ci saranno anni
di vacche magre, ma insomma, la strada è quella: si tagliano le spese, si
puliscono i crediti e soprattuto, si chiede
patrimonio a chi lo può dare. Sembrerebbe
una storia a lieto fine e apparentemente lo è, tanto che da quest'anno la
banca è di nuovo in utile, però non bisogna perdere di vista il quadro
d’insieme. Il taglio dei costi, degli stipendi, dei gettoni di presenza,
la migliore gestione dei finanziamenti, insomma “l’austerità”, sarebbero
stati del tutto insufficienti senza la liquidità in arrivo dall’esterno.Solo che questo aiuto, per almeno dieci, anni
limiterà la autonomia dei soci e, in definitiva, la democrazia societaria cui
erano abituati, perchè, come ovvio, alla fine
nessuno regala niente e se sto fallendo e qualcuno mi dà dei soldi per
salvarmi, questa persona vuole anche vedere bene come li spendo. Non so quanto
questa piccola storia possa applicarsi alle banche spagnole ed agli stati
nazionali in disperato bisogno di liquidità, però mi chiedo quanto la
democrazia, così come noi oggi la conosciamo, dovrà essere sacrificata
alle necessità di cassa, così come è avvenuto per la piccola BCC
marchigiana. Come detto, nessuno dà niente senza contropartite, sicchè a me tutta questa storia ha fatto venire in mente
la regola degli antichi mercanti veneti: “articolo quinto: chi gà schei gà vinto”. Utili idioti
Uno sfogo
come un altro davanti ad una crisi che ci sta scivolando di mano. Vorrei
proporre una sintetica interpretazione di cosa stia succedendo in almeno un
sottoinsieme dei paesi Europei travolti dalla crisi, diciamo Grecia,
Italia, e anche Francia (la dinamica della crisi per Spagna e Irlanda e' diversa; del Portogallo non so nulla). Argomentero' poi che almeno parte della colpa di cosa sta
succedendo vada addossata alla piega che ha preso il dibattito economico in
questi paesi (e nel resto d'Europa). Infine trarro'
le mie conclusioni su chi guadagna da questa situazione. Questo mi aiuta ad
identificare gli utili idioti della situazione. Cosa sta succedendo. I nostri tre moschettieri (Grecia,
Italia, Francia) hanno goduto di tassi di interesse sui debiti sovrani molto
favorevoli dalla nascita dell'EuroZona nel 1999 per
Italia e Francia; dalla sua entrata nel 2001 per la Grecia. E' stato cosi' fino alla crisi (l'estate scorsa, piu' o meno). Essi hanno pero'
evitato il riconsolidamento del debito pregresso
(Italia e Francia) o addirittura (Grecia), hanno finanziato una espansione
fiscale. La crisi finanziaria del 2008 e la realizzazione delle situazione
critica della Grecia (che aveva addirittura maneggiato le statistiche per
nasconderla) hanno reso nervosi i mercati dei capitali (i creditori di
Italia, Francia, e Grecia), e gli spread sono saliti. Di qui tutto il
can-can. i) non
siamo noi moschettieri ad essere poco produttivi, sono i tedeschi ad esserlo
troppo; ii) i
tedeschi hanno guadagnato per anni da questa situazione - a chi hanno venduto
le loro BMW?; iii) i
tedeschi stanno guadagnando ora da questa situazione, visto che i capitali
scappano in Germania e loro si trovano con un tasso vicino a 0; iv) il
problema e' che l'Europa non ha un prestatore di
ultima istanza come la FED, la BCE dovrebbe comprare i titoli sovrani
emessi dai tre moschettieri (e da altri paesi in crisi); v) il
problema e' che non c'e'
abbastanza Europa, avanti con l'integrazione e gli Eurobond; vi) la
crisi di domanda si combatte con investimenti pubblici, o anche spesa
pubblica tout court, a debito. La
minaccia invece e' una sola: se ci costringete all'austerita' noi diventiamo fascisti ( o comunisti, che
e' lo stesso), andiamo in strada, e sarebbe
la terza volta che l'Europa e' distrutta per colpa
vostra, tedeschi maledetti. Il risultato. La Germania ha avuto gioco facile a
rifiutarsi di prendere in considerazione un intervento a sostegno dei
moschettieri (che poi non finirebbe solo li', che
Spagna e Portogallo sarebbero a ruota, suppongo). I tedeschi non sono
flessibili e hanno poco senso dell'ironia, ai bambini capricciosi tendono a
rispondere come si deve ai bambini capricciosi. E poi conveniva anche a loro
temporeggiare, io credo, per vari motivi. ma non e'
questo il punto, il punto e' che non sono stati mai
affrontati con proposte serie e ragionevoli che non supponessero un
atteggiamento "chiagni e fotti". A furia
di temporeggiare stiamo rischiando brutto pero'. Ci
sono indicazioni che fanno temere una corsa ai depositi (intesi generalmente
come liquidita') in Euro: guardare agli
avanzi e disavanzi del sistema di pagamenti della BCE, Target2. A quel
punto, speriamo non succeda, bisognera' intervenire
- sospetto che la stessa Germania lo fara'. Saranno
interventi sulle banche - in mezzo al panico del pubblico e dei regolatori-
come negli Stati Uniti nel 2008. Chi ci
guadagna? Le banche. Quelle che avevano prestato ai tre moschettieri sovrani
e che hanno continuato a farlo su loro suggerimento fino ad oggi (o a ieri).
Le banche, il cui peccato originario e' una
componente fondamentale di tutto 'sto casino. Le banche, la cui mancata
integrazione in Europa e' servita e serve
a mantenerle sotto il controllo della politica. In Italia, lo
sappiamo, attraverso le Fondazioni, istituzioni private solo sulla
carta ma in realta’ legate a (e dipendenti
da) la politica. Le recenti inchieste giudiziarie riguardanti il Monte
dei Paschi e la Banca Popolare di Milano non rappresentano che la
degenerazione estrema di una gestione economica fallimentare del sistema
bancario, piegato agli interessi della politica. L’esposizione delle
banche nei confronti dei titoli pubblici ne e’
un’altra, gravissima, rappresentazione. [In Spagna, le cose non stanno
molto diversamente a quanto capisco su questo punto: alla radice della crisi
bancaria sta la stessa commistione di interessi economici e politici che
osserviamo in Italia - non per niente la Caja
Madrid (la maggior cassa di risparmio in Bankia) e’ da tempo legata alla comunita’
autonoma di Madrid e la Catalunya Caixa alla
amministrazione provinciale di Barcellona]. Ci guadagneranno
le banche perche' quando i risparmiatori corrono
agli sportelli e i capitali volano che e' un
piacere poi non si puo' andare troppo per il
sottile, e si finisce sempre che un Paulson
qualunque va in Parlamento a chiedere una montagna di miliardi che senno' domani chiudiamo i Bancomat. E allora
chiudiamo il cerchio. Quelli che, a seconda delle interpretazioni, hanno
costretto o aiutato i tedeschi a temporeggiare, quelli che hanno prodotto
tutti quegli argomenti errati di cui sopra conditi con la minaccia di un
arrivo di un nuovo baffone (o pelatone), quelli li',
sono gli stessi che odiano il neo-liberismo, gli speculatori, i mercati, che
occupano Wall Street, che .... Alla fine, stanno
aiutando le banche a uscire da questa situazione coi soldi dei contribuenti,
come negli Stati Uniti. Come le cattive idee peggiorano la crisi
del debito europeo
12
febbraio 2012 • John Cochrane L'Europa
è piena di cattivi debiti tanto quanto è piena di cattive idee. La
saggezza popolare suggerisce che il default di uno stato significhi la fine
dell'euro: se la Grecia fallisce, deve lasciare la moneta unica. I
contribuenti tedeschi devono salvare i governi del sud per salvare anche
l'unione. Questa è una sciocchezza. Alcuni
stati degli Stati Uniti e alcuni governi locali sono falliti con debiti in
dollari, esattamente come falliscono le imprese. Una moneta è
semplicemente un'unità di valore, come i metri sono un’unità di
lunghezza. Se i greci avessero “fatto la cresta” sull’olio di oliva nelle
bottiglie da un litro, questo non avrebbe messo a rischio il sistema
metrico decimale. I
salvataggi sono la vera minaccia per l'Euro. La Banca Centrale Europea ha
comprato debito pubblico greco, italiano, portoghese e spagnolo. Ha
prestato soldi alle banche che, a loro volta, acquistano debito pubblico.
C'è una forte pressione sulla BCE affinché ne acquisti o ne garantisca
ancor di più. Quando i governi debitori alla fine diverranno insolventi,
o il resto d'Europa raccoglierà migliaia di miliardi di
Euro in nuove tasse per ricostituire la banca centrale, oppure l'Euro si
inflazionerà comunque. Abbandonare
l'Euro sarebbe un disastro per la Grecia, l'Italia e gli altri. Il ritorno
alla moneta nazionale durante una crisi del debito comporterebbe
un’espropriazione dei risparmi, un controllo del capitale che distruggerebbe
il commercio, una spirale d’inflazione ed un isolamento che ammazzerebbe
la crescita. E uscire dall’Euro non aiuterà questi paesi a evitare il
default, perché il loro debito promette euro, non dracme o lire. I pericoli della svalutazione. I
difensori [della strategia di svalutazione] pensano che la svalutazione
illuderebbe i lavoratori e li spingerebbe verso una maggiore
“competitività”, come se la gente non si rendesse conto di essere pagata con
il denaro del Monopoli. Se la svalutazione della moneta rendesse i
paesi competitivi, lo Zimbabwe sarebbe il paese più ricco sulla Terra.
Nessun elettore di Chicago vorrebbe lasciare al governatore del proprio stato
la possibilità di svalutare la moneta per crearsi una sua via di fuga
dai problemi di bilancio e dalle difficoltà economiche. Perché mai gli
economisti pensano che i politici greci siano molto più saggi? I piani
più recenti prevedono che l’Europa sia più dura nel far rispettare regole sul
deficit che sono simili a quelle stesse regole che i governi hanno
allegramente ignorato per oltre 10 anni. Ma siamo sicuri che una direttiva
da Bruxelles basterà a spingere i greci a darsi da fare? Immaginate
quanto poco successo avrebbero avuto il Fondo Monetario Internazionale o
le Nazioni Unite se avessero cercato di porre il veto sul deficit di bilancio
degli Stati Uniti (ovvero, se il nostro Congresso avesse anzitutto
approvato il bilancio). Questo piano è principalmente un modo per
salvare la faccia alla BCE e lasciarle comprare crediti inesigibili con Euro
freschi di stampa. Una maggiore unione
fiscale danneggia l’Euro. Pensate alla Polonia o alla Slovacchia. Un tempo
utilizzare l’Euro era una scelta scontata:
aveva un senso usare la stessa moneta che usano tutti gli altri piccoli
stati confinanti, esattamente come l’Illinois vuole usare la stessa moneta
dell’Indiana (e la Toscana quella dell’Umbria). Ad oggi, non
è più così scontato: se usare la stessa moneta significa pagare per salvare
la Grecia e l'Italia, allora forse l'adozione dell'euro non è un’idea
così buona. Una moneta comune senza un’unione fiscale avrebbe un appeal
universale. Un’unione monetaria con un’unione fiscale basata sul salvataggio
rimarrà invece un piccolo affare. I leader
europei pensano che il loro compito sia di fermare il "contagio",
per "calmare i mercati." Danno la colpa alla
"speculazione" per i loro guai. Continuano ad aspettare il Grande
Annuncio che imbonisca i mercali e li spinga a comprare qualche altro
centinaio di miliardi di euro di debiti Ahimè, il problema
è la realtà, non la psicologia, e i governi sono pessimi psicologi. Non
si può riempire un buco da mille miliardi di Euro con la psicologia. Il
presidente francese Nicolas Sarkozy ha detto che la
Grecia è come Lehman Brothers, e il suo collasso
farebbe cadere il sistema finanziario. La Grecia non è Lehman. Non ha
migliaia di miliardi di dollari di contratti derivati. Non è un
broker-dealer, il cui fallimento congelerebbe ogni tipo di attività finanziaria.
I suoi creditori non hanno il diritto legale alla confisca dei beni
dovuti alle controparti. La Grecia è solo un semplice debitore
sovrano, come quelli che sono stati inadempienti da quanto Edoardo III
imbrogliò la banca Peruzzi nel 1340. Il debito delle
banche. Il default del debito sovrano danneggerebbe il sistema
finanziario, comunque, per la semplice ragione che l’Europa ha permesso
alle sue banche di caricare in portafoglio questo debito, tenerlo
a bilancio al valore nominale, e trattarlo come privo di rischio, senza
nessun capitale accantonato che facesse da cuscinetto. I governi
indebitati hanno fatto pressione sulle banche affinché acquistassero più
debito pubblico, e non meno. La scorsa estate, per aumentare i loro
indici di bilancio le banche hanno acquistato ancor più debito
sovrano “senza rischio”, che ora possono usare come garanzia collaterale
ai prestiti della BCE. La grande "operazione liquidità" della
BCE darà alle banche centinaia di miliardi di euro per aumentare le loro
scommesse sul debito sovrano. I correntisti bancari e i creditori
l’hanno capito, e stanno correndo verso l’uscita. Imbottendo
le banche con il debito sovrano, i politici e regolatori europei stanno
rendendo l’inevitabile default molto più rischioso dal punto di vista
finanziario. Questa è una importante lezione per tutti
quelli che si aspettano che la regolamentazione terrà al sicuro le
banche! L’errore fatale dell'euro non è stato di unire zone con diversi
livelli e tipi di sviluppo sotto un’unica valuta. Dopo tutto, il
Mississippi e Manhattan (e Milano e Palermo) utilizzano gli stessi soldi. E
non è stato neanche quello di privare i governi dei piaceri effimeri
della svalutazione. Né è stato l’immaginare un’unione monetaria
senza unione fiscale. L’errore fatale dell’Euro è stato la mancata
regolamentazione bancaria. Il debito sovrano, che può sempre evitare il
default esplicito quando lo stato stampa moneta, non rimane senza rischio in
un’unione monetaria. Ciononostante,
gli organi di regolamentazione bancaria e le regole della BCE
continueranno a fingere il contrario. Quindi, dall’abile
applicazione di idee sbagliate, l’Europa ha preso una normale
ristrutturazione del debito sovrano e l’ha trasformata prima in una
crisi bancaria, poi in una crisi monetaria, poi in una crisi fiscale, e ora
in una crisi politica.Quando finirà l'era
delle pie illusioni, l'Europa dovrà affrontare una scelta difficile.
Potrà avere un’unione monetaria senza default sovrani. Questa opzione
significa unione fiscale, accettando veri controlli da parte
dei tedeschi sui budget greci e italiani (e forse francese). Nessuno lo
vuole, per ovvie ragioni. Oppure l’Europa potrà avere un'unione
monetaria senza unione fiscale. Che funzionerebbe bene, ma deve
essere basata su due idee fondamentali: gli stati devono poter fallire
esattamente come le società private, e le banche, inclusa la banca
centrale, devono trattare come rischioso il debito sovrano, esattamente come
trattano il debito delle aziende. La terza e
ultima opzione è una rottura, probabilmente dopo una crisi e l’inflazione.
L'euro, come il metro, è una grande idea. Gettarlo via sarebbe una vera
e inutile tragedia. Fondazioni nunc et semper
11
giugno 2012 • Franco Debenedetti Sulla
nascita delle Fondazioni bancarie - un bignami della vicenda. “It’s a bird, it’s a plane, it’s Supermario”. Monti alla RAI, twittava un uomo politico di primo piano del
centrosinistra, per rivoluzionarla, rifondarla, delottizzarla. Monti dia un
“segnale” sulle fondazioni, hanno scritto Roberto
Perotti e Luigi Zingales, per “togliere l'humus di cui si alimenta
il sottobosco della politica e del clientelismo”. Per gli uomini comuni,
conviene precisare. Per oltre
50 anni, dalla legge del 1936, tutte le banche, comprese le Casse di
Risparmio, sono state pubbliche. Non ne bastano 20 per privatizzarle del
tutto. Si incomincia con la legge Amato-Carli
(1990) che scinde le due attività, da un lato le banche a fare le banche,
dall’altro, a fare le “opere di bene”, le all’uopo create Fondazioni, perciò
dette di origine bancaria. Per Perotti e Zingales questo è il “pasticcio
legislativo [in cui le Fondazioni avrebbero] strappato lo status di enti di
diritto privato”. È che per privatizzare ci vogliono i privati; e mentre per
fare lo stato padrone, basta un tratto di penna, per creare padroni possono
volerci generazioni. C’erano altre strade? Nazionalizzare tutto e poi
vendere: ma visto cosa (non) sta succedendo col gas, si dovrebbe ringraziare
per lo scampato pericolo. Consentire alle banche di detenere, in deroga
temporanea, il 100% delle proprie azioni e ricapitalizzarsi vendendole un po’
per volta sul mercato? Il progetto, attribuito a un grande giurista
bolognese, sarebbe stato giudicato troppo drastico da Bankitalia.
Provare con i voucher*? Con Alessandro
De Nicola, Francesco Giavazzi e Alessandro Penati elaboriamo un progetto,
presento (1995 e 1997) il relativo disegno di legge. Ricordo Nino Andreatta:
”Non ho capito tutto, ma quel che ho capito non mi piace”. Mi guadagno
un premio (lo stesso che avevano dato ad Andreatta 6 anni prima), scontri e
battibecchi a volontà. La storia
della privatizzazione è la storia di questa tuttora incompiuta separazione.
Con Amato-Carli (1990) le Fondazioni hanno
l’obbligo di detenere il 50% delle banche, con Dini (1994) hanno incentivi
fiscali per dismetterle, e le perdono se non lo fanno entro 5 anni (1995).
La battaglia decisiva si gioca sulla legge delega Ciampi (1998), 2 anni di un
estenuante percorso parlamentare. Sorvegliata a vista dal
sottosegretario Roberto Pinza, con la sponda del sen. Grillo nel
centrodestra, coi DS nell’Ulivo anche loro preoccupati di non perdere
contatti col “territorio”, la commissione respinge uno dopo l’altro gli
emendamenti volti a fare delle Fondazioni fondi di investimento e non holding
di partecipazioni. Il presidente dell’ACRI, avv. Guzzetti,
a distanza di anni mi accusa pubblicamente di avere organizzato l’opposizione
a inserire, tra le attività delle Fondazioni, oltre agli “scopi di utilità
sociale” anche la “promozione dello sviluppo economico”, un cavallo di Troia
che, in altre mani, potrebbe consentire di tutto. E si arriva all’ultima
spiaggia: far mettere in legge che solo se contengono il divieto di
controllare e di partecipare al controllo di qualsiasi attività economica,
gli statuti avrebbero avuto l’approvazione del Tesoro necessaria per il
riconoscimento di soggetti privati, capo II, libro primo, codice civile. Mi
sembrò sinceramente dispiaciuta la voce di Ciampi, quando mi rispose che su
questo non ci sarebbe stato l’appoggio del Governo e che ci si doveva
accontentare della vigilanza del Ministero dell’Economia per le Fondazioni
che hanno posizioni di controllo. Giulio
Tremonti consegna al Sole24Ore propositi bellicosi: “Le Fondazioni? Una legge
da azzerare” è il titolo dell’intervista (20 Novembre 2000). Vinte le
elezioni, vara una “riforma” (2001) che riduce l’autonomia statutaria delle
Fondazioni. Solo per prendersi una clamorosa bocciatura della Corte
Costituzionale: con la sentenza (2001) che sancisce che sono soggetti
privati, espressione delle libertà sociali, tutelate costituzionalmente, la
partita Fondazioni si chiude. E per Tremonti si apre la fase del
corteggiamento, concluso con le nozze in Cassa Depositi e Prestiti: a
proposito di partecipare al controllo. Se, come
riconoscono Perotti e Zingales, i cittadini sono “legittimi proprietari delle
vecchie casse di risparmio pubbliche“, è logico che a gestire le Fondazioni
siano persone scelte, direttamente o indirettamente, dai cittadini: con il
voto politico locale conferiscono, insieme agli altri poteri, anche quello di
gestire quel patrimonio e di destinarne gli utili a “opere di bene”: e ogni 5
anni si verifica. E’ quando il potere di decidere “su opere di bene” si
unisce al potere di gestire attività for profit che le acque si
intorbidiscono. Come ancora accade. In misura
però nettamente decrescente, ed irreversibile: e poco importa se ciò sia
stato per la dinamica dei mercati, per la indubbia “virtù” di alcuni uomini,
o per la buona e la cattiva sorte. C’ è chi ha venduto, e si compiace; chi
no, e tace. In generale le partecipazioni nelle banche sono diminuite di
importanza, anche per effetto di fusioni e concentrazioni, avvenute quando al
vertice della Banca d’Italia c’era chi voleva che tutto seguisse il suo
“piano regolatore”. Unicredit è stata sostenuta dalle Fondazioni nei tempi
buoni della crescita internazionale, e nei tempi grami della crisi. MPS, già
dagli anni ’90 appariva a Massimo D’Alema come un curioso residuo medioevale.
Le banche popolari, con voto capitario, hanno problemi di governance
assai peggiori. Look! Up in the sky! allora?
Per le Fondazioni, cari amici, ormai
perfino per SuperMario è troppo tardi. * buoni
di acquisto scambiati su un mercato secondario. Sistema descritto in
dettaglio in http://ww.francodebenedetti.it/disegno-di-legge-privatizzazione-delle-banche-controllate-da-fondazioniassociazioni/ In
un recente articolo su Repubblica ho scritto una castroneria sulla nascita
delle Fondazioni bancarie. Franco Debenedetti, che a tale nascita ha
partecipato, mi ha giustamente (ma gentilemente)
bacchettato. In compenso NFA ci ha guadagnato questo post. [Alberto] A Ma’! Versace ‘n artro LTRO!!!! (*)
7
marzo 2012 • fabio scacciavillani Ora che
la seconda operazione di rifinanziamento a lungo termine (LTRO) della BCE è
andata a segno sarebbe ora di fare un po’ di pulizia semantica sul concetto
di “prestatore di ultima istanza” (“Lender of Last Resort”, LoLR) per
riposizionare qualche puntino sulle “i”. La
funzione di LoLR si riferisce al sistema bancario,
non agli Stati, come viene erroneamente inteso nel dibattito tra dattilografi
di lusso, che affollano le redazioni e soubrettes
(ambosessi), che sgomitano negli studi televisivi. Alla Bce
non erano state conferite né funzioni di LoLR per
le banche né funzioni di salvatggio per governi in
bancarotta. Il Trattato di Maastricht non
poteva essere più esplicito. L'art. 104 recita "È
vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di
facilitazione creditizia, da
parte della BCE o da parte delle Banche centrali degli Stati membri, a
istituzioni o organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti
regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto
pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l'acquisto
diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle Banche
centrali nazionali". Quando fu firmato non c’era
assolutamente alcun dissenso in materia. Poi l’incalzare della crisi ha reso
questo divieto, insieme ai limiti su debito e deficit pubblico “chiffons de
papier” secondo una venerabile definizione tedesca dei trattati
internazionali. Oggi dopo
5 anni di danze della pioggia per fermare la crisi siamo a questo punto: 1) E’
saltata la distinzione logico-funzionale tra i bilanci di banca centrale,
banche commerciali e governo. Le passività di queste entità sono in realtà un
unico calderone, o, se preferite, le tasche di un unico pantalone (nel
guardaroba di Pantalone). L’indipendenza della Bce è sbiadita mentre il
settore bancario, forte dell’appoggio politico, ha di fatto nazionalizzato le
perdite, ma privatizzato enormi proventi da arbitraggi a zero rischi a spese
del contribuente tramite le operazioni di liquidita'
della Bce. La
funzione LoLR va a braccetto con la supervisione
bancaria. Le banche centrali forniscono liquidità come LoLR
alle banche illiquide, ma non a quelle insolventi. Siccome la distinzione tra
le due situazioni è complessa, questo compito viene svolto dalla banca
centrale che ha l’obbligo di mettere in liquidazione le banche ritenute
insolventi e passare i documenti alla magistratura se ravvisa ipotesi di
reato. La Bce
invece sta riversando una fiumana di soldi senza sapere quali sono le banche
insolventi perché la supervisione bancaria è demandata alle banche centrali
(o alle agenzie) nazionali che non si scambiano informazioni, anzi le tengono
segrete per paura di scoperchiare i letamai e dare un dispiacere ai potentati
politici che quei letamai concimano (vedi le Fondazioni in Italia). Insomma
la Bce tiene in vita degli zombies finanziari senza
sapere nemmeno chi sono e quanto siano deleteri per la stabilità europea e
mondiale. Esiste una
sorta di autorità di supervisione a livello europeo, la European
Bank Authority (EBA) ma è sostanzialmente una
parodia, in cui recitano guitti con il colabrodo in testa e le spade di
latta, senza poteri effettivi. Sotto l’egida di questa EBA sono stati
condotti due stress test a distanza di un anno che hanno concluso “Tutto bene
Madama Marchesa”. Tre mesi dopo il primo test e’
fallito il sistema bancario dell’Irlanda, e dopo il secondo ha rischiato di
collassare l’intero sistema bancario europeo per il congelamento del credito
interbancario (proprio perché nessuno si fidava dello stress test). Tutto il
sistema di regolamentazioni bancarie e'
inefficientemente prociclico: ti impongono di
ingozzarti ai pranzi di matrimonio e poi ti impongono di non mangiare durante
un'arrampicata. E cosi' l’EBA adesso costringe
le banche a raccogliere fondi con il cappello in mano oppure a tagliare gli
attivi, cioé il credito al settore privato (visto
che quello al settore pubblico è incagliato), aggravando la recessione già in
atto. Insomma
questo sistema di regolamentazione bancaria è diventato una mina
vagante di incompetenza, che andrebbe disattivata. Le funzioni di
supervisione sul settore finanziario, ora gestite a livello nazionale,
dovrebbero essere trasferite sotto l’autorità della Bce, che dovrebbe
procedere alla liquidazione coatta delle banche insolventi. Invece di
cincischiare in inconcludenti vertici europei, i leader europei farebbero
meglio a procedere speditamente in questo senso, in modo da rimuovere la
gravissima anomalia di una Bce che a colpi di mezzo trilione di euro
beneficia un sistema bancario di cui non ha modo di accertare la
salute. Ma che
questa salute sia molto cagionevole lo prova un dato inquietante: i depositi
overnight delle banche presso la Bce hanno raggiunto la cifra stratosferica
di 777 miliardi di euro. Le banche prendono a prestito dalla Bce, ma quelle
che hanno eccedenze di liquidità a fine giornata non si fidano a prestarle ad
altre banche attraverso il mercato interbancario e preferiscono il porto
sicuro dell'Eurotower anche a tassi infimi. Usque tandem? Conti correnti gratis? Per tutti!
26 febbraio 2012 • andrea moro I
pensionati con una pensione inferiore a 1500 euro potranno aprire
un conto corrente
senza spese per deposito e prelievo. Dettagli a parte, così sembra prevedere
un emendamento approvato in Commissione Industria del Senato. Non è chiaro se
questa sia stata un’idea di qualche senatore o se l’emendamento sia stato
proposto dal Migliore Governo della Storia Repubblicana. Certo è che il
governo non sembra, per ora, dare segnali di vita su un provvedimento che
denota la solita mancanza di cultura economica. Terzo,
perché il mandato è ingiusto. Le origini del mandato vengono dal nuovo
divieto alla pubblica amministrazione di effettuare pagamenti superiori ai
1000 euro in contanti. Questo forza i pensionati abituati a riscuotere
la pensione mensilmente alle poste ad aprire un conto corrente e pagarne le
spese. Certamente ingiusto per i poveri pensionati, ma che dire dei ricchi
pensionati con basse pensioni? La misura forse non grava anche sui poveri
giovani lavoratori? Insomma,
ad un mandato che limita la libera scelta degli individui con l’imposizione
di un costo monetario si provvede con un altro mandato che limita la libera
scelta dell’imprenditore di operare politiche di prezzo che ritiene
efficienti. Il provvedimento, inserito in un pacchetto legislativo curiosamente
denominato “decreto liberalizzazioni” denota l’ennesima mancanza di cultura
economica di parlamento e governo che pretedono di
imporre l’efficienza per decreto, con misure ad hoc imposte dall’alto,
piuttosto che facilitando l’entrata e la concorrenza nel settore bancario. |
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