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CONSIDERAZIONI DI UN SABINO
SUL NATALE DI ROMA E DINTORNI.
(Sintesi)
di Mauro Novelli - 2002
INDICE
CIVIS
ROMANUS SUM: UN INSUPERATO SPIRITO DI APPARTENENZA.
AUGUSTO
L’OTTIMIZZATORE: L’INIZIO DELLA VISIONE INDIVIDUALISTA
E
NOI ? (VELOCEMENTE E DA APPROFONDIRE)
Sostiene Carandini, colto archeologo,
che le leggende sorte attorno alla fondazione delle città soffrono di
una condanna: o si trova la prova documentale che dimostri la veridicità
della leggenda – la quale diventa, così, storia - oppure quella leggenda
è del tutto inventata, senza alcun fondamento di verità per
nessun suo elemento.
La leggenda è un indice degli avvenimenti o realmente
accaduti o che si vorrebbe fossero accaduti. Ma non è solo invenzione.
Di fatto, Roma è il prodotto dell'incontro di tre popoli,
differenti per civiltà e tradizioni:
- I Sabini, invadenti ma non aggressivi né inclini alla
violenza; proprio come i loro
progenitori, i Sabelli, sacralizzavano e
ritualizzavano tutto, anche la povertà;
- I Tagliagole del
Palatino, maestri nell'arte dell'agguato negli acquitrini del Velabro contro coloro che utilizzavano il Tevere peril baratto ed il commercio; violenti ma intelligenti
"succhiaruote" riguardo alle
più civili, economiche e ingegnose soluzioni attrezzate dai
popoli vicini;
- Gli Etruschi, civili e
violenti nei confronti di coloro che potevano mettere in difficoltà i
loro commerci.
Tralasciamo i Tagliagole del Palataino e
gli Etruschi, fin troppo studiati.
Catone (di famiglia
contadina di Tuscolo, allora Sabina)
sostiene che dal nucleo originario di Amiterno-Antrodoco, i Sabelli
(prima del
Un inciso. Sarà un caso, ma la radice di Sabelli, Sanniti,
Sabini è la stessa di “sacro”. Chi ha avuto la possibilità –
qualche anno fa - di visitare a Roma la mostra ( “L’uomo d’oro”) sul
ritrovamento degli arredi funerari di un principe delle steppe,
ricorderà che quel popolo nomade si autodenominava
“Sac”.
Invadenti ma non invasori si dice dei Sabelli. Superstiziosi e con
alto senso del sacro, avevano ritualizzato soprattutto le cadenze fondamentali
della loro esistenza, in primo luogo le difficoltà della vita.
La zona di origine è una delle più tribolate
dell'Italia centrale: la piana reatina -
unica zona pianeggiante della Sabina - era, per tre quarti dell'anno,
un immenso acquitrino, freddo, nebbioso ed inospitale. Solo attorno al 271
a.C. il console Manio Curio Dentato tagliò lo sperone che impediva al
Velino di riversarsi nella valle del Nera, da tempo terra degli Umbri - cugini
dei Sabelli- di circa
Terra ingenerosa, quindi, e proprio per questo abitata da gente
"strana".
Rispetto alle capacità di sostentamento, i villaggi
divenivano velocemente sovrappopolati. Se in altri luoghi, (mi viene in mente
la Cina), l'equilibrio di sopravvivenza è stato garantito dalla
eliminazione delle figlie femmine, in Sabina, tremila anni fa, pensarono di
risolvere il problema diversamente.
Una società agricola “normale” (basta tornare indietro di
pochi decenni) tende a mantenere in casa i figli maschi - oggetto degli auguri
per i nuovi sposi - ai quali si insegna l'arte perché siano, per i vecchi
malandati, il bastone della vecchiaia, il corrispondente della pensione; fa
allontanare, invece, le figlie femmine (con dote) le quali si accasano presso
la famiglia del marito. Per questo venivano mantenute incolte: non conveniva
investire per insegnare loro l’arte, al massimo si conferiva loro la dote,
altrimenti nessuno le avrebbe volute.
I Sabini decisero diversamente: in presenza di carestie
"normali" facevano emigrare i figli maschi; in caso di carestie
gravi, ai maschi si accompagnavano le femmine. I vecchi, contro ogni logica di
umanità contadina, rimanevano a
sostenersi da soli, per quanto possibile. Più che a conservare i loro
geni, pensavano a quelli già proiettati.
Gente curiosa, appunto.
L'emigrazione era sacralizzata nella ritualità delle
"Primavere sacre": tutti i figli nati nel corso di ogni anno venivano
dedicati ad un dio ed al suo animale votivo (un anno al lupo, l'altro al
serpente, al cinghiale, al falco ecc.). Superata l'adolescenza ed in funzione
della entità delle carestie, gli àuguri (chiamiamoli così)
individuavano, nella direzione scrutata e rivelata dell'animale votivo del dio
cui erano dedicati i giovani, la via che avrebbe preso il gruppo di coetanei
allontanandosi dal villaggio.
Con carestie normali, emigravano solo i giovani maschi, dotati di
armi; in caso di grave carestia, il villaggio si privava anche delle giovani
femmine.
Il gruppo si muoveva nella direzione indicata fino ad incontrare
un villaggio, altra gente che li potesse accogliere. Non forzavano la mano: in
caso di mala accoglienza si doveva proseguire il cammino. Non aggredivano né
conquistavano, ma si fondevano (se possibile) proponendo lingua, costumi,
agricoltura di frontiera e, soprattutto, senso del sacro, della ritualità
e della religiosità in genere.
Primaveron primaveroni, i Sabelli occidentali,
cioè i Sabini, si spinsero fino
ad occupare/ampliare/ripopolare Magliano Sabina, Palombara, Cori, Tivoli,
Fidene, Tuscolo. Giunsero fino al Quirinale: il loro Marte era Quirino (forse
da Cori). Erano i Quiriti.
Per inciso, Domiziano, fratello di Tito, figli di Vespasiano,
[della gens sabina Flavia] fece erigere sul Quirinale un Templum
gentis Flaviæ ad
onore del luogo "in cui abitarono gli antenati".
I dirimpettai del Palatino, i Tagliagole, dovrebbero essere
entrati in contatto con i Sabini in occasione delle migrazioni, magari per
grave carestia e quindi con giovanette al seguito. L'apologetica romana ha poi
voluto "nobilitare" quella fusione con un atto di forza (il ratto
delle Sabine). Sta di fatto che la leggenda fonda Roma, nel 753, il 21 aprile,
in piena primavera.
Il periodo del regno (fino al 510
a. C.) ha visto avvicendarsi re romani a re sabini, infine etruschi. La
leggenda parla di Romolo e, sottovoce, del sabino Tito Tazio (di Cori) che lo
affiancava. E’ curioso che Romolo fosse chiamato anche Quirino: si trattava di
Romolo o del suo compagno non romano?
Tito Livio dice che governarono congiuntamente.
I re Sabini (nella leggenda, Numa Pompilio e Anco Marzio –oltre
che Tito Tazio) introdussero ritualità e sacralità tra i
Tagliagole, gettando il seme della civilizzazione: il Fuoco Sacro, le Vestali,
le procedure augurali e i giorni fasti e nefasti, tutte le istituzioni
religiose (i Sali, i Flamini) il culto di Giano, il pontificato, a servire il
primo ponte sul Tevere, il Sublicio, fatto costruire
- secondo la leggenda- da Anco Marzio. Il calendario fu portato da dieci a
dodici mesi.
La fusione dei due popoli fu tale da sdoppiare la denominazione del
nuovo prodotto etnico: si denominavano Quiriti in campo sociale e forense,
Romani in campo istituzionale e militare.
A mio avviso l' "SPQR" ricompone Quiriti e Romani. Ma
non vorrei aggredire la traduzione corrente di cui quel simbolo vuol definirsi
acronimo: mi limito a proporre un po’ di invadenza.
Curiosamente, non si parlerà più dei Sabini per due
secoli, fino al
Non si sa bene che cosa sia successo nel frattempo; ma sappiamo
che i Romani avevano l’abitudine di nascondere
e poi tagliare ogni radice che non fosse la loro, lasciando in evidenza la
pianta romanizzata. Per gli Etruschi il meccanismo di cassare ogni vestigia
è chiaro e crudele, ma la stessa
cosa dovrebbe essere capitata ai Sabini, pur se non paragonabili, quanto a
civiltà, ai Tirreni.
Per un legionario non sabino, essere definito "quiris miles" era un'offesa, perché ne metteva in evidenza
la scarsa propensione alla violenza. Si apprezzano, invece, i legionari di
origine sabina, cioè i milites quirites, nei rapporti con le popolazioni vinte, come
colonizzatori (immediatamente dopo la conquista). Diremmo: "Quiriti brava
gente".
Il verbo "quirito -as -avi -are" vuol dire "chiedere aiuto". La
"quiritatio" traduce "il gridare al soccorso".
La Repubblica romana -
contemporanea della polis greca - fondava la sua democrazia sulla “disciplina”
che, attenzione, è cosa ben diversa dall’ “obbedienza”.
La disciplina è lo spirito che anima i discepoli nei
riguardi dell’autorevolezza del maestro. Applicati, per comprendere;
riflessivi, per criticare; attivi, per progredire, hanno il piacere di fare il
proprio dovere nella certezza che anche il maestro, con ancor maggiore
consapevolezza, sta compiendo il suo. Tutti motivati a proseguire,
ineluttabilmente, il cammino di civiltà.
In altri termini, il civis romanus era certo che al suo senso del dovere corrispondeva
quello di qualsiasi altro cittadino, e che quanti si offrivano di procedere nel
cursus honorum si gravavano di onerosi obblighi, più pesanti di quelli
che spettavano ai cittadini “normali”. Alla maggiore potestas
(o auctoritas in campo religioso) corrispondeva
immediatamente una più intensa e concreta responsabilità.
[Oggi
è esattamente il contrario: si fa carriera (in ogni campo) per avere
meno responsabilità e scansare ogni rottura di palle: si ritiene che al
potere debbano essere annessi solo vantaggi.]
Tutti, comunque, operavano al meglio per accrescere il prestigio
della civitas romana. Non a caso, il più alto
riconoscimento per gli alleati fedeli (e capaci) era quello della civitas romana cum suffragio, in
assoluto la più ambita ricompensa per i popoli venuti a contatto con i
Romani ed inglobati nei confini dello Stato.
Quella
del “civis romanus sum”
è stata una delle più formidabili sorgenti aggreganti mai
riscontrata su questo pianeta. E la visione non era individuale; nei secoli
della repubblica (esclusi gli ultimi cento anni
avanti Cristo) si pensava in termini di “gens” che in piccolo riproponeva
lo stesso senso del dovere mantenuto per la Res Publica:
si operava al meglio, per accrescere il decoro ereditato dagli antenati che si
doveva riconsegnare, accresciuto, ai discendenti. Anche la plebe, da non
confondere con i “poveracci”, aveva una visione
familiare e non individuale: la possibilità di accedere alle cariche –
fino alle tribunizie - spingeva a ben operare per mettere in evidenza il nome e
fare della famiglia un riferimento politico sul versante plebeo (oggi diremmo
borghese), in attesa di riconoscimenti istituzionali.
Il dovere/diritto [commistione etica ben più intrecciata di
quanto non sia oggi] del “civis romanus”
aveva cinque valenze inscindibili. Era rivolto :
1.
alla difesa
militare dei confini e degli interessi dello stato, come legionario;
2.
alla vita
produttiva, come agricoltore;
3.
alla
alimentazione dell’ Erario (voglio scriverlo maiuscolo), come contribuente;
4/5. alla buona salute
della Res Publica (maiuscolo), come elettore e/o come eletto.
Per
la maggior gloria di Roma.
Per
il raggiungimento degli obbiettivi, lo strumento più disaggregato era
quindi la gens o la familia, non l’individuo. Né ci
si poteva basare su riconoscimenti post mortem: tutti
si sarebbero ritrovati in Averno, regno dei morti, buoni e malvagi, probi o
improbi, onesti o scellerati.
Il
decoro per la familia, la gens, la civitas era acquisito in vita, con atti concreti, mossi dal
piacere di far bene il proprio lavoro.
Gli
ultimi cento anni prima di Cristo vedono una vita politica caratterizzata da
una curiosa congiuntura di personaggi/individui di particolare spicco
personale: Mario, Silla, Cicerone, [Catilina],
Cesare, Pompeo, Crasso, [Spartaco], Lepido, Antonio, Ottaviano.
Mario
intuisce la superiorità di un esercito di professionisti. Non è
più il cittadino che si fa legionario per Roma, è il
professionista a militare nell’esercito
per se stesso.
La
concezione della Res Publica è devastata da
personalità invadenti e disarticolanti: si parla di triunvirati (due), i
consoli passano in secondo piano, le gentes arrancano
e soccombono sotto il peso di esponenti di spicco, si passa dalla “gens” al
"vir".
Il
decoro diventa appannaggio personale. L’orizzonte quello del singolo.
Nel
- la “tribunicia potestas”
(in soldoni, il potere di convocare il Senato), successivamente arricchita
della “intercessio” (il potere di opporsi ad ogni decisione
presa da qualsivoglia istanza istituzionale);
- l’ “imperium proconsulare
maius et infinitum” che lo
rendeva imperator di tutti gli eserciti romani operativi entro i confini dello
stato.
Da
eccellente ottimizzatore, Augusto si dedica prontamente al miglioramento dei
suoi eserciti.
1.
Capisce (l'intuizione era
già stata di Mario) che un esercito di professionisti è di gran
lunga più efficace delle legioni fino ad allora impostate sul senso del
dovere di ogni cittadino. Che un esercito permanente era ben più
affidabile delle coorti di contadini costituite in fretta per fronteggiare
necessità contingenti e successivamente sciolte. Che il volontario
poteva essere sostenuto da motivazioni (individuali) più facili da
solleticare, più forti di quelle suggerite alla collettività dal
senso civico.
2.
Capisce che le coorti destinate all’ordine pubblico della città,
fino ad allora affidate ed alimentate dai civilissimi soci spagnoli, ormai
romani a tutti gli effetti, sono più efficaci se costituite dai rudi
giganti della Pannonia (i Galli Boi della Boemia). Che, poi, la cittadinanza li
veda come estranei e ostili è cosa di nessuna importanza.
Cancella,
pertanto, il primo dovere/diritto del civis romanus: l’essere miles per
difendere confini ed interessi della Res Publica, della gens, della familia.
Il
legionario diventa semplicemente soldato.
Il
dramma è rappresentato dal fatto che i cives
romani plaudono alla iniziativa. Ormai, la visione individualista mirava a
carpire vantaggi nell’arco della vita del singolo.
La
Res Publica? Figuriamoci !
Per
il senso di appartenenza, un tempo coltivato gelosamente, è l’inizio
della fine.
L’equilibrio
doveri/diritti è scardinato. Sarà facile per i successivi
imperatori:
-
capire che sono
più produttivi i contadini di professione (gli schiavi provenienti da
mezzo mondo) di quanto non lo fosse il colono romano, spesso distratto dal
doversi fare legionario;
-
capire la
convenienza del saccheggio delle province rispetto alla impopolare riscossione
dei tributi ed alle lungaggini di una colonizzazione;
-
capire infine
che, per eleggere il nuovo imperatore, non è necessario convocare i
comizi: basta far pronunciare i soldati.
Con
i vantaggi della “specializzazione”
scoperti ed utilizzati da Mario ed ottimizzati da Augusto, lo Stato
romano comincia a dar fondo al capitale morale, umano e sociale accumulato
dall’ottavo al primo secolo a.C. La consistenza del quale, di immensa
entità, permette all’impero di vivere bene per altri tre secoli, di vivacchiare
ancora per un quarto secolo e di agonizzare per ulteriori settanta anni.
La
dimensione miseramente individuale della vita, acquisita in due secoli (il
primo a.C. ed il primo d.C.) come
conseguenza dell’abbandono della visione
sorta in seno alla repubblica, crea
tre esigenze:
-
la
aspirazione ad un prolungamento della vita della persona, anche dopo la morte
fisica, per recuperare sulle delusioni presentate da una vita normale;
-
la
necessità di una giustizia superiore a quella terrena, ormai estranea
alle possibilità di intervento dei “sudditi”; una vendetta postuma;
-
la
revisione del vecchio Olimpo, con l’aggiunta di divinità più
congeniali alle prime due grette visioni personalistiche.
La
filosofia supporta queste esigenze con le elaborazioni e gli approfondimenti di
Plotino (neoplatonismo) e con la proposizione di un
sincretismo globalizzante (gnosticismo).
Si
inglobano velocemente tutte quelle religioni, anche misteriche, che forniscono
soluzioni salvifiche individuali. Iside, Mitra, Cristo sono gli innesti
più fertili. Tutte promettono una vita eterna, ai meritevoli.
L’operazione
è vinta dal cristianesimo. L’innesto egiziano è solo per ricchi.
L’innesto mitriaco (con principi, dogmi, messaggi e doveri molto simili a
quelli cristiani) è solo per iniziati maschi – introdotto e diffuso dai
militari/marinai -, di buon livello sociale, con templi privati, con
iniziazioni di un certo impegno, con un numero di adepti non eccessivo per ogni
singolo tempio [le gemmazioni sembra siano state continue]. L’innesto
cristiano, al contrario, è aperto
a tutti, maschi e femmine, ben accolti se poveri, ancor meglio se ignoranti:
è dei poveri di spirito il Regno dei cieli; l’ iniziazione del singolo (il
battesimo) è solo simbolica; si diventa soldati di Cristo (cresima) con
una semplice croce unta dal prete sulla fronte. Si prediligono le assemblee
numerose, partecipate da intere famiglie, dove stare in comunione.[Grande declino oggi: lo stare in
comunione con gli altri si è ridotto al “fare la comunione”, in fila,
magari senza neanche conoscere i vicini.]
Non
trascorre un secolo dalla invasione dei Vandali (476 d.C.) che il senso
profondo di appartenenza si ricostituisce negli ambiti dell’abbazia
benedettina, tra i monaci, su basi diverse ma con principi molto simili a
quelli repubblicani:
1.
difensore
della comunità (il pugnale era in dotazione ai monaci) e della
popolazione circostante. La Regola di S. Benedetto parla del pugnale in due
articoli; quello in cui si elenca la dote che l’abbate deve offrire al monaco e
che prevede anche il pugnale, e quello che consiglia di togliersi il pugnale
dalla cinta per non ferirsi, qualora si dovesse dormire affiancati ad alti
monaci nelle comunità più numerose.
2.
produttore
per la comunità e per le popolazioni vicine (ora et labora). Se
non ricordo male, però, il monito completo era: ora et labora et lege;
3.
contribuente
per la Chiesa;
4.
5.
elettore/eletto nell’ambito dell’abazia e del corpo ecclesiastico più
ampio.
Per
la maggior gloria di Dio.
E’
questa coscienza fiera delle proprie radici, da proteggere perché sane, valide,
utili; è questo il filo rosso che sorregge (ancor oggi) la cultura
occidentale.
Ci
saranno due forme aggreganti successive: le Signorie (durata: due secoli;
prodotto: il Rinascimento) e il nazismo/fascismo/comunismo (durata: 12 , 23, 73
anni; prodotto: 70 milioni di morti ed
oltre).
Nel
bene e nel male chi individua i meccanismi di formazione dei canoni di
aggregazione, o incappa nei suoi
ingranaggi, ha in mano una macchina formidabile. A seconda della
capacità del suo utilizzo e dei fini portanti può essere pila
atomica o bomba atomica.