HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Mastro Titta, il boia di Roma
INDICE
III. Un bargello e due guardie
assassini.
IV. La grassazione della
Principessa.
VI. La vendetta di un marito
oltraggiato.
VII. L’assassinio di un Giudìo — Parricidio.
VIII. Due donne impiccate — Infanticidio
e assassinio d’un marito.
IX. L’assassinio di un frate
cappuccino.
XVI. La confessione e la morte.
XVII. Violazione di una promessa
sposa.
XVIII. La bella — L’abbacchiaro di
Campo de’ Fiori.
XXI. L’aggressione del Corriere del
Papa.
XXII. Scoperta, processo, condanna ed
esecuzione.
XXIII. L’assassinio del compare.
XXIV. Un masnadiero di buon cuore.
XXV. L’assassinio del cognato.
XXVI. Grassatori vili. — Un patto nefando.
XXVII. La scoperta del macellaio.
XXVIII. L’inesorabile vendetta.
XXXII. Estasi d’amore — Rivelazione —
Fuga.
XXXIII. La vendetta del fratello.
XXXIV. Ultime parole di un condannato.
XXXV. Una esecuzione difficile.
XXXVI. L’osteria di campagna — I due
cacciatori.
XXXVII. Doppio omicidio — Il delirio
del terrore.
XXXVIII. Cinque impiccati e squartati in
una mattina a piazza del Popolo.
XXXIX. I briganti della Faiola.
XL. Cuor d’amante e cuor di madre.
XLII. La bella contessa — Tentazione.
XLIII. Amori sfrenati — Inclinazione
al delitto.
XLV. Il processo — La condanna.
XLVII. Le distrazioni di don Asdrubale.
LI. L’assassinio di tre fanciulli —
Viltà del delinquente.
LII. Grassazioni — Omicidi —
Parricidi.
LIII. Due opposti temperamenti.
LV. Un domestico e un maestro di
musica.
LVI. Le lezioni di piano e canto.
LVII. Trattative di matrimonio.
LVIII. Gli effetti del rifiuto — Fuga
progettata.
LIX. Il dolce nido — Dubbiezze.
LX. L’ingrata sorpresa — Il delitto.
LXVI. L’assassinio e l’espiazione.
LXVII. L’attentato al cardinale
Rivarola — Quattro impiccati. Chi per la patria muore
LXVIII. Una forosetta eccentrica.
LXIX. I misteri romantici della
macchia.
LXXIII. L’appuntamento — Da capo.
LXXIV. L’ultima notte del marito.
LXXV. Gli ultimi amplessi coll’amante
dopo l’assassinio.
LXXVII. La confessione e la punizione.
LXXVIII. Le prime armi in galanteria.
LXXX. Si continua a tutto vapore.
LXXXI. A qual punto porta la
dissolutezza.
LXXXII. Un triste Don Giovanni.
LXXXIII. Un dramma d’amore in carrozza.
LXXXIV. Il dissoluto si fa prete.
LXXXVI. Un’orgia nel palazzo del
Cardinale nepote.
LXXXVII. L’ultimo misfatto — La
punizione.
LXXXVIII. Grassatori pentiti e
impenitenti — Un bell’incontro.
LXXXIX. Il complotto — Capriccio
erotico.
XC. Il misfatto — La scoperta — La
civetteria della morte.
XCI. Un matrimonio mal assortito.
XCII. Colpo fallito e colpo riuscito.
XCIII. Buona occasione di matrimonio.
XCIV. La Denunzia — La Confessione —
Conseguenze.
XCV. Propositi di vendetta fra
moglie e marito.
XCVI. Mutue confidenze ed espansioni.
XCVII. Il fuoco vicino al pagliaio.
XCIX. L’avventura di Angelo Isola.
I. L’Amico e segretario di Mastro
Titta.
II. Variazioni intorno alla
Giustizia papale.
III. Il supplizio dei Carafisti.
IV. Il supplizio della Marchesa
Anguillara e di Margani.
V. Le liberazioni dei prigionieri.
VII. Un’impiccagione colle maschere.
X. La donna carnefice — Una
impiccagione modello.
XI. Barbari sistemi di giustizia.
XII. La tortura: Corda e Veglia.
XIV. Atrocità moderne:
un’esecuzione elettrica.
Esordii nella mia carriera di
giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno Nicola
Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un
prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due
frati.
Giunto a Foligno incominciai a
conoscere le prime difficoltà del mestiere: non trovai alcuno che
volesse vendermi il legname necessario per rizzare la forca e dovetti andar la
notte a sfondare la porta d’un magazzino per provvedermelo. Ma non per questo mi scoraggiai e in
quattr’ore di lavoro assiduo ebbi preparata la brava forca e le quattro scale
che mi servivano.
Nicola Gentilucci frattanto, a due ore
di notte, dopo avergli rasata la barba e datogli a vestire una candida camicia
di bucato e un paio di calzoni nuovi, venne condotto coi polsi stretti da
leggere manette, nella gran sala comunale, poiché volevasi dare la massima
solennità all’esecuzione, stante la gravità del suo delitto,
superiore a qualsiasi altro, trattandosi dell’uccisione di un curato e di due
frati.
La compagnia dei Penitenti Bianchi in
abito di cerimonia, col cappuccio calato sul volto, schierata in due file,
dalla porta all’estremità opposta l’attendeva. In faccia alla porta era stato collocato un
grande crocifisso con due confrati ai lati, e una schiera di religiosi,
invitati a confortare il paziente.
Il bargello e gli sbirri che lo
conducevano, giunti alla porta della sala, bussarono e questa venne aperta. Quella scena commosse vivamente il Gentilucci,
nondimeno entrò. Non appena ebbe
fatti pochi passi il balio, aiutante del cancelliere, che ne porta gli emblemi,
gli presentò una carta dicendogli:
— Nicola Gentilucci, io ti cito a morte
per domattina.
Il complimento poco gentile
impressionò il condannato per modo che si lasciò sfuggire di mano
la carta, e sarebbe caduto egli stesso svenuto, se non lo avessero sorretto il
confessore e i confortatori, i quali lo condussero poi in una sala vicina,
dove, sdraiato su di un materasso posto per terra, lo lasciarono dormire.
Due ore innanzi lo spuntare del giorno
susseguente lo svegliarono per fargli ascoltare la messa: il confessore gli
parlò e gli impartì l’assoluzione e l’indulgenza in articulo mortis
che il papa soleva concedere in tali circostanze. Confessato e comunicato, i confortatori gli
apprestarono l’asciolvere. Gentilucci
mangiò, bevve e si trovò alquanto rinfrancato d’animo.
Nondimeno il confessore lo
confortò ancora, assicurandolo che egli stava per avviarsi al cielo. Il condannato avrebbe forse desiderato di
differire d’un altro mezzo secolo il viaggio, ma assicurato che non avrebbe che
differita la sua felicità, si preparò a farlo allegramente.
Mi presentai in quel mentre e togliendomi
il cappello ossequiosamente offersi una moneta al Gentilucci, come di rito,
perché facesse celebrare una messa per la sua anima. Quindi, ricopertomi il capo, gli legai le mani
e le braccia in modo che non potesse fare alcun movimento tenendone i capi
nelle mie mani per di dietro.
La Confraternita della Morte aperse il
corteo. I confrati indossavano il loro
saio ed avevano il viso coperto. Essi
salmodiavano in tetro tono il Miserere. Venivano poi i Penitenti Azzurri, ultimi i
Penitenti Bianchi ai quali era serbato il posto d’onore: cantavano pur essi nel
medesimo tono il salmo stesso, seguendo gli uni agli altri, per non
interrompersi, di guisa che quando gli uni cantavano gli altri tacevano.
Dopo le confraternite v’erano i
bargelli delle città vicine e gli sbirri in grande uniforme, e a questi
teneva dietro il paziente, condotto pei capi della fune da me stesso, - umile
ma pur raggiante in tanta gloria - circondato dai confortatori e dal confessore.
Giunto sulla spianata ove doveva aver
luogo l’esecuzione, Nicola Gentilucci fu fatto avvicinare ad un piccolo altare
eretto di fronte alla forca e quivi recitò un’ultima preghiera.
Poi, rialzatosi, lo condussi verso il
patibolo a reni volte, perché non lo vedesse e fatto salire su una delle scale,
mentre io ascendevo per un’altra vicinissima.
Giunto alla richiesta altezza, passai
intorno al collo del paziente due corde, già previamente attaccate alla
forca, una più grossa e più lenta, detta la corda di soccorso, la
quale doveva servire se mai s’avesse a rompere la più piccola, detta
mortale, perché è questa che effettivamente strozza il delinquente. Il confessore e i confortatori intanto, saliti
sulle due scale laterali, gli prodigavano le loro consolanti parole. Gli altri confortatori in ginocchio recitavano
ad alta voce il Pater noster e l’Ave Maria e il Gentilucci
rispondeva. Ma appena ebbe pronunziato
l’ultimo Amen, con un colpo magistrale lo lanciai nel vuoto e gli saltai
sulle spalle, strangolandolo perfettamente e facendo eseguire alla salma del
paziente parecchie eleganti piroette.
La folla restò ammirata dal
contegno severo, coraggioso e forte di Nicola Gentilucci, non meno che della
veramente straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quella prima
esecuzione.
Staccato il cadavere, gli spiccai
innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d’una lancia la rizzai
sulla sommità del patibolo. Quindi con un accetta gli spaccai il petto e
l’addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come
avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra
intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente
eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie
riuscissero per davvero esemplari.
Avevo allora diciassette anni compiti,
e l’animo mio non provò emozione alcuna. Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare;
e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione ed ai criteri
della giustizia, che chi uccide debba essere ucciso.
Un delinquente è un membro
guasto della società, la quale andrebbe corrompendosi man mano se non lo
sopprimesse. Se abbiamo un piede od una
mano piagata e che non si può guarire, per impedire che la cancrena si
propaghi per tutto il corpo, non l’amputiamo? Così mi pare s’abbia a
fare de’ rei. E benché innanzi
nell’età e ormai vicino a rendere la mia vita al Creatore ed a comparire
al suo supremo tribunale, non provo alcuna tema per ciò che ho fatto: se
il bisogno lo richiedesse e le forze me lo con sentissero, tornerei da capo
senza esitanza, perché mi considero come il braccio esecutore della
volontà di Dio, emanata dai suoi rappresentanti in terra.
Trascorsi due mesi, meno otto giorni,
dovetti ripetere l’ufficio mio e il 14 gennaio 1797 impiccai in Amelia,
Sabatino Caramina che aveva commesso un omicidio per bestiale furore e dopo
settantaquattro giorni, il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai in Valentano
Marco Rossi che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa
ripartizione fatta di una comune eredità.
Stavano radunati in casa, quando si
accese il litigio. Le due vittime
cercarono di persuadere l’assassino dell’erroneità dei suoi calcoli e
della irragionevolezza delle sue pretese. Ma il Rossi non volle ascoltar ragioni e d’un
tratto afferrata una scure, spaccò la testa allo zio, poi ripetè
l’azione contro il cugino, che gli cadeva ai piedi estinto, spruzzandolo col
suo sangue. Rinsavito, ebbe orrore del
proprio delitto e andò a consegnarsi al bargello. Gli fu eretto subito il processo e,
condannato, mi venne consegnato per la esecuzione, che subì
rassegnatamente, chiedendo perdono a Dio ed agli uomini del suo misfatto.
Il giorno sette agosto 1797 fu uno de’
segnalati nella mia vita e lunga carriera. Ebbi l’onore di eseguire le mie funzioni per
la prima volta in Roma, a piazza del Popolo, al cospetto de’ più eccelsi
magistrati ecclesiastici, di insigni personaggi della Corte Pontificia, di
ambasciatori, ministri, patrizi e dame del più alto ligniaggio,
impiccando Giacomo Dell’Ascensione. Era
costui un pericolosissimo scassatore di botteghe, che dedicandosi a tal
pericoloso mestiere, aveva saputo sottrarsi sempre alle indagini della punitiva
giustizia e menar vita allegra, gioconda, lietissima. Ma dàlli e dàlli finì col
cadere in una trappola tesagli con arte sottilissima. Colto quasi in flagrante, tentò sulle
prime di far resistenza, ma poi mise senno, si lasciò arrestare e
condurre alle carceri, ove confessò tutti i suoi delitti. Condannato, non voleva saperne di subir la
pena. Diceva che i suoi delitti non erano
passibili di morte, che la sentenza era un abbominio. E ci volle del bello e del buono per metterlo
legato sulla carretta. Mentre stavo per
farlo salire sulla scala, mi diede un così terribile spintone che per
poco non vacillai. Ma questo tratto villano
mi inasprì e senza ulteriori complimenti, passatagli la corda al collo,
lo mandai all’altro mondo, dove avrà portate le sue lagnanze contro la
giustizia di Roma.
Dopo quattro mesi d’inazione fui
inviato a Iesi per impiccarvi, come di fatto impiccai, il 30 ottobre 1797,
Pacifico Santinelli di quella città, il quale essendo detenuto nelle
prigioni aveva ucciso il carceriere e sua moglie. Era il Pacifico Santinelli l’antitesi
personificata del suo nome. Altro che
Pacifico! Pareva il demonio! Alto e tarchiato, dotato di una forza erculea,
aveva esercitato tutti i mestieri confessabili e non confessabili. Era in voce di grassatore, ma nessuno aveva
mai potuto provarlo. Messo dentro in
seguito ad un tafferuglio avvenuto una notte in piazza, nel quale non aveva
preso, per dire la verità, alcuna parte attiva, si cercò di
trattenerlo più che fosse possibile, al fine di praticare indagini sul
suo conto e venire a capo delle accuse che gli si movevano. Si sperava che la sua detenzione avrebbe
incoraggiato i testi a deporre contro di lui. Ma, o non avesse realmente commesso i delitti
che gli si imputavano, o fosse realmente tale il timore che incuteva da
paralizzar la lingua di chi avrebbe potuto comprometterlo, tornarono tutti i
tentativi a vuoto.
Pacifico Santinelli intanto si
impazientiva orribilmente e andava dicendo al suo carceriere che se non gli si
apriva la porta un giorno o l’altro l’avrebbe strozzato colle proprie mani.
E, purtroppo, tenne la parola.
Il povero carceriere entrato una
mattina nella sua cella, lo trovò di molto agitato. Aveva passato una notte insonne mulinando i
più sinistri propositi.
— Pacifico, gli disse scherzando il
carceriere, credendo d’amicarselo, non intendi dunque di rappacificarti colla
giustizia?
— La giustizia la strozzerei, come
strozzerò te, suo rappresentante e ministro, se non m’apri la porta.
— Sei in vena di ridere, Santinelli?
— Punto.
— Eppure a sentir certe proposizioni lo
si crederebbe.
— Quali?
— Non hai detto che vuoi uscire oggi?
— L’ho detto e lo farò.
— Chi t’aprirà la porta?
— Le chiavi.
— Sono troppo ben collocate — riprese
il carceriere, agitando il mazzo delle chiavi che portava sospese alla cintola.
— Lo credi? — gli domandò il
Santinelli sempre più torvo e minaccioso, con accento strano.
— Ne sono sicuro.
— Vediamo.
Così dicendo il prigioniero, con
un balzo di pantera fu addosso al carceriere e afferratolo alla gola, lo
rovesciò sul pavimento. Tentò il carceriere di rialzarsi, con
un brusco moto, ma Pacifico gli pose un ginocchio sul petto e strinse
viemaggiormente il cerchio delle sue mani che gli serravano il collo.
Le vene del paziente si gonfiavano
orribilmente; il viso s’era fatto paonazzo, poi quasi nero; gli occhi gli
schizzavano dall’orbita; la lingua gli usciva per tre quarti dello bocca. E non pertanto resisteva ancora.
Ma in quel mentre s’udì un
rumore di fuori e Pacifico Santinelli con una sforzo supremo riuscì a
strangolare il disgraziato carceriere, il quale quand’egli aprì il
cerchio delle mani, aveva resa l’anima a Dio.
Il rumore esterno che aveva affrettato
la catastrofe, proveniva dai passi della moglie del carceriere, la quale,
inquieta per la prolungata assenza del marito e per le minacce che aveva udito
pronunciare dal carcerato, moveva incontro a lui.
Non appena fece capolino nella cella,
Pacifico l’afferrò e rovesciatala brutalmente sul cadavere del marito la
condusse alla stessa fine di lui, strozzandola e schiacciandole il petto con le
ginocchia.
Quindi staccate le chiavi dalla cintola
del carceriere, fuggì tirandosi dietro la porta della cella. Sperava potersi appiattare in qualche buio
angolo finché giungesse il momento opportuno per la fuga. Ma fatti pochi passi s’incontrò in un
manipolo di birri che scortavano un altro carcerato: fu subito riconosciuto ed
arrestato. Scoperto il delitto si eresse
il giudizio e contro le palmari prove non resistettero a lungo i dinieghi del
reo. Condannato all’impiccagione e
affidato alle mie mani la subì coraggiosamente, confessando di meritarla
aggiungendo: «Forse le mie vittime pregheranno in Cielo per me, la vendetta e i
risentimenti non varcano i confini del regno dello morte».
Non meno arduo affare fu per me
l’esecuzione degli uccisori del sacerdote don Giovanni Lupini, che mi
toccò fare il 6 maggio 1800, la quale destò in Roma a quell’epoca
grandissimo rumore.
Don Giovanni abitava con una servente
ed una nipote in una elegante casina a mezza costa della collina di Monte Mario.
Era uomo assai danaroso, amava il vino
generoso e la buona cucina. Le male
lingue sussurravano che non fosse insensibile anche alle seduzioni del bel
sesso e lo argomentavano forse dal fatto che Tota, la sua fantesca, era un
pezzo di ragazza forte e sanguigna, assai appetitosa. Ma dal momento che si teneva in casa la
nipote, parmi si dovesse rimuovere ogni sospetto.
Celebrava la prima messa nella Chiesa
di Monte Mario e di pratiche religiose non se ne occupava più; tanto
meno di uffici ecclesiastici. E questo
contribuiva ad alienargli le simpatie della Curia, la quale lo aveva parecchie
volte richiamato alla stretta osservanza del Concilio Tridentino, che prescrive
ai preti di non tenersi in casa donne in età minore di quarant’anni.
— Diciannove ne ha la mia nipote,
Bettina, ventuno la mia serva Tota, e fra tutte due sommano appunto
quarant’anni: sono nella legge. Così ragionava il bravo prete.
Don Giovanni avea già più
volte osservato dei brutti ceffi che si aggiravano nei dintorni della sua
casina; ma non avea fatto caso.
La sua villetta era ben munita di
solide imposte: aveva un alano che latrava da far spavento, al menomo rumore;
possedeva delle buone armi; e vicino ad essa sorgeva un fabbricato rustico,
abitato da due famiglie di contadini alle sue dipendenze, delle quali facevan
parte alcuni robusti giovanotti. Credeva
quindi di non aver a temere sorpresa alcuna.
Or avvenne che, essendosi ammalata in
città una sua sorella, vecchia zitellona, dalla quale sperava ereditare,
le mandò per ingraziarsela a prestarle cure la nipote e la serva. Quest’ultima veramente l’avrebbe trattenuta
volentieri presso di sé. Ma trattandosi
alla fin fine di pochi giorni si rassegnò a privarsene.
La notte susseguente alla partenza
delle due donne, don Giovanni Lupini, dopo aver lautamente cenato, servito a
tavola da una delle sue contadine, e copiosamente libato il frizzante vinello
delle sue vigne di Monte Mario, si coricò.
Era ancora immerso nel primo sonno,
pesante e duro, quando si sentì serrare alla gola da due mani poderose:
tentò gridare, ma la parola gli morì nella strozza e dati due o
tre sussulti, giacque cadavere irrigidito nel suo letto.
E così lo trovarono la mattina
dopo i suoi contadini, i quali veduta aperta la porta entrarono, credendo
fossero ritornate le donne, per dar loro il buongiorno. Ma non appena furono penetrati nel cortile e
videro l’alano steso esamine al suolo, furono presi da sinistri sospetti e
s’affrettarono alla camera del padrone.
Tutta la casa era stata messa a
soqquadro: forzati gli armadi, i canterani e la cassa dove don Giovanni soleva
riporre i suoi danari. Svaligiata la
dispensa e sulla tavola di cucina gli avanzi miserrimi di un pasto
pantagruelico che i ladri avevano fatto.
Che più? Dalla cantina saliva su
un odore di vino assai acuto. Scesi,
trovarono che prima d’andarsene i malfattori avevano aperte le botti e lasciato
che il contenuto colasse al suolo, disperdendo così quella grazia di
Dio, che non avevan potuto portar via.
Dato avviso all’autorità, la
casina fu tosto diligentemente visitata da’ suoi messi, i quali si saranno
probabilmente preso quello che i ladri avevan dimenticato.
Quindi incominciarono le indagini.
Si venne a sapere che un pizzicarolo di
Borgo aveva acquistato dei caciocavalli e de’ prosciutti che dovevano essere di
compendio del furto. Dietro questa traccia,
vennero arrestati: Gioacchino Lucarelli, Luigi De Angelis, Lorenzo Robotti,
Giovanni Rocchi e Antonio Mauro, i quali vennero trovati in possesso di troppo
maggior copia di danaro, che non comportasse la loro posizione e del quale non
seppero giustificare la provenienza.
I tormenti aprirono la bocca del
Lucarelli, il quale confessò d’esser penetrato, durante il giorno, dal
muro di cinta del giardino, d’aver gettata una polpetta avvelenata all’alano,
sul far della sera, che lo spense, e quando il prete si fu coricato, d’aver
introdotto nella casa i suoi compagni.
La matassa del delitto, venne
così in breve dipannata. I rei
vennero tutti condannati alla forca, quindi al taglio della testa e delle
braccia, da esporsi, per esempio, sulla porta Angelica, e il Lucarelli e il De
Angelis ad essere, per giunta, bruciati.
L’esecuzione ebbe luogo a Ponte e non
offrì nessuno incidente notevole. Parevano proprio nati per il patibolo. Vi si avviarono colla massima indifferenza. Mentre io ne impiccavo uno gli altri
assistevano quali spettatori senza batter ciglio. Si sarebbe detto che non fosse cosa che li
riguardasse. Quando li ebbi strangolati
tutti, dovetti, coll’aiuto del solo mio garzone, distaccarli tutti dalle forche.
Quindi incominciò la carneficina.
Il palco sembrava trasformato in una
bottega da macellaro. Terminata anche
questa operazione e deposte le teste e le braccia nella canestra, accendemmo la
pira all’uopo innalzata e vi bruciammo i resti sanguinolenti del Lucarelli e
del De Angelis. I vapori che si
sviluppavano da quel carname in combustione si sollevavano biancastri e
diffondevano una puzza nauseabonda.
A rizzare le teste e le braccia su
porta Angelica, però dovemmo aspettar la notte, perché l’autorità
pensava essere troppo pericoloso il farlo presente la folla.
All’albeggiare del giorno seguente i
burrini che entravano da Porta Angelica, vedendo il truce spettacolo di quelle
teste recise ed infisse alla sommità, livide e contratte, erano presi da
un senso di terrore, e molti tornavano indietro fuggendo, quasi avessero paura
di dover fare la fine medesima.
Risaputasi invece la cosa in
città, fu un accorrere di gente infinita. In breve tutte le bettole dei dintorni
riboccavano di curiosi, che vi traevano ilari, giocondi e contenti, come se si
trattasse di assistere ad una festa. La
forte fibra romana non si smentiva. Tutti erano convinti che la condanna era stata
giusta e non credendo che malfattori di tale specie meritassero pietà
veruna, mostravansi soddisfatti della giustizia eseguita e la festeggiavano.
Vuolsi però aggiungere che la
splendida giornata primaverile aggiungeva esca a quella gita, quasi
processionale.
Quanto a me, monsignor Fiscale, volle
attestarmi il suo compiacimento per la quintuplice esecuzione così ben
eseguita e mi largì una gratificazione straordinaria.
Credo, dopo tutto, d’essermela ben
meritata.
Ma non era ancora finito.
Per segreta rivelazione venne il
tribunale in cognizione che l’organizzatore del delitto e quello che aveva
raccolto il maggior frutto, era stato un tal Bernardino Bernardi, perché i
delinquenti non avevano avuto il tempo di spartirsi tutto il bottino, deposto
in una sua casa fuori la porta San Sebastiano.
Non appena informata di ciò,
l’autorità fece arrestare il Bernardino Bernardi e perquisire la sua
casa, ove si trovò la maggior parte dei valori rubati a Don Giovanni
Lupini. Si istruì procedimento
anche contro di lui, il quale di fronte alle prove irrefutabili che lo
accusavano si rese confesso, e lo si condannò alla forca ed allo squartamento,
ch’io operai due mesi più tardi, esponendo la testa spiccata dal busto e
le braccia alla porta San Sebastiano. Ma
l’interesse era già esaurito dall’antecedente esecuzione e questa
passò quasi inosservata.
L’anno 1801 fu per me fecondo di lavoro
fin dal suo esordire, giacché incominciai coll’impiccarne e squartarne tre il
19 gennaio ed otto giorni dopo dovetti ripetere l’operazione medesima sopra
quattro delinquenti. Procediamo per
ordine.
Da parecchio tempo le aggressioni di
pubbliche corriere e di vetture private sulle strade conducenti a Roma, s’erano
fatte frequentissime e sempre più ardite. Ma per quante indagini si facessero non si
riusciva mai a scoprirne gli autori né ad averne le traccie.
Si supponeva l’esistenza di una banda
di masnadieri, la quale si riunisse per compiere i misfatti, quindi si
sciogliesse tornando i suoi componenti agli usati lavori dei campi o ad altre
funzioni. I più esperti
esploratori erano stati inviati nelle campagne e nei paesi circonvicini; ma per
quanto battessero quelle e cercassero di raccogliere notizie in questi, non
venivano a capo di nulla.
Un bel mattino giunse a Roma la notizia
di una grassazione patita sulla strada da Baccano a Calcata, da un colonnello
napoletano, il quale recavasi ad Ancona, per affari diplomatici, munito di
credenziali del suo Sovrano, e accompagnato da suo fratello e da un servitore.
Il fatto era avvenuto così.
Ad un miglio circa dell’Osteria del
Pavone, presso Baccano, al sopraggiungere della carrozza di viaggio, che
portava il colonnello ed i suoi, sbucarono da una siepe tre individui. Quello che pareva il capo fermò i
cavalli ed ordinò al vetturino di scendere da cassetta. Nel frattempo altri due giovanotti imberbi si
presentarono agli sportelli del legno e spianando i fucili intimarono ai
viaggiatori di consegnare i denari e gli oggetti preziosi che avevano.
Il colonnello che si teneva in petto
una discreta somma in argento e desiderava salvarla, rivoltosi ai masnadieri,
disse loro:
— Io non ho denaro sopra di me, frugate
nel cassetto della carrozza e ne troverete. I masnadieri così fecero e presero
cinque o sei scudi di rame; ma poi si accorsero che il colonnello teneva una
mano sul petto e che questo era rigonfio.
— Datemi quel denaro che cercate di
nascondere in seno o vi ammazzo — gli intimò il capo-banda spianandogli
contro il pistone di cui era armato.
Il colonnello allora impaurito trasse
dalla tasca in petto dell’abito una cinquantina di scudi che teneva e li
consegnò ai grassatori, i quali gli tolsero pure il cappello a tre punte
gallonato d’oro, con una nappina dello stesso metallo, sulla quale era la sigla
F. R. (Ferdinando Re).
Al fratello tolsero poche monete, le
fibbie delle scarpe e una sottoveste di seta che portava.
Al vetturale che guidava la carrozza
tolsero pure i pochi spiccioli che possedeva. Il domestico invece fu lasciato in pace. Probabilmente avevano preveduto che non
possedeva il becco d’un quattrino.
Quindi vennero lasciati proseguire il
viaggio.
Giunti a Baccano, il colonnello
mandò subito un rapporto del fatto al governatore di Monte Rosi e questi
lo trasmise al governo centrale in Roma, il quale ordinò ad un bargello
di partire con alcuni birri di campagna pel teatro del delitto, il che fu
subito fatto.
Giunto il bargello a Calcata, si seppe
che la notte stessa, erano state commesse, evidentemente dalla medesima banda
due altre aggressioni. La prima contro
il conduttore della corriera postale fra Roma e Guarcino, cui erano stati presi
pochi paoli; la seconda contro alcuni mulattieri, ai quali erano stati tolti i
ferraioli e le robe che avevano nelle bisaccia, i pochi denari; e a uno d’essi
i bottoncini d’oro che portava all’orecchie, a un altro le scarpe nuove.
Assunte alcune informazioni il bargello
co’ suoi birri andò subito ad arrestare in Calcata il suo collega,
bargello del paese, che godeva pessima fama ed era indiziato di aver rubato di
notte al farmacista di Calcata un mulo, mandato poi a vendere in piazza
Montanara a Roma da’ suoi complici. E
col bargello di Calcata, Giuseppe Zuccherini, arrestò due guardie da lui
dipendenti, Giuseppe Sfreddi, romano, già contumace per altri reati, e
Giacomo D’Andrea, veneto, già fornaio disoccupato, e come l’altro
assunto in servizio dallo Zuccherini.
Il bargello di campagna, trovò i
summenzionati in possesso di una bisaccia, contenente tutta quanta la re
furtiva. Ma nell’interrogatorio che
gli arrestati subirono in Calcata, dissero che quella bisaccia l’avevano tolta
la notte stessa a tre malandrini, sorpresi sulla strada, coi quali s’erano
colluttati, e che erano poi fuggiti lasciando la bisaccia sul terreno. Quanto alle scarpe nuove del mulattiere, che
il D’Andrea s’era messe, questi si scusò dicendo, che non potendo
camminare colle proprie, tanto eran rotte e malconcia, aveva prese
provvisoriamente quelle dalla bisaccia.
Tradotti a Roma e sottoposti a nuovi
interrogatori, il D’Andrea, giovane ventenne appena, confessò tutto: gli
altri negarono recisamente. Ma fu vana
opera. Convinti del reato, vennero
condannati alla forca ed allo squartamento, anco per dare una soddisfazione al
re di Napoli, Ferdinando di Borbone, che strepitava per averla.
È impossibile descrivere la
densità della folla, che s’era agglomerata in piazza del Popolo la mattina
del 19 gennaio 1801, quando eseguii la sentenza. Scesi dalla carretta coi confortatori, la
gente ci circondò d’ogni parte e a stento i soldati poterono aprirci il
varco per salire sulla piattaforma del palco. Ma i condannati erano solidamente legati colle
mani dietro le reni: i cappuccini stavano loro intorno e sarebbe riuscito vano
qualsiasi tentativo di fuga.
Sarebbe inutile ripetere i particolari
dell’esecuzione, che non offrì nessuna varietà. Morirono coraggiosamente e cristianamente,
dopo aver chiesto perdono dei loro delitti. E questo, come sempre accade, conciliò
loro le simpatie della folla, ammirata dal franco portamento.
— Che peccato — mormoravano
specialmente le donne — così giovani!
I loro resti rimasero appesi al palco
tutta la giornata. Solo nella notte
vennero ritirati e il patibolo fu disfatto.
La seconda giustizia che mi fu commessa
in quel mese di gennaio 1801, seguì il giorno
Trattavasi d’un’altra grassazione.
Avevano costoro formata una banda e
scorazzavano nei dintorni di Camerino, aggredendo vetture pubbliche e private,
poveri viandanti e perfino le corriere postali. La notte della befana, dopo aver già
compiute due grassazioncelle di poco conto, togliendo pochi scudi ad alcuni
carrettieri e un piccolo carico di cibarie ad un mulattiere, si ritiravano
nella macchia, col proposito di far perdere le loro traccie, se per avventura i
derubati, infischiandosi delle loro intimazioni e minaccie di morte, li
denunziassero; quando udirono sulla strada maestra i campanelli tintinnanti dei
cavalli di una sedia di posta. Tornarono
subito sul ciglio della macchia, e videro venire di gran trotto una elegante
carrozza da viaggio, tirata da quattro cavalli, montati da due postiglioni in
uniforme di gala e due domestici dietro in alta livrea gallonata d’oro.
Si consultarono sul da farsi e in due
minuti furono d’accordo. La partita era
forte e pericolosa, ma prometteva di riuscire molto proficua e decisero di
giocarla.
S’appostarono sulla strada e non appena
la vettura giunse le scaricarono contro i pistoni, dei quali erano armati. Il legno si fermò di botto, perché i due
cavalli di volata erano stati feriti e caddero, tirandosi sotto il primo
postiglione ferito pur esso. L’altro
balzò tosto a terra e tentò di tagliare i finimenti della prima
pariglia, per liberare la seconda, nella lusinga di poter con essa fuggire. Ma i banditi gli furono sopra di balzo lo
legarono saldamente e lo buttarono da un lato della strada.
Dall’interno della carrozza uscivano
intanto strazianti grida femminili. I
due domestici paralizzati erano rimasti immobili.
— Fateli scendere e legateli — disse il
capo, Luigi Puerio, a Leonardo Ferranti e Gaetano Lideri — e tu, Scani,
assicurati dell’altro postiglione.
Questi, per far presto, gli
spaccò il cranio, con una pistola d’arcione, che portava alla cintola.
— Imbecille! — gli gridò il
Puerio volgendosi alla detonazione, mentre s’avvicinava allo sportello.
Ermenegildo Scani alzò con
noncuranza le spalle e si fece a frugare il postiglione morto, mentre Lideri e
Ferranti facevano altrettanto con quello legato e coi due domestici che avevano
addossati ad una grossa pianta e avvinti al tronco della medesima.
— Sciocchi! Non vi perdete in bazzecole
— tonò di nuovo il capo banda. —
Staccate le valigie dietro la carrozza e perquisitele.
Dal legno non s’udiva più nulla.
Puerio s’accostò allo sportello,
l’aperse e vi scorse una bella ed elegante signora svenuta.
Questo gli permise di lavorare a suo
bell’agio, togliendole gli orecchini di brillanti, e i ricchi monili che
portava. Poi la levò di peso
sulle proprie braccia e la portò sul limitare della macchia, adagiandola
colla maggior delicatezza possibile sopra un morbido tappeto di vellutello, che
pareva fatto apposta per attenuare l’asprezza del suolo.
La bella signora portava al collo una
sottile catena d’oro di Venezia i cui capi andavano a celarsi nel busto,
sorreggendo forse qualche medaglione.
Puerio, che era giovane e di civile
condizione, volle mostrarsi garbato e piegato un ginocchio a terra si accinse a
slacciarle la veste. Ma, man mano che
l’operazione procedeva egli sentiva accendersi i sensi, e ben altre idee che
quelle del furto gli frullavano per il capo. Gl’inebbrianti profumi che si sprigionavano
dal busto della dama gli davano le vertigini, e quando il candido seno, sciolto
da suoi involucri, proruppe torreggiante ed aulente, fra la spuma dei merletti
che le adornavano la camicia, si chinò sopra di lei e vi depose un
bacio, ebbro di passione e di desiderio. Al contatto di quelle labbra ardenti come
braci, la signora rinvenne e guardandosi attorno, come si svegliasse da un
sogno, s’accorse della terribile posizione in cui si trovava.
— Che volete da me? — chiese con
marcato accento forestiero al brigante.
— Nulla — rispose a fior di labbro il
Puerio, cogli occhi fiammeggianti.
— Mi avete dunque già preso
tutto?
— Nulla — ripetè il brigante,
con voce resa tremula dal delirio sensuale onde era in preda.
— Lasciatemi dunque! — ripigliò
la signora, la quale avendo ricuperato il pieno esercizio delle sue
facoltà, intravedeva le intenzioni del bandito.
— Nulla. . . fuorché amore! — le sibilò all’orecchio
il Puerio, bruciandolo quasi coll’alito ardente.
— Amore! — esclamò la donna con
sarcasmo così profondo che il masnadiero si sentì rimescolare il
sangue —. Sanno dunque i pari vostri che
sia?
Le ultime vestigia del carattere cavalleresco
d’un tempo scomparvero a quel sinistro accento dal Puerio, e tornò ad un
tempo brigante e belva, irritata da una irrefrenabile voglia di godimento.
— Se lo sappiamo vedrai —
mormorò con voce rauca, cingendole la vita, rovesciandola sul muschio,
dal quale s’era rialzata a mezza vita, cercando di insinuarle un ginocchio fra
le gambe e di baciarla sulla bocca.
A tale oltraggio brutale, la signora
che aveva forse per un istante subito il fascino di quella passione frenetica,
e l’influenza dell’ora, del luogo, della situazione, ricuperò di un
tratto tutta la sua freddezza, la sua energia, la sua alterigia sdegnosa e
mentre il masnadiero tentava di appoggiare le proprie labbra alle sue gli
lanciò uno sputo, che colpì Luigi Puerio in pieno viso.
Il bandito si rizzò di scatto,
brandì un pugnaletto che portava al fianco e lo immerse nella gola della
disgraziata signora, la quale ricadde sul suolo immersa nel sangue che le
sgorgava a fiotti dalla ferita. La lama
dello stile le aveva reciso di netto la carotide.
Luigi Puerio, tirò un sospiro di
soddisfazione dall’imo del petto. La sua
vendetta dell’atroce offesa era stata così rapida, così fulminea,
che ne provava una gioia ineffabile. Se
avesse conseguito, ciò che pochi istanti prima anelava più d’ogni
altra cosa al mondo, l’amplesso di quella donna, non avrebbe potuto essere
più felice. Subitamente si
immobilizzò e parve tendere l’orecchio ad un rumore lontano: non potendo
spiegarselo si buttò a terra sulla strada e poggiò l’orecchio
stesso al suolo e dopo pochi secondi si rialzò e chiamando i compagni,
gridò loro:
— Presto, presto! S’ode uno scalpitio
di cavalli, cinque almeno: è una pattuglia che non tarderà dieci
minuti ad esser qui.
I briganti si affrettarono a cacciare
entro larghe bisaccie onde erano muniti, la roba involata dalla carrozza e si
gettarono col loro capo nel folto della selva.
Disgraziatamente per loro la donna
assassinata era una principessa spagnuola, sposa di un addetto all’ambasciata
di Sua Maestà Cattolica presso la Santa Sede.
Il governo avvisato sguinzagliò
per le macchie di tutti i dintorni un nugolo di birri e di agenti, i quali
stringendo man mano il cerchio in cui erano stati disposti, finirono
coll’impossessarsi dei quattro grassatori, poco lontano dal teatro delle loro
ultime gesta.
Il processo si svolse a Camerino. Le deposizioni dei due domestici e del
postiglione ricostruirono il fatto nelle sue entità e nei suoi minuti
particolari, talché i complici finirono per rendersi tutti confessi. Il solo Puerio persistette nelle negative. Ma alla perfine dovette arrendersi dinanzi
alle prove schiaccianti e fu come i compagni suoi condannato alla forca ed allo
squartamento.
Chiamato all’esecuzione, potei
compierla non senza difficoltà, perché, come sempre avviene in provincia
non mi si voleva dare il materiale per rizzare il palco e le quattro forche
occorrenti. Dovetti andarlo a prendere
di viva forza, scortato dai birri, di notte in un magazzino di legname.
Sull’albeggiare del 27 gennaio
però tutto era pronto. Mi recai
alle carceri ove mi vennero consegnati i condannati, che feci salire nella
carretta, ben ammanettati e legati due per due.
Luigi Puerio respinse i confortatori e
salì sul palco con passo intrepido e morì bene, senza codardia e
senza smancerie. I suoi complici invece
erano addirittura disfatti.
Più della corda li spense lo
spavento del patibolo. Però mi
condussi in modo che il pubblico non si avvedesse, perciocché per antichissima
tradizione è convenuto che non si debbano giustiziare né morti, né
moribondi, né infermi di qualsiasi maniera.
Assistettero a questa mia giustizia
l’ambasciatore di Spagna e una quantità di diplomatici d’altre nazioni,
perché la principessa era assai conosciuta e benevisa, e le circostanze in cui
era seguito il suo assassinio, avevano dato corso ad una infinità di
commenti. Insieme ai diplomatici ed
all’ambasciatore di Spagna erano pur giunti a Camerino una quantità di
signori e grandi personaggi romani, fra i quali Sua Eminenza il Cardinale,
Segretario di Stato.
Fu questa una delle più solenni
mie esecuzioni.
Il fatto del Puerio mi richiama alla
mente un altro delitto, nel quale la foia erotica, la libidine dei godimenti
sensuali ebbe parte precipua e che condusse il reo nelle mie mani. E poiché la memoria in questo momento mi
soccorre meravigliosamente, tanto da ricordarmi i più minuti
particolari, interrompo l’ordine cronologico delle mie esecuzioni per narrarlo
qui e descriverlo.
Viveva in città di Castello, nei
primi anni del secolo un tal Francesco Conti, giovinotto aitante della persona,
appartenente a famiglia d’agricoltori dei dintorni agiata, ma non ricca, che
mandava a vendere in città i prodotti delle sue coltivazioni, erbaggi,
frutta, derrate di vario genere.
Francesco che aveva abitudini dissipate
e amava poco la vita campagnuola, ottenne dai suoi di trasferirvisi e di aprire
un negozio per lo spaccio delle loro merci. E quivi cominciò a darsi alle
gozzoviglie ed a contrarre relazioni con facinorosi e farabutti d’ogni specie.
Fra le pratiche del negozio del Conti,
era una leggiadrissima giovinetta, orfana di madre, alla quale il genitore
lasciava la gestione dell’azienda domestica, di nome Elvira Fontana. Costei si recava ogni giorno a far la spesa,
accompagnata da una fantesca, e si tratteneva spesso a discorrere col Conti,
ch’era un bel giovanotto dalle forme erculee, dal colore olivastro pallido,
dagli occhi neri fiammeggianti, dalle labbra carnose e sensuali, fra le quali
intravedevansi, quando sorrideva, denti piccoli e bianchi.
L’umor faceto, le gaie proposizioni e i
modi cortesi del bottegaio piacevano alla giovinetta; ma era dessa ben lontana
dal supporre quali strani pensieri egli mulinasse nel cervello, quando posava
gli sguardi avidi sopra di lei, e fu ben sorpresa, quando dai complimenti
usuali, Francesco passò ad espressioni molto più esplicite e
dirette.
Un giorno mentre la fantesca era uscita
dal negozio per un bisogno accidentale, il Conti trasse l’Elvira con un
pretesto in fondo al negozio e, cingendole la vita con ambe le braccia, la
baciò e ribaciò freneticamente sulle labbra, dicendole:
— T’amo! T’amo, e devi esser mia a
qualunque costo.
La servente tornò in tempo e non
s’accorse, o non volle accorgersi, del rossore che avvampava le gote della
fanciulla.
Elvira all’indomani mutò
l’ortolano, né più tornò da Francesco Conti; ma si guardò
bene di raccontare l’accaduto a chicchessia.
L’ardito giovanotto tentò di
riavvicinarla; ma non essendovi riuscito, pose il cuore in pace e
s’ingolfò sempre più nella sua vita sconsigliata. In breve giunse a tale che si associò a
una compagnia di ladri, coi quali scassinava di notte case e botteghe.
Una notte s’introdusse in un palazzotto
signorile, con altri cinque amici, ove gli era stato detto che c’era buon
bottino a fare. Girando al buio per gli
appartamenti, videro attraverso le commessure d’una porta filtrare un filo di
luce. Entrarono. Era la camera da letto, ove dormiva discinta
Elvira Fontana. Francesco Conti alla
vista di quella formosissima creatura fu preso da una specie di delirio
erotico, che gli tolse ogni lume di ragione. Dimenticando i compagni e la causa che li
aveva condotti in quella casa, non pensò che a far sua la fanciulla
vincendone la coraggiosa resistenza.
Alle grida della infelice, che indarno
il Conti cercava reprimere, accorsero il padre e un vecchio servo; ma nulla
poterono fare in sua difesa, perché gli altri banditi li trattennero finché
l’orribile misfatto fu consumato. Né
basta: i cinque compagni del Conti vollero pur essi possedere la disgraziata
giovinetta, che fu così ludibrio di tutti quanti sotto gli occhi del
genitore.
Incominciava ad albeggiare, quando
l’oscena masnada lasciò la preda: non c’era tempo da perdere: legarono
il padre ed il domestico, e frugando alla lesta, poiché il tempo incalzava, non
riuscirono a trovare che una trentina di scudi, coi quali fuggirono dal teatro
delle loro turpi gesta.
Francesco Conti tornò, come se
nulla di nulla avesse fatto, al suo negozio, dove dietro denuncia del Fontana,
fu sull’imbrunire arrestato.
Sottoposto a processo tentò
sulle prime di negare; ma la testimonianza dell’Elvira lo schiacciava e
incominciò col confessare lo stupro della fanciulla, dicendo però
di non aver fatto parte della banda, che abusò poi di lei e rubò
i trenta scudi. E in questo proposito fu
irremovibile. Tutti i tentativi per
fargli declinare i nomi dei complici riuscirono frustranei.
Fu nondimeno condannato alla forca,
senza altro inasprimento di pena e io lo impiccai a Città di Castello,
la mattina del 26 aprile 1803, dopo che fu ben confessato e confortato
religiosamente, essendosi mostrato pentito del suo delitto. Morì coraggiosamente e la sua salma
venne tosto distaccata dai parenti e portata al paese, ove le diedero onorata
sepoltura.
Dopo i quattro di Camerino che avevano
grassato e assassinato la principessa spagnuola il 9 febbraio 1801, compii la
mia 28ma giustizia impiccando e squartando in piazza del Popolo
Teodoro Cacciona, condannato per aver rubato a un carrettiere un ferraiuolo, un
paio di stivali e dodici scudi. Cinque
giorni dopo dovetti trasferirmi in Albano, dove il 14 febbraio 1801 ebbi a
mazzolare e squartare un tal Fabio Valeri il quale aveva grassato il
pizzicagnolo dell’Ariccia. La settimana
appresso, mi recai a Viterbo, dove il 21 febbraio 1801 dovetti impiccare e
squartare Francesco Pretolani, il quale aveva grassato ed ucciso un oste e sua
moglie. Dopo un riposo di quattro mesi,
il 6 giugno 1801 ho impiccato, a piazza del Popolo a Roma, Giovanni Fabrini, il
quale aveva commesso un omicidio per vendetta, alla Pace. Nessun particolare è degno di nota né
per i delitti, né per le esecuzioni, di tutti costoro. Volgari malfattori, perendo per mia mano,
ricevevano il giusto guiderdone delle loro opere malvagie, e se ne andavano
all’altro mondo, persuasi essi medesimi di dover saldare il conto colla
giustizia, senza troppo disperarsi e rassegnandosi al proprio destino. Tanto valeva per loro morir sul patibolo che
in letto.
Molto interessante ed eminentemente
drammatico fu invece il processo di Domenico Treca, che, in seguito a sentenza
del tribunale che lo condannava alla forca, fui chiamato ad impiccare in
Subiaco, come di fatto lo impiccai la mattina del 4 luglio 1801.
Domenico Treca era un giovinotto che si
guadagnava la vita facendo il merciaio ambulante, girando per villaggi e
frequentando i mercati e le fiere. Lucrava discretamente, e tutti i suoi denari
li spendeva intorno alla moglie, che amava svisceratamente, e che ben meritava
d’essere amata per l’incomparabile sua bellezza.
Si chiamava costei Felicita ed era
dotata di un personale molto appariscente: densa di forme, ma aggraziata, col
petto torreggiante, le anche poderose, ben tornite e candide le braccia e
pingui i lacerti. La testa avvenentissima,
impiantata sopra un collo taurino, di niveo splendore, aveva movenze
seducentissime. Ricca, prolissa e
naturalmente ondeggiata la bruna e lucida capigliatura. La bocca sempre sorridente. Le gote pienotte e rosee, gli occhi pieni di
un fascino irresistibile. Le orecchie
piccole, diafane, ben disegnate, che invitavano a sussurrarvi dolci parole
d’amore.
Quando Domenico era fuori, stava in
casa con Felicita una vecchia parente. L’aveva voluto ella stessa, per allontanare
qualsiasi sospetto da parte del marito, il quale valutava adeguatamente i suoi
pregi, e benché la sapesse onesta, ne era naturalmente geloso.
Molti fra i più bei giovani di
Subiaco avevano tentato di avvicinarsi a Felicita, ma da brava ed onesta moglie
ella li aveva sdegnosamente respinti.
— È proprio la perla delle
spose, dicevano tutti, uomini e donne, non senza una punta di gelosia.
Se nonché Felicita era pia e devota:
frequentava la chiesa; ascoltava messa tutti i giorni, tutte le settimane si
confessava e comunicava, ed era il curato stesso che aveva presa la sua
direzione spirituale.
Quando una donna è giovane e
bella è di leggieri sospettata. Le pettegole, che non potevano soffrire la
superiorità fisica e morale di Felicita incominciarono a notare
l’assiduità di lei alla chiesa, e commentarla e malignarne. Si diedero a spiare i suoi passi e la sua
casa, e giunsero a sapere che il curato la visitava e si intratteneva con lei
lungamente.
— C’è in casa la parente,
obbiettavano coloro che volevano assumerne le difese.
— Le farà da mezzana, ripetevano
le male lingue.
E così, in breve, di bocca in
bocca, si diffuse la notizia che Felicita era l’amante del curato.
Domenico, come sempre accade, fu
l’ultimo ad essere informato delle voci che correvano in paese intorno sua moglie.
Quando glie ne giunse contezza
provò uno schianto al cuore: egli comprese che tutto era finito per lui;
non più felicità, né pace, non più avvenire, poiché
felicità, pace, avvenire per lui si compendiavano nella donna adorata e
infedele. Meditò la vendetta. Ma prima di compierla volle sincerarsi delle
cose per filo e per segno. Il castigo
doveva scendere inesorabile su tutti i colpevoli. La sua vita era infranta? Avrebbe infrante pur
quelle de’ suoi traditori tutti.
Con una forza di dissimulazione della
quale soltanto l’odio più acerrimo potea renderlo capace, chiuse il suo
segreto negli imi penetrali della sua anima piagata. Non uno sguardo, non un gesto, non una parola
rivelò in lui, né alla moglie, né ad altri, la terribile cognizione
della sua rovina morale, cagionatagli dal tradimento. Attese. Attese finché gli fu dato di raccogliere tutti
i particolari della sua sventura.
Un giorno partì come di consueto
colla carrozzella che gli serviva per il trasporto delle sue merci, annunziando
che recavasi ad una fiera, la quale doveva durare otto giorni. Ma la notte medesima tornò pedestre, ad
insaputa di tutti, a Subiaco, penetrò nella sua casa e si nascose in una
stanza vicina alla camera da letto.
Vide giungere il curato ed entrarvi:
vide tutti gli apprestamenti di una baldoria fatti da sua moglie e dalla
parente di lei e non si mosse; udì il tintinnio dei bicchieri cozzanti e
i lieti evviva e i propositi fescennini che uscivano dalla bocca del curato
mezzo ebbro, e non si mosse; assisté al trasporto dei resti della cena e alla
preparazione del nido d’amore e non si mosse.
Solo quando ebbe la materiale certezza
che il curato si trovava nelle braccia di sua moglie, uscì dal
nascondiglio e armato di un lungo pugnale, si avviò nel buio, alla camera
nuziale. In quel mentre tornava la
parente con un lume: il terrore le tolse la parola. Non poté mandare un grido, ma si gettò
attraverso la porta per contenderne l’accesso all’oltraggiato marito.
Domenico Treca non disse verbo: gli
infisse il pugnale nel cuore fino all’elsa e lo ritrasse fumante di sangue;
quindi, con un balzo di pantera fu addosso al prete, che era sceso dal letto,
al rumore prodotto dalla caduta della parente, e pur d’un colpo lo spense.
— Menico! Pietà! Pietà! —
urlò Felicita levandosi a sedere seminuda sul letto maritale contaminato
— protendendogli le bellissime braccia, quasi in atto d’invitarlo ad un
amplesso.
Treca stette un momento a guardarla. Forse la lasciva donna, satura di fluido
magnetico, esercitò un fascino erotico sopra i suoi sensi e gli fece
balenare il pensiero orribile di godersi ancora una volta l’amore di quella
femmina, intriso del sangue che per lei aveva versato. Ma lo respinse tosto, perché colla passione si
risvegliò subito in lui il furore geloso.
— No! No! — esclamò, con un
rantolo di morte che gli serrava la gola. No!
E precipitandosi su Felicita gli
piantò il pugnale nel petto, sfiorandole prima il braccio col quale la
disgraziata aveva tentato di farsi schermo. Ma, per quanto fiero, il colpo non la uccise
tosto, e con quella fittizia energia che dà la disperazione tentò
la lotta contro l’assassino.
Ma il contatto di quelle carni che egli
avrebbe voluto coprir di baci, accendeva viemaggiormente la rabbia del tradito.
Treca non era più un uomo, era
una belva inferocita.
Continuò a straziare quel corpo
bellissimo coprendolo di ferite. Il
sangue spillando con violenza gli aveva soffuso il viso e bagnate le labbra. Treca ne gustava il sapore e se ne ubbriacava.
Il delirio omicida gli durò
finché non cadde estenuato e privo di sensi al suolo.
Rinvenuto dopo parecchio tempo, gli
parve svegliarsi da un sogno: si alzò, si guardò attorno e tutta
la tremenda verità gli apparve dinanzi agli occhi. Un senso di ribrezzo l’invase; volle fuggire,
inciampò nel cadavere del curato e cadde; si rialzò, mosse alcun
frettoloso passo ed inciampò ancora nel cadavere della parente. Si rialzò un’altra volta e barcollante
giunse sulla via, sempre col pugnale stretto nella destra.
Albeggiava e la luce smorta piovendogli
sul volto contraffatto da convulsioni spasmodiche dei muscoli visuali, lo
rendeva cadaverico. Pareva un colpito da
mala morte, che uscisse dal sepolcro. Il
sangue che gli grondava dai vestiti, cosparsi di grossi grumi, compiva il
quadro scellerato.
Alcune donne che lo videro prime in
quello stato fuggirono gridando spaventate e facendosi il segno di croce;
alcuni uomini che pur lo scorsero non ebbero il coraggio di accostarsegli e
andarono in traccia dei birri, i quali giunsero di corsa e mentre lo ammanettavano
e legavano solidamente, gli chiesero:
— Che avete fatto?
Quella fredda domanda parve ridargli la
conoscenza dell’esser suo.
— Mi sono vendicato — rispose e non
aggiunse verbo.
Tratto in carcere dormì
parecchie ore d’un sonno affannoso. Solo
quando si svegliò, dopo il riposo, ebbe il beneficio delle lagrime, che
salvò la sua ragione vacillante.
Proruppe in dirotto pianto e chiese
instantemente di essere subito giustiziato.
— Mi pesa troppo la vita! mormorava.
Ma dovette attendere che le formalità
del processo si esaurissero. Non
durarono però molto, essendo confesso, e il 4 luglio 1801 lo impiccai a
Subiaco, con immenso concorso di gente colà convenuta da tutte le parti,
perché il rumore sollevato dal misfatto, aveva destato l’universale curiosità.
Domenico Treca era caduto parecchi
giorni prima della sua impiccagione in uno stato di completa apatia. Si confessò e ricevette i conforti
della religione, e salendo il patibolo non era più un uomo, era un
automa.
Le prime esecuzioni dell’anno 1802
furono in persona di grassatori. Il
primo, Domenico De Cesare, lo impiccai sulla piazza di Ponte Sant’Angelo, il
giorno 8 febbraio. E se vi fu mai uno
che meritasse d’andarsene al diavolo colla fune intorno al collo, era lui. Aveva grassato un povero spazzino per
togliergli i pochi baiocchi, coi quali doveva comprare il pane a’ suoi
figliuoli. Arrestato, confessò il
delitto cinicamente, senza mostrarsene menomamente pentito. Respinse il primo confortatore che gli si
presentò, sputandogli in volto, e mentre io gli legavo le braccia,
dissemi:
— Attento Mastro Titta, perché se non
mi tieni saldamente, scappo e vengo a farti una visita di notte a Borgo
Sant’Angelo.
Parimenti a Ponte, dodici giorni dopo,
cioè il 20 febbraio 1802, impiccai e squartai Ascenzo Rocchi e Giovanni
Battista Limiti, che avevano aggredito sulla strada di Bracciano alcuni
carrettieri, tolti loro i denari, i ferraioli, e perfino due copelle di vino
che portavano per il proprio consumo. Uno dei carrettieri aveva tentato di
difendersi e gli diedero un colpo di bastone sulla testa che la mandò
tramortito al suolo.
Sorpresi dai birri fuggirono, ma furono
agguantati non guari dopo, processati, condannati e giustiziati. Morirono muniti dei religiosi conforti e
sinceramente pentiti, mostrandosi coraggiosi anche in faccia al patibolo.
Più ardua bisogna fu quella che
mi toccò il 15 marzo del 1802, nel qual giorno ebbi a mazzolare,
scannare e squartare, sempre a Ponte Sant’Angelo, Giovanni Francesco Pace di
Venanzio che aveva grassato ed ucciso un ebreo.
L’affare era andato così:
Il Pace, oriundo napoletano, aveva
messo bottega di sartore a San Carlo ’a Catinari e prendeva la roba a credito
da un mercante giudìo di nome Abramo, in Ghetto. Non venendogli fatto di strappargli i denari,
il mercante lo costrinse un giorno a firmargli delle obbligazioni a lunga
scadenza. Una sera rincasando il Pace
incontrò Abramo al ponte Quattro Capi: una triste idea lo assale. Si guarda attorno e non vede anima viva;
faceva freddo, un fitto nevischio cadeva e nessuno usciva di casa. L’idea del sartore era di farsi restituire le
obbligazioni. Non appena concepita volle
tradurla in atto, e afferrandolo subitaneamente per il collo gli intimò:
— Fuori le carte.
— Non le ho — rispose atterrito, colla
voce nella strozza il giudìo.
— Fuori le carte — ripete il Pace.
E l’altro pur sotto quella potente
stretta si serra le mani al petto, per impedire all’aggressore di frugargli
addosso. Questo allora trae di tasca le
forbici che portava sempre con sé e ne inferisce più colpi alla gola del
giudìo.
Abramo cade, intriso del sangue che gli
sgorgava dalle ferite, e muore colle braccia sempre conserte al petto e
irrigidite.
Pace si china allora sopra di lui e gli
toglie dal pastrano un portafogli pieno di valori fiduciari e una borsa con
alcune monete. Quindi se ne va
tranquillamente a casa a dormire.
Le aggressioni anche in città
erano allora all’ordine del giorno, o più precisamente all’ordine della
notte e non destavano gran rumore. Trattandosi poi d’un israelita la cosa pareva
quasi naturale. Si fece qualche indagine
dall’autorità e non essendosi potuto scoprire nulla non se ne
parlò più.
Incoraggiato dall’impunità il
Pace, dopo aver spese le monete, pensò di servirsi dei valori ed
andò ad offrirli ad un cambiavalute al Corso. Questi insospettitosi avvertì il
fiscale che fece una perquisizione alla bottega del sartore, gli trovò
il portafogli con delle carte che ne indicavano il legittimo proprietario. Pace fu tratto in arresto e mandato alle
carceri. Sulle prime negò
sfrontatamente e disse che il portafogli lo aveva trovato per terra in via Rua.
Ma messo alle strette finì per
confessare ed ebbe come dissi, la ricompensa degna del suo misfatto. Il 3 aprile 1802, recatomi a Fermo, mazzolai e
squartai Domenico Zeri, il quale aveva ucciso il proprio padre, in seguito ad
un litigio insorto per la divisione di un piccolo fondo venuto loro in retaggio
per la morte di un lontano parente.
Stavano entrambi cenando in cucina e
accalorandosi ne’ discorsi avevano bevuto di molto vino cotto, che dà al
capo ed abbrutisce bestialmente. Da una
parola acerba ad un’altra il padre minacciò Domenico Zeri di privarlo
anco di quel poco che gli avrebbe dovuto lasciare alla sua morte.
— Voi non lo farete! — esclamò
d’un tratto rizzandosi minaccioso, e cogli occhi iniettati di sangue Domenico
Zeri.
— E perché no? — gli chiese il padre
alzandosi pure lui, quasi in atto di sfida.
— Perché non ve ne lascerò il
tempo — rispose allontanandosi qualche passo dalla tavola, accostandosi
all’ampio camino, e stendendo la mano dietro di sé, per cercare qualche cosa.
Il vecchio sempre più irritato
afferrò il boccale di terraglia ormai vuoto, che si trovava sul desco e
lo scagliò al figlio ferendolo alla fronte. Sentendosi il volto irrigato di sangue questi
perdette il lume della ragione e afferrata la pala del fuoco ne assestò
un terribile colpo sulla testa al padre, che cadde boccheggiante al suolo. A quel truce spettacolo, Domenico Zeri fuggì;
errò parecchi giorni per le campagne e finì coll’essere arrestato
dai birri a Recanati.
Ricondotto a Fermo più morto che
vivo per la paura e lo strazio del rimorso, confessò subito il suo
misfatto e manco tentò difendersi. I giorni trascorsi fra la condanna e
l’esecuzione furono per lui una continua agonia, lenta e crudele. Delirava giorno e notte in preda a
violentissima febbre, refrattaria ai più potenti antipiretici. Convenne affrettare l’esecuzione della
sentenza, per tema che se ne andasse all’altro mondo defraudando l’umana
giustizia. Agli ultimi momenti
confortato dai cappuccini parve riaversi alquanto e s’avviò al patibolo
recitando preghiere e raccomandazioni alla pietà dei fedeli. Ma era una vita, dirò così,
fittizia la sua; quando gli bendai gli occhi era diaccio, e giurerei che non ha
sentito il colpo della mazzola.
Squartato, i suoi resti rimasero
esposti sul palco per tutta la giornata, appesi ai ganci infissi nella
travatura.
Durante la notte furono distaccati ed
ebbero sepoltura, per opera de’ cappuccini stessi, in un appezzato di terreno
vicino al cimitero, non potendo essere in questo inumato.
Confesso candidamente che di tutte le
mie esecuzioni quelle che mi sono andate meno a versi sono le esecuzioni sopra
le donne. E questo non per un manifesto
spirito di pietà morbosa, o perché mi lasciassi in qualsiasi modo
dominare dalle attrattive muliebri. Gli
è che io ho sempre considerato la donna come un essere intellettualmente
e fisicamente inferiore all’uomo e mi disgustava di dover esercitare la mia
azione sopra tale inferiorità. Ma
devo pur constatare che la donna, che è pure sì gentile e
graziosa creatura, talvolta eccede in ferocia l’uomo stesso, segnatamente
quando è invasa dalla passione.
In sull’esordire di maggio dell’anno
1802 fui chiamato ad Orvieto per l’impiccagione di Agostina Paglialonga,
condannata all’estremo supplizio per aver barbaramente trucidato tre figli.
Era l’Agostina rimasta vedova con tre
bambini, una appena svezzato dal latte, il secondo di due anni e mezzo, il
terzo maggiore di undici mesi a questo. Bella e appariscente nelle forme, simpatica di
fisionomia e sufficientemente agiata, ebbe presto molti corteggiatori, alcuni
per semplice vaghezza di godimenti, altri animati dall’onesto intendimento di
farle deporre le gramaglie vedovili, riconducendola all’altare. Fra questi era un giovane macellaio, una
specie di Ercole, gagliardo e promettitore di eccellenti risultamenti per una
donna inclinata ai rapporti sessuali. Naturalmente costui ottenne la preferenza
dall’Agostina: ma quando ebbe raggiunto l’intento di possederla,
incominciò a lungheggiare sul proposito del matrimonio.
Messo finalmente dalla Paglialonga fra
l’uscio e il muro, si scusò dicendo che non si sentiva di sposare una
donna con tre figli, non suoi.
— È questo l’ostacolo unico? gli
chiese una sera l’Agostina
— Questo soltanto.
— Senza figli. . .
— Ti sposerei anco domani.
La donna non insisté con altre domande.
Passate tre ore in frenetici amplessi il
macellaro se ne andò, dimenticando sul tavolo un’ascia, di quelle che si
adoperano per spezzare le ossa, che aveva portato ad arruotare.
Rimasta sola, la Paglialonga, prese in
mano l’ascia: un terribile pensiero le balenò alla mente e in breve
l’invase in modo tale da soggiogarla.
Afferrò l’ascia ed entrata nella
camera dove dormivano i suoi bambini li tolse uno per uno dal letticciuolo e li
assassinò, spaccando loro il petto ed il cranio coll’arma fatale e
buttandoli estinti uno sopra l’altro come tanti abbacchi macellati. Poi li fece a pezzi, li portò in cucina
e li mise a bollire nella caldaia, colla quale soleva fare il ranno per il
bucato. Coll’acqua stessa levò le
macchie di sangue del pavimento e ripulì l’ascia in modo da renderla
tersa, e rilucente come nuova.
Compiuto l’orribile misfatto trasse le
carni cotte dalla caldaia e andò a disperderle pei campi, affinché
servissero di pasto ai cani ed alle altre bestie vaganti, e sopravvenuto il
mattino riportò l’ascia al macellaio, annunziandogli che i suoi bambini
era venuto a prenderli un fratello del defunto marito, il quale li aveva
condotti seco in un lontano villaggio delle provincie meridionali. E tale notizia ripeté a quanti le chiedevano
conto dei suoi figliuoletti.
Ma Dio non volle lasciare impunita
quella scellerata mano: un grosso cane entrato in Orvieto con un osso in bocca
richiamò l’attenzione di un medico, che riconobbe in quell’osso la tibia
di un bambino. Si fecero delle ricerche
e si trovarono altri resti. La voce
pubblica incominciò ad accusare la Paglialonga dell’eccidio dei suoi
bambini e venne arrestata.
Arrestata confessò cinicamente
il delitto. Venne condannata e la
mattina del 5 maggio 1802, io l’ebbi ad impiccare. La fama del delitto aveva chiamato ad Orvieto
una folle enorme dai paesi circonvicini.
Quando uscimmo colla carretta dalle
carceri per recarci alla piazza dove doveva compiersi l’esecuzione, temetti per
un momento che ad onta della scorta, mi togliessero di mano la delinquente,
tant’era il furore onde erano invasi gli spettatori e segnatamente le donne. Ciò nullameno Agostina Paglialonga non
impallidì, salì sul patibolo accompagnata dal confessore, con
fermo passo e morì coraggiosamente.
Un’altra donna, pur bella di sembianze
e di forme mi toccò d’impiccare a Todi il 6 luglio 1808, Rosa Ruggeri,
insieme ai fratelli Angelo e Paolo Caratelli ed Antonio Scarinei, dai quali
aveva fatto assassinare il proprio marito.
Antonio Scarinei era suo amante e la
Rosa n’era pazza: lo voleva per sé, tutto per sé, senza che avesse a staccarsi
un momento dal suo fianco. Egli le
propose di fuggire con lui; ma la donna, dopo averci lungamente pensato e
calcolato tutte le conseguenze, rifiutò.
— Dunque non mi ami? le disse Scarinei.
— Sbarazzami di mio marito e sposiamoci.
— Vuoi?
— Senza dubbio.
Combinarono di simulare un’aggressione
in casa. La Rosa fece nascondere
l’amante e i suoi complici nella propria casa e quando vide il marito ben
addormentato li chiamò. Scarinei
uscì di sotto il letto ove s’era nascosto e inferse al disgraziato il
primo colpo che lo fece cadere al suolo; sopraggiunti alle sue grida i complici
coi coltelli impugnati, lo finirono mentre i due amanti orribile a dirsi, si
gettarono uno nelle braccia dell’altra sul talamo stesso.
I due Caratelli fecero poi bottino del
bello e del buono e se ne andarono, lasciando la Rosa e Scarinei in preda al
loro delirio amoroso. Ma sorpresi dai
birri col bottino, e interrogati a parte lì per lì, si confusero,
si contraddissero ed ispirarono dei sospetti al funzionario innanzi al quale
erano stati portati. Messi alle strette,
col miraggio dell’impunità confessarono il fatto nei più minuti
particolari, di modo che la Rosa Ruggeri e l’Antonio Scarinei, furono sorpresi
nel letto, appié del quale giaceva ancora il cadavere del marito assassinato.
Furono tutti condannati
all’impiccagione, la quale dovetti eseguire in quest’ordine: prima Angiolo, poi
Paolo Caratelli, terzo Antonio Scarinei, ultima la Rosa Ruggeri, affinché lo
spettacolo della morte de’ complici inasprisse gradualmente la pena. Gli uomini morirono con sufficiente coraggio,
assistiti dai confortatori, ai quali s’erano cristianamente confessati. La donna diede in ismanie terribili e pur col
capestro al collo, urlava come una dannata. Ma non durò a lungo: in un fiat
la spedii a raggiungere i suoi compagni.
Il giorno 8 maggio 1802 compii la mia
quarantatreesima esecuzione, mazzolando ed impiccando, ne’ modi di pratica, a
Perugia un tale Antonio Nucci, condannato a tal pena per aver assassinato e
derubato un frate cappuccino, priore del convento di quella città.
Era il Nucci un giovane caposcarico,
assai noto per la sua giovialità e per le pazzie burlesche che
commetteva, ogniqualvolta se gliene presentava l’occasione.
Il cappuccino era in fama di libidinoso
e dedito a piaceri contro natura. Veduto
il Nucci e ammirate le sue forme belle e tondeggianti si lasciò cogliere
dalla tentazione di trarne godimento.
Gli si mise attorno col pretesto di
ricondurlo a miglior vita e di avviarlo sul sentiero della virtù. Nucci prendeva la cosa in ischerzo e fingeva
di assecondare il frate, che finì col persuaderlo a recarsi da lui per
confessare e fare ammenda de’ suoi peccati. Ma quando il giovane si fu accostato al
tribunale di penitenza, il priore pare gli tenesse dei propositi osceni e gli
desse convegno per la sera fuori della città, in una piccola osteria
sulle rive del Trasimeno, ove solevano convenire di consueto i pescatori del
lago.
Non mancò il Nucci
all’appuntamento: mangiarono allegramente, abbandonandosi a copiose libagioni,
poiché l’osteria a quell’ora era deserta, non essendo ancora giunti i soliti
frequentatori.
Sull’imbrunire lasciarono l’osteria e
per un sentiero traversale risalirono il colle.
Così deposero concordemente in
giudizio parecchi testi, che li avevano veduti insieme, l’oste per il primo. Ma da quel momento in poi non si può
riposare che sulle asserzioni del Nucci, il quale aveva troppe buone ragioni
per raccontar le cose a suo modo.
Udiamolo:
— Che cosa avete fatto, gli
domandò il giudice, quando avete lasciato la strada maestra per prendere
la stradicciuola montana?
— Ci siamo inoltrati nella macchia; il
priore era bevuto parecchio e tornava sulle proposte che mi aveva fatte al
confessionale.
— Avevate voi aderito a quelle
proposte?
— Sì, ma per celia. Volevo burlarmi del frate sozzone.
— Come avete risposto in quel momento
alle nuove insistenze del priore?
— Risposi obbiettando che il luogo non
era opportuno e che avremmo potuto esser sorpresi.
— E il cappuccino?
— Tirò innanzi fino ad una
piccola spianata, cinta d’alberi fronzuti, e là mi disse: Riposiamo un
po’ qui.
— E voi?
— Acconsentii.
— Dunque eravate ben disposto?
— Tutt’altro.
— Almeno vi fingevate tale?
— Io non dicevo nulla. Lui mi raccontava delle storielle lubriche,
che diceva accadute in convento; io ascoltavo e ridevo.
— In quale posizione vi trovavate?
— Sdraiati sull’erba, sopra un piccolo
pendio, costeggiante lo spianato, dove più fitta era l’alberata.
— Continuate.
— Sentendomi assalito da un bisogno,
chiesi perdono al priore, il quale mi disse: «Fa pure il comodo tuo». Ma mentre mi accingevo a farlo, mi sentii
afferrare a tergo per le braccia dal frate, che con un colpo di ginocchio mi
fece cader supino.
— Perché non vi svincolaste subito, se
non eravate annuente?
— Tentai, ma le sue braccia erano
più vigorose delle mie.
— Dovevate chiamare aiuto.
— Avrei buttato il mio fiato: in
quell’ora non si trova mai nessuno nella macchia.
— Breve: come finì?
— Cacciai il coltello che tenevo nelle
tasche dei calzoni.
— Per uccidere il cappuccino?
— No: solo per fargli paura.
— E per fargli paura semplicemente lo
avete ammazzato?
— Vedendo che il priore ci si metteva
per davvero, gli tirai un colpo, perché mi lasciasse.
— Un piccolo colpo che gli
spaccò il cuore.
— Non è colpa mia.
— Eravate sempre supino?
— Sì.
— La perizia medica esclude la vostra
asserzione, perché la ferita parte dall’alto al basso. Quello che voi narrate, non è che
un’oscena favola colla quale sperate indarno di ingannare la giustizia. Voi avete tratto il disgraziato priore,
chissà con quale pretesto, per quel sentiero deserto, nel fitto del
bosco e quando vi siete ritenuto al sicuro, approfittando di un momento in cui
egli si era chinato, gli avete vibrato la coltellata che lo freddò.
— La favola è questa, non la mia.
— La tabacchiera d’oro che apparteneva
al cappuccino, che vi fu trovata, all’atto del vostro arresto, prova
esuberantemente che lo avete assassinato per depredarlo.
— L’ho veduta luccicare per terra e la
raccolsi; forse gli sarà uscita dallo sparato della tonaca nella
colluttazione.
— E il danaro che gli avete tolto?
— Io non gli ho tolto denaro di sorta.
— I testi sono concordi nel dichiarare
che il priore usciva sempre con una borsa di pelle ben fornita, per fare le
spese della comunità. E ne’ primi
giorni dopo il delitto foste veduto scialarla sprecando denari in gozzoviglie
più del consueto e più che non comportassero le vostre finanze.
Antonio Nucci tentò schermirsi,
ma le testimonianze erano schiaccianti per lui. La mancanza del priore fu tosto constata al
convento, ma il suo cadavere non venne trovato nella macchia che dopo otto
giorni, da alcuni boscaiuoli. La voce
pubblica tosto accusò il Nucci, col quale il frate era stato veduto. Il Nucci fu arrestato e sottoposto al processo.
Ma non si trovò che la
tabacchiera. Forse il denaro lo aveva
seppellito, per andarlo poi a prendere di mano in mano quando gli serviva. Condannato, accettò i conforti
religiosi e subì il supplizio senza viltà.
Durante l’esecuzione però
avvenne un fatto curioso. Due garzoni,
tratti dal carcere per aiutarmi nella costruzione del palco, vennero a litigio
dietro il medesimo e si azzuffarono. Dovettero essere separati dai birri.
Questo fatto ne ricorda uno congenere
accaduto a Palermo più tardi, del quale corse la fama per tutto il mondo.
Mentre sul palco il giustiziere
ghigliottinava un marito che aveva ucciso la moglie per motivo di gelosia, due
rivali, amanti entrambi dell’assassinata, che erano riusciti, per diversa via,
a penetrare sotto il palco medesimo, per meglio assistere all’esecuzione,
accesi di subito furore, si avventarono uno sull’altro armati di coltello,
impegnando un terribile duello, dal quale uno dei due uscì morto;
l’altro, gravemente ferito, di poco gli sopravvisse.
Inaugurai il 7 luglio 1802 la seconda
cinquantina del primo centenario, impiccando a Collevecchio Felice Rovina,
condannato alla forca per avere strozzato un Eremita, chiamato fra Pasquale,
benché non fosse punto frate e meno Pasquale. La sua storia merita d’essere qui narrata.
Fra Pasquale apparteneva alla piccola
nobiltà di provincia; aveva ingegno fecondo e bel personale, appetiti
smodati e un coraggio a tutta prova. Se
la sua famiglia fosse stata più ricca e avesse potuto fornirgli denaro
quanto esigevano le sue dissipazioni forse avrebbe avuto miglior ventura. Messo invece dalle sue passioni alle prese col
bisogno, scartò dalla via retta e precipitò giù per la
china del vizio, che mena al delitto. E
se non lo avesse sorretto l’acutissimo ingegno e una furberia di primo ordine,
sarebbe finito nelle mie mani, invece del suo assassino.
Dopo una sequela di bricconerie e di
violenze, fra Pasquale, avendo ucciso un rivale in amore, di gran casato,
dovette buttarsi alla macchia e dedicarsi alla vita del bandito. Ce n’erano di molti a quell’epoca e accadeva
spesso che si mettevano in lotta fra loro, con gran compiacimento del governo,
al quale non pareva vero che i masnadieri si ammazzassero da sé,
risparmiandogli la spesa e l’incomodo di farlo esso.
Fra Pasquale batté la campagna per
molti anni, sfuggendo a tutte le trame, messe su per pigliarlo. I birri stessi lo aiutavano un po’ per paura,
un po’ per simpatia, un po’ ancora per avidità di lucro, imperocché,
soleva distribuire anche a loro una parte dei suoi bottini.
Era così giunto a
quell’età, in cui anco gli uomini più robusti, incominciano a
sentire il bisogno del riposo, e andava mulinando nella testa come avrebbe
potuto procurarselo, quando seppe che era stata messa un enorme taglia sulla
testa di un altro bandito, contro il quale si erano spiegate tutte le maggiori
energie, e le più grandi sottigliezze per agguantarlo.
La taglia — ripeto, enorme a quei tempi
— era di tremila scudi. Ma nessuno aveva
abboccato: c’erano troppi pericoli da affrontare per conseguirla.
Fra Pasquale — continuiamo a chiamarlo
così, benché tal nome non avesse ancora assunto, — ebbe un’idea luminosa
e tosto s’accinse a tradurla in atto.
Una sera, mentre Monsignor Fiscale
aveva appena finito di cenare e stava facendo il suo chilo, con un fiasco di
vino accanto e la tavola tuttora imbandita, gli fu annunziata la venuta di uno
sconosciuto, che chiedeva di parlargli.
Monsignore, che era di buon umore e
sapeva d’altronde di essere ben custodito, ordinò che lo facessero
passare.
Entrò un uomo sulla cinquantina,
coi capelli spioventi sulle spalle, e la lunga barba, brizzolati e questa e
quelli, vestito alla cacciatora, con una certa eleganza.
— Chi siete? — gli domandò il
Fiscale, ostentando il piglio brusco, d’un uomo disturbato ed annoiato.
— Non vi servirebbe a nulla il mio nome
per il momento, s’anco lo declinassi.
— Che volete?
— Desidererei da V. S. reverendissima
degli schiarimenti.
— Sopra quale argomento?
— Sulla taglia imposta per la presa del
bandito Lucarini.
— Vi sentireste in grado di
guadagnarla?
— Perché no?
— Sapete che sono ormai tre mesi che si
è pubblicata e nessuno si è lasciato sedurre dalla medesima?
— Lo so.
— E voi vorreste tentare?
— Vorrei riuscire.
Monsignor Fiscale si tolse gli occhiali
e ne pulì con un lembo del tovagliolo le lenti, quindi se li ripose e
guardò fissamente il nuovo venuto.
Questi sostenne lo sguardo e non si mosse.
Il giudizio del Fiscale parve
favorevole, perché la sua fronte corrugata si spianò e sclamò:
— Benissimo: mi sembrate uomo
più che di parole, di fatti.
— Purtroppo!
— Purtroppo? — ripeté il Fiscale
aggrottando le ciglia, — Perché?
— Perché i fatti mettono spesso gli
uomini in brutti impicci.
— Ho capito. Avete qualche conto da rendere alla giustizia.
— Può essere.
— Vi avverto che non mi piacciono le
locuzioni ambigue — Monsignore pronunziò queste parole in tono severo, e
quasi duro, guardandosi attorno come cercasse qualche cosa o qualcuno. Fra Pasquale non se ne diede per inteso e
continuò:
— Chi vi portasse la testa di Lucarini.
. .
— Avrebbe la taglia promessa in tanti
scudi di zecca, fiammanti uno sopra l’altro.
— E se avesse de’ conti da rendere alla
giustizia, come monsignore diceva poc’anzi?
— Non gli verrebbero domandati in quel
momento.
— E se volesse l’assicurazione
dell’impunità?
— Bisognerebbe esaminare prima la cosa.
— Se si trattasse d’un traviato
desideroso di ritornare sulla buona via e di emendare i suoi errori, rendendo
dei servigi al governo?
— Potrebbe ottenerla per tacito
consentimento.
— Vale a dire?
— Mutando nome e non offrendo colla sua
condotta nuove cagioni di perturbazione, si ignorerebbe chi fosse realmente e
si dimenticherebbero i suoi antecedenti. Suppongo però che non siate venuto da
me per farmi subire un interrogatorio. Non ho l’abitudine di lasciarmi invertire le
parti. Come vi chiamate?
— Francesco Perilli.
— Dei conti di Casana?
— Per l’appunto.
— Una testa val l’altra. Vi garantisco che la vostra rimarrà al
suo posto, se mi portate quella del Lucarini. . . Fra quanto?
— Fra otto giorni.
— E sia. Ma badate: tentando d’ingannarmi voi non
uscireste di qui che per andar alle carceri, e dalle carceri che per andare
alla forca.
— Alla mannaia! Monsignore, alla
mannaia.
— È vero; siete di stirpe
nobile; me ne dimenticavo. Ma questa
è una questione di forma, che non muta la sostanza. Liberamente siete venuto, e liberamente ve ne
andate. Siate però certo che se
non tornate, saprò cogliervi.
Perilli si inchinò ed
uscì.
Otto giorni dopo all’ora stessa, il
medesimo personaggio tornava a presentarsi al Palazzo del Fiscale e venne da
Monsignore ricevuto immediatamente.
Perilli vestiva ancora da cacciatore, e
portava un canestro sotto il braccio.
— Mi recate la cacciagione? — chiese
giocondamente il Fiscale, allontanando un po’ la sedia dalla tavola, tuttora
imbandita, e coi resti del dessert.
— Sì, Monsignore. E precisamente il capo. . . di selvaggina che mi avete domandato.
— Vediamo, vediamo.
Il cacciatore, con rapidità
fulminea, tolto dalla mensa un gran piatto d’argento cesellato, trasse dal
canestro la testa del Lucarini e depostala sul piatto la presentò al
Fiscale, come fu presentata ad Erodiade la testa del Battista.
Monsignore volle mostrarsi forte, ma un
lieve pallore si diffuse sul suo volto, denunziando la emozione disgustosa che
gli suscitava tal vista in quel momento.
— Riponetela, mormorò poi,
volgendo da altra parte lo sguardo.
E Perilli acciuffatala per i capelli,
la ripose nel canestro, quindi la coprì con una salvietta tolta dalla
tavola, nella quale si era pulita la mano lorda di sangue raggrumato.
— Monsignore, disse tranquillamente, ho
mantenuto il mio impegno, posso contare sul vostro?
— Ne avete la mia parola. Il mio maestro di casa vi passerà i
tremila scudi. Che contate di fare?
— Indosserò l’abito del mio
protettore S. Francesco, se me ne
dà licenza Monsignore.
— Volete entrare in un chiostro?
— No, non me ne sento degno.
Il Fiscale si accorse dell’ironia che
era nel fondo, di queste parole e sorrise. Perilli continuò:
— Mi ritirerò in campagna, in un
piccolo eremo, che mi servì già d’asilo, in una valletta amena e
silenziosa, come quella ove sorgeva la Casa del Sonno, cantata da Messer
Ludovico.
— Mi darete contezza di voi?
— Non mancherò, Monsignore.
— Ne avrete congrua ricompensa.
— Grazie.
Con profondo inchino il bandito si
accomiatò dal Fiscale e recossi dal Maestro di casa a riscuotere la
taglia.
Erano trascorsi pochi anni.
Perilli aveva scrupolosamente seguito
il suo programma, per quanto concerne la metamorfosi. Mutato in frate francescano, s’era stabilito
in una capanna, nel fondo di una piccola valle, addossata al versante di un
colle, che aveva acquistata, con poche rubbie di terreno intorno, da un pastore.
Meschinissimo era l’aspetto esteriore:
curioso l’interno diviso in due scompartimenti. Il primo era una specie di laboratorio, con un
fornello, il cui fumo usciva da un comignolo eretto sul tetto; e sul fornello,
storte, lambicchi, fiale e fiaschi d’ogni genere. Nel secondo c’era un piccolo desco di legno,
rozzamente lavorato e sovr’esso un boccale di terra per l’acqua; un sedile a
tre piedi, sul quale posava un teschio umano e una lampada di bronzo a tre
lucignoli; distesa per terra una stuoia di corteccie intrecciate, serviva per
letto e un Cristo appeso alla parete, indicava il capo.
In fondo uno sportello chiudeva una
specie d’armadio, scavato nel muro, ingombro di involti, nei quali erano le
raccolte d’erbe medicinali, che l’eremita soleva fare, per distribuirle ai
contadini che gliele venivano a chiedere.
Ma quell’armadio dissimulava una porta,
che girava sui cardini, insieme alle tavole traversali, sulle quali stavano gli
involti delle erbe, e dava accesso ad un terzo compartimento segreto, molto
più ampio dei due antecedenti presi insieme, che si internava nella
collina, e faceva capo ad una grotta naturale, chiusa da una porta, coperta da
un alto specchio di Venezia, con larga cornice intagliata e dorata.
La grotta serviva all’eremita di
deposito delle sue dovizie e per un lungo corridoio, scavato nel tufo calcareo,
si giungeva ad un’altra uscita, difesa da una porta sprangata di ferro, che si
apriva dall’interno ed era al di fuori mascherata da grandi massi, rivestiti di
verde musco. Questa uscita metteva nel
folto della macchia, che si estendeva su tutto il versante dell’aspra collina.
Il compartimento segreto della capanna
era riccamente arredato e munito di tutti i conforti della vita: un ampio letto
a colonne con cortinaggi di velluto e di trina, che lo chiudevano come un
santuario; vasti armadi di legno dipinto e intarsiato, con fregi e dorature,
una tavola rotonda col pedale di bronzo dorato e il piano di mosaico; sedie e
divani coperti di velluto e di cuoio di Cordova impresso in oro, ne
costituivano il mobilio sontuoso ed elegante ad un tempo, e chiarivano come fra
Pasquale doveva aver passato i suoi primi anni nel lusso ed avervi affinato il
suo gusto.
Era quello scompartimento il suo
piccolo paradiso; un paradiso che non aveva delle Urì come quello di
Maometto, ma al quale non mancava di quando in quando il sorriso della donna.
La fama dell’Eremita si era diffusa a
parecchia distanza; dai paesi circonvicini non solo, ma ben anco da lontani,
gli giungevano clienti in cerca di semplici e di composti. Fra Pasquale non vendeva soltanto le medicine
che manipolava co’ suoi lambicchi, e le erbe salutari, colte fra i boschi e fra
gli sterpi del torrentello spumeggiante, che bagnava la valletta, dove aveva
stabilito il suo domicilio: componeva altresì dei filtri portentosi che
avevano la proprietà di far amar le persone tra loro e di
disinnamorarle, di rendere più vigorosi od inetti all’azione genetica,
e, quel che è peggio, di togliere alle donne, ed alle fanciulle in
ispecie, l’incomodo della maternità, dissolvendo embrioni e feti ed
espellendoli anzi tempo dall’alvo, perché non giungessero a maturità. Volevano anche taluni che più d’una
vedova dovesse a’ suoi farmaci le anticipate, agognate gramaglie. Ma forse erano voci maligne e nulla più.
Certo è vero che aveva nome di
stregone: più di una vecchierella, scorgendo da lungi il tetto della sua
capanna, o il sottile pennacchio di fumo che ne usciva, si faceva il segno di
santa croce. I preti incontrandolo
mormoravano: ite diabulis, ite ad inferi. I birri di campagna, per converso, non
sdegnavano di soffermarsi sulla soglia del suo laboratorio, di chiedergli un
boccale d’acqua fresca, e di accettare magari un boccale di vino, nonché di
attingere da lui informazioni, intorno alla gente che batteva la campagna. Informazioni ch’egli era sollecito di fornir
loro, studiando intanto di carpirne altre sul soggetto delle missioni ond’erano
incaricati.
Avevano luogo fra loro dei dialoghi
come questo:
— Fra Pasquale, s’è vista
nessuna persona sospetta scorazzare per questi dintorni?
— Non mi pare. Però un povero ammalato che venne da me
per soccorso, mi disse d’’aver incontrato una comitiva di uomini, che tenevano i
pistoni nascosti, sotto i ferraioli, i quali lo fermarono, gli fecero delle
interrogazioni, poi lo lasciarono senza molestia.
— Da quale parte provenivano?
— Da Collevecchio.
— Ed erano diretti?
— Piegarono a manca, costeggiando la
macchia.
— Era di notte?
— Di mattina verso l’alba. E dovevano aver fatto buon bottino, perché
erano allegri e portavano delle bisaccie rigonfie. Il mio malato lo fermarono più per
curiosità che per altro. Credo
anzi gli regalassero qualche baiocco.
— Dovrebbero esser loro.
— Siete sulle traccia di qualche banda
di grassatori?
— È stata assalita una vettura
padronale di viaggiatori, che portavano di molto valsente. Dovrebbe essere la masnada del famoso
Caciotaro.
— Non vorrei essere ne’ suoi panni.
— Perché?
— Perché non tarderà a cadervi
nelle mani.
— Speriamolo.
— Siete soli?
— Abbiamo combinato un appostamento,
col bargello di Collevecchio e le sue guardie, proprio nella macchia,
costeggiata dalla vostra comitiva. C’è a scommettere che è quella
del Caciotaro.
— Buona fortuna!
I birri se ne andavano, lieti e felici
delle notizie avute da fra Pasquale. E
fra Pasquale, che era in rapporti d’affari col Caciotaro, chiudeva la sua
capanna e per la grotta si recava nella macchia, dove trovava tosto un messo da
inviargli, per porlo sull’avviso; onde non avesse a cadere nell’agguato tesogli
dal bargello.
Al Caciotaro e ad altri capi di banditi
d’alta levatura, fra Pasquale porgeva eziandio informazioni sui viandanti, i
corrieri e i viaggiatori di gran conto, che passavano, o dovevano passare, nei
luoghi ove era agevole il grassarli. E
su questi percepiva un quinto del bottino.
D’altra parte però, se qualche
disgraziato, si buttava da novellino nella macchia, o spinto dal bisogno, o per
aver commesso qualche delitto, per il quale era ricercato dalla giustizia, fra
Pasquale non ritardava a saperlo: estendeva quanto più poteva le sue
indagini, e ne faceva giungere notizie al Fiscale di Roma, che così gli
conservava la sua protezione e non mancava di rimunerarlo lautamente.
Così l’astuto eremita, faceva un
doppio giuoco, ritraendone largo profitto ed assicurandosi l’impunità.
La sua clientela abituale era composta
in gran parte di giovani sposi e di fanciulle innamorate ed a queste,
specialmente se erano leggiadre, soleva imporre un tributo carnale. Le brine che l’età aveva deposte sul
suo capo, non avevano spenta la sua foia, non avevano saziata la sua sete di
femminei godimenti. Egli soleva attrarle
con arte finissima nelle sue reti e una volta che vi erano incappate non gli
sfuggivano di leggeri. Alcune cedevano
riluttanti per tema di peggio; altre subivano la violenza, ma tacevano, un po’
per vergogna, un po’ per paura. Ed altre
finalmente s’acconciavano con piacere, e queste erano ammesse alla sua
intimità, nel terzo compartimento, passando pure qualche notte in orgie
sfrenate, inebbriate dai vini generosi e dagli amplessi frenetici dell’eremita.
E talora gli servivano eziandio da
mezzane, inviandogli incaute giovinette, bisognose dei suoi molteplici
ministeri, le quali, prima d’essere esaudite, dovevano subire l’oltraggio delle
sue carezze e de’ suoi baci.
Una bella mattina di maggio, fra
Pasquale, stando nel suo laboratorio, vide scendere per la china che conduceva
nella piccola valle, una formosa fanciulla trilustre, precocemente sviluppata. Il turgido seno le torreggiava sotto la bianca
camiciuola, la vita agile e sottile, stretta dal busto sovrapposto, faceva
spiccare maggiormente le sue anche poderose, ondeggianti nell’incedere; il
breve gonnellino lasciava scorgere il profilo di una gamba nervosa e ben
modellata.
Fra Pasquale ne fu colpito; i suoi
occhi mandavano fiamme; il sangue gli martellava le tempie; le sue labbra
fremevano di desideri voluttuosi.
— Ov’è diretta, quella
gallinella? — chiese a se stesso osservandola — Venisse da me?
E per non darle soggezione non si
mosse, e cessò dal guardarla fissamente, come dapprima aveva fatto.
La fanciulla continuava a scendere pian
piano pel sentiero serpeggiante; ma ad ogni tratto si fermava, ora volgendo gli
occhi in alto dalla parte donde era calata, ora al basso della valletta, ove
era diretta. Si vedeva dalle sue
esitanze che aveva ancora degli scrupoli a superare.
Forse il suo angelo custode a destra le
mormorava all’orecchio: «Torna indietro. » Allora rimaneva per un istante sul
pendio col pie’ sospeso. Ma il diavolo
da mancina era pronto ad incoraggiarla e le diceva: «Che temi, sciocca? Vuoi o
non vuoi esser certa che Felicino ti ama e che ti sposerà? Tira innanzi».
E allora la fanciulla moveva parecchi
passi affrettati giù per la china.
Ma ad un certo punto parve che il suo
buon angelo avesse ripreso il sopravvento. Era ormai giunta a tre quarti della discesa:
vedeva distintamente l’interno della capanna e fra Pasquale, che fingendosi
intento alle faccende del suo laboratorio, non tralasciava di sorvegliarla. D’un tratto si voltò e riprese a
risalire per la stradicciuola con gran furia. Evidentemente non voleva lasciar tempo al suo
cattivo consigliere di sospingerla alla meta peccaminosa.
Disgraziatamente pose un piede in
fallo, incespicò in un sasso sporgente ed acuminato che la ferì
alla clavicola e cadde rotoloni per buon tratto di strada, finché le sue vesti
impigliatesi ne’ pruni la sostennero.
Fra Pasquale accorse tosto in suo aiuto.
Quando le fu vicino s’accorse che era
svenuta e si fermò ad ammirare le stupende forme, dalle carni rosee e
vellutate, che rimanevano scoperte, essendosene il guarnellino rimboccato, per
effetto delle spine che lo trattenevano.
Invaso dal furore erotico, il lubrico
eremita, stava per approfittare brutalmente di quella innocente creatura, nella
stessa posizione in cui si trovava. Ma
un barlume di ragione ne lo trattenne.
Staccò pian piano le vesti della
fanciulla dai pruni, quindi recatasela sulle braccia, la trasportò nella
capanna, e la depose sullo splendido letto a baldacchino del compartimento
segreto.
La giovinetta era in preda ad un
deliquio, cagionatole dallo spavento della caduta e dal dolore acuto prodottole
dalla ferita, che aveva fatto sangue.
Fra Pasquale le tolse innanzitutto gli
stivaletti e le calze, le lavò le ferite coll’acqua di fonte, le
applicò dell’arnica fresca, che andò a cogliere a pochi passi
dalla capanna, ove la coltivava, trapiantata.
Quindi le levò il candido
pannolino che le copriva il capo: la ricca capigliatura, sciolta così da
ogni ceppo le cadde lungo le spalle incorniciandole il bellissimo volto ovale,
pallido, ma pur sempre fiorente di giovinezza.
La fanciulla non si svegliava: fra
Pasquale prima di spruzzarle il volto, o di darle ad odorare dei sali, che
l’avrebbero richiamata in sensi, volle svestirla completamente: le
slacciò il busto, con ansia febbrile, e le strappò i bottoni
della bianca camiciuola la quale cadde, offrendo alla vista del libertino
eremita i tesori d’un bel seno virginale. Liberata così dall’oppressione, che il
busto le cagionava, la respirazione della giovinetta diventò regolare e
poco a poco le sue labbruzze ripresero il bel colore corallino e le gote le si
rifecero vermiglie.
Fra Pasquale la contemplava estatico.
Nulla di più leggiadro si era
mai offerto a’ suoi avidi sguardi.
Egli tratteneva il respiro, per tema di
destarla, e mentre le sue pupille rutilanti la dardeggiavano, colle nari
dilatate assorbiva le fraganze soavi, emanate da quel corpo di Psiche.
La fanciulla sollevò lentamente,
dopo breve istante le lunghe ciglia, quindi le palpebre, de’ suoi grand’occhi
morati, e così stette per un momento immobile e silenziosa. Non aveva per anco ricuperato il pieno esercizio
delle facoltà mentali: il deliquio le incombeva ancora sul cervello.
Ma fu un affare di pochi secondi.
D’un tratto gettò un acutissimo
grido dalla bocca socchiusa e si alzò a sedere sul letto, incrociando le
braccia sul seno per sottrarlo pudicamente agli sguardi dell’eremita, che la
bruciavano.
— Dove sono, mio Dio, dove sono? —
domandò piangendo.
— Non temere, fanciulla, le rispose fra
Pasquale, sei in casa tua: qui sei padrona e regina.
— No, no. Lasciatemi — gridò la giovinetta invasa
dallo sgomento, e tentò di balzare dal letto. .
Ma il frate la trattenne avvincendola
solidamente fra le sue braccia.
Allora incominciò una lotta
formidabile, fra la fragile creatura che difendeva il suo pudore, con energia
disperata, e l’osceno eremita, che dominato dalla passione bestiale, non aveva
più nulla d’umano, neppure il volto velloso e reso adusto dal sole.
Vinse il pudore.
Discinta, coi capelli sciolti sul capo
e sul petto, col viso madido di sudore e di lagrime, la giovinetta, riuscita a
svincolarsi, s’era messa a ginocchioni ed abbracciava le gambe dell’eremita,
supplicando:
— Lasciatemi, padre, lasciatemi, o ne
morrò.
E veramente il suo parossismo era
giunto a tale, che faceva temere, non foss’altro, per la sua ragione.
Fra Pasquale comprese, che quella
fanciulla ridotta in così disperate condizioni d’animo, non le avrebbe
procurato alcun godimento, e, siccome non intendeva di rinunciarvi, mutò
tattica.
Si finse dolente dell’accaduto, pentito
del suo eccesso e ne chiese scusa alla giovinetta colle più dolci,
più insinuanti, più umili parole. Era stato un delirio momentaneo. Aveva voluto farla rinvenire e guarirla. La vista di tanta bellezza l’aveva reso
dissennato. Se non otteneva il suo
perdono sarebbe morto dannato. Tutto
quel tanto di vita che gli rimaneva, non sarebbe bastato, pur infliggendosi
patimenti d’ogni genere, ad espiare.
La fanciulla rialzata, ricoperta co’
suoi vestiti, man mano si rinfrancò e, ingenua com’era, credette alla
mendace parola dell’astuto eremita, il quale spinse l’ipocrisia fino a farla
inginocchiare al suo fianco sulla stuoia, dell’altro compartimento, innanzi al
crocifisso e a dichiarare che gli perdonava di cuore il suo trasporto.
Ricuperata la fiducia, la fanciulla non
esitò a confessare il motivo che l’aveva guidata colà. Aveva un amante che la doveva sposare. Era partito da parecchio e ancora non le aveva
dato nuova di lui. Desiderava di sapere
che cosa era accaduto; se il suo Felicino le volesse sempre bene, se sarebbe
tornato, se l’avrebbe sposata per davvero. Le avevano detto che quivi si trovava un
eremita, un sant’uomo che avrebbe potuto farle conoscere tutto ciò, ed
aiutarla, pure, a conseguire ciò che ardentemente bramava. Perciò era venuta.
Ma mentre scendeva dalla china una voce
le diceva di non farlo: aveva voluto tornare sopra i suoi passi, era caduta e
da quel momento non sapeva più nulla.
Fra Pasquale la confortò. Finse di consultare certi vecchi libri che
teneva nel laboratorio; poi trasse una boccia, la riempì d’acqua e
lasciandovi cadere goccia a goccia da una fialetta un liquore verdastro che
formava delle spire opaline e si scioglieva lentamente, le palesò
ciò che diceva aver tratto da’ suoi esperimenti.
Il suo amante l’avrebbe sposata,
l’amava ancora, ma un’altra donna voleva rapirle il suo affetto: era necessario
neutralizzare gli sforzi di quella donna.
— Mio Dio, come fare? chiedeva la
povera creatura, torcendosi le mani, addolorata e piangente.
— Rasserenati e confortati, bimba mia. Io ti darò un filtro, bevendo il quale,
il tuo amante prenderà in orrore la tua rivale.
— Costerà di molto? —
domandò l’ingenua giovinetta, portandosi le mani alle orecchie, per
togliersi gli anelloni d’oro che le adornavano.
— Costa di molto sicuramente — rispose
l’eremita; ma io te l’offro, senza spesa, in espiazione del mio fallo.
E tratta una boccetta, che teneva
riposta, ne bevve una metà e ne porse il resto alla fanciulla che,
così rassicurata, la tracannò d’un fiato; era un sonnifero
potente, misto ad un afrodisiaco non meno gagliardo. Poi la congedò, conducendola fin sul
limitare della capanna. La fanciulla
attraversò la valletta, lesta come una gazzella, e s’inerpicò sul
sentiero fatale, d’ond’era caduta.
Intanto Fra Pasquale rientrato nel
laboratorio s’affrettava a prendere per antidoto del sonnifero alcune
cucchiaiate di caffeina. Quanto
all’afrodisiaco, pensò che gli avrebbe giovato anzicché nociuto. Quindi si avviò dietro alla giovinetta.
La trovò adagiata alla
sommità della discesa, sopra un tappeto di musco, e presala sulle bracia
un’altra volta, senza che desse un segno di vita, la riportò sul letto,
dove aveva tentato poco prima di violentarla.
La fanciulla non uscì dalla
capanna che all’indomani mattina. Era
irriconoscibile. Pareva disfatta. Una rosa divelta dallo stelo dall’imperversare
della bufera, e calpestata, avrebbe solo potuto dar un’idea di lei.
Era trascorso un mese circa dal
misfatto compiuto da Fra Pasquale, quando una mattina capitò alla
capanna un giovanotto sui venticinque, vestito alla campagnuola e mostrando uno
scudo, chiese all’eremita una medicina per guarire sua madre, da una forte
colica che l’aveva presa.
Fra Pasquale pose a bollire alcune
fronde secche, tolte dall’erborario, in una ampolla di vetro. Ma, mentre soffiava sulle braci per ravvivare
il fuoco, si sentì afferrato per il collo e rovesciato al suolo.
Non ebbe campo di porsi sulle difese,
perché sempre serrandolo con una mano alla gola, il giovanotto, gli
saltò sul petto con un balzo da gatto selvatico, e premendoglielo colle
ginocchia, per tenerlo fermo, lo strozzò.
Compiuto l’assassinio, il giovanotto
andò a consegnarsi al bargello di Collevecchio. Confessò il suo delitto. Eretto il processo fu condannato e, come
dissi, il 7 luglio io l’impiccai.
Era Felice Rovina, l’amante della fanciulla
stuprata, la quale al suo ritorno l’aveva reso edotto dell’onta subita.
Informato della cosa, poco dopo
l’arresto del Rovina, Monsignor Fiscale, mandò da Roma a perquisire la
capanna di fra Pasquale e per tal modo giunse a cognizione di tutto, e colle
dovizie trovatesi si pagò ad usura e della taglia pagata pel Perilli e
delle susseguenti elargizioni.
Continuo il corso cronologico delle mie
«operazioni» colla 56ma, che eseguii in Viterbo il 18 dicembre 1802,
mediante la forca, in persona di Domenico Guidi, al quale fu intimata la
sentenza di morte alle 22 per le 23, rarissimo esempio nella storia della
giustizia papale, che soleva lasciar sempre al reo il tempo per pentirsi e
provvedere alla salvezza dell’anima sua.
Era costui un giovinotto di venticinque
anni pazzamente innamorato di una fanciulla benestante, appena quadrilustre.
I suoi amori erano stati sempre
contrastati dai parenti della ragazza; ma questa gli voleva un bene dell’anima
e non c’era stato verso di distoglierla dal suo divisamento di sposarsi il
Guidi, volendo o non volendo i suoi genitori.
Si vedevano di notte in una stalla, in
casa della fanciulla, nascostamente di tutti, dove l’amante s’introduceva di
soppiatto e restando per ore ed ore in attesa.
La relazione fra i due continuava da
parecchio con reciproca soddisfazione. Ma un giorno Pepita, tale il nome della
donzella, fu avvertita dalla madre che suo padre l’aveva promessa in isposa a
un campagnuolo, ricco ed anziano, ma fornito di molti beni immobili e di denaro.
— Siete matti? — gridò
spaventata la giovinetta — io non isposerò il vostro burrino
quattrinaio, nemmeno se m’aveste ad ammazzare.
— Perché? — le domandò
dolcemente la madre.
— Perché. . . perché. . . perché non voglio sposare. Voglio restar zitella.
— Pepita, bada: tuo padre non ischerza.
Vuole questo matrimonio assolutamente:
se ti opponi t’incoglierà male.
La fanciulla non aggiunse verbo: non si
mostrò né assenziente, né dissenziente. Per cui la madre la giudicò non lontana
dall’arrendersi alla volontà paterna, e disse al marito: «Lasciamola
stare per qualche giorno. Combatte le
ultime ripugnanze».
Pepita alla sera si trovò al
solito convegno coll’amante e le prime parole che gli rivolse furono queste:
— Portami via.
— Perché? — chiese stupefatto Domenico
Guidi.
— Portami via, se no mi uccido.
— Ma dimmi almeno in nome di Dio che
cos’è avvenuto per determinarti a questa rischiosa proposta. Fummo scoperti?
— No.
— Dunque?
— Dunque, mio padre vuol maritarmi a
tutti i costi. E quando s’è fitta
in testa una cosa non è uomo da lasciarsi rimuovere dal proposito.
— Tua madre?
— È troppo debole per
resistergli.
— Tuo fratello?
— È avido di danaro quanto e
più di mio padre: lo sposo è ricco.
— Fanno conto di spogliarlo?
— No. Ma tu capirai che dove ce n’è ne gronda.
— Perfettamente. Ma dove ti devo condurre? Se restiamo a
Viterbo saremo subito scoperti. .
— Bell’affare.
— E d’altra parte, lasciando il paese,
dove ti condurrò, come troverò da mangiare per me e per te?
— Lavoreremo.
— Non sarà la voglia che mi
mancherà. Ma ci vorrà del
tempo prima di trovar da occuparci. E
intanto?
— Ci penserò io. Ho dei gioielli, ho della roba, ho pure
qualche scudo da parte.
— Quand’è così, decidi tu.
Io son pronto.
— Bisogna far presto.
— Questa sera, no, credo?
— Domani.
— E sia.
Per quella notte amore fu lasciato in
disparte. I due giovani s’accomiatarono
tosto. Pepita tornò su in casa,
Domenico uscì, ma nell’uscire gli parve di aver veduta un’ombra fuggire
sulla muraglia illuminata dalla luna. Ne
fu un po’ scosso e stette qualche minuto in ascolto. Non vedendo nulla, mormorò:
— Mi sarò ingannato.
E uscì lesto dallo sportello del
portone chiuso.
La sera susseguente, Domenico giunse
più sollecito del consueto all’appuntamento, e vi trovò Pepita
già pronta con due enormi involti di roba. .
— Dove vuoi portarli? — le
domandò il Guidi, evidentemente imbarazzato.
— Con noi.
— Ma se incontriamo dei birri, saremo
presi per ladri, ci interrogheranno, dovremo declinare i nostri nomi e allora,
addio fuga.
— Pure è necessario, se abbiamo
a campare.
Il giovanotto si rassegnò, per
amor della sua ragazza, a correre l’alea d’un arresto.
Prese i due involti fra le braccia e si
avviò all’uscita. Ma mentre stava
per entrare nel vestibolo della porta si sentì afferrare pel collarino e
una mano armata di coltello si levò sopra di lui e cadde replicatamente
per ferirlo. Fortunatamente gli involti
gli paravano i colpi e non ebbe a toccare che una lievissima quasi
impercettibile scalfittura al collo.
Però vedendo che l’incognito
assalitore gli attraversava la via di scampo e non pareva disposto a lasciarlo,
trasse di tasca il coltello e fatta scattare la molla, per assicurare la lama,
si pose sulle difese. I due involti
intanto erano caduti al suolo.
Le due lame s’incontrarono; quella di
Domenico Guidi, deviata con abile e pronto movimento quella dell’avversario,
entrò nel collo a questi fino al manico.
Guidi si sentì uno spruzzo di
sangue caldo bagnargli il volto e intanto vide il corpo del suo antagonista,
prima barcollare, poi cadere.
Pepita s’era trattenuta nella stalla
per lasciare il tempo all’amante d’uscire cogli involti. Dopo pochi minuti attraversò il cortile
dirigendosi verso alla porta.
Il cielo era annuvolato ed era buio. Ma un raggio di luna fendendo le nubi in
quell’istante, illuminò la scena sanguinosa.
— Sciagurato — esclamò
l’infelice reprimendo la voce — hai ucciso mio fratello!
Indi chinatasi, raccolse i due involti
e con essi scomparve nella stalla.
Guidi si passò la mano sulla
fronte, quasi volesse cacciare un sogno molesto. L’umidiccio del sangue, ond’era soffuso, lo
richiamò subito alla realtà delle cose e si diede a fuggire
disperatamente, senza meta.
D’un tratto si sentì afferrato
da quattro robuste braccia e una voce brusca ed imperiosa, gli domandò:
— Siete ferito. Dove vi siete accoltellati?
Nessuna risposta egli diede.
Allora i due birri che lo avevano
arrestato, gli tolsero il coltello di mano, tuttora fumante di sangue, gli
legarono strettamente i polsi e lo portarono alle carceri di città.
Il suo spirito avea frattanto
ricuperato un po’ di calma, e così potè architettare il suo
sistema di difesa.
Sottoposto dal bargello ad un primo
interrogatorio dichiarò che s’era imbattuto per via in un ubbriaco, il
quale, stava per cascargli addosso. Egli
lo redarguì e quello gli si fece sopra col coltello aperto, per menargli.
Aveva dovuto difendersi. S’era sentito spruzzare sul volto il sangue
dello sconosciuto ed era fuggito. Dell’altro non sapeva che fosse accaduto.
Invitato a precisare il luogo dello
scontro titubò alquanto e così suscitò dei dubbi al
bargello sulla veridicità del suo racconto.
Il bargello lo fece chiudere nella
cella più sicura, quindi andò egli stesso con due carcerieri in
giro per la città, ad assumere informazioni.
Essendo di notte, nulla poté
raccogliere e dovettero tornarsene alle carceri, senza aver nulla scoperto.
Pepita, affranta dal dolore, s’era
frattanto ritirata nella sua camera e disfatti gli involti aveva riposto ogni
cosa, e curato che sparisse ogni traccia della sua tentata fuga.
Fu una notte terribile per lei. Avrebbe voluto trovar modo di scendere per
soccorrere il fratello, se fosse ancor vivo, ma temeva di destar sospetti, dai
quali sarebbe forse scaturita la verità del delitto e la persona del
delinquente.
Ad ogni tratto tendeva le orecchie per
udire se qualche rumore le giungesse, dal quale le fosse dato arguire se il
ferimento del fratello fosse stato scoperto.
Ma il silenzio più profondo
regnava nella casa, ed estenuata moralmente e fisicamente, finì
coll’addormentarsi sull’albeggiare. Poco
dopo un gran fracasso la svegliò. Tutta la casa era sossopra: si udivano voci
confuse e imprecazioni e lai. Un
famiglio aveva trovato nell’androne della porta il cadavere già
irrigidito del figlio del padrone ed era corso a darne avviso al padre. La triste nuova si era diffusa in un baleno
per ogni dove, e d’ogni dove accorrevano i curiosi per «vedere il morto» e per
saper qualche cosa dell’omicidio.
La giustizia informata intervenne pure
e mandò a raccogliere i particolari del fatto. I giudici associarono tosto il delitto al nome
di Domenico Guidi, arrestato appunto verso quell’ora in cui doveva essere
seguito il delitto. E questi fu portato
al cospetto della salma. Ma egli
sostenne imperturbabilmente quella vista: non un muscolo del suo volto
subì una contrazione; il suo polso accuratamente tastato, non diede un
battito di più.
Si fecero delle indagini per scoprire
se qualche rapporto fosse interceduto fra l’ucciso ed il supposto uccisore e ne
risultò nemmanco che si fossero conosciuti. La tresca fra la ragazza ed il Guidi era stata
così abilmente condotta, che non ne era trapelato nulla. E a nessuno passò manco per la mente
che vi potesse essere qualche punto di contatto fra Pepita e l’assassino di suo
fratello. In una parola mancò
alla giustizia il filo conduttore che la portasse alla scoperta dell’autore del
misfatto.
L’ucciso era un bel giovane, aitante
della persona, ben proporzionato e piacevole. Aveva anco fama di fortunato in amore. Si venne alla conclusione che il delitto
doveva essere il portato di una vendetta personale. Qualche marito oltraggiato, aveva fatto il
colpo, colla massima cautela, per rifarsi dell’onta patita. Il processo rimase aperto. Pepita intanto, accasciata dall’angoscia,
aveva voluto entrare in un chiostro di clausura, per fare il suo noviziato e
invano tentarono d’opporsi il padre e la madre. La perdita del fratello in così atroce
modo avvenuta giustificava la sua determinazione. L’autorità non le rifiutò il suo
appoggio.
E per tal modo la fanciulla addolorata
poté sottrarsi ad ogni pericolo e ad ogni seccatura.
Domenico Guidi restava in prigione.
La giustizia non aveva potuto in verun
modo assodare che esistesse una correlazione fra il misterioso assassinio e la
sua fuga per le vie di Viterbo, nella stessa notte, insanguinato e armato di
coltello. Ma nell’animo del giudice
inquirente era radicato il convincimento che siffatta correlazione doveva
esistere, e però decise di trattenerlo in carcere, finché il caso, o un
accidente purchessia, fosse venuto a porgere un indizio, mediante il quale
fosse dato riprendere l’istruzione del processo e dipanare l’arruffata matassa.
Gli erano stati dati per compagni di
cella degli spioni abilissimi, col mandato di estorcergli qualche confessione,
qualche mezza confidenza, qualche imprudente rivelazione, sull’esser suo, sulle
sue gesta, sui rapporti con terzi, e toccavia. Ma Domenico Guidi, o lo sapesse, o lo
sospettasse, rimase ermeticamente chiuso in se stesso. Fu tormentato con improvvisi interrogatori di
giorno e di notte, nella cella e fuori. Si adoperarono suggestioni d’ogni maniera e
riuscirono frustate.
L’inquirente aveva tenuto calcolo dei
più minimi particolari e studiato tutti i versi per edificare un dramma,
il cui epilogo fosse l’assassinio per opera del Guidi, e la sua fantasia si era
esaurita senza raggiungere il suo intento.
Quand’ecco un giorno giungergli la notizia
che Pepita, chiusa nel chiostro delle Clarisse, era stata riconosciuta gravida.
Senza por tempo in mezzo, si reca al
convento, ottiene di parlare alla superiora, e la interroga se credesse
possibile che lo scandalo fosse avvenuto nel monastero. Ma questo venne assolutamente escluso. La vita claustrale era mantenuta con tale
rigidità, che nessun trasporto, né estraneo, né interno, potevano aver
le novizie e le monache con persone d’altro sesso.
Doveva dunque essere avvenuto prima
della sua entrata.
Il giudice assunse altre informazioni
in casa di Pepita e la madre della fanciulla accasciata dalla notizia dello
stato in cui si trovava sua figlia, gli narrò il progetto del matrimonio
fatto da suo marito per Pepita e le ripulse della fanciulla quando glie lo
comunicò.
Questo fu un raggio di luce per
l’inquirente.
Tornato al proprio ufficio e chiuso
nella solitudine del suo gabinetto, con lunga e profonda meditazione
riuscì a ricomporre la trama del delitto.
A notte alta si fa condurre innanzi
Domenico Guidi e, rimasto solo con lui, così l’abborda:
— Ho una notizia a darvi: Pepita la
vostra amante è stata riconosciuta gestante.
La lampada posta sullo scrittoio
dell’inquirente proiettava sopra di lui la luce; il giudice invece, coperto da
un paralume di seta verde, restava all’ombra e studiava attentamente sul volto
dell’imputato l’effetto delle sue parole. A quell’uscita il colore del Guidi s’era fatto
cadaverico.
— Persisterete a negare — riprese il
giudice collo stesso tono di voce aspro e secco — d’aver ucciso il fratello
della vostra ragazza?
Guidi non rispose.
— Ben più consigliata di voi,
Pepita ha confessato tutta la verità, nulla occultando alla giustizia,
né della vostra tresca, né del progetto di matrimonio, concepito da suo padre e
comunicatole dalla madre e da lei respinto, né delle conseguenze che ne
scaturirono.
L’imputato pareva fulminato: le sue
forze morali erano paralizzate e le fisiche del pari. Credeva tutto scoperto e si sentiva morire.
— Domenico Guidi — continuò il
giudice, dando alla sua voce un’inflessione meno severa e parlandogli in modo
quasi paterno — la sincerità solo può migliorare la vostra sorte,
attenuare la gravità del delitto.
L’imputato cadde nel laccio e, sperando
di sfuggire al patibolo, del quale gli pareva rizzarsi l’immagine innanzi a
lui, balbettò:
— Fu per legittima difesa.
— Lo so. Foste sorpreso. . .
— E replicatamente colpito. Se non erano i due involti di Pepita nei quali
si affondò la lama del suo coltello l’ucciso sarei stato io.
Quella rivelazione dei due involti
aprì la mente del giudice. Li
aveva dati all’amante Pepita. Che cosa
potevano contenere? Certamente i suoi effetti. A quale scopo? Per portarli con sé. Era dunque a una fuga che si erano preparati. L’assassinato aveva colpito il Guidi? La
sorpresa risultava evidente.
— Dove intendevate di portar Pepita,
dopo la fuga? — domandò il giudice a bruciapelo.
— Non lo so. La cosa era stata così improvvisa, che
non avevo avuto tempo di pensare a nulla. Si voleva andar via da Viterbo. Saremmo usciti di città per andar poi
lontano.
— Col fardello della roba che Pepita
portava con sé, non è vero?
— Io non possedevo mezzi. Fu lei che lo volle. Mi disse che avrebbe portato con sé la sua
roba. Null’altro che la sua roba.
L’idea di esser ritenuto complice di un
furto domestico, per parte della ragazza, ripugnava al Guidi più dello
stesso delitto di sangue che aveva commesso.
Man mano, l’abilissimo inquirente,
sempre fingendosi già informato di tutto, dalle supposte rivelazioni di
Pepita, trasse di bocca al prigioniero tutti i più minuti particolari
del fatto, dall’inizio delle sue relazioni colla fanciulla, fino alla sua fuga
disperata, dopo aver assassinato il fratello. Emerse così chiaro che questi aveva
avuto cognizione della tresca della sorella e che la vigilava, per modo, che
non potesse andar a monte il progettato di lei matrimonio.
Ottenuto un così grande, quanto
insperato successo, l’inquirente licenziò il Guidi, esortandolo a
confermare al domani innanzi al consesso giudicante, le sue confessioni e
facendogli intravedere la possibilità di una mite condanna e della
grazia fors’anco.
Il giorno seguente il reo ripetè
la sua confessione ampia: quindi fu fatto ricondurre in carcere. Il tribunale, per evitare uno scandalo,
trattandosi di una fanciulla chiusa in un chiostro, sorvolò nella
motivazione della sentenza ai fatti antecedenti e condannò il Guidi alla
forca per omicidio.
E la condanna ebbe subito corso, come
avvertii.
Quando Guidi, giunse ai piedi del
patibolo, era più morto che vivo. L’intimazione della sentenza lo aveva
siffattamente colpito, mentre era così lontano dall’aspettarla, che non
proferì più verbo. Aveva
perduta la favella.
Dovetti portarlo su di viva forza per
la scala, mentre il mio aiutante lo sorreggeva per le gambe.
Il 30 marzo del 1805 dovetti recarmi a
Fermo, l’antica capitale delle Marche, per impiccarvi un giovane di buona
famiglia che aveva commesso un assassinio ed uno stupro: l’assassinio in
persona del padre dell’ex sua promessa sposa, lo stupro in persona di lei
medesima. Luigi Masi era il suo nome.
Di carattere estremamente violento, si
era innamorato di Elvira Placenti, figlia di un merciaio che teneva negozio in
piazza di Fermo, e dopo averla per parecchio tempo corteggiata le chiese in
isposa al padre, il quale acconsentì, a patto che prima del matrimonio
si procurasse una posizione stabile. La
fanciulla era esperta quanto leggiadra, e avrebbe potuto benissimo, dopo la sua
morte, condurre da sé il negozio. Voleva
quindi che il marito avesse un’altra occupazione.
Luigi, apparteneva, come dissi, ad
agiata, ma numerosa famiglia e non poteva fare assegnamento sul solo asse
paterno per vivere. D’altronde aveva fama
di dissipato e gozzovigliatore. Il tempo
e la moglie l’avrebbero emendato, e di farlo egli solennemente prometteva. Ma il padre d’Elvira, che era vedovo, ed aveva
quell’unica figlia voleva assicurarle la felicità, perché l’amava come
la pupilla degli occhi suoi.
Il Masi, innamorato, promise tutto
quello che vollero l’Elvira ed il suo genitore; ma si guardò bene dal
fare quello che aveva promesso. Però siccome anche la fanciulla era
innamorata di lui, su questo capitolo si sarebbero accordati.
Luigi le prodigava tenerezze infinite e
le dava prove continue di verace affetto. Però, soffriva di gelosia. E questa a poco a poco diventò un
tormento pei due promessi. Stando in
negozio, bella com’era, aveva naturalmente degli adoratori, ai quali non
corrispondeva punto, ma che non poteva cacciar fuori di bottega quando
v’entravano col pretesto di fare degli acquisti.
Di qui una quantità di litigi
per parte del Masi, col futuro suocero, colla promessa sposa e cogli avventori,
ch’egli aveva presa la mala abitudine di provocare. Il padre diceva quindi ad Elena:
— Figliuola mia, Masi non fa per te,
bisogna licenziarlo, se no un giorno o l’altro, va a finir male.
La povera fanciulla ne soffriva;
comprendeva la ragionevolezza delle opposizioni del padre, ma voleva bene al
suo Luigi e non sapeva decidersi a staccarsi da lui. E ripeteva al padre:
— Lo vorrei sposare: una volta che
saremo moglie e marito si cheterà.
Ma il padre non voleva saperne.
Risaputo un giorno che un giovane del
paese aitante della persona, simpatico, intraprendente, mentre egli era andato
a caccia, s’era trattenuto lungamente nel negozio della sua promessa, Luigi
andò a farle una scena terribile e nel bollore dell’ira alzò le
mani sopra di lei e sopra del padre, gridando:
— Sciagurati! Se credete d’ingannarmi
v’ammazzo tutt’e due.
Quindi uscì dal negozio, innanzi
al quale s’era addensata la folla, chiamata dal chiasso, andò
direttamente dal giovane per provocarlo. Quegli cercò sulle prime di schermirsi
e di dissipare i dubbi gelosi, sorti nella mente del Masi; ma questi avendolo
apostrofato col titolo di vigliacco, reagì.
Trassero entrambi i coltelli e si
fecero un sopra l’altro. Erano entrambi
vigorosi e d’animo invitto e la scena sarebbe finita male, se per buona sorte,
alcuni amici coraggiosi, non si fossero frapposti in tempo per evitare una
catastrofe, mentre i due contendenti non erano riusciti che a prodursi delle
lievi scalfitture.
Ma lo scandalo destò un’eco
profonda in tutto il paese. Il principe
arcivescovo, mandò a chiamare il padre di Elvira, e lo ammonì
perché facesse in modo di troncare la relazione fra la sua figliuola e il Masi.
Entrambi, del resto, s’erano già
decisi ed il promesso venne licenziato definitivamente.
Tentò il Masi più volte
di far la pace e di riaccostarsi all’Elvira, anco all’insaputa del padre. Ma non vi riuscì, perché la fanciulla
s’era disgustata e forse già pullulavano nel suo cuore i germi di un
novello amore. Luigi seppe infatti che
il giovanotto col quale aveva tentato di fare a coltellate, frequentava di
soppiatto la casa di Elvira. E allora
decise di vendicarsi non di lui, ma dell’ex promessa e di suo padre.
Una sera, sull’imbrunire, Elvira e il
Placenti ritornavano da Porto, ove avevano passata metà della giornata,
a Fermo, salendo la costa che vi conduce. Giunsero a mezza via che era notte fatta,
essendosi di soverchio indugiati. Il
silenzio regnava profondo di ogni intorno. Ad uno svolto della strada, videro un’ombra
appostata che al loro avvicinarsi si alzò e all’incerto luccicare delle
poche stelle, riconobbero Luigi Masi. Il
cuore presago avvertì il padre che un pericolo era imminente e spinto
dall’affetto mosse innanzi alcun passo per far schermo alla diletta figliuola.
All’infuori dei tre non v’era anima
viva.
Masi si gettò fulmineo sul
vecchio e colpendolo replicatamente, col coltello al petto lo stese morto al
suolo. Quindi con pari rapidità
afferrata l’impaurita fanciulla la ferì due volte o tre volte,
lievemente perché la mano gli tremava, commosso com’era dalla passione d’amore.
— Giggi mio, lasciami la vita — gridava
l’infelice Elvira.
La sua voce toccante, mutò il
corso delle idee del forsennato. Volle
possedere quella fanciulla adorata e abbracciandola a mezza vita, ad onta delle
di lei energiche resistenze, l’addossò alla rupe, nella quale è
tagliata la strada e violentemente l’ebbe.
Arrestato la notte stessa, Luigi Masi
confessò il suo delitto, cercando di giustificarlo coll’accecamento
della passione. Ma per quante influenze
ponesse in giuoco la sua famiglia, non potè sottrarlo al supplizio della
forca alla quale fu condannato.
Morì pentito e munito dei
conforti religiosi, ma non senza coraggio.
Questo processo singolare me ne
rammenta un altro che ebbe luogo in Roma pochi mesi appresso, del quale
dirò brevemente, dopo aver menzionate le esecuzioni che operai fra l’uno
e l’altro.
Avvertii già come l’imperversare
del malandrinaggio alle porte di Roma inducesse l’autorità ad una
sorveglianza molto più attiva. Vennero
infatti colti sullo scorcio di maggio dai birri di campagna fuori di Porta
Angelica, nei pressi di Monte Mario, i due grassatori Filippo Mazzocchi e
Giuseppe Guglia, che io impiccai a Ponte Sant’Angelo e squartai il 10 giugno;
Nicola Alicolis, che impiccai e squartai io stesso il 1° ottobre alla Merluzza
e Santino Moretti, parimenti condannato alla forca, poi allo squartamento. Questa esecuzione l’operò il giorno
medesimo il mio aiutante al Ponticello, fuori di Porta San Paolo, essendo io
occupato alla Merluzza. Nel frattempo io
ero stato il 4 settembre a Iesi per impiccarvi il fratricida Sebastiano Spadoni
e il 23 pur di settembre a Civitavecchia, per impiccarvi Luigi Giovansanti, un
forzato che aveva ucciso nel bagno un altro forzato.
Il giorno 9 ottobre compii, dunque,
un’altra esecuzione, che destò grandissimo rumore per il movente del
delitto, l’amore e la gelosia, come per il Masi di Fermo, e per l’autore del
misfatto, Gioacchino quondam Bernardino Rinaldi, abbacchiaro ne’ pressi
di Campo de’ Fiori. E appunto a Campo
de’ Fiori, per esemplarità maggiore, ebbe luogo il supplizio.
Gioacchino Rinaldi era uomo sulla
quarantina, piuttosto inoltrata. Rozzo
della persona, della fisonomia e delle maniere, ma molto ben provveduto di roba
e quattrini, aveva condotto in moglie una bellissima ragazza di Trastevere, di
nome Giacinta, la quale aveva ceduto alla volontà de’ parenti,
più che alla sua inclinazione, sposandolo.
Giacinta non sentiva una decisa
avversione pel marito, lo tollerava, ad onta della sua bruttezza e gli si
mostrava grata per le finezze che le prodigava: abiti costosissimi, gioielli
preziosi, e quanto al trattamento alimentare: bocca che cosa vuoi? Ad onta
della provetta sua età Gioacchino era ancora robusto e fervente nelle lotte
genetiche. Tanto che la sposa gli era
uscita quasi subito gravida. Una donna
che avesse avuto soltanto degli appetiti materiali, avrebbe potuto appagarsi ed
essere felice con lui.
Disgraziatamente Giacinta sapeva
d’essere bella, poiché glie l’avevano detto mille volte i più simpatici,
garbati e galanti giovanotti di Trastevere.
I suoi occhi mori, tagliati a mandorla
a volte languidi e irrorati, stillanti di voluttà, a volte fosforescenti
e saettanti di passione; la sua piccola bocca rossa, sanguigna, fra le cui
labbra spiccavano denti candidi, aguzzi come quelli di un sorcetto, fatti per
dar baci e morsi, dolci del pari; il suo bel viso ovale, dalla pelle
bruno-dorata, più morbida del velluto; il suo collo rotondo e
grassottello; la sua testa vezzosa, dai capelli neri e ricciuti; le sue piccole
orecchie rosee e diafane, incitanti a sussurrarle soavi parole d’amore; la sua
superba persona, slanciata, snella e pur densa e pasciuta, dal petto
torreggiante, dalle anche poderose ed ondeggianti nell’incedere; le sue mani
bianche e levigate; i suoi piedi arcuati e duttili, avevano già
suscitati desideri cocenti e provocate delle dichiarazioni alle quali non era
rimasta sempre insensibile. Molti
minenti e molti paini le avevano fatto una corte assidua esaltando il suo
spirito, già per natura mobile e fantasioso.
Anche nella bottega del marito non le
mancavano gli adoratori. Ma forse non
sarebbe venuta meno ai suoi doveri di moglie se il Rinaldi non avesse commesso
l’errore di metterle accanto per garzone un giovinetto biondo, roseo, dagli
occhi cerulei; una specie di cherubino in grembiale bianco, spesso chiazzato di
sangue e sparso di penne di polli e di gallinacci. Questi incominciò a farle lo spasimante.
Giacinta ne rise sulle prime. Ma poi, nelle lunghe ore in cui restava sola
con lui, mentre il marito andava fuori per le compere, incominciò ad
ascoltarlo per rompere la noia, e, travolta dalla passione, finì per
darglisi, là nel negozio stesso, colle imposte socchiuse, nelle ore calde
del giorno, e alla sera, mentre attendeva il ritorno di Gioacchino. Amore è imprudente di sua natura e in
breve la tresca della bella abbacchiara col garzone, fu nota non solo ai
bottegai, ma ben anco a tutte le serve, che frequentavano Campo de’ Fiori. Solo ad ignorarla era il marito.
Ma ci fu chi si prese il triste
incarico di avvertirlo, con una lettera anonima, nella quale gli si fornivano
tutte le indicazioni particolari per sorprenderla.
L’abbacchiaro che non aveva mai avuto
neppure il più piccolo sintomo di gelosia e che attendeva con ansia il
giorno in cui la Giacinta gli avrebbe dato un figlio, fu terribilmente colpito
dall’annunzio fatale. Tutta la sua
felicità era distrutta: l’avvenire non esisteva più per lui. Il frutto che la sua donna portava in seno
forse non era suo. Nella sua casa, se
non l’avvertivano, sarebbe entrato un bastardo. E se era suo, chi gli avrebbe potuto togliere
il dubbio straziante? Bisognava finirla. Uccidere l’amante, la moglie e il suo portato.
Uscì, dicendo che sarebbe
tornato a sera tarda. Invece
sull’imbrunire s’appostò in luogo dove poteva vedere ciò che
succedeva in negozio.
Quando la gente incominciò a
diradarsi sulla piazza e nella sua bottega fu acceso il lume, vide Giacinta e
il garzone che si scambiavano delle moine e delle tenerezze. Poi il garzone s’avanzò sul limitare
del negozio, diede un’occhiata di fuori e chiuse le imposte, lasciando aperto
uno spiraglio, d’onde filtrava un filo di luce.
Gioacchino frenò la propria
impazienza, e attese altri cinque minuti, che gli parvero, nell’angoscia
disperata in cui versava, cinque secoli. Poi attraversò la strada e irruppe nel
negozio come una bomba.
I due amanti erano là, nel
fondo, abbracciati, deliranti. Il
Rinaldi non aveva pensato a munirsi del coltello, ma ne trovò uno sul
banco: l’afferrò, e avanti che potessero rinvenire dalla sorpresa
terribile, sgozzò prima il garzone, come un abbacchio, recidendogli
quasi la testa, poi l’immerse reiteramente nel petto e nel ventre della sua
donna, perché voleva distruggere lei ed il feto. E i feti erano due! Alle grida dei morenti,
accorsero i passanti, quindi le guardie, le quali arrestarono il Rinaldi, che
pazzo di furore continuava a menar coltellate nel ventre alla moglie, come
l’amante, già estinta.
Eretto il processo, Rinaldi
confessò tutto, non mostrandosi punto pentito del suo misfatto, anzi
affermando d’essere felicissimo di aver ucciso la moglie e i due bastardi che
portava nel ventre. Condannato alla
mazzolatura ed allo squarto, non volle conforti religiosi e morì
stoicamente.
Una mattina di dicembre, fredda ma
bella, entrava in una osteria di Porto Recanati un uomo sui trentacinque, dalle
forme atletiche, con lunga barba castano rossiccia fluente sul petto e lunghi
capelli spioventi sulle spalle naturalmente inanellati; vestiva di velluto
marrone alla cacciatora, con grandi stivali di pelle che gli salivano sin oltre
il ginocchio; una larga cinta pure di pelle gli cingeva la persona e un
fazzoletto di seta rosso il collo. Un
cappello molle ad ampia tesa, gli ombreggiava il volto maschio ma bello, e
sotto le folte sopracciglia dardeggiavano due occhi di falco, neri a volte, a
volte gialli e iridescenti.
Portava il fucile sulle spalle; ma non
avea cani con sé. Dopo aver data una
rapida occhiata nel primo ambiente del locale, passò nel secondo, e fece
altrettanto, quando uscì dalla porta posteriore che dava sopra una
stradicciuola deserta, un rezde-chaussée, come dicono i francesi, e
guardò nella via.
Finalmente rientrò, soddisfatto
del suo esame, a quanto parve, poiché battendo sulla spalla dell’oste, che
aveva seguito un dietro l’altro i suoi passi, gli battè famigliarmente
sulla spalla dicendogli:
— Oste di Satanasso, avrai bene da
darmi da mangiare: ho una fame da arrabiato e ti assicuro che mangerei ancora
la tua carcassa, se non m’avesse l’aria d’essere tigliosa, come quella di un
vecchio caprone.
L’oste sorrise beatamente. Forse aveva in serbo qualche cadavere
quattordicenne di animale più o meno domestico e pensava essere venuta
la buona occasione per disfarsene, traendone lauto compenso.
— Bada però, ripigliò
l’incognito, che la fame non esclude il gusto, che se mai avessi qualche
vecchio gatto scorticato e ti promettessi di ammannirmelo, avresti sbagliato i
tuoi calcoli.
L’oste ne fu sgomento.
— Che sia proprio il diavolo in persona
costui? — si chiese mentalmente — ha indovinato il mio pensiero.
L’esitanza dell’oste persuadeva sempre
più il cacciatore, che questi aveva delle perfide intenzioni a suo riguardo.
Lo prese quindi delicatamente per un
orecchio e gli intimò:
— Portami in cucina.
— A quest’ora non c’è nulla di
pronto ancora — balbettò l’infelice — ma posso servirvi da principe se
avete un po’ di pazienza.
E si diede a chiamare a squarcia gola:
— Marianna! — Marianna!
Marianna era la rispettabile sua
metà, una specie di bomba, che si rotolava sul suolo, poiché non
sembrava che camminasse. Giunse
frettolosa alla chiamata del marito, miagolando con flebil voce:
— Menicuccio mio, che vuoi?
— Il signore vuol mangiare e mangiare
bene — mormorò l’oste, sottolineando le parole.
— Così mi piace! —
esclamò l’incognito sogguardandoli entrambi.
— Le farò un brodetto.
— Benissimo, purché il pesce sia fresco.
— Altro che fresco! Menicuccio vallo a
pigliare da Petronio, che è arrivato stamani colla paranzella.
L’oste se ne andò via, ben
felice di sottrarsi allo sguardo indagatore del forestiero.
— Poi, continuò Marianna, le
darò un pollo alla cacciatora.
— Morto da quanti mesi?
— Mi meraviglio. Lo prenderò dalla stia e se vostra
Eccellenza vuol ammazzarlo con una fucilata, lo troverà più
frollo e saporito.
— Accettato. Intanto?
— Intanto le affetterò un salame
di Fabriano che fa la goccia. Me lo
manda mio fratello, che provvede per la cucina di Sua Santità e di
parecchi Cardinali.
— Ottimamente! esclamò il
cacciatore, facendo scoppiettar la lingua in bocca, quasi ne pregustasse il
sapore.
In un batter d’occhio la rotonda
ostessa apparecchiò, stendendo una candida tovaglia sul rozzo desco e
sovrapponendovi delle stoviglie grossolane, ma pulite e quasi luccicanti.
Quindi recò del pane tolto di
fresco dal forno e ancora caldo, un boccale di vino e un piatto di salame.
— È cotto questo vino?
domandò l’incognito versandone nel bicchiere.
— Mi meraviglio. È Sangiovese di Romagna e del migliore.
Il forestiero tracannò il
bicchiere e facendo scoppiettar la lingua, disse:
— Eccellente! Farete bene a preparar
per due, perché aspetto un amico, il quale mi ha dato convegno qui.
— Segno che ci conosce. Non faccio per dire, ma come al Caval Marino
non si mangia, non si beve e non si alloggia in tutte le Marche.
— Avete camere d’alloggio?
— Con dei letti, nei quali potrebbero
dormirvi degli sposi. Se vuol vedere. .
.
— Dopo, dopo.
— Dunque, tiro il collo al pollo, o
vuol ammazzarlo col fucile?
— Il rumore del colpo chiamerà
gente.
— Manco per sogno: qui non c’è
nessuno.
— Allora vediamo.
— Stia pronto che glielo mando. Badi a non fallire: se no la povera bestia si
spaventa, gli vien la febbre e la carne perde il sapore.
— Non dubitate.
L’ostessa passò in cucina e
aprì la stia: due giovani polli scapparono fuori e s’avviarono alla
camera vicina. S’intesero subito due
colpi e Marianna accorsa, li trovò entrambi stesi al suolo col capo
fracassato.
Il viaggiatore stava ancora colle due
pistole in mano, che si era tolto dalla cinta.
— Come! Li avete ammazzati colle
pistole? domandò la donna, sbarrando gli occhi esterefatti.
— Credo bene.
In quel mentre rientrava Menicuccio con
un canestrello piatto, coperto di fronde.
— Ecco il pesce: è ancora vivo,
disse sorridendo e guardando il viaggiatore. E col pesce vi porto un amico.
Seguiva infatti l’oste un uomo sulla
cinquantina, basso tarchiato, panciuto, col naso rotondo, gli occhietti
piccoli, vivi e mobilissimi, la bocca larga, con piccole basette brizzolate,
come le ciocche dei capelli inanellati, che gli coprivano le tempie, uscendo di
sotto il cappello di feltro nero, duro, a larga tesa, che completava il suo
vestito da agente campagnuolo.
Egli mosse difilato al forestiere e gli
sporse la mano, dicendogli: — Sapevo che eri già venuto.
— Te ne avvertì l’Oste?
Scommetto che fra un’ora ne saranno informati tutti coloro che si trovano nel
perimetro di dieci miglia. Ha la lingua
lunga quell’oste.
— Non temere, Paolo.
— Ho forse avuto paura mai, io?
— Non inquietarti, insomma. Sei più sicuro qui che sull’altare di S.
Pietro in Roma. Di Menicuccio rispondo io.
— Mangiamo, allora. Ho una fame maledetta.
— A tavola si concludono meglio gli
affari.
Menicuccio aveva già recata la
posata e il piatto. Il campagnuolo si
assise di fronte all’incognito e incominciarono a far sparire il salame.
— Sarà dunque per stanotte senza
fallo, disse sommessamente il nuovo venuto. Sei pronto?
— Prontissimo.
— I tuoi?
— Fa assegnamento sopra di me.
— Non hanno scorta. Ma sono gente deliberata e fors’anco ben
armata.
Il cacciatore sbozzò un sorriso
di scherno.
— Della somma si faranno tre parti.
— Due per me.
— Per te solo?
— Per me e pe’ miei, l’altra per te.
— E le gioie e i valori personali che
potranno avere con sé?
— Incerti del mestiere.
— Voglio parteciparvi.
— Ed è giusto. Ma se per avventura qualcuno di noi avesse a
finire nelle mani di Mastro Titta, avrai pure la tua parte di corda.
— Vi rinunzio.
— Hai torto; porta fortuna.
— Porta al Diavolo.
— Un giorno o l’altro ci si deve andare.
— Più tardi che sia possibile.
Menicuccio aveva intanto servito; prima
il brodetto, poi i polli e riempito tre volte il boccale. Il benessere e col benessere la giocondità
incominciava a diffondersi sul volto dell’onesto campagnuolo.
— Mandaci Marianna, che vogliamo fare
un brindisi alla sua salute, dissegli questi. Cucina in modo ammirabile.
Marianna comparve, umile in tanta
gloria, e partecipò al brindisi in suo onore.
Il campagnuolo le disse poi:
— Ora ci condurrete di sopra e ci
darete due buoni letti.
E così fu fatto.
Sull’imbrunire si fermava alla porta
dell’Albergo del Caval Marino una sedia di posta, tirata da due buoni cavalli
romani, nella quale si trovavano due persone. Il cocchiere fece schioccar la frusta e tosto
accorse Menicuccio, col berretto in mano.
Uno dei due viaggiatori sporse il capo
e gli ordinò:
— Recaci da bere una bottiglia.
— Subito, Eccellenza, rispose l’oste e
s’avviò verso l’interno del negozio, d’onde ritornò poco dopo con
due bicchieri di cristallo, sopra un bel vassoio d’argento e una bottiglia, che
versò con religiosa attenzione.
Il viaggiatore che l’aveva ordinata
passò il vassoio all’altro con rispettosa deferenza; quegli bevve,
quindi mormorò:
— A voi.
Il viaggiatore vuotò il suo
bicchiere, quindi ordinò a Menicuccio di dare il rimanente al cocchiere,
e gli porse uno scudo, dicendogli:
— Da parte di questo signore che ha trovato
buono il vostro vino.
— Mille grazie! esclamò l’oste
inchinandosi fino a terra, mentre la carrozza partiva di buon trotto.
Due spettatori avevano assistito alla
scena dalla finestra socchiusa, nascosti dietro le griglie: il cacciatore ed il
campagnuolo. Questi esclamò:
— Maledizione! Hanno anticipato di tre
ore. Un bel colpo fallito.
— Nulla di perduto, rispose l’altro. Fra mezz’ora io li avrò sorpassati. La salita per la strada maestra è
lunga, per i giri che fa la strada ed erta in modo che i cavalli non possono
che andare al passo.
— E i compagni?
— Non ci pensare. Li troverò io.
Il buio si era fatto intanto profondo e
Menicuccio lieto della sua giornata, aveva chiuso l’albergo, ben certo che a
quell’ora nessun altro avventore sarebbe capitato.
Il cacciatore, fatto sicuro di non
essere veduto, aperse la finestra, che distava pochi metri dal suolo e colla
lestezza e agilità del dardo, discese nella via, tenendo il suo fucile
ad armacollo.
Toccato il suolo, a passo celere
raggiunse una stradicciuola traversale che menava alla montagna.
Il campagnuolo, dopo averlo salutato,
richiuse la finestra e si coricò, stropicciandosi le mani e mormorando:
— Dio lo salvi e il diavolo lo protegga.
La notte era buia, senza luna e senza
stelle. I fanali della sedia di posta
proiettavano dai due lati della strada la loro luce rossiccia. Gli alberi parevano gigantesche figure umane
tendenti le braccia.
Nel legno i due personaggi
sonnecchiavano; ma non erano pienamente tranquilli; un’inquietudine vaga, indefinibile
li agitava. Quando s’addormentavano
sognavano malandrini, aggressioni e morti e si destavano di soprassalto e
portavano le mani alle armi, che tenevano nelle tasche de’ pastrani.
La strada fra Porto Recanati e
Macerata, dopo aver percorso un tratto nel piano, incomincia a salire ed a
serpeggiare lungo la montagna, cingendole i fianchi, come un largo nastro
bianco.
Il cacciatore aveva tenuto la promessa
fatta al suo amico campagnolo, che lo attendeva a Caval Marino: inerpicandosi
per scoscesi sentieri, attraverso le macchie, e marciando sempre di buon passo,
aveva da lungo tratto sorpassata la sedia di posta e l’attendeva al varco,
dietro un burrone, in uno dei punti più difficili della strada.
Di quando in quando si buttava a terra
e accostava l’orecchio al suolo, per distinguere i rumori lontani.
— Eccoli — disse ad un tratto — fra
dieci minuti saranno qui.
E si rizzò tosto per prendere
posizione.
Non appena i cavalli della vettura
giunsero innanzi al burrone, ove stava celato, il cacciatore uscì fuori,
tenendo nella destra il pistone e ingiungendo colla manca protesa al cocchiere
di fermarsi. E il vetturino cedendo alla
paura che gli ispirava la persona atletica del masnadiero, la sua estrema
sicurezza, il suo sangue freddo, ubbidì.
— Frusta i cavalli, codardo —
tonò una voce dall’interno della carrozza e contemporaneamente un colpo
d’arma da fuoco rintronò nell’aria.
Era diretto contro l’assalitore e
colpì invece alla testa uno dei cavalli, il quale stramazzò.
— Mal diretto! esclamò forte il
malandrino. Se sciupate così la
vostra polvere, non ve ne resterà per farvi saltare le cervella, se per
avventura sdegnassimo noi di farlo.
Due altri colpi da fuoco scoppiarono
contemporaneamente. L’uno forò il
cappello del vetturino, l’altro sfiorò una spalla del brigante, senza
che questi mostrasse avvedersene.
— Scendi disgraziato — gli disse
l’aggressore — se no quei signori finiranno coll’ammazzarti.
Il cocchiere, non se lo fece dire due
volte, scese in un salto da cassetta, tenendo ravvolte in mano le guide.
— Legale al cassetto, fatti consegnare
le pistole da que’ signori e portamele: ai cavalli bado io.
Il vetturino si presentò allo
sportello di sinistra e il viaggiatore che si trovava dalla sua parte, gli
consegnò tosto le sue armi.
Contemporaneamente s’apriva lo
sportello di destra e un signore su trentacinque balzò fuori,
dirigendosi coraggiosamente verso il brigante colle pistole spianate.
— Signor conte di Lavello — disse
questi — non facciamo ragazzate. E
contemporaneamente col calcio del pistone gli faceva saltar di mano una delle
due pistole, che descritto un semicerchio in aria, cadde al suolo, lasciando
uscire il colpo.
— L’altra è scarica — riprese a
dire beffardamente il bandito — farete bene a seguire l’esempio del Corriere di
Sua Santità e consegnarmela.
Il viaggiatore che era stato
qualificato per Corriere di Sua Santità, si era intanto rannicchiato nel
fondo della carrozza, pronto a rendersi a discrezione, anziché correr l’alea di
una pistonata, che gli squarciasse il petto onusto di decorazioni.
Ma il conte di Lavello non pareva punto
disposto ad imitarlo. Si lanciò
puntando contro il masnadiero, facendo atto di afferrargli l’arma: ma un
improvviso, fulmineo scarto di fianco dell’avversario, lo fece cadere supino al
suolo. E per il dolore cagionatogli
dallo aver battuto il petto ed il volto nei ciottoli, svenne.
— Mi siete testimoni, che avrei potuto
ammazzarlo e che gli faccio grazia, per rispetto alla Santità di Nostro
Signore, che ne affidò i preziosi giorni al suo Corriere, — disse,
sempre col suo piglio canzonatorio il bandito, mentre tratta dalla cacciatora
che portava una funicella sottile, ma solidissima lo legava colle mani
rovesciate dietro le reni, e ai piedi, dopo averlo trasportato sul ciglio della
strada.
Compiuta l’operazione, tornò
alla sedia di posta e intimò al Corriere del Papa di scendere. Questi non si fece pregare, e fu legato pur
lui. L’ultimo a subire siffatta
operazione fu il cocchiere.
— È una formalità, sai, —
gli diceva intanto il bandito, una semplice formalità.
Incominciò quindi la
perquisizione della carrozza, che durò parecchio tempo. Terminata questa, passò il bandito alle
persone de’ viaggiatori; i quali non poterono salvare nulla di nulla dalle sue
mani rapaci.
Stava il masnadiero gettando in una
bisaccia tutto il bello ed il buono che aveva preso, quando gli parve
distinguere un galoppo di cavalli. Buttossi quindi sulle spalle il sacco del
bottino e s’internò nella macchia, non senza lanciar l’ultimo sarcasma
a’ suoi svaligiati:
— Avevo intenzione — disse di liberarvi
io stesso e di porvi in condizione di continuare il vostro viaggio, ma pare che
stiano per giungere de’ vostri amici e non voglio toglier loro questo piacere.
Il malandrino non si era ingannato;
pochi momenti dopo giungeva sul teatro della grassazione una pattuglia di birri
a cavallo, i quali sciolsero i tre legati e domandarono loro i particolari del
fatto.
Il Corriere del Papa e il Conte di
Lavello esposero agli agenti della legge ciò che era accaduto, asserendo
che doveva trattarsi di una grossa banda, capitanata dall’audace e temerario
aggressore del quale erano rimasti vittima.
Solo la corrispondenza di cui era
latore era stata salvata dall’accorto Corriere, il quale se n’era cacciato il
piego nel fondo de’ calzoni, mentre il Conte lottava col brigante.
L’interrogatorio del cocchiere
riuscì molto più interessante,
— Siete pratico del paese? — gli
domandò il bargello di Macerata, che era venuto coi birri.
— Perfettamente.
— Avreste qualche indizio a fornire?
— Ne ho più d’uno.
— Conoscete forse il capobanda?
— Come conosco voi.
— Ed è?
— Paolo Salvati.
— La paura vi ha posto le traveggole. Paolo Salvati, incalzato da tutte le parti ha
sciolto la sua banda ed è passato nel regno di Napoli.
— Non dubito delle vostre affermazioni
signor bargello, ma io sono sicuro che ci ha aggredito Paolo Salvati.
— In tal caso non poteva che essere
solo; se avesse riordinato la sua compagnia brigantesca, se ne avrebbe avuto
già sentore.
— L’avevo già riconosciuto a
Porto Recanati, mentre ci siamo soffermati a Caval Marino per berne una
bottiglia, lo vidi dietro le griglie della finestra superiore.
— E perché non ne avete dato avviso
all’Autorità?
— Contavo di farlo non appena giunto a
Macerata.
— E come mai non avete prese delle
cautele prima di partire?
— Come potevo immaginare, con due
cavalli di quella fatta, che egli sarebbe riuscito a superarci? Io lo supponevo
diretto verso Ancona.
— Sta bene. Ma, ad ogni buon conto, io ti dichiaro in
istato d’arresto. Monsignor Fiscale
disporrà di te.
Seguendo gli ordini del Bargello, i
birri staccarono il cavallo ucciso dalla sedia di posta, e vi sostituirono uno
dei loro. Quindi fatti salire i due
viaggiatori nel legno, uno dei birri si collocò a cassetta, allato del
cocchiere, rimasto affidato alla sua custodia, e la sedia partì.
— Bisogna andar subito a Porto
Recanati, disse poi il Bargello ai birri rimastigli. Scommetto che Salvati ci è tornato. Deve aver avute delle informazioni precise per
tentare un simile colpo. Forse
riusciremo a sorprenderlo coi complici.
Ben s’appose l’astuto Bargello.
Paolo Salvati, compiuta l’aggressione
tornò a Porto Recanati: con un leggero sibilo chiamò il
campagnuolo, che altri non era se non uno dei più famosi manutengoli, e
in men che non dicasi il masnadiero e la bisaccia del bottino, avevano preso il
loro posto nella camera dell’albergo del Caval Marino. Inutile dire che la bisaccia aveva subito una
notevole diminuzione, perché Salvati aveva già riposta la propria parte
e quella dei suoi supposti compagni in luogo sicuro.
Il brigante s’era cacciato fra le
coltri e dormiva profondamente, riposando delle sue onorate fatiche, quando il
Bargello e i suoi birri, ingrossati di numero, da quelli raccolti in Recanati,
giunsero all’albergo del Caval Marino e ne prendevano in custodia gli accessi.
Menicuccio che apriva allora il
negozio, fu molto sorpreso della loro comparsa, e al Bargello che lo
interrogava rispondeva, non esservi nella sua locanda, che due onesti
viaggiatori, giunti il giorno innanzi.
Il Bargello salì alla camera
superiore e trovatala aperta entrò pian piano. Ma invece di due viaggiatori ne trovò
un solo: Paolo Salvati dormente nel suo letto. L’altro letto era disfatto.
Indispettito si gettò sul
dormente e cercò di allacciarlo; ma il Salvati svegliato di sorpresa,
riuscì a mettersi sulla difesa e impegnò una lotta accanita. Vedendosi sopraffatto, il bargello
chiamò aiuto. Allora Salvati
presi i suoi panni si gettò giù dalla finestra e prese a fuggire
tentando di guadagnare la via dei campi. Ma fu presto raggiunto dai birri appostati e
dal Bargello, che prontamente riavuto, non voleva lasciarsi scappare la preda.
Il manutengolo se n’era già
andato prima, mentre Salvati dormiva, colla valigia, temendo di doverne
ripartire il prodotto.
Paolo Salvati portava ad un dito un
anello con brillante solitario, tolto al conte di Lavello e questa fu una prova
schiacciante del delitto, la quale aggiunta alla testimonianza del cocchiere
gli procurò una sentenza di impiccagione.
L’esecuzione fu una delle più
famose che io abbia operate. Accorsero
per assistervi una folla immensa da tutti i paesi delle Marche, non solo, ma
anco da Roma, attratti dalla fama del brigante, dai particolari
dell’audacissima grassazione e dal fatto che ne era stato vittima un Corriere
del papa, il quale accompagnava un personaggio di qualità e
d’importanza, come il conte di Lavello.
Esortato a pentirsi dei suoi misfatti e
regolare i suoi conti colla eterna giustizia, Paolo Salvati rispose:
— Mi pento d’esser caduto nella
tagliola come un leprotto.
E respinse confessore e confortatori.
Conducendolo al supplizio, la sua alta
figura torreggiava sulla carretta. Giunto al palco, girò uno sguardo
schernitore sulla folla, poi porse da sé il collo al capestro.
Lo squartamento mi riuscì bene,
ma non ebbi a faticar poco: pareva ch’avesse muscoli d’acciaio.
Vent’otto giorni dopo dovetti recarmi
in Amelia, per impiccarvi e squartarvi un altro grassatore. E fu il 20 maggio 1806. Pasquale Rostelli era il suo nome, le sue
gesta comunissime. Volgarissimo ladro da
strada, soleva aggredire carrettieri, contadini, gente insomma da pochissimo
conto e sovente gli veniva fatto di ammazzare un uomo per togliergli pochi
baiocchi.
Sorpreso dai birri, si gettò
piangente ai loro piedi, invocando pietà; lui che non ne aveva mai avuta
per nessuno! Ammanettato e legato colle mani dietro le reni, venne tradotto in
Amelia e sottoposto a procedimento.
Confessò gli innumerevoli suoi delitti,
e gli assassinii commessi spesso per un semplice tozzo di pane, che avrebbe
potuto chiedere per carità.
Annunziatagli la sentenza di morte,
cadde in una specie di letargo, per trarlo dal quale bisognò ricorrere
ai più poderosi eccitanti e giunse al patibolo più morto che vivo.
Morì ignobilmente, come
ignobilmente aveva vissuto.
Il 9 giugno 1806 dovetti recarmi a
Rieti, per eseguire una sentenza in persona di Bernardino Salvati pure
condannato alla forca.
Non era costui un malfattore nel vero
senso della parola, bensì un disgraziato che in un trasporto d’ira,
causato dalla gelosia e giustificato dal fatto, aveva ucciso un suo compare.
Ecco com’era andata la cosa:
Salvati aveva una bella moglie e
teneramente l’amava. Uscita incinta dopo
parecchi anni di matrimonio, la gioia di Bernardino, che ardentemente
desiderava di aver un figlio, non ebbe confini. Pareva diventato pazzo: tutte le sue
preoccupazioni erano per il nascituro: fece spese enormi per il suo piccolo
corredo e si preparò a celebrare la nascita con grandi feste.
— E se fosse una femmina? — gli
domandava taluno.
— Sarà la ben venuta del pari. Eppoi una volta incominciato non c’è
ragione di smettere. Checca mia saprebbe
farmi poi anche il maschio.
Quando Dio volle il giorno auspicato
venne e la moglie di Bernardino Salvati diede alla luce un amore di bimbo, che
mandò in sollucchero il fortunato padre.
Gli apprestamenti già fatti gli
parvero pochi e volle aumentarli. Il
giorno del battesimo la casa dei Salvati pareva volesse gareggiare con casa
Torlonia.
La sacra cerimonia venne celebrata con
la massima pompa e quattro carrozze a due cavalli trasportavano al tempio il
neonato, la levatrice, il compare e una folla di testimoni e d’invitati.
Il compare era un intimo amico di
Bernardino.
Intanto a casa si era preparato un
pranzo fastoso, come nessun altro mai.
La tavola era imbandita in un ampio
locale, vicino alla camera da letto, affinché la puerpera, benché tuttora
degente potesse partecipare al tripudio.
Bernardino correva innanzi, indietro
dalla cucina alla sala da pranzo, da questa alla stanza di sua moglie,
impartiva ordini, e provvedeva da sé medesimo a tutto ciò che gli pareva
mancasse.
D’ogni parte gli rivolgevano
complimenti, congratulazioni, augurii.
Il pranzo riuscì giocondo quanto
copioso e ben servito. Il vino generoso
aveva dato la stura all’allegria. Chi
parlava, chi rideva, chi gridava. Di
tratto in tratto qualche invitato si recava dalla puerpera per offrirle, o
dolci, o vino, o frutti.
Bernardino ritornando dalla cucina,
dove era andato per ordinare qualche cosa, volle vedere il suo marmocchio ed
entrò nella camera nuziale, senza passare da quella da pranzo.
Appena v’ebbe messo piede si
fermò stupefatto, intontito.
Il compare era vicino al letto di sua
moglie, la quale gli aveva gettate le braccia al collo e baciandolo
fervidamente, gli mormorava:
— Com’è bello tuo figlio, ti
rassomiglia tanto, che sembra una mela spaccata con te, lo amerai non è
vero?
Bernardino Salvati provò come
uno schianto al cuore; il sangue gli affluì al cervello e fu un miracolo
se non cadde fulminato.
Lo sostenne il terribile spettacolo
della realtà che gli si affacciava, tornò in cucina barcollando. Vedeva tutto rosso intorno a sé. Aveva il delirio del sangue. Afferrò un marraccio e ripiombò
nella camera da letto.
La Checca si teneva tuttora abbracciato
il compare; né lei, né lui s’accorsero della venuta del marito. Questi si slanciò sull’amico traditore
della sua fede, dell’onor suo e gli inferse per ben quattro volte il marraccio
nelle reni, quindi fuggì a precipizio nella via, col coltello grondante
di sangue caldo e fumante.
Il compare, trapassato a parte a parte
fin dal primo colpo, non aveva profferito un accento; abbandonato dalle braccia
della Checca, che lo avvincevano, cadde bocconi al suolo, sul quale si
formò subito un’enorme pozza di sangue. La Checca mandò un acuto grido di
suprema, disperata angoscia e svenne.
A questo grido accorsero gli invitati
in massa e tosto fu chiarita la causa della tremenda scena.
— Potevasi prevedere, diceva una donna,
Checca è sempre stata imprudente.
— Era cosa che si sapeva da tutti —
mormorava un’altra, Bernardino ero forse il solo che la ignorasse.
Intanto i birri avevano arrestato il
Salvati e portatolo innanzi al bargello, confessò tutto e diede le
più ampie spiegazioni intorno al fatto.
Istituito il processo, Bernardino
Salvati ripeté innanzi ai giudici le sue confessioni, non cercando minimamente
di attenuare la propria responsabilità. Era in preda alla più completa apatia. Si vedeva in lui un uomo che non si curava
più della vita; peggio, gli riusciva di peso e avrebbe voluto
sbarazzarsene al più presto possibile.
Condannato alla forca, come dissi, fece
le sue devozioni senza riluttanza e senza entusiasmo. Io l’appiccai la mattina del 12 luglio, senza
che desse segno di alcuna emozione, né traversando la città stipata di
gente sulle strade del percorso, né salendo il patibolo.
La moglie lo seguì poche ore
dopo, essendo stata sorpresa da violentissima febbre puerperale.
Il giorno 13 agosto del medesimo anno
1806, dovetti trasferirmi a Terracina per giustiziare due grassatori, Giuseppe
Pistillo detto Fatino, e Giuseppe Chiappa, condannati all’impiccagione e
successivo squartamento.
Pistillo, godeva di una grande
popolarità, perché era uno di que’ tipi di masnadieri simpatici, dei
quali si sono create le leggende. Egli
non incrudeliva mai contro le persone; se non vi era costretto da
necessità di difesa non faceva mai uso delle armi. È vero che possedeva una forza erculea
e due mani più salde e più stringenti d’una morsa. Se afferrava uno per il collo, quel
disgraziato era tanto sicuro di rimanervi, quanto fosse capitato nelle mie
mani, per essere trasmesso all’altro mondo. Non molestava mai i poveri viandanti, né i
carrettieri. Egli si riservava soltanto
gli affari grossi. Aveva un debole per
le carrozze da viaggio signorili e per le corriere di posta. Quando capitava in qualche casa, o capanna
contadinesca e chiedeva ricovero o vitto, era sicuro d’essere servito come un
principe, perché pagava lautamente, se non al momento, alla prima occasione che
gli fosse data di ritornarvi, ben provveduto di quattrini.
Largheggiava anche in elemosine ai poveri.
Si narrano di lui una quantità di
aneddoti che fanno onore al suo cuore e tratteggiano magnificamente il suo
carattere. Ne raccolgo uno dei
più commoventi.
Pistillo soleva capitar di frequente in
una tenuta principesca affittata ad un padre di numerosa famiglia, che ritraeva
onesto guadagno lavorandolo e facendola lavorare dai coloni. Il suo arrivo alla tenuta era sempre salutato
con gioia, perché portava regalucci alle donne ed ai bimbi e faceva compagnia
al capo di casa ed agli uomini, ai quali porgeva altresì saggi consigli
sulle coltivazioni e sul momento, più o meno opportuno, di procurarsi
ciò di cui abbisognavano e di vendere i loro prodotti.
Assente da oltre un anno, perché le
molestie dell’autorità lo avevano indotto a mutar paese, una notte
Pistillo arriva alla tenuta e vi è come di consueto affabilmente accolto.
Gli servono da cena e l’affittaiolo gli
tiene compagnia, mentre gli altri tutti se ne vanno a dormire.
Pistillo s’accorge però che
qualche cosa di straordinario e di non lieto dev’essere accaduto in quella casa.
Per quanto si sforzi non riesce al
padrone di mostrarsi ilare e contento. Beve, ma il vino gli resta nella strozza e
depone il bicchiere vuoto solo a metà.
D’un tratto Pistillo si ferma con in
pugno il coltello, col quale andava tagliando un pezzo di cacio, e guardando
fissamente il campagnolo, gli dice in tono secco e severo.
— Paolone tu m’inganni.
— Mi credete capace? — risponde tosto
il campagnolo evidentemente corrucciato.
— Tu non hai più confidenza in
me — prosegue il masnadiero — tu mi celi qualche cosa.
— Che vi ho mai da nascondere? — chiede
con un profondo sospiro Paolone.
— Non lo so; se lo sapessi non te lo
chiederei. Qualche affanno, qualche
segreto dispiacere ti ha mutato. Paolone, non facciamo ciarle inutili: che cosa
t’affligge?
— Forse non ci vedremo più.
— Perché?
— Perché domani verranno gli uscieri a
scacciarmi di qui. Sono rovinato. Non ho pagato l’affitto, perché l’annata
è andata a male e l’amministratore del Principe mi ha intimato lo
sfratto.
La fronte di Pistillo si corrugò.
Le tempie gli martellavano. Le vene della fronte s’ingrossavano. I suoi occhi si iniettavano di sangue. Le sue labbra erano frementi. Ma non articolava parola. Finalmente mormorò, quasi discorresse
con se stesso:
— Si sfratta un uomo colla sua famiglia
perché non può pagare qualche migliaio di lire, lo si mette sulla
strada, si strappa il pane di bocca a lui ed a’ suoi figli!. . . È una indegnità. E chiamano me brigante!
Paolone udiva e non fiatava. L’ira che trasudava da tutti i pori del
Pistillo lo commoveva.
— Non c’è modo di aggiustare le
cose?
— Un solo, ha detto l’amministratore,
dal quale mi sono recato ieri ad implorar pietà.
— Quale?
— Pagare. Capite? Pagare sei mila scudi, quando non ne
ho cento in cassa; quando mancano le provviste per l’annata; quando si sono
fatti tutti i sacrifici per tirare innanzi, sprovvedendosi di tutto il
superfluo.
— Pagare eh? ha detto l’amministratore.
— Pagare o andarsene.
— Ebbene pagherai.
— Scherzate?
— Giuseppe Pistillo non ischerza mai,
quando è in gioco la vita d’una famiglia. Pagherai.
— E chi mi darà i denari?
— Io, te li darò.
— Ma io ve li potrei rendere
chissà poi quando. Ci vorranno
almeno dieci anni buoni per risparmiare tal somma.
— Non curarti di questo. Ci penserò io compensarmi.
— La mia vita è vostra.
— No, è della tua famiglia. Per che ora ti servono i sei mila scudi?
— L’amministratore m’ha detto che
verrà domani dopo pranzo cogli uscieri.
— Sta bene: andiamo a dormire.
Sul far dell’alba Giuseppe Pistillo
lasciava la fattoria.
La povera famiglia di Paolone,
passò una giornata in ambascie inenarrabili. Il campagnolo s’era chiuso in un impenetrabile
silenzio. Solo di tratto in tratto
domandava che ora fosse.
In punto a mezzogiorno fu annunziato
l’arrivo di un cavallaro che chiedeva del padrone.
Paolone gli mosse incontro sfavillante
di speranza e di gioia.
Pistillo aveva mantenuto la sua parola.
Il cavallaro rimise al campagnolo un
grosso involto, dicendogli:
— Da parte di chi sapete.
Quindi, voltato il cavallo, scomparve.
Paolone salì coll’involto nella
sua camera e chiusosi dentro l’aperse.
C’erano tremila zecchini d’oro.
Il povero campagnolo, cadde ginocchioni
e piangendo come un fanciullo, ringraziò la divina provvidenza.
Si trovava ancora in quello
atteggiamento, quando venne bussato alla porta.
L’affittaiolo aperse e si trovò
faccia a faccia colla moglie, che lagrimando gli annunziò la venuta
dell’amministratore, di un usciere e due testimoni.
— Siamo perduti! Siamo perduti!
esclamava la disgraziata donna — Poveri figli miei!
— Siamo salvi — disse Paolone —
mostrandole l’oro, cacciando le mani nel quale trovò un biglietto
manoscritto che diceva:
«Trattieni l’amministratore e i suoi
quanto più ti è possibile. »
Paolone rinchiuse gli zecchini nel suo
scrigno e discese colla moglie incontro ai nuovi venuti.
— Ebbene? — domandò con piglio
sciolto e un po’ motteggiatore l’amministratore, strizzando l’occhio — Come va?
— Come Dio vuole — rispose
l’affittaiolo. Ma loro signori staranno
non meglio di me, dopo sì lunga strada.
— Abbiamo il legno nella vostra
rimessa, e i cavalli nella vostra stalla.
— Impartirò gli ordini
opportuni, perché siano ben trattati. Quanto a loro spero, vorranno farci l’onore di
pranzare in compagnia.
— Purché non ci facciate morir di fame;
sogghignando rispose l’amministratore.
— Non siamo ancora a tale.
La massaia volò in cucina e in
breve parecchi polli passarono dalla stia alle pentole ed alle casseruole, per
ingrossare il pranzo.
Intanto venne imbandita la tavola e si
servirono i principi. Il pasto fu
abbondante, squisito e inaffiato di ottimo vino. L’amministratore e i suoi fecero onore,
mangiando e bevendo senza risparmio.
— Peccato che non si possa pranzar da
voi tutti i giorni! esclamò l’amministratore, sempre con piglio
canzonatorio. Ma così mi spiego
le difficoltà. . .
— Difficoltà — interruppe con
piglio quasi altero Paolone possono presentarsi a tutti. L’abilità di un uomo è di
saperle superare.
— Parlate come un libro stampato. E voi sareste di quegli uomini.
— A seconda dei casi. Che cosa desiderate ora, a cagione d’esempio?
— Oh! una cosa da nulla, una miseria,
una bazzecola, che non valeva quasi la pena d’incomodarsi: sei mila scudi,
somma rotonda.
— È appunto quella che vi ho
preparata.
— Eh? Dite?
— Dico che i sei mila scudi sono a
vostra disposizione.
— E dove li prenderete!
— Dalla mia cassa, con vostro permesso.
— Giusto, regolare, perfetto! Non
c’è che dire.
— In tal caso, se permettete,
farò venire qualche altra bottiglia.
— Ma padronissimo, sor Paolone. Già io l’ho sempre detto,
pagherà, pagherà. Che
diamine! È sempre stato puntuale. Non può mancare: Eh! si sa, la tenuta
frutta bene: non volevate tirar fuori i vecchi risparmi. Vi compatisco. Stando io al vostro posto avrei forse fatto
altrettanto. . . Ma al mio, dovevo fare
il mio dovere. Alla vostra salute,
Paolone!
Così concluse il suo discorso
l’amministratore. L’affittaiolo
andò a prendere gli zecchini e porgendoli all’amministratore, con un
foglio di carta, la penna ed il calamaio, gli disse:
— Favorite rilasciarmi ricevuta di
pieno saldo, controfirmata da questi signori, per maggior regolarità.
— Ben volentieri.
I denari furono riscontrati la ricevuta
stesa e firmata.
Ma prima di lasciarli partire Paolone
tirò fuori altre bottiglie, alle quali l’amministratore e i suoi fecero
le migliori accoglienze.
Quando si risolsero ad andarsene
incominciava ad imbrunire. Il sacco de’
zecchini venne deposto nella cassetta sotto il sedile posteriore del legno, in
cui entrarono l’amministratore, l’usciere ed uno de’ testi; l’altro
passò a guidare il cavallo. Poco
dopo quei dell’interno dormivano saporitamente, il cocchiere improvvisato
sonnecchiava e l’animale ne approfittava per allargare e allentare sempre più
il trotto.
Furono destati di soprassalto dal
Pistillo, che in compagnia di quattro amici, li attendeva al varco, e mise
tosto loro le mani addosso per ridurli all’impotenza. L’amministratore tentò di salvare gli
zecchini, offrendo tutto quello che aveva indosso. Ma gli aggressori erano troppo ben informati;
e siccome, dopo tutto, non era roba loro, si lasciarono depredare senza troppa
mala grazia.
Così il generoso masnadiero
ricuperò i suoi tremila zecchini e all’indomani mandò a Paolone
la ricevuta di saldo.
Ma ad onta delle sue buone opere
Giuseppe Pistillo doveva finir male la sua carriera. Incalzato dalla forza pubblica si nascose con
tre amici in una fattoria. Assaliti,
resistettero e due caddero morti; Pistillo e Giuseppe Agnone furono dopo accanita
lotta arrestati, condotti a Terracina, processati, condannati e giustiziati,
come avvertii, il 13 agosto. Non vollero
saperne di religiosi conforti e morirono come due stoici antichi, destando
l’ammirazione della folla immensa che si accalcava sulla piazza per assistere
al supplizio, convenutavi da tutti i paesi circonvicini, chiamata dalla grande
notorietà del Pistillo.
Tommaso Grassi, sensale di bestiame,
aveva per cognato un macellaro di Trastevere assai facoltoso. Aveva costui sposato sua sorella, una delle
più leggiadre minenti di quel rione, per amore, benché non avesse il
becco d’un quattrino e la trattava come una principessa. Ma questo invece di far piacere al cognato, lo
irritava perché era di animo perverso ed invido. Avrebbe forse voluto che il macellaro se lo
pigliasse con sé, lo mettesse a parte dei suoi affari e ne dividesse gli utili.
Ma così non l’intendeva l’altro.
Pur agevolando al cognato l’esercizio
del suo mestiere di mediatore e rimunerandolo largamente delle sue prestazioni,
l’accorto macellaro lo teneva a debita distanza e quindi ne suscitava le bizze.
Un giorno Tommaso Grassi si recò
al negozio di sua sorella e trovatala sola, un po’ colle buone, un po’ colle
minaccie le estorse duecento scudi.
Risaputolo il marito abbordò il
Grassi e gli disse seriamente:
— Senti, Maso, quando hai bisogno di
quattrini, rivolgiti a me e non a tua sorella. Non amo che le donne si impiccino in queste
cose. I duecento scudi te li regalo. Fa di non chiedermene altri per un pezzo, se
puoi.
— Io me ne infischio dei due duecento
scudi, — rispose arrogantemente il Grassi.
— Perché li hai dunque domandati a
prestito?
— Non li ho cercati a te. Credevo bene che mia sorella potesse disporre
di tale miseria.
— Una miseria che t’ha fatto comodo
però.
— Ora che so che sono tuoi, non appena
avrò riscosso te li schiafferò in faccia.
— Maso, bada a misurar le parole,
perché non sono avvezzo a tollerare né prepotenze, né insolenze.
Il tono di voce del macellaro non era
tale da ammetter repliche e tanto meno provocazioni nuove.
Tommaso Grassi gli volse le spalle e se
ne andò pe’ fatti suoi, covando in cuore la vendetta.
Passò circa un mese.
Il macellaro non aveva più
riveduto il cognato, né sua moglie il fratello, quando sul far del mezzogiorno
del 2 aprile, Tommaso Grassi capitò nel negozio, come se nulla fosse
accaduto.
— Guarda chi si vede — esclamò
il macellaro, che era un buon diavolo ed aveva dimenticato l’alterco.
— Giungi in punto, Maso, per mangiare
un boccone con noi.
— No, grazie: son venuto per affari —
rispose il Grassi.
— Ne discorreremo pranzando.
— Non ho fame.
— E allora fa come vuoi.
— Ci sarebbero delle vaccine da vendere
ad un cascinale fuori di porta Cavalleggeri, che dovrebbero fare per te.
— Possiamo vederle domani.
— Perché no, oggi? È un figlio
di famiglia, al quale è morto il padre di fresco e ha bisogno di far
quattrini. Se perdiamo tempo qualcun
altro ci porterà via il dolce.
— Allora andiamoci stasera. Le hai vedute tu le bestie?
— Sì.
— Come sono?
— Bellissime. Roba di provenienza perugina.
— Non resta dunque che conchiudere il
contratto.
— Se ti fidi di me. . .
— E perché non dovrei fidarmi. Forse sei diventato un forestiero?
— Allora siamo intesi. Verso le sei vengo qui con l’amico che mi ha
proposto l’affare.
— Montiamo sul carrettino e ce ne
andiamo, per tornare a cena. Stasera
avrai fame, credo?
— Speriamolo.
Così pattuito, Tommaso Grassi se
ne andò. La sorella, visto che il
fratello non aveva nemmeno portato alle labbra, per compiacenza, il bicchiere
di vino offertogli dal marito, ne fu impensierita, ebbe una specie di vago
presagio sinistro, e gli disse:
— Non ci andare.
— Perché?
— Non so. Di notte ci son sempre dei pericoli.
— Siamo in tre e non c’è a
temere.
La bella trasteverina tacque, ma la
sera quando vide il marito salir nel carrettino col fratello e il suo compagno,
provò una stretta al cuore. Così depose in giudizio.
Tommaso Grassi e l’amico occupavano i
due lati del sedile, il macellaio nel mezzo guidava e chiacchierava
allegramente.
Ma ad un tratto la voce gli morì
nella strozza: due coltellate una in un fianco che gli entrò in
cavità, l’altra terribile nel collo, che gli recise la carotide,
l’avevano colpito.
Non ebbe il tempo di proferire una
parola.
I due assassini lo accomodarono bene
sul fondo del carrettino e gli legarono le guide del cavallo intorno al braccio
destro, quindi rivoltatolo verso la città, con due frustate lo
sospinsero a disperata corsa.
Il carrettino non fu fermato che a
porta Cavalleggeri, dove si accorsero del delitto.
Tommaso Grassi e il suo complice si
erano, impossessati del denaro che il macellaio aveva portato con sé per pagare
le vaccine e speravano di poter uscire dallo Stato. Ma la pronta denunzia della moglie
dell’ucciso, sventò i loro progetti e vennero arrestati in Roma stessa
dove erano rientrati per altra porta.
Eretto il processo Tommaso Grassi
confessò cinicamente il delitto, asserendo d’averlo commesso per
vendetta. Il complice negò
assolutamente d’aver partecipato e fu in questo sostenuto anco dal principale
accusato. Disse che le coltellate le
aveva date al macellaio il Grassi all’improvviso, e senza ch’egli potesse
pensare a difenderlo; e per tal modo poté salvare la sua pelle, essendo stato condannato
il Grassi all’impiccagione e lui a star sotto la forca durante l’esecuzione.
Eseguii la sentenza la mattina del 15
aprile 1807, sulla piazza di Ponte Sant’Angelo con enorme concorso di gente,
perché l’atrocità del misfatto e la notorietà delle persone,
avevano suscitata una impressione profonda in città.
Tommaso Grassi provvide alla salvezza
dell’anima sua, confessandosi e parve negli ultimi momenti veramente pentito. Fu condotto in carretta insieme al suo
complice, circondato da uno stuolo di confortatori.
Giunto al palco, scese prima il
compagno, che fu assicurato con ferri allo sgabello dal quale doveva assistere
alla impiccagione del Grassi.
Questi salì un po’ vacillante e
sorretto la scala, ma prima di essere lanciato nell’eternità, mentre
aveva già il laccio al collo, disse addio al suo complice, il quale
rimase impassibile, come se avesse assistito non ad una impiccagione, ma agli
esercizi di qualche funambolo.
Era proprio uno spirito forte.
Il 2 maggio 1807 ebbi ad impiccare e
squartare a Campo Vaccino Cesare di Giulio e Bernardino Troiani due grassatori
dei dintorni di Roma, che avevano dato molto da fare ai birri. Ma le loro gesta non meritano punto di essere
rammentate, perché non uscirono mai dalla più ignobile volgarità.
Purtroppo anche il delitto ha
un’aristocrazia propria. Si rivelano in
esso, come in tutte le cose, la maggior elevatezza dell’ingegno e del coraggio,
il carattere più nobile del delinquente e la forza d’animo più intensa.
Questi due malfattori, che dopo aver
fatto strage di poveri viandanti e dimostrata una efferatezza straordinaria
contro gente infelice, al cospetto della morte tremavano come foglie — si
raccomandavano alla pietà universale e piangevano come fanciulli, o come
donne, — destavano un senso di ripulsione nella folla accorsa per assistere
alla esecuzione, non molto densa però. Non appena furon staccati dalla forca gli
spettatori si diradarono. Pareva che il
pubblico non volesse conceder loro l’onore di vederli fare a pezzi.
I loro quarti restarono appesi al palco
fino a notte, perché la compagnia di San Giovanni tardò a recarsi a
prenderli per dar loro sepoltura. E
quando lo fece si trovò che due quarti erano scomparsi, e corse la voce
per Roma, che erano stati rubati per venderli. Pare cosa impossibile. Ma per quante indagini siano state fatte, non
si giunse a sapere chi l’aveva portati via.
Molto più interessante
riuscì, invece un’altra doppia esecuzione ch’ebbi a fare il 6 luglio a
Gubbio, in persona di Giuseppe Brunelli e Agostino Paoletti.
Conviveva il primo da parecchi anni con
Margherita Cruciani, formosissima donna, che aveva già avuto diversi
amanti quando si diede al Brunelli. Alta
e grossa della persona, densa di forme, rosea di volto, con begli occhi neri,
folte sopracciglia e prolissa capigliatura della stesso colore, doveva
necessariamente piacere e piacque a molti.
Il Brunelli se ne incapricciò a
morte e tanto fece e tanto disse che la persuase a mettersi con lui. Ma le sue risorse erano scarse assai:
esercitava la professione di sensale di bestiame a que’ tempi non molto
proficua. In breve, per mantenerla in
uno stato d’agiatezza superiore alle sue forze economiche, egli diede fondo a
tutti i suoi risparmi e si trovò a dover vivere col solo frutto delle
sue mediazioni.
Il povero Brunelli si assoggettava ad
ogni maniera di privazioni. Ma con tutto
ciò non riusciva a mantener Margherita come per l’addietro, ed egli
prevedeva che un giorno o l’altro ella lo avrebbe abbandonato.
Vivere senza di lei gli sarebbe tornato
impossibile. L’amava troppo e ne era
anche ricambiato con sufficiente intensità, perché robusto e forte nelle
lotte genetiche. Un bel giorno, anzi un
triste giorno, Margherita e Giuseppe si trovarono senza mangiare, alla lettera,
senza mangiare.
Dopo aver a lungo meditato, tutto
chiuso in se stesso, Brunelli trasse un profondo sospiro dal petto e
accostandosi alla sua donna, le disse così:
— Senti, Margherita: io non ho core di
farti più a lungo soffrire. Tu
sei ancor giovane e bella e non ti mancheranno prontamente altri amanti, che
provvederanno largamente ai tuoi bisogni.
— Vuoi dunque lasciarmi? — gli rispose
la donna, mostrandosi un po’ corrucciata.
— È necessario.
— Eppure mi hai detto e ripetuto le
mille volte che non avresti saputo menare innanzi l’esistenza lontano da me.
— Ed è vero: strettamente vero,
adesso come allora.
— Non ti comprendo più. Che cosa vuoi fare?
— Una cosa molto semplice: senza di te
non posso vivere, con te non posso vivere. La vita mi è dunque impossibile in
tutti i modi e ho deciso di ammazzarmi.
Margherita che conosceva benissimo il
carattere del suo uomo e sapeva che non era tale da far ciarle inutili, gli
gettò atterrita le braccia al collo e tirandosi la sua testa sul seno, lo
baciò sulla bocca passionatamente, dicendogli:
— E credi tu che io resterei al mondo
senza di te?
— Margherita è necessario; io
non voglio, io non posso vederti soffrire. Vedi la miseria ci ha assaliti appunto perché
le preoccupazioni mi tolgono dal dedicarmi con maggiore alacrità agli
affari.
— Ebbene, lo vuoi? Moriamo insieme.
— Manco per sogno.
— Mi credi incapace? Piuttosto che
perderti farei tutto.
— Tutto?
— Sì, tutto — replicò la
donna con intenzione. — Come sono
disposta a gettar la vita per te e con te, lo sarei a. . .
— Continua, — febbrilmente agitato le
disse il Brunelli continua.
— Impossibile, se mi guardi con quegli
occhi di fuoco: mi fai paura.
E tornò ad avvinghiarlo colle
sue belle e rotonde braccia, dalle quali si era tolto, stringendoselo con forza
maggiore, e inebbriandolo di baci e di carezze.
Nel delirio della passione Beppe
perdette il senno della propria dignità, e avendo in parte indovinato
ciò che Margherita voleva proporgli, le mormorò con fioca voce,
quasiché non volesse che udissero le orecchie le parole pronunziate dal suo
labbro:
— Prosegui, Margherita, t’ascolto. Ormai puoi tutto dire.
— Potrai sempre respingere la mia
profferta, riprese la donna rinfrancata, e mi troverai sempre pronta a seguire
il tuo esempio, uccidendomi.
— Parla.
— Se un altro si incaricasse delle
nostre spese? — susurrò, più che non disse Margherita.
Beppe sentì un fiotto di sangue
salirgli alla testa; un accesso di gelosia lo colse e tonò:
— Hai un altro amante, dunque?
— No. Te lo giuro — riprese prontamente la donna —
altro amante non ho e non avrò mai, perché io sarò sempre per te,
per te solo. Mi capisci?
— Sì e no. Spiegati.
— Non ho e non avrò mai un
amante. Ma potrei, volendolo tu, avere
un protettore, un uomo facoltoso che ci aiutasse.
— Possedendoti?
— Accordandogli ciò che posso
concedergli, il corpo, null’altro.
Giuseppe Brunelli si passò la
mano sulla fronte madida di sudore. Il
sangue gli martellava le tempie. Una
voce gli diceva: «Uccidi questa vipera che ti avvelena, che ti conduce
all’infamia. » Ed era la voce della coscienza, la voce del dovere. E un’altra voce gli diceva: «Consenti: in fin
de’ conti, non è tua moglie; il tuo onore non ne soffre. Potrai sempre staccartene, se ti
ispirerà disgusto. » Ed era la voce della passione brutale.
Margherita, con quella perspicacia
profonda che è tutta della donna innamorata, comprese di primo acchito
la lotta che si combatteva nell’animo di Beppe. E nuovamente abbracciandolo con tutto il
trasporto, gli mormorò:
— Se non vuoi, moriamo. Moriamo subito.
Poi correggendosi:
— Subito no. Godiamo un’altra notte d’amore, prima.
La ragione di Brunelli vacillava in
quegli amplessi. La coscienza perdeva ad
ogni istante terreno: e la foia erotica lo guadagnava.
Perdere una donna che lo amava
così? Rinunziare a quelle ineffabili ebbrezze? Affrontare l’ignoto?
Perché? Per un pregiudizio. Che gli
caleva, se un altr’uomo gioisse di lei, quando era certo che ella non ne
avrebbe divisi i godimenti?
— Se acconsentissi, — mormorò —
tu mi sprezzeresti?
— Ti adorerei, se è possibile,
più di quanto ti adoro, perché il sacrificio che faresti, mi sarebbe una
prova del tuo affetto.
— E quest’uomo?
— C’è.
— Ti sei già data a lui?
— Mai.
— Ti ha fatto delle proposte?
— Mille volte.
— E le hai respinte?
— Sempre.
— Giuralo per la memoria di tua madre,
di tuo padre, per quanto hai di più sacro.
— Lo giuro.
— Ed è?
— Agostino Paoletti.
— Il macellaro?
— Lui per l’appunto.
— Un anziano.
— Ti duole? — domandò scherzando
Margherita a Peppe baciandolo un’altra volta sulla bocca, con uno di quei baci,
che danno le vertigini anco all’uomo di più freddo temperamento.
— Sia come vuoi.
— Grazie.
— Dunque lo desideravi?
— Per te.
— Io dovrò ignorar tutto?
— Al contrario; vuole il tuo pieno
consenso, la tua formale adesione.
— Ma è un mercato adunque che
vuol stringere?
— No: vuol essere sicuro del fatto suo:
ha paura.
— Lo credo. Se vi avessi sorpresi sarebbe stata la morte
per tutti.
Seguì al colloquio una notte,
che fu per Margherita e Beppe, un’orgia d’amore.
Agostino Paoletti era un uomo sulla
cinquantina dalla larghe spalle, dall’ampio torace, dalla testa grossa, munito
d’un naso formidabile e d’una larga bocca, le cui grosse labbra davano chiaro
indizio di una sensualità molto pronunciata. Giovialone, amico del buon bicchiere e della
pappatoria, come della femmina e delle sue dolcezze, s’installò con
Giuseppe Brunelli e la Margherita, senza che la gente di Gubbio se ne
formalizzasse troppo. Non aveva famiglia
ed era quindi naturale che giunto sul declivio dell’età, ne cercasse
un’altra nella quale potesse adagiarsi e trovar quelle cure e quelle attenzioni
che sono indispensabili agli uomini anziani, vissuti sempre nel celibato.
Aveva nella casa del Brunelli una bella
camera, ben arredata, e con un ampio letto, che gli permetteva di fare tutti i
suoi comodi, senza violare quello del suo ospite. Mangiavano insieme, uscivano insieme, si
divertivano insieme. Era insomma un vero
matrimonio a tre, nell’intimità delle domestiche pareti, una relazione
sulla quale non c’era nulla da dire nelle esteriorità.
Certamente non saranno mancate le male
lingue, che, specialmente ricordando il passato di Margherita, avranno fatto
delle supposizioni maligne. Ma chi si
curava di loro?
Coll’appoggio del compare, così
Beppe e Margherita solevano chiamare il macellaro, gli affari del Brunelli
prosperavano. Da semplice sensale era
salito al grado di mercante di bestiame. Aveva una stalla propria, e si assentava
spesso per far degli acquisti nei paesi vicini, trattenendosi fuori anche
più giorni. E così coi
quattrini cresceva la sua rispettabilità. D’altra parte il contegno del Paoletti non
poteva essere più riguardoso. Mai
una parola, un atto, uno sguardo gli sfuggiva che potesse eccitare la
suscettività del marito posticcio.
Il benessere, l’agiatezza,
appesantivano però di molto il Brunelli e gli toglievano quegli ardori,
che gli avevano procacciato l’amore di Margherita, la quale se ne risentiva e
incominciava a concepire una certa repulsione per il suo Beppe. Sulle prime la manifestò, ma le
accoglienze che ebbero le sue manifestazioni da parte d’ambo quegli uomini ai
quali prodigava se stessa, la persuasero che quella non era una buona strada
per lei. Cosa fatta capo ha, diceva
Mosca Lamberti, e diceva bene. Non fu
difficile a Margherita capacitarsene.
E pensò a procacciarsi d’altra
parte quelle ebbrezze che non trovava più fra le braccia di Brunelli, e
non aveva mai trovato in quelle del Paoletti.
Ritornando una notte da una delle
solite sue escursioni, Beppe trovò il macellaro sul portone di casa.
— Ti aspettavo, gli disse Agostino. Ho da parlarti.
— Andiamo su, compare, e
chiacchiereremo finché vi pare.
— No, di sopra, no. Son cose che dobbiamo sbrigarle fra noi: le
donne non vanno poste di mezzo.
Parve strana la proposta del macellaro
a Beppe; tanto più avendo notato nel suo accento una emozione che
tentava indarno di dissimulare. Tuttavia
non fece vista d’avvedersene e disse tranquillamente:
— Verrò domattina al negozio, se
vi piace compare.
— Vieni a mezzodì. Andremo a mangiare un boccone in campagna. Dirai a Margherita che dobbiamo recarci fuori
per affari.
— Come vi piace.
Si strinsero la mano e salirono
insieme, senza dare a vedere la menoma preoccupazione.
All’indomani all’ora stabilita, Beppe
si recava al negozio di Agostino. Questi
aveva già socchiusa la bottega e stava ad aspettarlo. Quando lo vide comparire, serrò del
tutto il negozio e disse:
— Andiamo, Beppe.
Traversarono la città in silenzio
e giunti innanzi ad una osteria suburbana, il macellaro entrò,
comandò il pranzo in una camera superiore, e vi condusse il compare.
Pranzarono non parlando che di cose
insignificanti e con evidente imbarazzo d’entrambi. Beppe non sapeva spiegarsi, per quanto
ruminasse in testa, la cagione di quel convegno, il soggetto del discorso che
il compare doveva tenergli e che non gli teneva. Il Paoletti non sapeva come attaccare
l’argomento disgustoso e spinoso.
Quand’ebbero mangiato, il Brunelli,
comprendendo che le esitanze del compare dovevano derivare dal timore, risolse
d’incoraggiarlo, prendendo lui la parola e gli disse:
— Beviamo sempre alla vostra salute!
— Grazie! E alla vostra.
— Grazie! a mia volta. Ma se, non abbiamo altre persone alle quali
brindare, sarà bene che ci spicciamo. Margherita starà inquieta, forse.
— Hai fatto bene a dir «forse. »
— Non credete, compare, che possa
esserlo?
Ormai la botta era partita, non c’era
più da indietreggiare. Agostino
Paoletti lo comprese e rispose:
— Credo che possa avere chi la
conforti, quando è sola.
Beppe scattò in piedi,
posò i pugni sulla tavola e calmo pur nell’ira che gli bolliva in petto,
disse lentamente:
— Compare voi dite una cosa ben grave. Fose v’è sfuggita, senza rifletterci?
— Non ho l’abitudine di avventurar
parole senza fondamento.
Una nube di sangue passò innanzi
agli occhi del Brunelli. Due opposti
sentimenti lottavano in lui. Per un
lato, sentiva rinascere i furori gelosi dei primi giorni del suo amore con
Margherita. Per l’altro, temeva che la
sua condotta alienasse il Paoletti dal loro consorzio. Si era abituato a quella felicità
grassa, ed a quella beatitudine materiale, e gli pareva di non potersene
staccare, se non lasciandovi un brano della sua carne.
— Voi credete dunque fermamente che ci
inganni? — domandò con voce cupa ad Agostino.
Era la prima volta che alludeva a
quella promiscuità nei godimenti della donna che avevano stabilito. Ma il Paoletti non morse all’amo e
replicò non senza sottolineare il pronome:
— Ho la certezza materiale, purtroppo,
che Margherita ti tradisce.
Quel pronome così sottosegnato
dalla voce del compare era una pugnalata per il cuore di Beppe. Lo riteneva come una offesa personale, perché
Paoletti con ciò mostrava chiaramente di non desiderare la
solidarietà della vergogna. Pure
dissimulò, ricacciandosi in fondo all’anima l’amarezza che gli aveva
prodotto. E assecondando il compare nel
suo intendimento di voler sciogliere il vincolo morale che li legava, riprese:
— Vi ringrazio d’avermi posto
sull’avviso.
— Era mio stretto dovere d’amico.
— Un dovere che raramente si compie.
— Non tutti coloro che lo dicono sono
amici, come io di te, per la vita e per la morte.
— Che mi consigliate voi di fare?
— Prima coglierla sul fatto.
— Poi?
— Se hai bisogno d’una mano che ti
aiuti, ecco qui la mia — così disse lanciando un lampo d’odio dagli
occhi, e brandendo un coltello.
— Sarà fatto! — rispose Beppe
Brunelli stendendo la destra al Paoletti, che fortemente gliela strinse.
— Bravo. Così parlano e così agiscono gli
uomini.
— Ecco intanto una esistenza infranta,
una felicità distrutta, una amicizia. . .
— Cementata, resa inscindibile, Beppe. Ricordati Beppe delle parole che ho
pronunziato poc’anzi e che ora ti ripeto: per la vita e per la morte.
— Per la vita e per la morte —
replicò il sensale stringendo fortemente la mano che per la seconda
volta il macellaio gli porgeva.
— Ma è tempo ti narri come
avvenne la scoperta — ripigliò il Paoletti. Perciò appunto qui ti condussi.
— Parlate. Vi ascolto.
— Una notte, mentre tu eri fuori,
rientrando tardi nella mia camera udii del rumore nella tua. Supposi che tu fossi rientrato improvvisamente
e mi avvicinai per aprirla; era chiusa. Udendo all’interno un bisbiglio, mi persuasi
sempre più che Margherita era con te, certo sola non si trovava, bussai,
e ribussai, ma nessuna risposta ottenni.
— Brutta conocchia! — esclamò
Beppe.
— Allora ebbi un’idea, vaga, un
sospetto quasi impercettibile, ma che andava prendendo man mano forma e colore.
Ero ancora vestito: ridiscesi pian piano
per non farmi udire; giunto alla porta, che avevo, trovata aperta entrando e
aperta lasciata, la rinchiusi dietro di me, e andai a collocarmi nel vano della
casa dirimpetto, donde potevo vedere, ma non essere veduto, perché protetto
dall’ombra densa. Dopo pochi minuti vidi
il lume attraverso la mezzaluna che sta sopra la porta, ma questa non
s’aprì.
— Il maiale credeva di trovarla ancora
aperta e aveva dovuto risalire per farsi dare la chiave. È evidente.
— Infatti, passati pochi momenti,
rividi il lume attraverso la mezza luna, la porta si dischiuse e ne uscì
un giovinastro. Ma dietro a lui v’era
un’ombra bianca.
— La sgualdrina.
— Margherita, discinta, che prima di
lasciarlo partire gli gettò le braccia ignude al collo, lo tirò a
sé e lo baciò un’altra volta.
— Perché non ero ne’ vostri panni? Li
avrei ammazzati entrambi, come cani.
— Perché entrambi? Lui, lui solo
doveva, deve morire.
— E lei, la prostituta? —
domandò il Brunelli, al quale il racconto del compare aveva riacceso le
furibonde ire gelose.
— Lei sarà abbastanza punita
colla morte del ganzo. E le
servirà di lezione per l’avvenire.
Queste parole del Paoletti produssero
al sensale l’effetto di una doccia fredda. La febbre che lo aveva per un istante
assalito, scomparve. Egli lesse, allora
soltanto, chiaro nella mente del macellaro, le intenzioni di lui. Voleva ucciso l’amante, che turbava la sua
domestica intimità, ma salvata la donna, agli amplessi della quale non
sapeva, non voleva rinunziare. Per lui,
Beppe, la vendetta non era completa. Gli
bastava per quanto concerneva gli interessi, ma non appagava la sua gelosia,
non lavava abbastanza l’affronto subito. Margherita gli aveva giurato che ogni suo
affetto sarebbe riposto in lui. Poteva
dare il suo corpo ad altri, senza cessare d’essere esclusivamente sua. Invece lo aveva soppiantato un altro. Egli non era più che un secondo
compare, che divideva a perfetta metà col primo i godimenti mercenari di
quella donna.
Uccidere l’amante le avrebbe cagionato
dolore. Ma un dolore troppo tenue a
confronto del suo. E poi se ne sarebbe
consolata con un altro. Doveva tornar da
capo? Anche se gli venisse fatto d’ammazzare impunemente tutti i drudi che
Margherita si sarebbe dato, un dopo l’altro, non si sarebbe soddisfatto, perché
in quel momento, risorgeva impetuosa e prepotente la passione che gli aveva
ispirato. Ad onta di questa battaglia
che si combatteva nell’animo suo, Beppe si mantenne esternamente impassibile. La sua decisione era presa: avrebbe ucciso
l’amante ed eseguito poi contro la donna una vendetta lenta, lunga,
inesorabile, inestinguibile, come il suo dolore.
Paoletti attribuiva il breve silenzio
del Brunelli, ai calcoli che andasse facendo per compiere la decisa uccisione
dell’amante di Margherita, e volle tosto informarlo dei particolari ulteriori
della sua scoperta, affinché gli servissero di norma.
— Lasciai il tempo — riprese a dire il
macellaro — a Margherita di risalire e di ricoricarsi, poi andai a letto
anch’io. All’indomani mattina la rividi,
ma né lei parlò a me della notte, né io ne feci cenno a lei. Per due o tre notti vigilai attentamente; ma
l’amante non venne più.
— Si saran dato convegno fuori.
— È appunto quello che pensai. Mi posi sull’avviso e mi accorsi tosto che
Margherita usciva di buonissim’ora e restava fuori per mezza giornata. L’altra mattina mi appostati e quando la vidi
uscire la seguii non veduto alla lontana. Alla porta s’incontrò con l’amante, li
seguii ancora e vennero qui.
— Qui? — chiese esterefatto per la
sorpresa Beppe.
— Qui. Li lasciai entrare, quindi entrai io pure. Presi lingua dall’oste, che è un mio
conoscente e seppi che i due colombi vengono qui ogni mattina a tubare per due
o tre ore. Domandai all’amico che mi
desse una camera vicina, d’onde potessi vedere senza esser veduto, e udire
all’occorrenza, ed ebbi questa. Guarda
un po’ da quella porta.
Il sensale s’alzò e andò
a guardare fra le commessure dell’uscio dirimpetto alla tavola sulla quale
sedevano. Si vedeva il letto ancora disfatto.
— Dunque son venuti anco stamani? —
gridò, sorpreso ancora da uno de’ suoi accessi di gelosia.
— E verranno ancora domani, rispose il
compare, marcando le parole con intenzione.
— Risparmieremo all’oste l’incomodo di
rifare il letto.
Paoletti rise sinceramente di questo
frizzo di mediocre gusto, quindi disse:
— Bisognerà che fingiamo di
assentarci.
— No: sarebbe un errore. Certa di poterla fare impunemente sarebbe
capace di riportarsi a casa il drudo. Partirò io solo: voi continuerete come
di consueto.
— Ci troveremo fuori di porta all’alba.
— E così sia.
Il macellaro e il sensale discesero,
pagarono il conto all’oste e tornarono in città, tranquilli e
soddisfatti, come se avessero combinato una partita di piacere.
Era una fresca mattina di primavera: il
sole levante spargeva una luce blanda e quasi rosea sulla verzura della
campagna; gli uccelletti gorgheggiavano sulle piante, dalle fronde tuttora
irrorate di rugiada, il saluto al dì nascente. Una lieve brezza montana agitava i fiorellini
sui loro gracili steli e saturava l’aere di aromi silvestri. C’era una pace d’amore nella natura che
incantava e avrebbe reso poeta anche me, Giovanni Bugatti detto Mastro Titta,
che in fatto di versi conosco solo il rantolo de’ miei impiccati e i queruli
lamenti dei giustiziandi paurosi.
Margherita e il suo drudo, levatisi sul
far dell’alba, s’erano incontrati al solito luogo di convegno e si avviavano
verso la porta della città, allegramente cianciando:
— Dunque il tuo uomo?. . .
— Se ne è andato ieri per certe
compere di vaccine e starà fuori una settimana buona.
— E il vecchio?
— Il vecchio mi tiene il broncio. Da quella notte che venne a bussare e non gli
aprii, non mi ha più importunato.
— Gli fosse nato qualche sospetto?
— Non c’è pericolo. D’altronde che vuol egli? Lo tollero, è
anche troppo. Non ti pare?
— Altro che parere! Per parte mia
vorrei che gli pigliasse un accidente dove si trova.
— A letto, poveraccio.
— Tanto meglio: così non avrebbe
a soffrire.
— E chi ci farebbe poi le spese?
— Deve aver del denaro quel macellaro.
— Ne ha di certo. Ma ciò che è suo, non è
mio.
— Dovrebbe però diventarlo.
— Così fosse.
— Che faresti?
— Prima di tutto manderei a farsi
ammazzare Beppe.
— E se non volesse andare?
— Te ne incaricheresti tu?
Questa domanda lanciata così a
bruciapelo dalla formosissima donna fece correre un brivido per fossa al
giovane. Ma eran giunti in quel punto
alla porta ed era naturale che il drudo non rispondesse.
Precedettero in silenzio per parecchi
minuti, finché giunsero all’aperta campagna. La strada era deserta. Soltanto giù per i colli si vedeva
qualche contadino intento ai lavori agrari.
— E poi? — chiese finalmente il
giovinotto, nelle vene del quale ricominciava a fermentare il sangue.
— Poi? Sarei tua, tutta tua,
esclusivamente tua.
Il giovane inebbriato da queste parole
cinse col braccio sinistro la vita di Margherita e passatole il destro intorno
al collo l’attirò dolcemente a sé e la baciò con fervore.
La donna corrispose con pari ardore al
bacio ed all’amplesso.
E così continuarono per buon
tratto di strada, folleggiando, cogliendo fiori, abbracciandosi e ripetendosi
giuramenti d’amore e rincorrendosi l’un l’altro, come giovanetti innamorati.
— Oh! se potessimo passar la vita
eternamente così — esclamò in un momento d’ebbrezza la donna,
mentre l’amante presala improvvisamente fra le braccia a tergo le premeva, il
turgido seno e la baciava sulla bocca, avendo ella rovesciata indietro la testa.
— Sempre così? dipende da te.
— Da me? E come mai? — domandò
Margherita fermandosi di botto.
— Incomincia a sbarazzarti del vecchio.
— Vorresti?
— Perché no? Conosco una strega che
compone filtri amorosi.
— Ebbene?
— Propinandogliene ogni giorno in dose
abbondante. . .
— Mi annoierebbe anco più del
solito — interruppe la donna, alzando le spalle, come se dalle parole
dell’amante avesse tratta una delusione.
Il giovane si era fermato anche lui. La strada in quel punto faceva gomito e il
fianco coperto d’arbusti, formava una specie di chiosco aperto sul davanti,
chiuso dietro, con una banchina naturale nel mezzo.
— Vieni qui al mio fianco, ascoltami: —
riprese l’amante andando a sedersi sulla banchina e traendosi dietro Margherita
per una mano.
— Continua pure. Ma mi pare una grande pazzia quella che tu
pensi.
— È il mezzo più sicuro
per togliersi dai piedi un uomo innanzi negli anni, senza aver poi impicci. Il filtro amoroso agisce, tu l’assecondi con
quanto maggior ardore ti è dato. Nel delirio della passione, fra un trasporto
amoroso e l’altro, ottieni da lui tutto ciò che ti piace e in brevi
giorni il vecchio, disfatto, se ne va.
— E tu vorresti?. . .
— Voglio averti mia, tutta mia,
esclusivamente mia, come dicevi poc’anzi, mormorò il giovanotto
cingendola di bel nuovo colle braccia, e suggellandole la bocca colle proprie
labbra.
Ma in quel mentre s’udì un
fruscio di fronde dietro il chiosco e i due amanti balzarono in piedi
spaventati.
— Che c’è? — domandò
Margherita sgomenta; e l’altro per chetarla, prontamente rispose:
— Nulla, qualche lepre, od altro
selvatico. . .
Non terminò la frase, perché due
uomini sbucati dietro la fratta si gettarono sopra di lui e lo buttarono a
terra, prima che potesse rinvenire dalla sorpresa e porsi sulla difensiva.
Il più accanito era il
più anziano. Non aveva quasi
più aspetto umano, tanto l’odio che gli gonfiava il petto lo aveva
trasfigurato.
Inginocchiato sopra il giovane lo
teneva colla sinistra afferrato per il collo, e colla destra gli vibrava
coltellate su coltellate. L’altro
assalitore, pur ansioso di colpirlo, teneva il coltello sollevato sopra
l’infelice e studiava il posto in cui ferirlo. La donna si cacciava disperata le mani nelle
chiome, non sapendo decidersi, né a far cessare quella carneficina, né a
fuggire.
Aveva riconosciuto Beppe e il macellaro
e sopraffatta dallo spavento, pareva attendesse a sua volta la morte, conscia
d’averla meritata.
I due assassini non tardarono molto a
rialzarsi. Sfogata la libidine del
sangue, saziata la sete di vendetta, essi compresero che dovevano provvedere
alla loro salvezza.
Beppe le si avvicinò, e presala
per una mano, mentre essa faceva con ambedue schermo alla vista, la
trascinò innanzi al cadavere dell’ucciso amante, e gli disse:
— Bada bene! Questa fine faranno tutti
gli amanti che arrischiassi di prendere. Quanto a te, ben altro ti aspetta, se osassi
fiatare su quanto hai visto.
Il macellaro s’era frattanto recato il
cadavere sulle spalle e disse a Beppe:
— Andiamo a seppellirlo.
— Vattene! — intimò il Brunelli
a Margherita — e se qualcuno ti interrogasse, mozzati la lingua coi denti,
piuttosto che parlare! Soffriresti meno.
Margherita si mosse automaticamente,
quasi obbedisse a tutt’altra volontà che la sua. Pareva in istato di sonnambulismo. Pallida come una morta, cogli occhi spenti e
cerchiati di nero, le labbra livide e cascanti agli angoli, rifece quella
strada che pochi momenti prima aveva percorso, inebbriata d’amore, gaia,
festosa, ansiosa di piaceri e di godimenti.
Brunelli smosse co’ piedi la terra inzuppata
di sangue e ne fece scomparire le traccie; quindi s’avviò dietro il
Paoletti, che si era messo per una stradicciuola traversale. Camminarono per un quarto d’ora, Beppe aveva
chiesto al macellaro:
— Volete che vi aiuti? Il fardello
dev’essere pesante.
— Non occorre, aveagli risposto il
Paoletti, lo porterei volentieri in capo al mondo: è un piccolo servigio
che gli rendo.
La stradicciuola menava ad una spianata
ov’erano parecchi pozzi di calce.
— Adesso dammi una mano, disse il
macellaio.
Beppe si fece innanzi e prese per i
piedi il cadavere, che l’altro aveva deposto a terra, il macellaro lo
afferrò per le spalle e, dopo averlo bilanciato un po’, lo gittarono nel
pozzo più ampio.
— Terminato! esclamò, emettendo
un sospiro di soddisfazione, Agostino Paoletti.
— Ed ora? domandò il Brunelli.
— Ora è meglio che tu te ne vada
pe’ tuoi affari e resti fuori per una settimana ancora, come avevi annunziato. Eccoti del denaro, se ti serve. E porse una borsa al sensale, il quale se la
pose tranquillamente in tasca, dopo averla per un istante palleggiata in mano.
— Io, continuò il macellaro,
torno a Gubbio. Non istare in pensieri. Se ci saranno novità te ne farò
avvertito.
Così i due complici si
lasciarono.
Rientrando in casa la sera il Paoletti,
trovò Margherita seduta su di una scranna, silenziosa, immobile. Le si accostò e parve ch’ella non lo
riconoscesse. La scosse con una mano e
non mostrò avvertirlo.
Tutti gli sforzi fatti per richiamarla
in sentore furono frustrati. Il
macellaro pensò bene di andarsene a letto, sperando che durante la
notte, o si sarebbe scossa da sé, o un’idea sarebbe venuta a lui. Ma all’indomani mattina, la trovò
tuttora immobile, silenziosa e cogli occhi sbarrati sempre allo stesso posto.
Convenne chiamare un medico il quale la
dichiarò alienata di mente e la fece trasportare all’Ospedale, non
potendosi lasciarla abbandonata a se stessa.
Due giorni dopo venne trovato nel pozzo
della calce il cadavere dell’assassinato: ad onta delle bruciature sofferte si
riconobbero sul suo corpo le ferite infertegli dai coltelli di Paoletti e di
Brunelli e tosto la voce pubblica accusò costui del delitto.
Il fiscale ne ordinò la ricerca
e l’arresto che venne prontamente eseguito. Tradotto in Gubbio dai sbirri fu tosto posto a
confronto della ganza; la quale alla sua vista fu assalita da una crisi
nervosa, susseguita da un deliquio quasi mortale.
La prova era assai grave, ma non
definitiva e il Brunelli negava ostinatamente, dicendo di non saperne nulla. Continuarono le indagini. Si trovò l’oste, dal quale Margherita
si recava coll’amante, e questi abilmente interrogato finì per
confessare che il macellaio era stato da lui e aveva voluto una camera vicino a
quella in cui si trovavano i due amanti, che vi era pur tornato col sensale e
che nella medesima camera avevano pranzato insieme.
Posto a confronto anche con costui,
Beppe Brunelli negò tutto e trattò l’oste da pazzo. Intanto era stato arrestato anche Agostino
Paoletti, perché dalle investigazioni fatte risultò che egli aveva una
tresca con Margherita, della quale il Brunelli doveva essere informato e
consenziente. Così l’istruttoria
pervenne a ricostruire il dramma. Anche
il macellaio fu condotto innanzi alla pazza e questa appena lo vide si
rizzò a sedere sul letto, sul quale si trovava, e fulminandolo collo
sguardo, che aveva ripreso in quel momento tutti i suoi bagliori, gridò:
— Assassino! Assassino!
Quindi ricadde riversa sul letto.
Ma le prove indiziarie per quanto
schiaccianti non bastavano, né poteva valere l’asserzione di una demente.
Si dovette ricorrere ad uno stratagemma.
Si fece credere al Brunelli che il
macellaro aveva tutto confessato. E
siccome l’istruzione aveva assodato i fatti, il colpo riuscì
magistralmente. Beppe dopo lunghe
tergiversazioni, finì per fare una confessione ampia del delitto,
precisandone i particolari. E alla sua
tenne dietro quella del Paoletti.
Fu un trionfo per i giudici che avevano
condotto innanzi il processo. E la
condanna alla forca per entrambi, non si fece aspettare. Io la eseguii, come dissi, la mattina del 6
luglio, con grandissimo concorso di gente, che restò ammirata dal
contegno dei due delinquenti, i quali chiesero ed ebbero i religiosi conforti e
morirono da buoni cristiani, senza spavalderia e senza viltà. L’eco del processo si ripercosse da un capo
all’altro d’Italia.
Il giorno 12 dicembre 1807 chiusi le
mie operazioni di quell’anno impiccando a Narni Giuseppe Romiti, al quale
toccò l’onore di iniziare il secondo centinaio delle mie esecuzioni di
giustizia, nello Stato Pontificio.
Il delitto commesso dal Romiti è
per i suoi particolari, uno dei più feroci, dei più barbari e dei
più strani che nel lungo corso della mia esistenza io abbia avuto
incarico di punire colla morte. Era
Giuseppe Romiti un vignarolo dei dintorni di Narni. Avaro, egoista, crudele, egli era odiato,
quanto temuto. Viveva solo come bestia,
senza un amico, senza porsi mai nel consorzio dell’altra gente. Si assoggettava a privazioni di ogni maniera
per accumular danaro. Aveva moglie, ma
il suo matrimonio non era stato benedetto dalla prole. Convivevano con lui due sorelle e non aveva
voluto maritarle mai, per non sborsare un soldo di dote. Aveva pure un fratello minore, che aveva
condotta in sposa una onesta e laboriosa fanciulla, che lo aveva reso padre di
due bambini, ma per questi pure non aveva un sorriso mai, sebbene fossero i
soli in casa, ai quali usasse qualche riguardo e non limitasse il vitto. Egli avrebbe voluto educarli tristi, come lui
e soleva dire che quando si sarebbero fatti grandicelli, li avrebbe tolti ai
loro genitori, perché non crescessero disutili com’essi.
Fra tante cattiverie aveva solo un
sentimento buono ed era quello di voler continuata e ricca la sua famiglia.
Da qualche tempo Giuseppe Romiti si era
accorto che si commettevano dei piccoli furti agresti nel suo poderetto. Ma per quanta vigilanza esercitasse, non era
mai riuscito a cogliere i ladri.
— Se mi vien fatto di pigliarli,
ripeteva ad ogni tratto, giuro d’impiccarli colle mie mani.
Nel podere aveva un frutteto, coltivato
con grande cura, ed amava i superbi alberi ai quali dedicava di giorno le sue
fatiche, di notte i suoi pensieri. Fra
questi alberi primeggiava un magnifico pero, carico di frutti, che il sole
autunnale andava indorando e che formava la sua delizia e il suo orgoglio. Aveva calcolato, che raccogliendo i frutti ben
maturi ne avrebbe ricavata una somma per lui non indifferente e il buon tempo
lo faceva indugiare all’opera.
Un bel mattino levatosi più
presto del consueto e recatosi ad esaminare il suo piccolo tesoro, lo
trovò completamente spogliato. I
ladri non avevano lasciate sulla pianta che le poche pere danneggiate ed
immature.
La sua rabbia salì all’altezza
del furor bianco. Non disse verbo tutto
il giorno. Non chiese notizie a nessuno.
L’ira gli dava una specie di
chiaroveggenza. Gli era entrata
nell’animo la persuasione che avrebbe colto i ladri e che avrebbe potuto
finalmente vendicarsi di tutti i furti patiti.
Calata la sera, finse d’andarsene a
letto e ci si buttò infatti, ma vestito. E quando il silenzio profondo che regnava
nella casa lo avvertì che tutti erano andati a dormire, scese pian piano
nell’orto e andò a rimpiattarsi in un vivaio d’alberi nani. Aspettò lunghe ore, senza fare un
movimento. Aspettò colla certezza
nel cuore che i ladri sarebbero venuti e con essi il momento di sfogare il
livore che aveva nell’animo.
Incominciavano le stelle a impallidire
e la tinta del cielo a farsi un po’ più chiara, quando udì uno
stormir di foglie, dal lato della siepe, che divideva il frutteto dalla strada.
Tese l’orecchio e sentì il rumore
di passi, benché lievissimi. Il rumore
si avvicinava. Alzò la testa e
vide un giovinetto a pochi passi da lui, con un canestro sotto il braccio, che
si avvicinava ad un albero di pere, meno bello di quello spogliato, ma pur
promettente.
Non si mosse. Volle che il furto avesse un principio
d’esecuzione. Non attese molto: il
giovane scalzo, abbracciato il tronco dell’albero, vi si arrampicava. Aveva già afferrato un grosso ramo e
stava per prendere lo slancio e salirvi sopra, quando Giuseppe Romiti
balzò fuori del suo nascondiglio.
Rizzarsi, afferrare il disgraziato
ladro per le gambe, tirarlo a terra e montargli colle ginocchia sul petto, fu
un affare di pochi secondi.
— Pietà, padron Beppe,
pietà di me e della mia povera mamma — mormorava supplicando l’infelice.
Il Romiti non udiva, o almeno non
rispondeva: stette un momento in forse, pensando qual morte dovesse fagli fare.
Una truce idea gli balenò alla
mente: lo denudò, quindi legatogli i polsi e i piedi, salì lesto,
come uno scoiattolo, sopra l’albero, passò il capo della corda
attraverso due grossi rami, le cui cime colla forza poderosa delle sue braccia
riuscì a riunire: quindi sciolto il nodo che gli avvinceva le gambe,
legò i due piedi ognuno ad uno dei capi dei rami. Questi abbandonati a se stessi si staccarono e
il corpo dell’infelice fu spaccato come quello di un agnello, appeso ai ganci
da un macellaro e tagliato a mezzo.
Compiuta l’orribile vendetta, Giuseppe
Romiti, scese dall’albero. Passava in
quel momento suo fratello che recavasi al lavoro; egli lo chiamò e gli
offrì la vista di quel tremendo spettacolo.
Poche ore dopo si consegnava da se
stesso al bargello di Narni. Eretto il
processo fu condannato all’impiccagione per «barbaro omicidio», ed io la
eseguii. Morì impenitente,
coraggiosamente e soddisfatto dell’opera propria.
Dopo mesi di riposo, il 17 febbraio
1816 ebbi una doppia esecuzione a fare in piazza del Popolo, ma i delinquenti
non avevano alcun rapporto fra loro, e senza alcuna relazione erano i reati pei
quali subivano l’estremo supplizio.
Il primo fu Francesco Perelli romano,
un giovane operaio condannato, per omicidio premeditato, alla forca semplice.
Era stato trovato dai gendarmi in via
Florida, di notte vicino al portone di un palazzo dove era stato commesso un
assassinio in persona di un cittadino. Aveva ancora in mano uno stilletto
affilatissimo con breve impugnatura di ferro, intriso di sangue, e pur di
sangue erano inzuppati i suoi abiti. Non
oppose resistenza di sorta all’arresto. Condotto innanzi al bargello non seppe o non
volle dir nulla. Pareva inebetito. Era orrore del misfatto commesso? Era timore
delle conseguenze penali che lo aspettavano? Era una prostrazione d’animo
cagionatagli dalla passione che gli aveva armata la mano? Nessuno avrebbe
arrischiato di affermarlo sopra coscenza.
L’ucciso era un giovane di belle
sembianze, vestito signorilmente, ed appartenente a nobile e ricca famiglia. I birri lo avevano trovato bocconi sul
lastrico in un lago di sangue che gli usciva gorgogliando da una ferita alla
gola e da un’altra al petto in direzione del cuore. Doveva essere stato colpito da pochi minuti. Lo sollevarono e l’adagiarono a sedere sul
marciapiede, appoggiandogli le reni al muro; ma non si reggeva e non dava alcun
segno di vita. Bussarono tosto al
portone innanzi al quale era caduto. Accorse il portiere, aprì ed informato
del fatto, uscì fuori con un lume e tosto riconobbe il morto,
esclamando:
— Don Enrico!. . . Povero don Enrico!
Poi aggiunse:
— Ma già la doveva finire
così. Benedette donne.
— Lo conoscete dunque? chiesero i birri.
— Altro che conoscerlo! È il
figlio del padrone di casa.
— Credete che sia stato grassato?
— Ma che grassato, non vedete che porta
gli anelli alle dita e la catena d’oro al panciotto?
Era infatti così.
Gli frugarono in tasca e gli trovarono
la borsa, con molti zecchini e scudi dentro e un medaglione d’avorio colla
miniatura d’una bellissima fanciulla, montato con gran lusso e fregiato di
brillanti.
L’ucciso venne portato nel camerino del
portinaio, con ordine di non toccarlo, prima che fossero giunti gli inquirenti.
E i birri un po’ tardi, se si vuole, ma
pur sempre in tempo, si lanciarono fuori del palazzo per vedere se trovavano
traccia dell’assassino.
Lo incontrarono infatti a via Florida a
pochi passi soltanto del delitto, appoggiato ad una parete della strada e
precisamente sotto un lampione, per cui dalle macchie di sangue che aveva sul
vestito, dal pugnale che teneva fra mani lo riconobbero subito.
Per parecchi giorni si mantenne nel suo
mutismo assoluto, e in quello stato di accasciamento nel quale era caduto
subito dopo che fu commesso il delitto.
Né le lusinghe, né le minaccie avevano
potuto nulla sopra di lui. Il giudice si
disperava per non potere trovare un mezzo di scuoterlo.
Finalmente il quinto giorno, non appena
se lo vide comparire innanzi gli disse:
— Francesco Perelli, voi non siete né
un ladro, né un volgare assassino. Noi
abbiamo in gran parte assodato il movente del vostro delitto. Questo ritratto che è stato scoperto in
tasca alla vittima, ci servì di filo conduttore per le indagini.
Il delinquente pareva uscisse, man mano
che il giudice parlava, da quello stato di semistupidità, in cui era da
tanti giorni immerso: ascoltava con attenzione il suo interlocutore e negli
occhi gli balenavano l’intelligenza e l’odio.
Il giudice gli porse il ritratto,
dicendogli: — Guardate, un po’, Perelli, se lo riconoscete?
L’accusato afferrò il ritratto,
gli diede una occhiata rapida e proruppe in un grido:
— Mia sorella!. . . L’infame!
— Vostra sorella, precisamente —
rispose il giudice assecondandolo. Quindi, provando ad indovinare, riprese:
— Don Enrico era il suo amante?
— Il suo seduttore, dite il suo iniquo
seduttore; la causa del suo disonore e della mia rovina.
— Calmatevi e narratemi i particolari
di questa seduzione. Badate d’essere
sincero e leale; non vi lasciate acciecare dall’odio. La verità, la verità sola
può salvarvi.
Francesco chinò la testa e due
lagrime cocenti gli irrigarono le gote.
— Un uomo che piange è un uomo
vinto — pensò il giudice — saprò subito la verità, tutta
la verità.
E riprese l’interrogatorio.
Virginia Perelli era una bellissima
ragazza di Trastevere sulla quale s’erano indarno fermati gli occhi cupidi di
tutti i giovani del rione, perché quanto bella era virtuosa ed onesta.
Orfana di padre e di madre, abitava col
fratello Francesco in una casuccia in via Vascellari. Occupavano una camera a terreno che serviva da
cucina e due camerette superiori, alle quali si accedeva per una scaletta di
legno, interna: nella prima dormiva Francesco, nell’altra Virginia.
Il fratello lavorava un po’ di
falegname, un po’ di calafato a San Francesco a Ripa e, abile com’era,
guadagnava discretamente. La sorella era
una bravissima restauratrice di pizzi e merletti antichi, e i lavori di maggior
importanza e di maggior difficoltà, venivano dai negozianti di piazza di
Spagna mandati a lei e veniva ben pagata. Nella casa vivevano quindi in una discreta
agiatezza; la camera di Virginia era civettuola, quella di Francesco linda. La fanciulla aveva un bel vezzo di corallo,
delle scioccaie d’oro guarnite di perle come una sposa e tanti altri gioielli
d’oro. Vestiva con semplicità
elegante, da minente s’intende, ma senza sfarzi, chiarendo così la
squisitezza del suo gusto. Quando la
festa usciva col suo abito color di rosa, che gli disegnava la vita snella e
dava risalto alle sporgenze esuberanti del seno e delle anche, collo scialle
nero buttato incuratamente sulle spalle, fatte più ampie dai rigonfi
delle mammelle, cogli scarpini scollati e le fettuccie incrociate sul collo del
piede piccolo e arcuato, avente di sotto la gonna breve, guarnita di un piccolo
falbalà, destava l’ammirazione universale. Le fanciulle e le mamme ne erano invidiose, i
giovani innamorati. E questi si davano
convegno alla chiesa di Santa Cecilia, dove soleva recarsi ad ascoltare la
messa.
Né trascuravano di passare innanzi al
portoncino della sua casa, ove ne’ giorni feriali soleva trattenersi a
lavorare, come le altre donne e ragazze della via, per meglio godere l’aria e
la luce.
Sull’imbrunire di una calda ed afosa
giornata estiva, Virginia rimarcò un giovanotto, dall’ardito portamento
che passava e ripassava per via de’ Vascellari, guardandola e riguardandola
fissamente, e con aperta intenzione di richiamare la sua attenzione.
La sua persona alta e slanciata, il suo
bel viso ovale e bruno pallido, sul quale spiccavano maggiormente il nero della
barba morbida e gentile, e sopratutto il suo occhio a volta languido a volta
fiammeggiante, non parevano nuovi alla Virginia. Le sembrava di averli veduti altrove; ma i
ricordi le si confondevano nella memoria.
La fanciulla soleva in quell’ora andare
incontro al fratello verso San Francesco a Ripa, da dove poi si recavano in
qualcuna di quelle osterie adiacenti a fare un po’ di cena ed a godersi il
fresco.
Quella sera esitava. Aveva paura che il giovane imprudente la
seguisse. Ma alla finfine si decise: si
buttò sulle spalle lo scialletto nero, ed uscì chiudendo la porta
dietro di sé. Si guardò intorno
un momento e non vedendo il giovane, come temeva, svoltò il vicolo de’
Salumi, affrettando il passo. Ma non
appena giunta a piazza Romana se lo vide venire innanzi. Ne provò un certo sgomento non
disgiunto da un’ombra di piacere, un’ombra.
— Perdonate Virgina, le disse il
giovane con fare sciolto, se vi fermo per la strada. Ma ho bisogno di parlarvi.
— Non vi conosco — mormorò
arrossendo la fanciulla.
— Appunto perciò: se non vi
parlassi non mi conoscereste mai.
— Che avete a dirmi? Parlate, sto ad
ascoltarvi. Ma spicciatevi, perché mio
fratello mi aspetta.
— Il luogo non mi pare molto acconcio. Ma poiché lo volete sia così. Se permettete vi accompagnerò per un
pezzetto di strada.
— No, no, io vado sempre sola.
— Né io intendo distogliervi dalle
vostre abitudini. Ma per questa volta
concedetemelo. In seguito poi
combineremo diversamente.
— In seguito? — domandò Virginia
trepidante, avviandosi col bel giovane allato.
— Sì, in seguito, Perché il
nostro colloquio non sarà che il primo.
— Spiegatevi meglio.
— Nulla di più facile. Io vi amo, Virginia, e dovete esser mia.
— Ma io non voglio lasciar solo mio
fratello, che mi ha levata sin da bambina, quando morirono il babbo e la mamma.
— Non c’è bisogno di lasciarlo,
almeno per il momento. D’altronde chi vi
dice che egli pure non si sacrifichi condannandosi al celibato per non
lasciarvi? È un giovanotto e un amore l’avrà anche lui.
Questa riflessione che la fanciulla non
aveva mai fatto, la scosse profondamente. Ella comprese subito la ragionevolezza della
cosa e pensò: Perché non potremmo maritarci entrambi: la famiglia
è dopo tutto lo scopo della vita. Da quel momento non fu più spiacente
dell’incontro col giovinotto e gli prestò più facile orecchio.
— Se credete ne parlerò subito a
vostro fratello.
— No, subito no. Lasciate che ci pensi io. Non avete fretta, suppongo? gli domandò
piegando la vezzosa testolina sulle spalle e guardandolo con simpatia.
— Si ha sempre fretta, quando si tratta
di farsi amare da una bella fanciulla, come voi, Virginia.
— Chi vi ha detto il mio nome?
— Lo so da un mese.
— Da un mese?
— Dal primo giorno che vi ho veduta, io
ho deciso di farvi mia.
— Deciso? Siete molto sbrigativo. E il mio consenso?
— Sono qui per domandarvelo. Perché domandarvelo? Non me l’hanno già
detto i tuoi occhi, che un po’ di bene me lo vuoi pur tu?
— I miei occhi o non hanno detto nulla,
o hanno detto bugia.
— Non lo credo. Sono incapaci. Tu non sei civettuola. Non hai mai avuto amanti. Ed è per me che il tuo cuore
palpiterà per la prima volta.
— Ih! Ih! Come correte! Chi vi ha detto
tutte queste belle cose?
— Lo so, e questo ti provi, come prima
di abbandonarmi alla passione che mi hai inspirato, ho voluto assicurarmi che
ne eri degna.
— Lasciamoci. Non vorrei che incontrassi mio fratello,
mormorò la fanciulla, la quale incominciava a sentirsi meno forte di sé
e aveva paura di lasciarsi sfuggire una confessione della quale non v’era
d’uopo, perché il giovane aveva capito benissimo l’affetto che la sua persona,
le sue parole avevano prodotto sull’animo ingenuo di Virginia.
— Come vuoi. Quando ci rivedremo?
— Quando vorrete. . . , balbettò
arrossendo la fanciulla.
— Domani.
— All’ora ed al luogo stesso. Addio. . . Come vi chiamate?
— Enrico.
— Enrico? Un bel nome!
— Ti piace? Ebbene, allora dimmi:
«Arrivederci Enrico mio. » e dammi la mano.
— Mio? Sarà poi vero?
— Te lo giuro.
Si scambiarono una stretta e per quella
sera si lasciarono.
La relazione fra i due giovani
continuò: Enrico era ardito, intraprendente e rotto a tutte le arti
della seduzione. La fanciulla ingenua,
ardente e innamorata. La vittoria non fu
troppo a lungo disputata al bravo operaio, che aveva modi così distinti
e adoperava un linguaggio così diverso dagli altri.
Talvolta Virginia gli diceva:
— Tu parli come un principe.
— E vorrei esserlo.
— Perché?
— Per farti la mia principessa.
Nei trasporti, nelle ebbrezze della
passione, la fanciulla dimenticò tutto. . . il fratello, la promessa di matrimonio. . . l’avvenire. Viveva quasi in uno stato d’estasi amorosa
permanente.
Ma venne il giorno in cui dovette
accorgersi che portava in seno il frutto di quell’amore. E allora provò una stretta al cuore,
quasi fosse già presaga di quello che doveva accadere.
Intanto rimandava da un giorno
all’altro la confessione del suo stato ad Enrico. Temeva che questo avesse a dargli noia, ed
allontanarlo da lei. Ma un bel giorno il
giovinotto se ne accorse, e le disse:
— Virginia, tu sei incinta.
La fanciulla chinò vergognosa il
capo sul seno accennando di si.
— Perché non me n’hai avvertito?
— Avevo paura di recarti dispiacere.
— Certamente mi impiccia. Ma prima si sarebbe potuto rimediare.
— Come? — domandò Virginia
sbigottita.
Enrico comprese d’essersi spinto troppo
oltre e tentò riparare. Ma il suo
spirito era troppo conturbato e cadeva di errore in errore.
— Non puoi restar qui, — le disse — fra
breve tutti se ne accorgerebbero, e diventeresti la favola del quartiere.
— Mio fratello mi ucciderebbe —
mormorò la fanciulla.
— Come uscirne?
— Sposami! — esclamò Virginia,
trovando ad un tratto tutta la sua energia di trasteverina, con una di quelle
insurrezioni dell’animo che sono proprie dei grandi caratteri.
— Sposarti, sta bene — rispose con poca
franchezza il giovane, al quale aveva fatto grande impressione lo sguardo con
cui l’aveva fulminato la fanciulla mentre emetteva quel grido: sposami! —
Sposarti, certamente, lo farò, ma non adesso, non lì per
lì.
— Vorresti dunque espormi alla vergogna
certa ed alla morte probabile?
— No no. Manco per sogno.
— Come si fa dunque?
— Senti, io ho una villetta presso Albano.
— Tu possiedi una villetta? —
esclamò più che mai turbata, Virginia, da quella rivelazione. — Dunque tu non sei un operaio, come mio
fratello, come me? Dunque mi hai ingannata? Dunque mi hai sedotta per puro
passatempo. Dunque hai fatto di me una
donna perduta? Dunque non mi ami, non mi hai amata mai!
Riscaldandosi man mano che pronunziava
queste parole, Virginia era diventata una fiera. Con quella meravigliosa intuizione che
è tutta propria delle donne quando si trovano subitamente tratte in un
grave pericolo, ella aveva perfettamente compresa la situazione. Per lei non c’era più salvezza
possibile e non c’era più amore. Ma restava la vendetta, e questa voleva
assaporarla.
Lesta come il fulmine si strappò
dai capelli uno stiletto d’argento, col quale li teneva fermati alla
sommità del capo, e si lanciò sul giovinotto per colpirlo; ma
questi fu abbastanza pronto per scansare il colpo.
Ma non perciò si calmò la
furia di Virginia. Col superbo mantello
dei capelli neri sciolti lungo la persona, le gote avvampanti, gli occhi di
bragie, il petto ansante, le braccia tese, divinamente bella e fascinante,
tornò a farsi sopra Enrico e riuscì a sfiorargli il collo colla
punta dello stilletto.
Un piccolo spruzzo di sangue caldo le
soffuse il volto, e allora disperata di dolore ed ebbra di passione si diede a
baciargli colle labbra, quasi cauterizzanti, la lieve ferita.
— Quanto sei bella! — mormorò
Enrico stringendosela al seno. E fu
un’orgia di amplessi frenetici.
Stanchi, spossati, non sazi, ristettero
al fine e allora il giovine così parlò alla adorata fanciulla:
— Senti Virginia, ti ho ingannata
è vero. Ma ti ho ingannata perché
ti amavo, perché ti adoravo, come t’amo e come t’adoro adesso. Non sono un operaio; sono un gentiluomo,
appartengo ad una famiglia forte di denaro e di influenze. Se ti sposassi contro il suo volere, ed al
consenso non c’è manco a pensarci, mal ne incoglierebbe a me, a te e a
tuo fratello. Col tempo, forse, morti i
miei genitori, andandocene via dallo stato pontificio potrei. Ma a che cullarci in vane speranze? Io t’amo;
io sono tuo per la vita e per la morte. Vuoi morire? Moriamo insieme. Io sono pronto, te lo giuro. Vuoi viver? Te l’ho detto; posseggo una
villetta mia, che ho ereditato da una parente, presso Albano, con un piccolo
podere annesso. Io te ne faccio
donazione legale, inter vivos, come dicono i notai. Tu vi starai come una regina. Io verrò a trovarti ogni giorno. Vi rimarrò delle settimane, dei mesi e
sarà per noi una oasi d’amore. Darai alla luce e alleverai il nostro bimbo,
il quale sarà per noi un nodo più indissolubile di qualsiasi
matrimonio. Molta e lunga
felicità ancora ci aspetta, o Virginia, se tu vuoi.
— E mio fratello? — mormorò la
fanciulla, che si sentiva dolcemente affascinata dalle parole di Enrico, che le
suonavano all’orecchio come una musica soave.
— Non saprà egli perdonarci?
— Ah! Mai. Ci ucciderebbe entrambi, se riuscisse a
scoprirci.
— Dunque? Moriamo o partiamo?
— Moriamo — disse risolutamente
Virginia.
— Dove? Qui?
— Qui.
Enrico trasse una pistola a doppia
canna riccamente damaschinata, di quelle che allora incominciavano a portarsi,
la montò freddamente, assicurandosi che le pietre focaie avrebbero ben
funzionato e se l’appuntò alla tempia destra dicendo:
— Addio Virginia: fa come me.
Ma la fanciulla ratta, come il baleno,
gli afferrò il braccio e gli strappò l’arma micidiale, e
baciandolo sulla bocca gli sussurrò:
— Partiamo.
Francesco Perelli tornò a casa
quella sera agitatissimo. Non aveva
veduto la sorella venirgli incontro, ed un sinistro presentimento gli diceva
che doveva averla colta qualche disgrazia. Giunto alla porta la trovò socchiusa. Entrò ed era buio, accese un lume e
salì per la scaletta di legno alle stanze superiori. Ma vi cercò indarno Virginia.
Guardò per ogni dove per vedere
se trovava qualche traccia, dalla quale arguire dove fosse andata, che cosa
fosse avvenuto, e finalmente trovò sul suo tavolino da notte un foglio
piegato.
Lo aprì con mano tremante e lo
lesse. Diceva:
«Fratello mio.
Una fatalità contro la quale
avremmo cercato invano di lottare ci separa e forse per sempre. So il dolore che ti cagiono con queste parole
e lo divido. Ma il tempo
rimarginerà la tua ferita. Una
moglie buona ed onesta occuperà il mio posto nel tuo cuore. Ma non dimenticarmi. Non dimenticare la tua Virginia, della quale
tu fosti fratello e padre e mamma insieme, la tua Virginia che t’ama e
t’amerà sempre, fino all’ultimo istante del viver suo e che fa voto a
Dio di poterti un giorno rivedere e di apparirti innanzi detersa d’ogni colpa e
ancor degna di te.
Virginia. »
Quella lettera misteriosa colpì
profondamente lo spirito di Francesco. Egli intravide una parte della verità. La forza del suo carattere vinse lo strazio
dell’animo.
All’indomani, uscendo annunziò
che sua sorella era partita da Roma, per andare a trovare dei parenti in
montagna. Ma dei sorrisi ironici
accolsero le sue dichiarazioni e delle parole abbastanza maligne, specialmente
da parte delle donne:
— Già si capisce! Ingrassava a
vista d’occhio quella povera ragazza. Doveva avere qualche malattia segreta, nella
pancia. L’aria di montagna le avrebbe
fatto bene, fra cinque o sei mesi sarebbe tornata svelta come prima. Non c’era da formalizzarsene. Sono mali che toccano alle ragazze, quando
hanno l’abitudine d’uscire a prender il fresco verso sera ed hanno paura
d’andar sole.
Queste ed altre frasi congeneri erano
frecciate al cuore di Francesco. Nondimeno ebbe la forza d’animo di
dissimulare; rispose che Virginia non sarebbe forse più tornata, perché
in montagna aveva un cugino che l’aveva chiesta in sposa.
— Meglio così, gli venne
replicato. I cugini di montagna sono
fatti apposta per questo. Se no, che ne
avverrebbe delle povere ragazze di città abbandonate da loro amanti gran
signori travestiti da operai?
Breve, di parola in parola, una qua,
l’altra là, Francesco venne a saper tutto o quasi tutto. Virginia aveva un amante che vestiva da
operaio, ma mostrava di non esserlo punto col suo portamento e le sue maniere. Non salutava nessuno, guardava la gente d’alto
in basso. Aveva incominciato a ronzare
intorno alla casa. Una sera aveva
seguito la ragazza, le aveva parlato e s’erano evidentemente intesi, perché
d’allora in poi, tutti i giorni l’accompagnava e prendevano le strade
più lunghe e più deserte. Poi il bel giovane aveva incominciato ad
entrare in casa: si tratteneva pochi momenti, sulle prime. Ma i pochi momenti erano diventati molti e
lunghi. La frittata, dicevan le
donnicciuole, ormai era fatta. Non c’era
che d’andare in montagna.
Francesco represse il suo sdegno e
consacrò tutte le sue indagini per ritrovar la sorella. Un suo amico, che amava Virginia, avrebbe
voluto sposarla ed era stato da lei rifiutato, l’aveva veduta una sera coll’amante
ed era certo di riconoscerlo sotto qualunque spoglia, s’unì a lui per
far le ricerche. Ma tornarono vane per
lungo tempo.
Un giorno che passeggiavano insieme a
Villa Borghese, all’ora del Corso, l’amico strinse fortemente il braccio di
Francesco e accennando un elegante giovanotto che guidava una superba pariglia
disse:
— Eccolo, eccolo.
— Chi?
— L’amante di tua sorella. .
— Quello.
— Sì.
Francesco non ascoltò altro: si
lanciò dietro il legno e lo rincorse finché lo vide entrare nel palazzo di
via Florida. Allora s’informò chi
era e lo seppe.
All’indomani si presentò al
palazzo chiedendo di don Enrico. Questi,
di nulla sospettando, lo ricevette in presenza di sua madre. Francesco non seppe contenersi, e non appena
si trovò in faccia a lui proruppe:
— Che ne hai fatto di mia sorella,
assassino, seduttore vigliacco?
Enrico fece del suo meglio per
contenersi senza irritarlo viemaggiormente. Ma fu fatica sprecata. Francesco lo investì con una sequela di
vituperi e gli andò coi pugni sotto il naso.
La madre intervenne e lo fece mettere
alla porta dai servitori. Questi
eccedettero e ai suoi tentativi di ribellione, risposero a suon di bastonate. Francesco dovette tornarsene a casa assai
malconcio.
Allora mutò tattica e si diede a
spiare le abitudini del giovane col proposito di ucciderlo. Ma Enrico si era recato alla villetta d’Albano
per assicurarsi che nessun pericolo minacciasse la sua Virginia, ch’egli amava
più che mai, e stette assente parecchi giorni.
— È fuggito, il codardo! — bestemmiava
Francesco.
Dopo pochi giorni Enrico tornò. Tornò raggiante di felicità
perché aveva avute le più tenere prove d’amore dalla sua diletta
Virginia, e s’era accertato che suo fratello non aveva scoperto il ricovero.
Alla sera, verso la mezzanotte, ritornava
a casa, quando fu assalito da Francesco, che risaputo il suo ritorno, si era
posto in agguato vicino al portone.
Non appena lo vide gli si
slanciò sopra e gli diede una pugnalata alla gola, togliendogli la
possibilità di parlare, poi una seconda al cuore che lo estinse!
Enrico era caduto al suolo fino dal
primo colpo e Francesco si era rovesciato sopra di lui.
Quando si rialzò una nube di
sangue gli aveva offuscata la ragione, stette come stupido, senza neppur
pensare ad allontanarsi dal teatro del delitto. Se lo avesse fatto gli sarebbe stato
agevolissimo di sottrarsi alle conseguenze del medesimo. Ma egli era quasi inconscio di sé. Quando i birri lo arrestarono, come
avvertimmo, a pochi passi dal palazzo sotto il portone del quale aveva pugnalato
Enrico, era già scorsa una buona mezz’ora.
Quando il giudice ebbe mostrato a
Francesco Perelli il ritratto di Virginia e questi lo aveva riconosciuto, il
compito dell’istruzione del processo divenne facilissimo. L’accusato narrò per filo e per segno
la storia degli amori di sua sorella coll’assassinato, quale l’aveva risaputa
dal vicinato. Virginia venne chiamata in
testimonianza. Il suo incontro col
fratello fu straziante.
Ella completò le deposizioni di
Francesco, senza cercare di aggravarne la posizione, né di offendere la memoria
dell’ucciso suo amante, del quale vantò l’affezione e la nobiltà
del trattamento fattole, in espiazione della seduzione.
Francesco sbuffava d’ira, udendola
parlare in favore della vittima e diede in escandescenze feroci, facendola
segno di contumelie e vituperi ed imprecando alla sorte che non gli permetteva
di uccidere pure lei, come il suo drudo.
Questo alienò all’accusato
l’animo dei giudici e Francesco Perelli ad onta delle circostanze che
attenuavano la parte del suo misfatto fu condannato a morte, mediante
strangolamento. Udì imperterrito
la sentenza, ed esortato a prepararsi ad una buona morte rispose che vi si era
preparato fin dal momento in cui aveva deliberato l’uccidere il traditore della
sua famiglia, il seduttore di sua sorella. Invitato a perdonare se voleva essere
perdonato, replicò che avrebbe perdonato se avesse potuto uccidere anche
la Virginia, perché così avrebbe cancellata l’onta di cui s’era coperta.
Sollecitazioni, preghiere, minaccie a
nulla valsero. Non volle saperne di
confessarsi, respinse i confortatori e morì impenitente, movendo
francamente dalla carretta ai gradini del patibolo. Mentre stavo per buttargli il laccio al collo,
si scansò rapidamente e rivolgendosi alla folla gridò:
— Popolo impara come si vendica dei
nobili e come ben si muore vendicati.
Pochi momenti dopo era lanciato
nell’eternità.
Non appena la compagnia di San Giovanni
ebbe staccato e trasportato il cadavere del Perelli alla sua chiesa, dovetti
recarmi alle carceri di Tordinona per pigliarvi il grassatore Carlo Castri, che
era stato condannato — per quel giorno stesso — alla forca ed allo squarto. Ci volle un po’ di tempo, perché il reo aveva
opposta la più energica resistenza, ai carcerieri, ai birri ed a me
stesso prima di lasciarsi porre sulla carretta. Gridava come un ossesso e non voleva saperne
di andare al supplizio. Aveva ammazzato
barbaramente tante persone, uomini e donne, vecchi e giovani ed aveva una paura
spaventevole della morte. Implorava
grazia per tutti i Santi del Cielo, e urlava che il Santo Padre rappresentante
di un Dio di bontà e di misericordia doveva perdonargli. Lo mandassero pure in galera, lo chiudessero
nel più tetro carcere, ma gli lasciassero la vita.
Si dovette legarlo per forza e
imbavagliarlo affinché s’azzittasse.
Quando giungemmo sulla piazza del
Popolo, ch’era gremita d’una folla impaziente di assistere allo spettacolo di
uno squartamento, si sprigionò da tutti i petti un sospiro di
soddisfazione.
— Eccolo! Eccolo!
E siccome era già giunta la
notizia delle resistenza che aveva fatto si aggiungeva:
— Ora è in mano di Mastro Titta,
non c’è più pericolo che scappi: dalle sue mani non si sfugge.
Avvicinandomi al palco udii ancora
distintamente parecchie grida di: viva Mastro Titta; e quando l’ebbi lanciato
nel vuoto, col capestro ben annodato intorno al collo, scoppiarono anco degli
applausi. Sicuro, mi battevano le mani,
salvo a mettermi a pezzi, se fossi disgraziatamente caduto in loro potere in un
momento buono. Per fortuna conoscevo
bene gli umori della folla e non mi sono mai lasciato lusingare dalle cortesie,
come non mi sono mai intimorito per le minaccie.
Ma non era stata agevole l’impiccagione
di quell’indiavolato.
Non appena toltogli il bavaglio,
ricominciò ad urlare, a chiedere grazia e ad invocare le celesti legioni
perché discendessero a liberarlo. Non
era svenuto come tanti altri, possedeva ancora tutte le sue forze; ma era
mestieri trascinarlo e portarlo su a braccia mentre si dibatteva.
Col laccio al collo gridava ancora, fu
proprio la corda che gli strozzò la parola in bocca. Impiccato, diventò paonazzo e quasi
nero. Aveva gli occhi fuori dell’orbita,
i capelli irti come chiodi, la lingua sporgente dalla bocca dura e irrigidita. Quando incominciai a spaccarlo, mi pareva che
le sue fibre avessero ancora dei fremiti di vita. Certo non avevano perduto punto del loro
calore naturale. La giornata era rigida;
soffiava la tramontana e le sue viscere fumavano, come se fossero state tratte
bollenti da una pentola. Al contatto
dell’aria algida il fumo si condensava in grasso e deponendosi sulle mie mani,
me le rendeva scivolose. Prima di
tornare a casa mi ci volle una libbra di sapone per ripulirmele. Questo, commisto al sangue ed al grasso
formava una spuma rossastra, che sarebbe bastata per far la barba a un
reggimento di soldati.
Anche i quarti attaccati alle braccia
del patibolo fumarono per parecchio tempo. Non mi era mai accaduto di vedere un fenomeno
simile. Dovetti bruciare le travi della
forca, perché non sarebbero state più servibili, e ardendo esalavano un
puzzo orribile, che uscendo dalla porta di casa mia si diffuse per borgo
Sant’Angelo, con non lieve incomodo per gli inquilini i quali mi domandarono se
per avventura avevo fatto cuocere delle salsiccie d’impiccati.
Carlo Castri era un vinaio che aveva
una piccola osteria di cucina in campagna ai Monti Parioli poco sotto Ponte
Molle. Quando era buon tempo, di
primavera, d’estate e d’autunno la gente che veniva dalla città la
frequentava, e guadagnava discretamente. Ma d’inverno e quando imperversava la pioggia,
nella sua bottega per settimane e settimane non capitava anima viva, perché
godeva di una pessima riputazione, e la gente dei dintorni si guardava bene dal
recarvisi.
Era molto passionato per le donne, e
quelle che capitavano nei pressi della sua osteria, per far cicoria o lumache,
erano costrette a pagargli un tributo in natura. Forse non eran troppo malcontente, perché
Carlo era un bell’uomo, alto, con un collo taurino, indizio di forza indomita,
profilo del volto corretto, candido di pelle, con piccoli favoriti bruni e
occhi sfavillanti. Se gli resistevano,
dalle buone passava alle brusche, e si sussurrava, che più d’una,
entrata incautamente nel suo negozio, era stata da lui trascinata nella grotta
e non aveva più trovata l’uscita.
Allo scarso concorso di avventori il
Carlo, suppliva appostandosi sulla strada di notte e spogliando i passeggeri
che incontrava, dei quali era certo d’aver facilmente ragione. Ma s’era sempre condotto con tanta furberia,
che ad onta delle voci pessime che correvano sul suo conto, non era mai caduto
in fallo, né aveva avuto a soffrir molestie da parte dell’autorità.
Le pattuglie in perlustrazione si
soffermavano anzi alla sua osteria, ed egli faceva loro le migliori accoglienze.
Spillava per loro il vino delle botti
che riservava per se stesso e per i cacciatori di qualità, che ignorando
la sua triste fama, non isdegnavano di fare uno spuntino da lui. Vuolsi aggiungere che pochi cuochi sapevano
cuocere al par di lui un pezzo di selvaggina allo spiedo, o preparare un piatto
di fettuccine, o mettere un par di polli in padella e cucinarli lì per
lì, dopo aver torto loro il collo.
Si seppe poi che la stessa destrezza
aveva nello sbarazzarsi dei viaggiatori che aggrediva. Appoggiato all’aforismo che i morti
generalmente non parlano, per non essere denunziato, aveva contratta la poco
lodevole abitudine di scannare i suoi aggressi e di seppellirne gli avanzi
nelle macchie. Era un metodo molto
spiccio per assicurarsi l’impunità e insieme il libero esercizio della
professione di bandito, che egli aggiungeva a quella d’oste e di sicario.
Sull’imbrunire di una giornata di
gennaio capitarono all’osteria del Carlo due cacciatori stanchi e trafelati. Avevano corso tutta la giornata, e portavano i
carnieri gonfi di starne e di beccaccie. Uno era anziano, colla barba intera bianca,
l’altro giovane senza un pelo sul volto, ma entrambi aitanti della persona,
allegri e disinvolti nel portamento.
— Padron Carlo — disse il vecchio
entrando — hai di che rifocillarci?
— Non roba degna delle signorie loro,
ma qualche cosa c’è — rispose ossequiosamente il Castri, togliendosi il
berretto di cotone bianco che portava.
— Sentiamo, che hai? — disse il
giovinotto.
— M’ero messo a cuocere un’ora fa una
gallina, che aveva perduta l’abitudine di farmi le uova.
— Non sarà troppo tenera —
osservò sorridendo il vecchio.
— Ma ci fornirà una buona tazza
di brodo — osservò il compagno.
— Hai ragione Gustavo.
— Ci butterò quattro capellini
all’uovo che avevo preparato per la mia cena.
— Benissimo.
— Poi ammazzeremo un paio di polli e li
faremo andare in padella.
— L’idea non è cattiva.
— Poi? — domandò di nuovo
l’imberbe cacciatore, tormentato da una fame canina.
— Poi c’è del salame, del
formaggio pecorino, ci sono delle uova.
— Tutto questo ci servirà
d’antipasto non è vero zio? — disse il giovane.
— Sia come vuoi. Già ti mangeresti l’obelisco di San
Giovanni. Dopo i polli, padron Carlo, ci
potreste servire un paio di starne arrosto.
— Non ne ho, signori e mi duole. Saranno quindici giorni che non vedo un
cacciatore.
— Ne hai due innanzi a te.
— È vero e il carniere mi pare
ben fornito.
Il giovane tirò fuori due
superbe starne e il vecchio due beccaccie.
— Magnifiche, esclamò il Castri
dopo averle palleggiate una per una in mano. Ma, se vogliono un mio umile consiglio, si
attengano alle starne. Le beccaccie per
essere buone, bisogna siano frolle e queste mi sembrano fresche.
— Prese da mezz’ora. Sono stati gli ultimi colpi. Carlo ha ragione sono preferibili le starne.
E ne trasse altre due dal carniere
riponendovi le beccaccie.
Benché solo, l’oste in pochi momenti
ebbe imbandita la tavola con crema al latte, salame, pane fresco, e un boccione
di vino color del topazio. I due
cacciatori se ne versarono due bicchieri e dopo averli tracannati, fecero
scoppiettare la lingua, esclamando all’unisono
— Buono, eccellente.
L’oste che veniva in quello coi due
polli tratti dalla stia e sgozzati:
— Vino delle vigne di Montemario. Più se ne beve e più vien sete.
Pochi minuti dopo, mentre l’antipasto
svaniva, s’udiva in cucina il crepitare della fiammata, e insieme il leggero
strepito del girarrosto.
Padron Carlo recava la zuppiera fumante
dei capellini in brodo.
— Tu sei un taumaturgo — esclamò
il vecchio cacciatore pregustandone il sapore.
E Gustavo, ghiotto non meno, forse
più di suo zio: — Questo riscaldandoci lo stomaco ci porrà in
vena di vuotarti la cantina.
L’oste s’inchinò sorridendo e
ritornò col piatto dei polli in padella, esalante un odore buonissimo.
Il contenuto del piatto scomparve
anch’esso nel ventre capace dei due cacciatori. E altrettanto accadde delle starne arrosto,
per inaffiar le quali fecero venire un secondo boccione, essendo il primo ormai
vuoto.
Saziate le esigenze della fame, zio e
nipote intavolarono una conversazione, dalla quale, l’oste, che dalla propinqua
cucina prestava orecchio, venne a capacitarsi che i due cacciatori erano ricchi
signori e che portavano con loro una cospicua somma di danaro.
Avevano lasciata Roma già da tre
giorni ed avevano cacciato continuamente riposandosi qua e là nelle
osterie di campagna, perché s’era impegnata fra loro una scommessa di
resistenza.
— Ti dai per vinto, Gustavo? —
domandò l’anziano.
— Vinto veramente non potrei dire
perché sono capace di continuare per un’altra settimana. Ma vincitore certamente voi siete zio mio,
poiché avete oltrepassato il termine stabilito. Siete forte.
— Ti dispiace.
— Punto. Ed eccovi i cinquanta zecchini della scommessa.
Così dicendo il giovane trasse
una borsa di seta, ne numerò i zecchini da darsi allo zio, e gli altri
rimasti in buon numero si ripose in tasca. Il vecchio trasse a sua volta la propria
borsa, del pari ben fornita di monete d’oro, vi lasciò cadere uno per
uno i zecchini del nipote, e rimettendola in saccoccia, disse:
— Alla fine de’ conti è roba che
un giorno o l’altro ti deve appartenere.
— Più tardi che sia possibile.
— Grazie, nipote mio, dell’augurio, che
lo tengo sincero. La mia cassa, del
resto, ti è sempre aperta.
In quel mentre riapparve l’oste, il
quale aveva veduto lo scambio delle monete e calcolato quanto potevano
contenere le due borse:
— Se i signori desiderassero riposarsi
qui, disse umilmente il Castri, ho un buon letto, ci metterò della
biancheria di bucato e io dormirò qui su di una panca.
Gustavo consultò lo zio con
un’occhiata prima di rispondere. Il
cacciatore anziano si accostò alla porta e vide che il cielo era terso e
biancheggiante per la luna.
— No, grazie, padron Carlo. Vogliamo tornare a Roma questa sera. Il tempo è bello. Fa freddo, ma siamo ben coperti.
L’oste si inchinò.
— Il conto? domandò Gustavo.
— Oh! ben poca cosa. Facciano il piacer loro.
Il cacciatore anziano tirò fuori
un’altra volta la borsa, ne trasse due zecchini e li buttò sopra un
piatto rimasto sulla tavola.
— A voi, padron Carlo. Teneteci sempre riservato un bicchiere di
vino, come quello che ci avete ammannito stasera. È veramente buono.
— E il signor Iddio li indirizzi spesso
da queste parti, rispose l’oste, i cui occhi brillavano di cupidigia.
Sciolti i cani, i cacciatori uscirono
colle carabine ad armacollo e si misero per un sentiero traversale che dopo
aver serpeggiato per buon tratto, scende verso l’Arco Oscuro.
Ma avevano fatto non più di un
centinaio di passi che uno dei cani emise un gemito acuto e cadde al suolo;
l’altro non tardò a fare altrettanto.
— Che hanno queste bestie?,
domandò colto da un vago sospetto l’anziano, e si chinò verso le
due povere bestie che si erano trascinate verso un cespuglio e non davano
più segni di vita.
D’un tratto rintronarono due colpi di
fucile nella solitudine della notte e i due cacciatori cadevano esamini accanto
ai cani. Erano stati colpiti entrambi in
pieno petto e quasi a bruciapelo, dal fucile di Carlo Castri, nascosto dietro
una siepe, alla quale era giunto prima di loro, per un sentieruccio scosceso.
Il brigante balzò fuori non
appena li vide caduti e con due coltellate li finì. Poi caricatiseli un per uno sulle spalle, li
trasportò nella macchia vicina, altrettanto fece dei cani, che aveva
avvelenati prima dell’uscita dei cacciatori dalla sua osteria.
Scavò rapidamente una fossa e vi
gettò i due cani ricolmandola tosto col terriccio; poi s’accinse a fare
il medesimo coi due cadaveri, che aveva spogliati nudi, per non perder nulla di
quanto era di loro proprietà.
Nella chiarezza del plenilunio la
fisonomia dei due assassinati aveva assunto agli occhi dell’oste un carattere
strano, minaccioso. Egli era invaso da
un panico che non aveva mai provato in vita sua.
Cercava di forzare nella fossa non
abbastanza profonda le due teste dei cacciatori, ma queste pareva che
balzassero fuori, come mosse da un’interna susta.
La tramontana faceva stormire le fronde
degli alberi e a Castri sembrava che quello fosse un suono di voci confuse
avvicinantesi a lui. In breve fu in
preda al delirio del terrore. Picchiava
ferocemente colla zappa sulle teste dei due sepolti e non perveniva a farle
scomparire. La luna ritornava ad
illuminarle e a lui pareva sogghignassero.
Si alzò, raccolse gli indumenti
loro e si mise a fuggire. Ma fatti pochi
passi cadde in preda ad un deliquio.
Sull’albeggiare due contadini trovarono
i cadaveri sepolti, coi capi che uscivano dal suolo e corsero a darne avviso,
benché sgomenti, ai birri che incontrarono sulla via Flaminia. Questi rinfrancatili, si fecero condurre sul
posto e rovistando intorno trovarono l’oste tutt’ora svenuto, col corpo del
delitto, cioè la roba rubata fra le braccia.
Dovettero levarselo sulle braccia e
trasportarlo all’Arco Oscuro, dove depostolo sopra un carretto, fortemente e
solidamente legato, lo fecero trasportare alle carceri di Roma, seguito da un
di loro. Gli altri operarono il
diseppellimento dei due cacciatori.
Carlo Castri sempre in preda al delirio
febbrile stette parecchi giorni fra morte e vita, ma le premurose cure dei
carcerieri e dei medici addetti alle carceri lo salvarono e si poté istruire il
processo a suo carico. Schiacciato dalle
prove del suo delitto, non tentò di negare, confessò la
grassazione dei due cacciatori, ed altre ancora, esortato dai giudici, i quali
per istrappargli i segreti sino allora da lui così accortamente
custoditi, gli facevano balenare la probabilità della grazia, in premio
della sua sincerità. E ad ogni
nuova confessione il suo trattamento carcerario migliorava.
Ma quando Carlo Castri, credette ormai
di aver salvata la pelle, fu pronunziata la sentenza che lo condannava alla
forca ed allo squartamento.
Abbiamo già veduto come
l’accogliesse e come espiasse la pena de’ suoi misfatti.
Grandissimo rumore suscitò
invece l’esecuzione che ebbi a compiere ai 18 del susseguente mese di marzo,
nelle persone di cinque banditi, arrestati nella celebre macchia della Faiola,
dalla quale avevano preso il nome; che dura proverbiale tuttora e durerà
quanto il tempo lontano: I briganti della Faiola.
N’era capo Vincenzo Bellini; i compagni
suoi Pietro Celestini, Domenico Pascucci, Francesco Formichetti, Michele
Galletti.
Quando entrammo colla carretta,
circondata dai birri e dai soldati, sulla piazza del Popolo, questa era gremita
da migliaia e migliaia di persone, che si pigiavano come sardelle in un barile.
Tutte le finestre prospicenti sulla
piazza, e delle vie adiacenti donde si poteva vedere la piazza, erano affollate.
Non un capitello, non un cornicione, non
un cancello, non un albero, non una sporgenza che non fosse guarnita di gente. Era una stupenda giornata primaverile; il
cielo azzurro irradiato di luce, il sole splendido, l’aere soavemente profumato
dai giardini del Pincio e delle vicinanze. Pareva che la natura si fosse messa in festa,
perché più solenne e memoranda riuscisse la tragedia legale.
Ci volle del bello e del buono per
attraversare la piazza e giungere ai piedi del palco, sul quale coll’aiuto dei
miei secondi avevamo rizzate le forche ed apprestati i ceppi per lo
squartamento.
Tranne il capo, Vincenzo Bellini,
s’erano tutti confessati e una dozzina di confortatori di vari colori
circondavano i condannati, recitando preghiere e porgendo loro i crocifissi a
baciare.
Giunti al palco, scesero prima i
confortatori poi io con un aiutante, poi i suppliziandi, poi un altro aiutante,
che avevo dovuto procurarmi.
Vincenzo Bellini doveva assistere alla
esecuzione de’ suoi compagni ed al relativo squarto, prima d’essere giustiziato.
Era un bell’uomo dalle forme atletiche,
dalla barba nera fluente, dagli occhi corruscanti. Vestiva alla ciociara, come gli altri, ma non
senza qualche eleganza ed in volgendo dal palco uno sguardo sulla folla, vide
parecchi artisti, ed alcune dilettanti inglesi, che sbozzavano la scena e i
ritratti, colla matita sui loro albums.
L’esecuzione dei primi quattro fu
rapida quanto più poteva esserlo. Nessun tentativo di resistenza avevano fatto. Quando ebbi impiccato l’ultimo di loro,
incominciai lo squartamento. Il sangue
colava a torrenti e innondava il palco; io ne ero tutto inzuppato e così
il Bellini che assisteva imperterrito alla carneficina, senza battere ciglio,
senza che si alterasse il colore del suo volto, dalla tinta bruna rossiccia,
senza che il giuoco de’ muscoli visuali tradisse in lui la più piccola
emozione.
Non appena ebbi terminato di appendere
alle travi del palco i quarti sanguinolenti degli appiccati, si udì un
mormorio e un movimento nelle file più avanzate della folla e Vincenzo
Bellini, strappati i legami che gli tenevano incrociate le mani, con uno sforzo
sovrumano, tentò di buttarsi giù dal palco. Ma io fui pronto ad afferrarlo, mentre i
soldati, appuntavano le baionette sopra di lui. Gli gettai al collo la piccola corda col nodo
scorsoio ed afferrata per maggior sicurezza quella di soccorso, mentre il
garzone lo sospingeva in su pei piedi lo portai sulla scala, donde lo lanciai
nel vuoto.
In quel mentre s’udì nella
folla, ancora nelle prime linee, un grido acuto, straziante, e si vedeva cento
braccia, sollevare una giovane donna che pareva svenuta. Poco dopo si seppe che era morta per lo
scoppio di un aneurisma.
Come mai era avvenuto l’arresto di
quella famosa banda di briganti, che avendo per base delle sue operazioni e il
ricovero abituale, quasi inaccessibile, nella macchia della Faiola, aveva per
tanto tempo desolati i dintorni di Roma e dei Castelli fino oltre Velletri,
aggredendo viaggiatori, corriere pubbliche, diligenze, vetture private,
operando sequestri di persone e ricatti d’ogni maniera?
Un terribile dramma, ch’ebbe il suo
epilogo ai piedi del patibolo, la mattina del 18 maggio, può solo
spiegarlo. Forse, senza esso, né
Vincenzo Bellini, né i suoi avrebbero mai salito le forche pontificie.
Eccolo.
Il governo, scosso dalle continue
lagnanze che gli giungevano dalle potenze estere per le pessime condizioni
della sicurezza pubblica nei dintorni di Roma, che mettevano a repentaglio la
vita e gli averi dei forestieri, come e più di quella dei cittadini, si
era deciso ad intraprendere una campagna brigantesca, ed a condurla con la
massima energia. Furono ordinate
pattuglie di soldati, guidate da esperti agenti, cogniti dei luoghi e rotti a
tutte le malizie dell’arte malandrinesca e fu dato come per obbiettivo
principale il bosco della Faiola.
La macchia fu perlustrata palmo a
palmo, senza alcun risultato, e già stavano le pattuglie per rientrare a
Roma a dar conto della loro inutile spedizione, quando un giorno uno dei segugi
che accompagnavano birri e soldati, guardando per terra casualmente, vide delle
ossa di pollo rotte e spolpate.
— Brigadiere, diss’egli al comandante
della pattuglia, o io non ho più naso, o qui sento odore della
selvaggina che cerchiamo. Guardate.
E così dicendo mostrò gli
ossicini che aveva raccolto, chiedendogli:
— Sapete che son queste?
— Hai voglia di burlarmi? Sono ossa di
pollo.
— No.
— Che cosa sono dunque?
— Sono un indizio.
— Indizio che qualcuno ha mangiato. Non ci vuol molto a comprenderlo.
— Pazienza, brigadiere. Chi ha mangiato questo pollo? io mi domando.
— Ecco il quesito.
— Siamo almeno a quattro miglia
dall’abitato e non è possibile che si mandino qui dai paesi circonvicini
i resti di tavola.
— Si capisce.
— A questi chiari di luna non è
supponibile che una comitiva allegra della città o dei castelli, sia
venuta a fare una colazione sull’erba, nel folto del bosco della Faiola, con
quel po’ po’ di paura che ispirano i supposti suoi abitatori.
— Dunque?
— Dunque codesti abitatori devono
essere tutt’altro che supposti, devono essersi trovati a poca distanza di qui,
non prima di questa mattina, poiché queste ossa sono fresche, odorano ancora, e
devono essere state spolpate oggi stesso.
Il brigadiere che aveva ascoltato con
grande attenzione il ragionamento del segugio ed aveva avuto da questo
rischiarata la mente, proruppe in un grido:
— Bravo! E aggiunse: — Se troviamo i
malandrini, giuro di regalarti a mie spese una dozzina di polli, per
stuzzicarti i denti, e due pinte di quello buono per lavarti bene lo stomaco.
— Grazie, brigadiere. Ora che ci resta a fare?
— Darne avviso ai comandanti delle
altre pattuglie, e stabilire con essi una nuova perlustrazione concentrica
della selva.
— Brigadiere, perdonatemi, ma tale non
è il mio avviso, permettetemi che vi manifesti una mia idea.
— Parla.
— Ecco qui: non è supponibile
che i briganti siano venuti a mangiare nel bosco, all’aria aperta, né che
abbiano seminate le ossa passando: esse devono essere state gettate fuori da
qualche nascondiglio, una grotta, una caverna, uno speco, un luogo qualunque
insomma, nel quale sogliono ricoverarsi. Bisogna cercarlo: esso deve essere non molto
discosto di qui. . . Zitti!
— Che c’è?
— Mi pareva di aver udito come un
vagito.
— Sarà uno strido di qualche
uccello di rapina.
— Forse è così. Dicevamo dunque che bisogna cercare il covo.
— Cerchiamolo.
Gli uomini della pattuglia assecondati
dall’accorta guida, si diedero a frugare la macchia nei pressi, esaminando ogni
crepaccio, rimuovendo fronde morte, pruni e liane, tastando ad ogni tratto il
suolo col calcio del fucile, per sentire se c’era del vuoto sotto.
Intanto in una grotta sotterranea
accadeva una scena terribile.
Vincenzo Bellini, vi si trovava dentro
solo colla sua ganza, una formosissima velletrana, dagli occhi incandescenti,
dalle forme piene e tondeggianti, la quale porgeva il seno ad un poppante.
I compagni erano usciti fin dal giorno
innanzi e non dovevano essere di ritorno che a notte inoltrata.
La bocca della grotta era chiusa e
dissimulata da un’enorme pietra coperta di vellutello, sulla quale i malandrini
ammucchiavano sterpi e foglie morte. Ma
per un fenomeno acustico del quale non sarebbe agevole dare la spiegazione,
all’interno del cavo si udiva perfettamente ciò che si diceva e faceva
al di fuori e perfino il rumore dei passi.
Il capobrigante s’era subito accorto
del passaggio dei soldati e non se ne era dato il menomo pensiero dapprima; ma
udendoli fermarsi, incominciò a preoccuparsene, e la preoccupazione
diventò spavento quando udì le parole della guida, che aveva
scoperto le ossa.
— Maledetta! bestemmiò con voce
soffocata, perché hai buttato là quelle ossa? Si direbbe che hai voluto
perderci.
Intanto si sentiva rovistare intorno
all’apertura della grotta e un colpo di calcio di fucile, fu pure battuto sulla
pietra, ma il rumore fu attutito dal vellutello (musco). Ma le ansie del Bellini diventarono anco
più atroci, quando il bimbo della sua druda, incominciò a
piangere ed a vagire.
— Azzitta quel pupo! disse con urlo
feroce.
Ma per quanto facesse la povera madre
non c’era modo di farlo tacere. Piangeva, piangeva, e strillava sempre
più acutamente.
— Azzitta quel pupo, ripetè il
Bellini, se no lo ammazzo.
La povera donna si provò a
coprirlo col proprio petto, immettendogli il capezzolo nella boccuccia. .
E fu peggio.
Mezzo soffocato il bambino
rovesciò indietro la testa e proruppe in un vagito straziante.
Fu allora che la guida della pattuglia
lo avvertì. Udendo le sue parole
il malandrino si lanciò come una belva sull’infelice creatura, ed
afferratolo pei piedi, gli fracassò il cranio battendolo sul suolo. Orribile a dirsi! un pezzo di cervello
spruzzò il volto della madre.
Un lampo d’odio terribile,
brillò negli occhi della velletrana, ma non disse verbo.
In quel mentre la pattuglia, delusa
nelle sue ricerche si allontanava.
Il giorno appresso, la ganza di
Vincenzo Bellini usciva dalla grotta per recarsi a Velletri a far delle
provviste. Non appena giunta in
città, si diresse all’ufficio del bargello, denunziò la banda e
porse tutte le indicazioni necessarie per prenderla.
La sera stessa Vincenzo Bellini e i
suoi quattro compagni venivano catturati, dopo aver tentato invano di
resistere, ferendo due dei più arditi birri che avevano voluto penetrare
nella grotta, dopo aver rimosso l’enorme pietra che ne otturava l’apertura.
Non parve sazia ancora di vendetta e
d’odio la velletrana. Volle assistere al
supplizio del suo amante; ma dopo aver veduto quello de’ suoi compagni, quando
venne la volta del Bellini, fu presa da tale impeto di dolore che il cuore le
si spaccò.
Nove giorni dopo l’esecuzione dei
cinque briganti della Faiola, dovetti trovarmi a Collevecchio per mazzolarvi e
squartarvi Gioacchino De Simoni, l’uxoricida più singolare che sia
passato per le mie mani.
Era un giovane contadino di non
più di venticinque anni innamorato pazzamente di sua moglie Cencia, una
donna della stessa sua età, di forme opulenti, leggiadra di volto,
procace negli sguardi e negli atteggiamenti e spirante da tutti i pori una
cert’aria di sensualità, non certamente fatta per tranquillare le
angustie di un marito geloso.
Gioacchino lavorava assiduamente,
giorno e notte per procurare alla sua Cencia tutti gli agi, tutti i conforti
della vita, ch’erano compatibili con la loro posizione economica e col loro
stato.
Egli non voleva che sua moglie
accudisse ad altro che alla casa; le inibiva assolutamente le fatiche
campestri, perché temeva che il sole avesse a sciupare la freschezza della sua
pelle bianca e vellutata, a rendere dura la dolce linea delle sue spalle
rotonde e delle sue braccia flessuose, di quelle braccia, i cui amplessi lo
facevano delirare.
I migliori bocconi del pranzo e della
cena erano per lei; pur vestendo il costume del paese i suoi abiti erano i
più fini ed eleganti; la sua casa, per quanto villereccia, era pulita e
fornita di tutto l’occorrente. Aveva un
magnifico letto a spalliere di legno castano coi sacconi di foglie di panocchie
di mais, materassi di buona lana e di finissima piuma, coltri morbide, lenzuoli
di tela candida e una ricca coperta di broccato.
Era l’ara dove celebrava i suoi riti
coniugali e aveva voluto che fosse degna della sua dea e delle ebbrezze che gli
procurava.
Gioacchino De Simoni era aitante di
persona e di simpatico aspetto. Prima di
sposare la Cencia una diecina di fanciulle avevano sospirato per lui, e
ammogliato invidiavano la fortuna toccata alla donna che l’aveva sposato.
Ma è raro il caso che marito
innamorato non sia marito ingannato. I
sacrifici che fate per una donna essa non li considera che come un tributo
dovutole; essa aumenta il concetto di sé medesima e cresce per conseguenza le
sue pretese in ragione dell’affetto che le portate.
Gioacchino non aveva minuto libero che
non fosse a lei consacrato. Ma questi
minuti erano scarsi, perché l’innamorato giovane lavorava sempre per far lieta
e gioconda la vita della sua donna.
La Cencia dopo pochi mesi di matrimonio
era stanca ed annoiata della solitudine in cui scorrevano le sue giornate e
parte delle sue notti. Non essendo del
paese, non aveva amiche, ma semplici conoscenze; non aveva parenti; spesso non
sapeva come ammazzare il tempo, perché poco esperta nei lavori muliebri.
E intanto incominciavano a farsele
intorno i giovani più scapati di Collevecchio. Quando la vedevano sul portoncino di casa le
ronzavano attorno e cercavano di appiccar discorso con lei. Cencia rispondeva brevemente, perché temeva
d’essere sorpresa da Gioacchino, ma incominciava a pregustare le delizie del
frutto proibito. .
Tra i molti che la corteggiavano si
trovò uno, Menico Baldassini, che più degli altri le andava a
versi. I colloqui sul portoncino
diventarono più frequenti e più lunghi, finché un bel mattino,
data un’occhiata intorno alla strada deserta ed assicuratisi che nessuno li
vedeva, i due entrarono in casa.
Da quel dì, Menico tornava tutti
i giorni dalla Cencia e vi rimaneva lunghe ore. La sua relazione si faceva sempre più
intima; esordita come svago, era diventata una passione che assorbiva tutte le
loro facoltà. Non vivevano che
per amarsi e per godere.
E intanto Gioacchino lavorava,
inaffiando di sudore le glebe ed irrorandone i teneri germogli.
Menico non entrava più dalla
porta di strada, bensì da quella dell’orto, che immetteva nella stanza
da letto nella quale entrava scavalcando una siepe. Ed erano abbracci, e carezze senza numero e
senza fine.
Cencia divideva con lui il suo
asciolvere, stendendo la bianca tovaglia sopra un tavolino della camera
nuziale, proprio accanto al talamo contaminato. Mangiavano nello stesso piatto, bevevano nello
stesso bicchiere, mischiando bocconi, sorsi e baci, tuffandosi in una ridda di
voluttà perenne.
Gioacchino naturalmente nulla sapeva e
nulla sospettava. La Cencia preferiva
l’amante, ma non cessava di prodigarsi al marito come la consigliava la
prudenza e forse la spingeva la sensualità.
Verso il meriggio di una tepida ed
aulente giornata de’ primi di maggio, Gioacchino inebbriato dagli olezzi
agresti, dall’acuto profumo dei fieni mietuti, provando una immensa sete
d’amore si diresse a casa, per abbracciare la sua Cencia. Giunto presso la porta della stanza da letto,
verso l’orto, sentì un sommesso cicalio di voci umane e si fermò:
— M’ami? chiedeva Cencia a Menico.
— Più della vita. E tu?
— T’adoro, angiolo mio. Se tu non fossi, che vita orrenda sarebbe la
mia!
— Gioacchino?
— Non me ne parlare, vorrei essere
sempre tua, tutta tua, solamente tua.
E le parole dei due amanti morirono
nello scambio di un bacio.
Il povero tradito fece un passo, si
accostò alla porta e vide la sua donna seduta sulle ginocchia di Menico,
in completo abbandono, col guarnello rimboccato sulle ginocchia, il seno
prorompente dal busto, cinta la vita da un suo braccio, e con una mano ne’ di
lui capelli.
Una nube di sangue gli velò gli
occhi, ma ebbe la forza di fuggire.
Errò pei campi tutto il giorno
come un pazzo; soltanto la frescura della sera parve ridargli un po’ di calma.
Un furor freddo sottentrò alle
sue furie: rincasò tardi e trovò la moglie già coricata.
Aveva concepito l’idea di una terribile
vendetta e s’accinse a compierla.
Riempì un immane braciere di
carbone e l’attizzò, finché lo vide in perfetta combustione. Poi prese due cavalletti e li pose a distanza
di cinque palmi all’incirca e li assicurò al suolo, perché potessero
resistere a qualunque scossa.
— Che fai? — gridò la Cencia
dalla stanza da letto, svegliata da quel martellare.
— Preparo la mia cena.
— Ti prepari una scorpacciata di chiodi
arrugginiti — disse la donna ridendo, e voltatasi dall’altra parte si
riaddormentò.
Gioacchino preparò quindi un
piccolo bavaglio e delle funicelle sottili ma resistenti, e terminati i
preparativi, passò nell’altra stanza e si accostò al letto.
Cencia, mezza insonnolita, gli porse la
bocca aperta per un bacio: Gioacchino le ficcò il bavaglio fra le labbra
e i denti, e, in un baleno le cinse i polsi e le caviglie colle funicelle,
senza ch’ella potesse dare un grido.
Sollevatala di peso la portò in
cucina; adagiatala sui cavalletti, l’assicurò ai medesimi per le braccia
e per le gambe, strettamente legandola, le pose sotto le reni il braciere
ardente e stette a vedere l’effetto della combustione, assaporando a goccia a
goccia l’atroce vendetta.
Sulle prime il corpo della Cencia dava
in sussulti frequenti e, ad onta del bavaglio, le uscivano dal profondo del
petto cupi gemiti. Ma non durò
molto a sopraggiungere l’immobilità.
L’orrendo supplizio durò
più di un’ora, in capo alla quale le belle forme della sposa infedele
erano completamente carbonizzate.
La puzza di bruciaticcio e il fumo
uscivano dalla porta spalancata verso l’orto, ma s’infiltravano pure per le
fessure di quella verso la strada, diffondendosi per le vie, e Gioacchino
sentì dire da una comitiva di giovanotti che passava:
— De Simoni va cuocendo un quarto di
capretto per la cena della Cencia e non sa che gliele mette tanto lunghe.
Un riso sinistro, diabolico, gli
sfiorò la bocca smorta e contratta.
Sorta l’alba, chiuse diligentemente le
due porte, uscì e andò dal bargello.
— Chi siete? — gli chiese questi.
— Gioacchino De Simoni.
— Che volete?
— Vengo a consegnarmi alla giustizia.
— Perché?
— Perché ho ammazzato mia moglie.
— La cagione?
— Mi tradiva.
— Per così poco avete uccisa una
donna? Non sapete che se tutti i mariti si comportassero così, presto il
mondo si spopolerebbe.
Gioacchino ebbe il coraggio di
sorridere delle facezie del bargello, ma un sorriso che metteva terrore.
— Come l’avete ammazzata? — riprese il
degno funzionario.
— L’ho abbruciata viva.
— Seguite le buone tradizioni della
Santa Inquisizione dunque? Bravo! Questo vi procaccerà forse le buone
grazie dei giudici.
Gioacchino fu ammanettato e, preceduto
dal bargello, circondato dai birri, fu condotto a casa sua. La gente si affollava dietro al corteggio e
quando fu aperta la porta della sua casa, vi irruppe.
L’orrendo spettacolo strappò
grida di indignazione, e i birri non ebbero a faticar poco per sottrarre
l’uxoricida al furore della folla.
Le donne erano le più infuriate,
le più inasprite. Lo coprirono
d’ingiurie e di vituperi e lo accompagnarono fino al carcere lanciandogli
immondizie e sputi.
Gioacchino De Simoni procedeva
impassibile, non dando alcun segno né di rabbia, né di dispiacere, né di dolore.
La vendetta consumata lo aveva talmente
soddisfatto, che qualsiasi pena gli sarebbe parsa leggiera.
Il processo fu subito istruito e
prestamente sbrigato, perché il reo era confesso e diede tutti i particolari
dei quali i giudici vollero essere informati.
Ascoltò la sentenza che lo
condannava alla mazzolatura ed allo squartamento senza batter palpebra. Esortato a confessarsi, disse di non aver
nulla sulla coscienza a rimproverarsi; che il suo delitto era un castigo
ispiratogli da Dio e respinse qualsiasi conforto.
Mosse al patibolo con fermezza e
subì il supplizio, al quale s’era da lungo preparato, colla massima
indifferenza e lasciando un’impressione indelebile nella folla accorsa ad
assistervi.
L’anno 1817 lo inaugurai, il venti
gennaio, decapitando per la prima volta in provincia colla ghigliottina, a
Macerata, l’uxoricida Saverio Gattofoni. Da Pusolo, da Recanati, da Civitanova e da
tutti i paesi circonvicini, era accorsa una folla immensa, per assistere al nuovo
spettacolo, intorno al quale si erano diffuse le più strane dicerie. Si credeva che la ghigliottina agisse
automaticamente per un interno congegno meccanico e non fu scarsa la sorpresa,
quando mi videro giungere col condannato, salire con lui sul palco, legargli le
mani dietro al dorso, spingerlo innanzi sulla piattaforma e premere il bottone
per far cadere la mannaia. Quasi quasi
pareva loro d’essere stati defraudati.
Saverio Gattofoni era un bel giovane di
ventott’anni, cocchiere al servizio di una leggiadra e capricciosa signora,
vedova da poco tempo d’un vecchio che l’aveva sposata per la sua straordinaria
avvenenza, benché di umilissima condizione, appartenente cioè ad una
famiglia del popolo minuto.
Saverio aveva per moglie una donna
buona, lavoratrice, assidua ed economa, di non sgradevole aspetto e di discreto
personale, di nome Giacinta Pozzuoli, la quale sentiva per lui, più che
amore, una vera venerazione, e n’era da lui contracambiata, se non con pari
intensità ed ardore, con sincero affetto. Ma il suo temperamento sensuale lo portava
spesso in braccio d’altre donne, colle quali però non contraeva vincoli
permanenti. Erano sfoghi, più che
altro, della esuberante sua vitalità.
Del resto non aveva mai alzato gli
occhi sulla contessa sua padrona, per la quale aveva la più grande
soggezione benché sapesse che non era certo nata in un letto sormontato dalla
corona comitale.
Una fredda sera di autunno Saverio,
entrando a prendere gli ordini della sua signora, per l’indomani, prima di
ritirarsi, la trovò sdraiata su una poltrona, innanzi al caminetto, coi
piccoli piedi bianchi ed ignudi calzati da babuccie di velluto rosso ricamate
in oro. Indossava una vestaglia di
casimiro bianco soppannata di raso rosso, chiusa alla cintola da un cordone d’oro.
Aveva la bruna capigliatura raccolta
disordinatamente sulla sommità del capo tenuta ferma da uno spillone
pure d’oro. Nessun’altro ornamento, né
alle orecchie, né alle mani, né alle braccia che uscivano nude dalle ampie
maniche della vestaglia, la quale aperta anche sul seno lasciava scorgere la
candida gola, il principio di un seno torreggiante, coperto a mezzo dalla
camicia di battista smerlettata, che colle sue trasparenze, rendeva più
seducente.
Evidentemente la contessa aveva
già fatta la sua toletta notturna e prima di coricarsi aveva voluto
godersi le dolcezze di una fiammata crepitante nel caminetto, sormontato da
un’alta specchiera lievemente inclinata, per modo da riflettere l’immagine
della signora e la parte posteriore del salotto.
Non appena sollevata la portiera di
stoffa, Saverio si fermò sull’ingresso, chiedendo indifferentemente:
— Ha ordini a darmi signora contessa?
Questa non rispose, ma si diede ad
esaminare, guardando nello specchio, le sembianze del suo cocchiere. E pare che l’esame non gli riuscisse
sfavorevole, perché le sue labbra voluttuose sbozzarono un sorriso.
— Signora contessa — ripetè
Saverio, dopo aver atteso un poco, nella tema che la sua presenza non fosse
stata avvertita dalla padrona.
La signora non rispose ancora. Si divertiva a vedere, sul riflesso della
specchiera, il volto bello, ma corrucciato del cocchiere.
— Ha ordini a darmi? — ripetè
un’altra volta Saverio.
— Hai fretta? — rispose finalmente con
piglio canzonatorio la signora.
Saverio alzò il capo e i suoi
occhi volgendosi a caso allo specchio incontrarono uno sguardo fiammeggiante
della contessa riflesso dal medesimo.
Rimase attonito, comprendendo che i
sensi di quella formosissima donna, dovevano trovarsi in quel momento di molto
eccitati; ma neppure un pensiero gli traversò la mente, men che
rispettoso per la sua padrona.
— Se ti lascio libero ora, dove te ne
andrai? A gozzovigliare probabilmente.
— No, signora contessa, non ho questa
abitudine. Me ne vado a casa da mia
moglie.
— Ah! sì. Sei ammogliato. Me n’era scordata.
Così dicendo la signora fece un
motto come di dispetto; poi soggiunse:
— Che mania è quella di
ammogliarsi così giovani e di crearsi degli impicci.
— La famiglia — biascicò il
cocchiere per dir qualche cosa e la contessa di rimando:
— La famiglia! La famiglia! se ne ha
una quando si nasce, e si è sempre a tempo a formarsene un’altra prima
di morire.
Scherzando coi fiocchi del cordone che
le cingeva alla vita la vestaglia, ne aveva sciolto il nodo, e questa si apriva
sempre più allo sparato, lasciando intravedere tesori, che
incominciavano a ferire la fantasia facilmente accensibile del giovane
cocchiere.
— Da quanto tempo hai preso moglie? —
riprese a domandare la contessa, col piglio indifferente di chi interroga
più per distrarsi ed ammazzare il tempo che per curiosità.
— Da due anni.
— E non l’hai ancora tradita?
— Eh! qualche volta.
La vestaglia della contessa non
più trattenuta dal cordone s’era aperta fino ai piedi. Ella ne raccolse i lembi per incrociarla sul
petto; ma lo fece così lentamente che tutta la sua persona divinamente
modellata e rosea, sotto le trasparenze della camicia e per riverbero della
fodera di raso rosso, apparve riflessa dalla specchiera agli occhi avidi del
cocchiere. Questa volta fu il di lui
sguardo fiammeggiante che si incontrò col suo. Il momento psicologico si avvicinava.
— Hai dunque un amante? — chiese la
signora poggiando la testa alla spalliera della poltrona, in un atteggiamento
di completo abbandono.
In quell’istante un tizzo acceso, quasi
mosso da una segreta influenza, cadde fuori del caminetto, vicino ai piedini
della contessa. Saverio si
precipitò per raccoglierlo e inginocchiandosi si appoggiò alla
poltrona, sfiorando colla mano febbricitante la persona della signora, che si
era rovesciata completamente sul dorso ed aveva chiusi gli occhi.
Saverio dissennato la cinse con ambe le
braccia, incollò le proprie alle labbra di lei e l’ebbe.
Per tutta la notte Giacinta lo attese
invano nel vedovo letto.
Da quella sera fatale la relazione fra
la padrona e il cocchiere diventò sempre più intima, salda,
tenace: la passione divampava terribile in entrambi e colla passione la gelosia
della contessa per la moglie dell’amante. Non volle più che Saverio andasse a
casa a dormire e giunse ad impedirgli per intere settimane di vedere Giacinta.
La povera donna era ancora lontana
dallo spiegarsi la cagione di quel contegno del marito. Gli rimproverava la sua freddezza, e come al
solito fanno tutte le mogli disgraziate, a furia di querimonie, di scene, di
seccature, gli si rese uggiosa, insopportabile.
D’altra parte l’amore della contessa
diventava ogni giorno più esigente: ella avrebbe voluto assorbire in sé
tutta la vitalità di Saverio. Una
notte, in uno di quei momenti di delirio nei quali la ragione umana affoga, gli
domandò a bruciapelo.
— Che te ne fai di Giacinta? Perché non
te ne liberi?
— Le ho detto tante volte d’andarsene,
che io la lascio libera della sua vita. Ma da quell’orecchio non ci sente.
— E quando pure se ne fosse andata, a
che gioverebbe?
— A non aver seccature.
— Non basta, non basta! Io ti voglio,
mio, tutto mio.
— Non lo sono forse?
— Voglio che tutti lo sappiano.
— Pochi l’ignorano ormai.
— Sanno che sei l’amante della padrona
e forse ti disprezzano…
— Che me ne importa, se io sono felice,
beato del tuo amore?
— Se non importa a te, importa a me.
— Ebbene?
— Devi essere mio marito.
— Sai che è impossibile.
— Impossibile? Sciocco.
Per quella notte la contessa non disse
di più. Temeva di alienarsi
l’animo di Saverio. Bisognava lasciargli
il tempo di abituarsi all’idea di sbarazzarsi per sempre della moglie, di
famigliarizzarsi, per così dire, col delitto, ch’ella gli suggeriva.
La sinistra idea era ormai penetrata
nella testa di Saverio e gli mordeva il cervello. Si provava a discacciarla, ma essa tornava
insistente, provocante, inesorabile.
Per parecchi giorni si provò a
stordirsi colla crapula. Ma, in mezzo
all’orgia, la figura della sventurata Giacinta gli si levava innanzi come uno
spettro minaccioso. Ed egli sentiva il
bisogno, sentiva una voglia irrefrenabile di sbarazzarsene.
Si trovava in preda ad una specie
d’ossessione del delitto.
La contessa comprendeva la battaglia
che si combatteva nell’animo del cocchiere e lasciava ch’essa avesse il suo
completo svolgimento, senza una parola di incitamento.
Solo continuava ad inebbriarlo di
amore, estenuando quasi la sua fortissima fibra.
Ma la resistenza durava troppo. Saverio, perfettamente deliberato ad uccidere
la moglie, desideroso di finirla una buona volta, non sapeva decidersi a farlo,
e rimetteva il delitto da un giorno all’altro, dalla sera alla mattina e
viceversa.
La contessa pensò quindi di
mutar sistema e d’indurlo all’esecuzione del misfatto, negandogli i suoi favori
finché non l’avesse compiuto, poiché il prodigarglieli non aveva valso.
E così fece.
In capo ad una settimana Saverio era in
preda al delirio erotico. La contessa lo
provocava ad ogni istante e ostinatamente gli si rifiutava; ora con un pretesto
ora con un altro, e finalmente una notte giunse a dirgli:
— Tu non mi piaci più. Tu mi annoi.
Saverio si levò dal letto, ove
si trovava colla contessa, si vestì ed uscì, senza ch’ella gli
rivolgesse una sola parola.
Andò a casa e penetrò
senza farsi udire nella camera nuziale. La Giacinta dormiva; ma pareva in preda ad un
incubo; aveva la respirazione affannosa; tutte le membra convulse; le labbra
agitate da un tremito; la fronte madida di sudore.
Saverio vide tutto ciò al fioco
lume della lampada notturna, posata sul tavolino accanto al letto, e si
sentì invadere da un senso di pietà.
La persona di Giacinta,
nell’avvoltolarsi ch’ella aveva fatto fra le coltri, era rimasta tutta scoperta
e le sue bellissime forme si offrivano allo sguardo del marito, caste pur nelle
loro nudità. E al sentimento di
pietà che lo aveva invaso, incominciavano ad aggiungersi le memorie
dell’antico amore, che quella donna gli aveva ispirato e per il quale l’aveva
fatta sua moglie.
Egli aveva nella mano destra il
coltello affilatissimo che s’era procurato per perpetrare il delitto; ma,
mentre cercava il punto dove doveva ferire, il suo sguardo divagava fra le
dolcezze del petto squisitamente modellato e il candore del ventre, non ampio,
lievemente tondeggiante e ombreggiato.
D’un tratto Giacinta si svegliò,
si portò la mano al petto, come volesse farsi schermo, e aperti gli
occhi riconobbe Saverio, che si protendeva sopra di lei col coltello tutt’ora
imbrandito.
— Ah! Non è un sogno dunque? —
esclamò e aggiunse con accento di amarezza e di disprezzo insieme:
assassino!
Quell’insulto fu la sua sentenza di
morte. Se non l’avesse pronunziato,
forse Saverio le sarebbe caduto ai piedi, le avrebbe chiesto perdono, l’avrebbe
baciata, abbracciata, amata come un tempo; si sarebbe inebbriato delle sue
carezze; i suoi amplessi gli avrebbero fatto dimenticare quelli della contessa,
fors’anco glieli avrebbero resi odiosi.
Quell’insulto gli fece salire il sangue
al cervello, vide una nebbia rossa innanzi agli occhi e sentì uno
zampillo di sangue rosso che gli bagnò la mano e il volto.
La sua destra, quasi inconsciamente,
aveva trapassato coll’affilato coltello il cuore della povera donna.
Giacinta non proferì un verbo. Volse al marito uno sguardo pieno d’amore e di
perdono e spirò.
Saverio fu preso dalle vertigini del
terrore. Voleva fuggire e si sentiva
come incatenato al letto. Un braccio del
cadavere irrigidito era steso verso di lui ed egli si sentiva come afferrato da
quel braccio: fece atto di svincolarsi e lo piegò verso il petto della
morta, ma il braccio con moto anastaltico si protese nuovamente verso di lui.
Finalmente, con uno sforzo estremo
gettò il coltello, che teneva ancora imbrandito e pervenne a togliersi
di là. Uscì senza chiudere
la porta dietro di sé; scese a precipizio le scale e giunto sulla strada si
mise a correre come un disperato. Di
tratto, in tratto si fermava un secondo, volgeva il capo a tergo e riprendeva
la sua corsa più rapida, più forsennata di prima.
Credeva di vedere l’assassinata che lo
inseguisse. Arrivato fuori di
città si buttò ai campi, correndo, correndo sempre. E così continuò finché cadde
spossato, affranto, svenuto. A giorno
fatto alcuni contadini lo scossero e si chinarono per raccoglierlo, ma
vedendolo intriso di sangue, lo supposero vittima d’un delitto e si recarono in
città per darne avviso. Mezz’ora
dopo i birri lo sollevavano, e spruzzandogli il volto d’acqua lo richiamarono
ai sensi.
Non appena si riebbe e ripresa la
conoscenza s’accorse d’essere in mano dei birri, proruppe in disperate grida:
— Sì, sì, sono stato io,
l’ho uccisa, povera Giacinta, vedete vedete queste mani, sono lorde del suo
sangue!
La sua esaltazione confondeva i birri,
non sapevano se avevano a fare con un pazzo, o con un delinquente. Ma ad ogni buon conto lo ammanettarono e lo
portarono verso le carceri.
In città s’era intanto diffusa
la notizia del delitto, scoperto da un’amica della Giacinta, la quale essendosi
recata a visitarla, e trovata la porta aperta era entrata!
Non appena lo videro a comparire in
città incominciarono le grida:
— Eccolo! Eccolo, l’assassino!
I birri non comprendevano ancora di che
si trattasse; ma tennero Saverio più strettamente.
— Ha ammazzato la moglie in letto con
una coltellata al cuore! — Urlava la gente. E l’uxoricida assentiva del capo e rispondeva
con voce rauca:
— È vero! È vero.
In breve la folla, che seguitava ad
ingrossare diventò minacciosa. Dagli insulti orali era passata alla persona,
gli si tiravano delle bastonate, dei colpi di pietra, dei torsi e lo si
vilipendeva in tutti i modi.
I birri duravano fatica a difenderlo, e
temevano di vederselo da un momento all’altro tolto di mano e fatto a pezzi.
Le donne erano le più inviperite
delle altre. E a una vecchia megera
riuscì di colpirlo alla testa con una pala da fuoco che gli produsse una
ferita alla fronte, dalla quale colava copioso sangue.
Era orribile a vedersi, cogli abiti a
brandelli, coperti di polvere e di fango, col volto stralunato, gli occhi fuori
dell’orbita, coi denti che battevano, rabbrividente e grondante di sangue.
Quando Dio volle le porte del carcere
gli si spalancarono innanzi, e si chiusero poi dietro di lui.
Interrogato subito dal bargello non
potè rispondere. Convenne
lasciarlo per tre giorni in riposo, evitandogli qualsiasi emozione, che, a
detta del medico, poteva riuscirgli fatale.
Condotto finalmente innanzi al giudice
diede sfogo al suo dolore, confessando tutti i particolari ed i moventi del delitto.
— Sapete di che siete incolpato? gli
domandò il giudice inquirente.
— Lo suppongo.
— Avete uccisa vostra moglie?
— Sì.
— Con una coltellata al cuore?
— Sì.
— Vi trovavate a letto con lei?
— No.
— Avete forse litigato?
— No.
— Vi avverto che questo sistema di
rispondere a monosillabi non mi va. Rispondete categoricamente spiegando i fatti. La sola sincerità può attenuare
la pena che vi siete meritata. Non
dormivate a casa vostra quella notte?
— Non vi dormivo da parecchi mesi.
— Perché?
— La contessa aveva voluto così.
— La contessa era la vostra padrona?
— La mia amante.
— Badate. Se cercate di coinvolgere nel delitto delle
persone di alto bordo, per sgravarvi in parte della responsabilità,
errate.
— Non dico che la verità.
— Voi dunque affermate d’aver avuto dei
rapporti d’intimità colla vostra signora?
— Dormivo con lei ogni notte.
— Sono cose irragionevoli. Come mai avendo una moglie leggiadra e buona,
vi siete lasciato condurre a disprezzarne l’affetto?
— Fu la contessa che mi trasse al
precipizio. Mi si offerse e l’ebbi. Poi non volle più che io frequentassi
mia moglie. Poi mi consigliò di
sbarazzarmi di lei.
— In ogni caso vi avrà
consigliato di allontanarla dal paese.
— Non mi ha detto di ammazzarla, ma mi
fece comprendere che se la togliessi di mezzo mi avrebbe sposato.
— L’avrete frainteso. Come mai una signora poteva discendere fino a
sposare un domestico?
— Non era di nascita nobile. Aveva sposato un conte, ma era rimasta
qual’era.
— Dunque voi asserite che è
stata la vostra signora che vi ha armato la mano.
— Armato la mano, no.
— Chi vi ha spinto al delitto.
— Neppur questo è preciso. Dopo avermi detto che mi avrebbe sposato, non
mi accennò più la cosa.
— Forse sarà stata una celia, o
un proposito vano, buttato là in un momento d’ebbrezza.
— Sarà, come ella pensa, signor
giudice. Ma il fatto sta che dopo
essermisi prodigata, vedendo che io non mi decidevo, mi negò i suoi
favori, mi disse che non gli piacevo più, ch’era annoiata.
— E voi ve ne siete vendicato, uccidendo
la vostra povera ed onesta moglie. Ascoltate un mio consiglio: non parlate
più della contessa: gettereste inutilmente una luce sinistra sovra una
casa rispettabile ed illustre. Tacendo
ci guadagnerete la clemenza dei giudici.
Saverio Gattofoni tacque, e in
guiderdone della sua discrezione, fu condannato al semplice taglio della testa
e non allo squarto.
Il giudice aveva mantenuto la sua
promessa. Ma non credo che il
delinquente abbia di molto apprezzata l’indulgenza usatagli.
La mattina stessa dell’esecuzione la
contessa, che non aveva voluto partir prima, per tema di suscitar dicerie e di
tirarsi addosso dei sospetti, partiva da Macerata in una sedia da posta per
Ancona, dove contava imbarcarsi, per un lungo viaggio marittimo.
Era fiera, rosea, sorridente. Ricevette colla maggior disinvoltura i
complimenti di tutti i suoi amici e conoscenti della famiglia di suo marito. E se ne andò accompagnata solamente da
un cameriere dalle forme atletiche, che pur usandole tutte le deferenze
richieste dalla sua posizione, si chiariva padrone della situazione.
Evidentemente Saverio aveva già
un sostituto.
Trascorsero due mesi prima che dovessi
esercitare di nuovo le mie funzioni; né, per dire la verità, me ne
rammaricavo, perché nella stagione estiva il mestiere diventa più
faticoso e più difficile, specie nelle impiccagioni e negli squartamenti.
Il 19 luglio mi fu commessa la
decapitazione di Agostino Del Vescovo, che aveva assassinato proditoriamente il
suo padrone, un prete abitante a San Pietro in Vincoli.
La faccenda era andata come mi faccio a
narrare.
Agostino Del Vescovo era un giovinotto
dedito ad ogni maniera di vizi; giocatore, ubriacone e maniaco per le donne,
s’era sciupato i quattrini che aveva ereditato da suo padre, senza mai pensare
a dedicarsi ad un’arte o ad una professione purchessia. Restato al verde visse, un po’ di tempo
contraendo debiti d’ogni parte. Ma venne
il giorno in cui non trovò più credito e la sera si coricò
senza aver rotto il digiuno. A ventre
vuoto non si dorme bene e Agostino passò la notte insonne, ma non
infruttuosa; non infruttuosa perché meditò profondamente ciò che
gli tornasse conto di fare.
Alla mattina appena levatosi
andò in una chiesa vicino al suo domicilio e trovò modo di aprire
la cassetta per le elemosine, donde trasse di che vivere per parecchi giorni. Ma non per questo lasciò la chiesa. Con franchezza e sangue freddo ammirabili, vi
si fermò ed ascoltò tre o quattro messe, inginocchiato colla
maggior compunzione innanzi all’altar maggiore. All’indomani ritornò e così per
una settimana di seguito, a capo della quale dovette ripetere la ripulitura
della cassetta delle elemosine, perfettamente riuscitagli. Quel giorno si confessò e si
accostò alla mensa eucaristica.
La sua devozione incominciò ad
essere notata, ma neppure il più piccolo sospetto cadde sopra di lui. Allora domandò il permesso di servire
la messa e in breve diventò il chierico più influente della
parrocchia. Fra i celebranti c’era un
buon prete che viveva solo ed aveva preso a simpatizzare col Del Vescovo.
— Che mestiere fai? — gli
domandò questo prete.
— Non ne ho alcuno. Mio padre e mia madre sono morti da poco tempo
e i parenti mi hanno mangiato tutto.
— Poveretto! E come vivi?
— Vivo prestando servizio a chi me ne
chiede e facendo delle commissioni.
— È una vita non molto comoda,
né lieta.
— Tristissima; ma d’altronde come si
fa? Dio ha voluto così e mi rassegno alla sua santa volontà. Forse sarà per il bene dell’anima mia.
— Senti, se io ti procurassi il posto
di. . . di cameriere, d’uomo di fiducia
insomma, presso un signore solo, l’accetteresti?
— Se l’accetterei, don Asdrubale? Altro
che accettarlo. Mi parrebbe una fortuna
immeritata.
— Ebbene, se ti piace, ti prendo con me.
Il domestico che avevo prima è
tornato al suo paese, lo sostituirai.
Agostino afferrò la mano del
prete e baciatala colla maggior emozione, se la portò al cuore ed
esclamò:
— Don Asdrubale è la via del
paradiso che voi mi aprite. Sarò
poco esperto, ma ubbidiente e fido come un cane.
Il giorno dopo Del Vescovo non aveva
più bisogno di aprire le cassette dell’elemosina per vivere. Era entrato al servizio di don Asdrubale;
aveva una camera linda e pulita nella sua casa: venti scudi di anticipazione
per far le spese della cucina, le chiavi della cantina e della dispensa del
prete; vitto, alloggio e dieci scudi al mese di salario.
Don Asdrubale volle anche che si
prendesse una serva per gli uffici più bassi, lavare i piatti,
sprimacciare i letti, scopar le camere, attinger l’acqua e via via. A breve andare Agostino era diventato il
maestro di casa, per non dire il padrone addirittura.
Don Asdrubale, amava la buona cucina e
Agostino la faceva in modo insuperabile.
Don Asdrubale amava la buona bottiglia
e Agostino sapeva scovare le migliori botti dei castelli; don Asdrubale non era
insensibile alle grazie muliebri e Agostino gli portava sempre qualche nuova
penitente giovane e leggiadra, qualche pecorella traviata da ricondurre sul
retto sentiero.
Fra prete e cameriere avevan luogo dei
dialoghi di questo genere:
— Agostino, non si è vista
più quella tortorella che è venuta qui a confessarsi da me, due
settimane fa.
— Non s’è più fatta viva.
— Perché mai?
— Don Asdrubale le avrà toccato
il cuore e non avrà più peccati da emendare.
— Peccato. Era tanto carina.
— Se don Asdrubale permette, domani
gliene presenterò un altra; una orfanella di sedici anni, graziosa come
un amore, che ha bisogno di una guida spirituale, per resistere ai seduttori
che le vengano intorno da mane a sera.
— Bravo Agostino! Conducila qui che le
daremo dei buoni consigli.
— Gli è che si trova in miseria
e don Asdrubale sa come la miseria sia una cattiva consigliera, specie per le
fanciulle leggiadre.
— Vedremo d’aiutarla, per quanto ci consentono
le nostre forze, poi le faremo ottenere dei sussidi.
— La ringrazio anticipatamente in suo
nome. Dio le renderà merito.
La fama delle larghezze di don
Asdrubale accompagnate a quelle dell’influenza di Agostino Del Vescovo, si
diffondevano man mano per Roma e il bravo domestico era continuamente assediato
di postulanti d’ogni genere, ma sempre di genere femminile.
— Sor Agostino — gli diceva umilmente
una donna sulla quarantina — sono vedova con quattro figliuoli.
— Che volete che vi faccia. Se volete un piccolo sussidio di qualche lira
posso arbitrarmi a darvela in nome di monsignore.
— Non è questo precisamente che
mi serve.
— Che volete dunque?
— La maggiore de’ miei figli ha
quindici anni. È ingenua come
l’acqua di fonte.
— Si smalizierà col tempo.
— Fresca come un bottoncino di rosa.
— Vorreste offrirla. . .
— Vorrei trovarle un appoggio.
— È ciò che può
far di meglio una madre vedova.
— Don Asdrubale è tanto
caritatevole.
— Se dovesse dar retta a tutte dovrebbe
essere il gran Sultano, che a quanto dicono, ha delle casse piene di diamanti e
di rubini.
— Colla vostra raccomandazione, sor
Agostino. . . Si sa che don Asdrubale,
segue tutti i vostri consigli. . . Ci
ricorderemo anche di voi.
— Ebbene fatemela vedere.
— Devo condurla qui?
— No, ditemi la vostra abitazione. Verrò a farvi una visita e se
sarà come voi la descrivete, ne parlerò con monsignore.
Il Del Vescovo soleva dare al prete
questo titolo, benché non gli competesse, per accrescere importanza a se stesso.
— Favorite dirmi quando verrete, perché
possa prepararla un poco. Sapete bene,
le ragazze sono timide e scioccherelle.
— Verrò stasera, dove?
— Via della Lungara, la porta subito
passato l’angolo a destra.
— Va bene.
Il solerte domestico non mancava al
convegno; si assicurava in tutti i modi che la fanciulla fosse degna delle
grazie di don Asdrubale e riconosciutala tale ne faceva un grato presente al
prete e ne divideva le propine.
Talvolta era don Asdrubale che gli
affidava qualche difficile missione. E
in tal caso soleva sempre scegliere il post prandium per parlargliene.
— Agostino, dopo il caffè,
portami una bottiglia di quel Genzano vecchio di dieci anni, che mi
mandò monsignor Calotta.
— Lo servo subito.
— Bravo! Reca un bicchiere anco per te.
— Troppo onore, don Asdrubale.
— Sei un bravo conoscitore. Bevendo in due si gusta di più.
— Come le piace.
L’astuto cameriere, comprendeva a volo
di che si trattava e nello scendere in cantina si stropicciava le mani,
pensando ai vantaggi che avrebbe tratto dall’affare.
Agostino portava sopra una guantiera
d’argento, finamente cesellata, due calici di cristallo di Venezia e una
bottiglia, coperta di polvere e di ragnatele che ne attestavano la
vetustà. Stappava questa con
tutte le cautele, affinché il vino non avesse ad intorbidirsi, se per avventura
aveva fatto un po’ di deposito, e dopo averne versato due dita nel proprio
bicchiere colmava quello del prete, il quale assisteva con compiacenza a quei
preparativi e dilatando le nari, pregustava col profumo il nettare. Poi diceva:
— Riempi anche il tuo.
Agostino ubbidiva.
Dopo averne centellinato un mezzo
calice, don Asdrubale chiedeva al fedel cameriere, che aveva pur bevuta la sua
parte parsimoniosamente:
— Che te ne pare?
— Divino.
— Oh! oh! divino poi.
— Perdoni, volevo dire squisito.
— Furbacchiotto. Ti perdono perché sei tanto intelligente.
— Bontà sua.
— Dimmi dunque, che nuove abbiamo?
— Nessuna monsignore.
— Ma che monsignore! Sai che non lo
sono.
— Perché non vuole.
— E non voglio, perché grazie al cielo,
non ne ho bisogno. Ho quel che mi basta.
A proposito hai dato i venti scudi a
quella buona ragazza?
— Subito.
— E non è ancora tornata?
— Non tarderà molto.
— La rivedrò con piacere.
— La farò avvertire, se crede.
— No, no. Per ora ho altre idee. Versami ancora. Non hai fatto attenzione.
— A che, monsignore?
— A quella ragazzotta che sta sempre
sul limitare del negozio qui accanto al nostro portone?
— È la moglie dell’orzarolo.
— Maritata? Per bacco non si direbbe;
par tanto giovane.
— È sposa da otto giorni.
— Romana?
— Di Genzano.
— Non ne porta il costume?
— È di famiglia civile.
— Beviamo dunque un altro sorso di
Genzano, perché non c’è da pensare ad altro.
— Perché, monsignore?
— E dalla col monsignore! Avrà
già il suo confessore.
— Non credo. È giunta or ora dal paese.
— Mi piacerebbe conoscerla.
— Gliene posso parlare.
— Non vorrei dar luogo a delle
supposizioni maligne.
— Conosce la mia prudenza.
— Oh! per questo non ho che a lodarmi
di te. E se il marito fosse geloso?
— Sposo di fresco è probabile
che lo sia. Ma questa non è una
difficoltà.
— Lo credi.
— Le mogli di mariti gelosi, hanno
sempre bisogno di buoni consigli per sapersi condurre.
— Volpone!
Dopo due o tre giorni, terminata la
cena del prete, il cameriere gli chiedeva:
— Don Asdrubale, non vorrebbe
risciacquarsi la bocca con un bicchiere di Est-Est.
— Perché no? Agostino tu sei un
portento. Indovini i miei gusti. Stasera è proprio il nettare di
Montefiascone che ci vuole. Portane un
fiaschetto. Ne berrai anche tu.
— Così mi scioglierà la
lingua.
— Hai qualche novità a
comunicarmi?
— Importantissima novità.
— Affrettati. Non farmi morir d’impazienza.
Agostino aveva già preparato
sulla dispensa il vino proposto e lo serviva tosto.
— Dicevi dunque?
— Ho parlato all’orzarola.
— Ebbene?
— È in cattivi rapporti col
marito.
— Già? Come mai?
— È una storia lunga.
— Raccontala più brevemente che
sai.
— I suoi genitori le avevano promesso
due mila scudi di dote, dopo il matrimonio. L’orzarolo si è fidato della parola. Ma quando il matrimonio fu celebrato i due
mila scudi non vennero.
— È una bricconata, non ti pare?
— Sì, e no.
— Come sì e no?
— Dal punto di vista dell’onestà,
certamente è una bricconata, ma dal punto di vista dei nostri affari
potrebbe essere molto utile.
— Non ti capisco, spiegati meglio.
— Ecco qui. Sbolliti i primi entusiasmi, l’orzarolo ha
incominciato a molestar la sposa per la dote. La poveretta non ha più un momento di
pace. — Non so che farei — mi diceva,
per poterglieli buttare in faccia. — Eh
a voi non sarebbe difficile trovarli — le risposi — purché voleste. — Chi volete che me li dia? — domandò
lei, ed io: Ci sono al mondo delle persone caritatevoli. — Gli uomini non danno mai nulla per nulla —
mormorò l’orzarola, ed io di rimando — Si capisce! Ma in fin dei conti,
quando si tratta di levarsi da un impiccio e di farsi ben volere dal marito. .
.
Don Asdrubale seguiva attentamente il
discorso d’Agostino ed avendo questi a tal punto fatta una pausa,
domandò anelante:
— Ed ella?
— Ella sorrise.
— Buon segno! Ma due mila scudi,
capperi, non sono un baiocco.
— Li vale.
— Pare anche a me.
— Una sposina fresca, fresca. . .
— È tutto quel che si può
desiderare di meglio. Ma non li ho qui
disponibili. Bisognerebbe che me li
facessi mandare. Ne avrò in cassa
un millecinquecento e mi servono per altre spese.
Parlando così, pareva che il
prete ragionasse con se stesso: di quando in quando si interrompeva, come se il
suo pensiero volasse altrove. Il
cameriere seguiva cogli occhi ogni suo moto, ma non fiatava.
— Non avete aggiunto altro? — chiese
improvvisamente il prete.
— Abbiamo continuato il discorso. L’orzarola mi disse: sono pazzie! Io non
conosco persone in Roma — Per questo vi potrei aiutare, le risposi, c’è
il mio padrone, sapete, don Asdrubale — Sì, lo conosco; dicono che
è un santo uomo — E dicono il vero. Mi ha giusto parlato ieri di voi. — Di me? — Sì, di voi. Gli avete suscitato un desiderio vivissimo di
parlarvi. Vorrebbe essere il vostro
direttore spirituale — Giusto non mi sono ancora confessata dacché venni a Roma.
E credete?. . . — Credo che se gli chiedeste i duemila scudi
non ve li rifiuterebbe — Magari! È un uomo tanto simpatico.
— Simpatico m’ha chiamato?
— Signorsì, simpatico.
— E tu?
— Io gli ho dato parola di parlarvene.
— Dunque è disposta a venir da
me?
— A confessarsi sì. Giovedì suo marito deve recarsi a
Genzano donde non tornerà che sabato, ella ne approfitterebbe, chiuso il
negozio, per venire senza impicci.
— Due mila scudi è un sacrificio
un po’ grosso: ma lo posso sopportare senza disagio. Me li faccio anticipare domani dal mio notaio,
e dopodomani sera, se viene, se sarà buona e compiacente. . .
— Per questo, non può dubitare.
— Se sarà buona e compiacente
glieli darò.
— Posso dunque parteciparle la lieta
nuova.
— Partecipagliela pure. Sai che quando ho deciso, ho deciso.
Don Asdrubale se ne andò a letto
e sognò la bella orzarola. Agostino fece altrettanto e sognò i
duemila scudi.
Sull’imbrunire del giorno stabilito
Agostino dopo aver preparato tutto l’occorrente per una gustosa cenetta fredda
nel salotto ed aver preso gli ordini di don Asdrubale per l’indomani, lasciava
il prete solo in casa ad aspettare la bella orzarola, la quale aveva posto a
condizione, che nessuno l’avesse a vedere né nell’entrata; né all’uscita, né
durante la sua fermata.
La giornata era stata calda ed afosa,
ma al dopo pranzo s’era levata una fresca brezza che ingalluzziva il bravo
ecclesiastico, e gli metteva la foia nelle vene.
Egli passeggiava impazientemente per
l’appartamento: or fermandosi a guardare il buffet preparato dal solerte
cameriere, con eleganza e profusione di ghiottonerie, poi entrando nella camera
da letto, che doveva essere il teatro delle mutue confidenze.
E ogni tratto tirava fuori la
ripetizione d’oro per consultarla; gli pareva che le sfere fossero troppo pigre
a compiere i loro giri. La sua ansia si
faceva di minuto in minuto maggiore.
Dopo aver guardato un’altra volta
l’oriuolo, vedendo che mancava ancora un’ora a quella fissata pel convegno,
pensò di schiacciare un sonnellino se gli veniva fatto, e abbassato il
lucignolo della lampada a sospensione del salotto, sormontato da un globo di
cristallo opaco e da un moderalume di carta di seta della China color di rosa,
traforato, si sdraiò in un ampia poltrona e volgendo la mente alle
imminenti delizie che gli erano promesse si addormentò.
Il tintinnio argentino del campanello
dolcemente suonato lo svegliò di soprassalto.
Balzò in piedi, accorse alla
porta e l’aprì. Una superba
figura di donna, avvolta in un ampio scialle, e col grande cappello coperto da
un fitto velo, che le nascondeva pure il volto e si annodava intorno al collo,
guizzò per entro l’anticamera, porgendogli la mano guantata. Don Asdrubale vi posò un bacio, col
piglio disinvolto di un abatino della reggenza e le disse:
— Attendi un momento: chiudo la porta
perché nessuno venga a disturbarci: anche le imposte delle finestre sono
ermeticamente serrate al di fuori e nessuno potrà supporre che qui ci
sia gente.
L’orzarola si inchinò lievemente
in segno d’assenso, come avrebbe potuto farlo una gran dama.
— Capperi! — pensò il prete,
mentre eseguiva ciò che aveva detto — sembra una signora di
qualità. Fortunatamente Agostino
ha fatto le cose per bene. . . e il
sacchetto dei due mila scudi è pronto.
Quindi afferratale colla destra una
mano e passatole il braccio manco intorno alla vita la condusse nel salotto,
attraversando prima una camera buia.
— Ma tu vorrai sbarazzarti di questi
impicci — le disse poi — tentando di toglierle lo scialle e di sollevarle il
velo — andiamo nella mia stanza da letto.
La donna accennò del capo
assentendo.
E così, dal salotto, scarsamente
illuminato, passarono nella camera, anche più buia, perché il lucignolo
della veilleuse pareva vicino a spegnersi.
Dopo aver dato alla sua formosa
visitatrice un forte abbraccio, don Asdrubale si volse per ravvivare la fiamma
della veilleuse deposta sul tavolino da notte. Ma mentre si chinava sovr’esso un terribile
colpo di pugnale menatogli dall’incognita, gli trapassava il collo.
Il povero prete cadde bocconi, immerso
nel sangue, senza poter proferire una parola.
L’incognita si piegò sopra di
lui, lo rivoltò e con un secondo colpo, gli spaccò il cuore. Accertatosi che non dava più segno di
vita l’omicida si diede a frugargli nei taschini del panciotto e gli tolse una
chiavetta, colla quale aprì un mobile che si trovava a piedi del letto,
chiamato dai francesi secrétaire. I suoi occhi fiammeggiarono nel buio, sotto il
velo, trovando il sacchetto dal quale aperse la borsa, sciogliendo la
funicella, e vedendoci i due mila scudi in tanti napoleoni d’oro, nuovi di
zecca.
Prese il sacchetto, frugò negli
altri cassetti del mobile e ne trasse altri rotoli di monete d’oro e d’argento
e ne fece un involto in una pezzuola, annodandone solidamente i capi.
Con questo bel furto, serrò di
nuovo il secrétaire e ripose nel taschino del prete ucciso, la chiave,
avendo cura di non macchiarsi di sangue.
Ritornato nel salotto, alzò il
lucignolo della lampada poi si tolse il cappello e lo scialle e lo posò
sulla poltrona, dove don Asdrubale aveva schiacciato l’ultimo sonnellino:
allora sotto le muliebri mentite spoglie, apparve Agostino Del Vescovo, il fido
cameriere del povero prete, che aveva finto di ottenergli il favore
dell’orzarola, per meglio depredarlo.
Agostino si assise tranquillamente a
tavola e mangiò d’ottimo appetito le ghiottonerie preparate, avendo cura
di sporcare i piatti e le posate dei due posti, per far credere che alla cena
avessero partecipato in due, il prete e la supposta amante.
Dopo aver ben mangiato e bevuto
l’assassino tornò nella camera da letto e la scompigliò in modo
da far credere che avesse servito per una lotta genetica, vi sparse delle
forcinelle, una giarrettiera, ed altri piccoli ninnoli donneschi; quindi, se ne
andò pian piano chiudendo la porta dietro di sé e asportando l’involto
del denaro rubato, senza che anima viva lo vedesse.
Di lento passo scese da San Pietro in
Vincoli alla Suburra, e aperta la porticina d’una di quelle case equivoche
v’entrò e scomparve.
Il mattino seguente Agostino Del
Vescovo si recò come nulla fosse accaduto nella notte, alla casa del
prete.
Incontrato un inquilino della medesima,
questi gli disse:
— Siete ben mattiniero quest’oggi:
già uscito e già tornato?
— Sono uscito ieri dopo pranzo; il
padrone mi ha dato licenza, volendo restar solo.
— Non troppo solo, forse, ma ben
accompagnato.
— Che dite mai? Don Asdrubale è
un sant’uomo: è un prete modello.
— Sarà come dite voi, — rispose
sogghignando l’inquilino e se ne andò.
Agostino salì, aprì la
porta di casa, poi le imposte del salotto quindi si affacciò col volto
spaventato e gridò:
— Aiuto! Aiuto! Hanno assassinato il
mio povero padrone! Aiuto! Hanno ucciso don Asdrubale.
La gente accorse tosto a quella
chiamata: in un momento la casa fu piena di persone e fra esse parecchi birri e
agenti di polizia.
Agostino s’era buttato su di una
poltrona, piangeva dirottamente e mandava gemiti strazianti.
Cionullameno venne arrestato e condotto
innanzi a monsignor Fiscale il quale volle prendersi sopra di sé la cura di
fare la luce su quell’assassinio.
La salma di don Asdrubale venne intanto
trasportata al cimitero e l’appartamento sugellato.
Ma per quante indagini si facessero,
per quanti interrogatori Agostino Del Vescovo subisse, la verità non
poté venir in luce. Si stabilì
che il prete aveva riscosso la mattina dell’assassinio duemila scudi in oro, e
che questi erano scomparsi, insieme all’altro denaro che doveva avere in casa;
si ammise la supposizione che don Asdrubale avesse passata la notte con una
donna di malaffare, la quale doveva essere o autrice o complice del misfatto. Ma nulla più. E alla fin fine Agostino Del Vescovo dovette
essere dimesso dal carcere.
Per rifarsi delle noie e delle pene
subite; non riflettendo che la polizia avrebbe continuato a vigilarlo, si diede
a menar vita allegra con una donna perduta della Suburra.
Una improvvisa perquisizione a costei
condusse alla scoperta di una giarrettiera simile a quella abbandonata sul
letto di don Asdrubale.
La meretrice venne arrestata e
incolpata dell’assassinio del prete.
Sulle prime negò assolutamente,
ma poi vedendo che le cose si mettevano male, temendo di dover essere tenuta
responsabile del delitto, confessò tutto quello che sapeva; cioè
che la notte dell’assassinio aveva prestato i suoi abiti al proprio amante
Agostino Del Vescovo, e lo aveva vestito di propria mano da donna, avendole
egli detto, che si trattava di una burla; che era ritornato da lei dopo la
mezzanotte; e che da quel giorno lo vide sempre largamente fornito di monete
d’oro.
Non appena avuta notizia dell’arresto della
sua donna, Agostino aveva preso il largo, s’era recato ad Ancona, dove contava
di prendere imbarco per il levante. Ma
mentre stava per mandare ad effetto il suo proposito venne arrestato e condotto
a Roma, dove l’abilità dell’inquirente lo condusse ad una completa
confessione del misfatto.
Condannato alla decapitazione, non
volle saperne di conforti religiosi e la subì cinicamente, gettando
così quella maschera di devozione che aveva portato per tanto tempo.
A pochi passi da Gubbio v’era un’amena
villetta, abitata da agiati possidenti, che vi conducevano vita tranquilla e
beata. Il padre attendeva anche a
qualche piccolo traffico e sovente si assentava per due o tre giorni da Gubbio.
La famigliuola restava allora affidata
alle cure della madre, la quale, casta ed esemplare signora, educava ed
istruiva da sé i suoi figli, Evelina, una giovinetta di dodici in tredici anni,
Paolo, un ragazzo decenne e Luigi un bambino di quattro anni.
Una mattina de’ primi di agosto la
signora Faustina, mentre suo marito era fuori, dovendo recarsi a Gubbio per
qualche spesuccia, lasciò la casa affidata alla vecchia domestica
Margherita e all’uomo di fatica Gaetano, raccomandando poi ad Evelina di
vigilare i suoi fratellini.
Verso mezzodì mentre la
Margherita erasi recata nell’orto per portare il desinare a Gaetano che vi
lavorava con otto contadini, si presentò al cancello della villa un
povero malconcio, il quale pareva volesse la carità.
— Entrate, entrate, buon uomo — gli
disse Evelina — a momenti tornerà la fantesca e vi darà qualche
cosa da mangiare.
Il supposto mendicante, entrò, e
traversato il cortiletto, penetrò nella sala da pranzo a terreno della
villa, seguito da Evelina, che si stupiva della sua audacia.
— Siete soli? — domandò
imperiosamente ai fanciulli l’incognito.
— Soli, perché? — rispose Paolo
insospettito di quel contegno, e si diresse verso la porta intenzionato di
chiamare aiuto. Ma il mendicante gli
attraversò la strada e tratto un coltello, di sotto la giacca glielo
immerse nel collo.
Luigi a quella vista, si diede a
gridare come un’aquila, e Evelina corse a lui per fargli scudo del proprio
corpo. Ma il masnadiero non
indugiò e col coltello medesimo, ancor fumante del sangue di Paolo,
colpì la giovinetta e il bambino rovesciandoli al suolo uno sopra
l’altro.
Lo spavento e il dolore ammutolirono i
due ragazzi.
L’assassino passò risoluto nella
camera vicina, salì al piano superiore, conoscendo evidentemente le
disposizioni della casa e giunto alla camera da letto, facendo saltare col
coltello insanguinato le serrature dei mobili, fece ricco bottino di roba e di
danaro, quindi ridiscese e giunse a guadagnare il cancello della villa.
Mentre usciva s’imbatté con Margherita
che ritornava. Questa insospettita
affrettò il passo e giunta nella sala da pranzo vide l’orrendo macello.
— Il mendicante! Il mendicante,
mormorò Evelina ferita.
Margherita pazza per il terrore si
diede ad inseguire l’assassino che si era gettato attraverso i campi urlando:
— All’assassino! al ladro!
Richiamati da quelle grida accorsero
Gaetano e gli altri contadini e datisi ad inseguire il fuggitivo, giunsero a
colpirlo con una terribile bastonata al capo, sul limite della macchia, alla
quale si avviava.
Caduto, tentò di rialzarsi, ma i
contadini gli furono sopra e l’avrebbero fatto a pezzi, se non era Gaetano a
trattenerli.
Lo trascinarono sino alla villa, dove
appresero tutti i particolari dell’orribile suo misfatto, da Margherita, che
andava fasciando le ferite di Luigi ed Evelina. Il povero Paolo era già morto. Il fratello e la sorella furono salvati dalle
pronte cure del medico chiamato da uno de’ villici.
Strettamente legato l’assassino fu
condotto a Gubbio dal bargello e il 28 agosto, fui chiamato a Gubbio per
eseguire sopra di lui la sentenza di decapitazione e squartamento, pronunziato
dai giudici.
L’efferatezza del delitto, aveva
talmente esasperata la popolazione di Gubbio, che si voleva ad ogni costo
sottrarlo alla esecuzione della sentenza legale, quantunque gravissima, per
martirizzarlo; convenne all’autorità mandare forte nerbo di truppa per
proteggere il delinquente, mentre lo si avrebbe condotto dalle carceri al
patibolo. Ma non appena la carretta
uscì, si sollevò tale chiasso, che si dovette retrocedere e
chiamare nuove truppe, le quali occuparono militarmente la piazza e tutti gli
sbocchi delle strade che vi menavano, disperdendo la folla.
Allora soltanto si poté condurre al
palco il delinquente, nominato Antonio Casagrande.
Eseguita la giustizia dovetti porre la
testa in un canestro per andarla a piantare sulla porta della città,
fuori della quale si trovava la villa, ove era stato commesso l’orribile
delitto. Ma anche questo mi fu
impossibile. Si dovette attendere la
notte e il mattino raddoppiare le sentinelle perché non la staccassero.
L’esecuzione di Antonio Casagrande fu
la prima operata da me, alla quale non assistesse altro pubblico che i birri, i
gendarmi e i soldati. Gli urli della
folla che stazionava innanzi agli sbocchi mettevano spavento al giustiziando,
per modo che si dovette portarlo sul palco a braccia. Prima di porre la testa sotto la mannaia era
completamente incanutito, segno del terrore dal quale era stato invaso.
Parmi d’aver già avvertito che
gli autori degli assassini più feroci, si mostrano più vili
innanzi al patibolo.
Tre settimane dopo eseguii un’altra
decapitazione, al Popolo, in persona di Alessandro Papini, volgarissimo
masnadiero, colto colle armi in pugno all’Acqua Traversa, dopo aver compiuto
una grassazione, e il primo dicembre decapitavo pure sull’istessa piazza
Domenico Gigli di Giacomo, appartenente a benestante famiglia romana, il quale
in un impeto di bestiale furore trovandosi a caccia del cinghiale, ne’ dintorni
di Maccarese, aveva sparato il fucile contro un contadino, che gli aveva fatto
mancare un buon colpo.
Preso in pieno petto il disgraziato era
caduto estinto.
Il Gigli era andato tosto a
consegnarsi, e confessò il suo delitto, cercando di scusarlo
coll’acciecamento prodottogli dal vino. Ma questo non valse a salvarlo dalla
severità dei giudici, i quali, inesorabili, pronunziarono contro di lui
sentenza di morte da eseguirsi colla solita macchina francese.
L’anno successivo lo inaugurai il 13
gennaio ad Ancona impiccando un ebreo rinnegato, che il suo antico nome di
Angelo Camerino aveva voltato in quello di Giuseppe Angiolo, il quale aveva
ucciso in rissa un cristiano. Il giorno
susseguente, 14 gennaio, mi recai alla vicina Loreto, per tagliar la testa a un
grassatore, Ambrogio Piscini; un altro ne decapitai il 23 febbraio a Perugia,
in persona del malandrino Antonio Galeotti. E finalmente il 13 aprile ripresi le mie
esecuzioni in Roma, tagliando la testa ad Andrea Emili, parricida, sulla piazza
del Popolo.
Era costui figlio di un agiato massaio
di Rocca Priora, uomo robustissimo benché innanzi negli anni, di forme erculee
e d’animo deliberato. Benché possessore
di molte pertiche di terreno, lavorava pur egli col figliuolo alla campagna e faceva
pure il boscaiolo. La moglie gli era
morta da parecchio tempo, e padre e figlio vivevano soli, e senza donne la casa
non poteva andar bene, perché le serve, prese lì per lì,
nuocciono più che non giovino.
Antonio Emili, disse un giorno al
figliuolo:
— Andrea, così non si va
più avanti.
— Perché?
— Non vedi che manchiamo di tutto? Si
viene a casa alla sera e non c’è mai nulla di pronto per la cena, e
bisogna andarsene all’osteria. A
mezzogiorno lo stesso. La festa non si
trova la biancheria allestita. Se per
caso ci avessimo ad ammalare non avremmo un cane per curarci.
— Che ci posso fare io?
— Ci puoi far molto.
— Niente niente mi ho da mettere a fare
il bucato ed a cuocere fagiuoli?
— Non dico questo. . .
— E che dunque?
— Prendi moglie. Ormai sei presso a venticinque anni; è
tempo di decidersi.
— Dove la piglio?
— Sciocco! Bisognerà dunque che
ti provveda io anche la ragazza.
— Non vi date questa pena.
— Ne parlerò al curato.
— Guardatevi bene dal farlo. Non voglio saperne di legarmi ad una donna.
— È tale la tua decisione?
— Tale.
Antonio Emili non era uomo di molte
parole. Visto che il figliuolo non
voleva prender moglie, sentendo il bisogno assoluto d’aver in casa una massaia
e giudicandosi abbastanza forte in gambe per provvedervi da sé, si cercò
una sposa e la rinvenne.
Una sera rientrando in casa disse al
figliuolo:
— Ti avverto Andrea che mi sono trovato
una moglie.
— Per me?
— Non per te, per me.
— Siete impazzito?
Antonio non era uomo di sopportare una
ingiuria da chichessia, e tanto meno dal figliuolo. Batté i pugni sul tavolo e domandò
all’Andrea:
— Con chi parli?
— Con voi, rispose l’altro audacemente.
— Se mai ci avessi a ridire, puoi
andartene anche subito — tuonò il vecchio, frenandosi a stento.
— Sono in casa mia.
— Pidocchioso maledetto, sei in casa di
tuo padre: ché tua madre buon’anima non ha avuto il becco d’un quattrino, e
quanto posseggo è mio, assolutamente mio.
— Non camperete mica sempre, né ve la
porterete mica all’altro mondo la roba vostra.
— Posso regalarla a chi mi pare.
— Apposta non voglio che prendiate
un’altra moglie.
— Ah! tu non vuoi? esclamò
sbuffando Antonio Emili. Aspetta.
Ed afferrato pel bavero della giacca il
gracile Andrea, lo sollevò al di sopra della tavola, lo portò
fino alla porta, apertala lo buttò fuori e richiusala tornò a
sedere.
Di temperamento bilioso, sanguigno,
l’Antonio Emili era di carattere estremamente impetuoso, ma buono di fondo.
Terminato di mangiare quel po’ di cena
che si erano preparata, prese il lume ed uscì fuori per andare in cerca
del figliuolo, ma per quanto frugasse e rifrugasse nei dintorni, non gli venne
fatto di rintracciarlo.
— Si sarà cacciato in qualche
stalla, o in qualche bettola, concluse, e andò a dormire.
All’indomani mattina levatosi all’alba,
andò nel bosco a lavorare. Ma
dopo qualche ora sentendosi un po’ stanco ed insonnolito si stese sul ciglio di
una stradicciuola e si addormentò profondamente.
Andrea aveva gironzolato tutta la notte
inviperito contro il padre, concependo mille progetti di vendetta ed
abbandonandoli tosto, stante la salutar paura che gli infondeva la forza fisica
e il coraggio.
Pure trascinato dal destino, sul far
del giorno entrò anche egli nel bosco e incominciò ad aggirarsi,
come una belva famelica per la macchia più folta. Visto finalmente il padre lo seguì,
senza osare di accostarglisi, ma sempre pieno d’odio e di livore. Fu solo quando lo vide addormentato sulla
strada che gli balenò l’orribile idea di ucciderlo per vendicarsi.
E temendo che il pentimento gli invadesse
l’animo, prima di compiere il misfatto, o di lasciarsi vincere da un assalto di
terrore, senza por tempo di mezzo, in un balzo gli fu accanto, afferrò
l’accetta, che il vecchio s’era deposto accanto, e gli menò tale un
terribile colpo al collo, che Antonio Emili ebbe la testa spiccata nettamente
dal busto, quindi si diede a fuggire disperatamente, come un pazzo senza meta. Ogni tanto si volgeva indietro, perché gli
pareva di udire il suono dei passi del padre che lo inseguisse. Aveva i capelli irti sul capo, gli occhi
sbarrati, quasi uscenti dall’orbita, il volto bianco come quello di un morto,
le labbra livide e tremanti. La gente
che lo incontrava, atterrita si buttava di fianco per evitarlo. La sua corsa continuò parecchie ore
finché cadde esausto di forze e di spirito nelle mani di una pattuglia in
perlustrazione. Riuscito impossibile
trargli di bocca una parola sensata e vedendolo macchiato alle mani ed ai
vestiti di sangue, i birri lo legarono e lo condussero a Roma sopra una
carretta.
Il carcere gli ridiede animo, tra
quelle tetre mura gli sembrava di trovarsi al sicuro dalla vendetta di suo
padre, unica cosa di cui temesse. L’orrore ispiratogli dallo stesso suo misfatto
lo aveva quasi incretinito.
Interrogato, raccontò al giudice
per filo e per segno la storia del litigio avuto con suo padre, la sua cacciata
di casa, l’errare che aveva fatto la notte pei campi, l’incontro nel bosco e
l’assassinio.
Fu condannato alla decapitazione e
subì la pena più morto che vivo, apparentemente, più che
di fatto, confortato dai preti.
Eseguita la sentenza, dovetti prendere
la sua testa dal paniere e portarla a Rocca Priora per infiggerla sulla porta. Questo feci di notte per evitare inutili
pericoli.
Decapitato Andrea Emili quondam
Giuseppe Dolfi il 2 agosto, un forzato che aveva ucciso, al Colosseo, un suo
compagno di pena, mi capitò in mano per lo stesso ufficio Raffaele
Vattani romano, il quale aveva uccisa sua moglie in condizioni singolarissime e
meritevoli d’essere ricordate.
Raffaele Vattani aveva sposato poco
più che ventenne Romilda Sangeni, una bionda ragazza sui diciotto, tutta
poesia, sentimento, idealità. Appartenenti entrambi a ricche famiglie
borghesi, avevano di che condurre una vita allegra e brillante. Si amavano entrambi; ma in un modo troppo
dissimile, come portavano i due diversi caratteri, i due opposti temperamenti.
Romilda gracile, delicata preferiva
tutto ciò che è gentile e geniale; abborriva gli scatti
impetuosi, le improvvise bufere, la parte dirò così tragica della
passione. Il suo affetto per Raffaele
giungeva alla adorazione, ma un’adorazione muta, religiosa, scaturente
più dagli atti che dalle parole. Aveva per lui delle tenerezze quasi infantili,
delle finezze che non avrebbero potuto esser comprese, se non da un’anima mite
e soave, come la sua. I suoi abbracci le
lasciavano nelle fibre delle vibrazioni lunghe, deliziose e snervanti insieme.
Raffaele, per converso, era di un
temperamento che lo portava ai trasporti più violenti. Quando la foia lo investiva, non era
più un uomo, ma una belva, che ruggiva d’amore e trovava sempre troppo
freddi gli amplessi della sua donna. Ne
seguivano scene terribili, dalle quali Romilda usciva disfatta.
La sua salute si alterò. Fu assalita da una malattia di languore, che
faceva continui ed allarmanti progressi. I medici rimproveravano a Raffaele le sue
esuberanze ed egli parve chetarsi e mutar carattere tutto d’un tratto. Diventò buono, docile, paziente,
teneramente affettuoso. Non voleva che
altri all’infuori di lui prestasse le cure a Romilda. Ebbe per lei le finezze previdenti di una
madre, le solerzie di una suora infermiera. Le era sempre accanto, giorno e notte; le
porgeva le medicine e gli alimenti, la adagiava sul letto, sollevandola come
una bimba colle proprie braccia; ne la toglieva per metterla sulla poltrona a
sdraio dove passava gran parte della giornata. La vestiva, la svestiva, le acconciava i
capelli, l’adornava con eleganti cuffiette da mattina, che le provvedeva egli stesso.
La povera malata ne era rapita;
dimenticava tutto quanto le aveva fatto soffrire e lo attribuiva all’eccesso
del suo amore: si sentiva presa ogni giorno più di lui; solo per lui, si
rammaricava che la vita le venisse meno; avrebbe voluto guarire per lui, per
pascersi delle sue ebbrezze, per farlo felice com’egli desiderava.
Si avvicinava l’autunno e già
sull’epidermide di Romilda, resa giallastra, squamosa, arsiccia dalla febbre,
correvano i primi brividi del freddo invernale. Uscendo, d’averla visitata, il medico aveva
detto piano a Raffaele:
— Un mese ancora e non più.
— Un mese e non più! — ripeté
colle labbra smunte e tremide l’ammalata, che aveva udito, poiché uno dei
fenomeni della tisi è appunto lo straordinario acuimento dell’udito e
dell’olfatto, e si contorceva le mani, in una muta disperazione.
— Ho sete! — mormorò poi,
sentendo Raffaele che ritornava nella camera.
— Ti servo subito— rispose sollecito il
pietoso infermiere e si diede a prepararle una limonata.
Era appoggiato al tavolo dietro le
spalle di Romilda; ma questa rivedeva le sue sembianze, riflesse dallo specchio
appeso alla parete opposta della camera, nel quale si compiaceva di guardarlo,
con intensità d’affetto indescrivibile.
D’un tratto le sue guancie si
colorirono di viva fiamma e i suoi occhi lampeggiarono.
Aveva veduto il marito versare nel
bicchiere il contenuto di una piccola cartolina, che aveva tratta dalla tasca
della sottoveste, non senza turbamento e guardandosi attorno sospettoso.
Raffaele le si fece innanzi e le porse
la limonea. Romilda lo guardò
fissamente negli occhi. Egli non seppe
dissimulare un fremito di terrore; ma vedendola tracannare tutta quanta la
bibita si rinfrancò.
— Mi ami, Raffaele? gli chiese poi con
voce affievolita, in fondo alla quale c’era una sottilissima punta d’ironia.
— Più della vita, angiolo mio —
rispose con trasporto il giovane, afferrandole le mani e coprendole di baci.
— E mi hai sempre amata così?
— Così e così
t’amerò.
— E quando non sarò più?
— Perché ti lasci cogliere da queste
idee nere?
— Non sono idee nere, è
l’intuito della verità! Un mese ancora e non più! — ripeté
tristamente Romilda quasi favellasse a se stessa.
Raffaele si fece pallido come un cencio
lavato. Aveva ella udito? O era realmente
un presagio dell’animo suo?
— Che dici mai! — esclamò — e
cintole la testolina colle braccia l’attirò a sé, le baciò le
ciocche d’oro dei finissimi capelli, che uscivano dalla leggiadra cuffietta e
davano alla sua testa un non so che di soave e d’infantile.
— Tu potresti abbreviare le mie
sofferenze — gli mormorò Romilda all’orecchio. Raffaele sentì un brivido corrergli per
le vene e per l’ossa. Ma pur
pensò che era un effetto della paura, quello del senso arcano che egli
attribuiva alle parole della malata.
— Lo farei mille volte se mi fosse dato.
Sacrificherei dieci anni della mia vita,
per alleviare, fosse per un giorno solo, i tuoi dolori.
— Lo credo! Lo credo — rispose la
morente con voce secca, facendosi forza per allontanarlo da sé. . .
Il giorno susseguente la scena si
ripeté in termini quasi identici. Se non
che nella furia di versare la venefica cartolina nella limonata, Raffaele
inavvertitamente ne lasciò cader un’altra per terra. Romilda se ne avvide e non appena l’ebbe
mandato fuori di camera, col pretesto che voleva riposarsi, con uno sforzo
supremo di volontà riuscì ad alzarsi e barcollando attaccandosi
ai mobili, raccolse la cartolina misteriosa e la nascose in seno.
Il medico che aveva accordato
all’inferma un altro mese di vita, non aveva calcolato sull’efficace sussidio
che il suo male riceveva dalla polvere amministratale dall’amoroso marito.
Dopo due settimane, una mattina triste
e piovosa, cupa, Romilda, dopo aver ricevuto gli estremi conforti religiosi,
circondata dal marito, dai parenti, dal medico, si spense, ma mentre esalava
l’ultimo spiro, fece atto di frugarsi in seno e ne uscì un piccolo piego
sul quale era scritto a matita: «Al mio notaio: da leggersi subito dopo la mia
morte. » Si credette fosse un codicillo alle sue disposizioni testamentarie e
il notaro venne subito chiamato, inviandogli il piego.
Raffaele era ancora al letto della
morta, immerso nella più tragica disperazione e dichiarava agli astanti
di volerla seguire nella tomba, quando comparve il notaio, accompagnato da un
incognito personaggio.
Egli entrò serio ed accigliato e
additando il vedovo all’incognito, disse con voce solenne:
— Ecco l’avvelenatore. Impossessatevene. La giustizia avrà il pieno suo corso.
L’incognito s’avanzò, fra la
sorpresa e l’esterefazione universale e afferrò per un braccio Raffaele,
più pallido della sua vittima che giaceva sul letto, dicendogli:
— Siete in arresto.
Era il bargello.
All’indomani d’ordine
dell’autorità giudiziaria si operò la sezione cadaverica di Romilda
e nelle sue viscere si trovarono le traccie del sottile veleno, somministratole
dal marito, pienamente corrispondente a quello di cui c’era un saggio nella
cartolina da lui perduta e raccolta dalla malata e chiusa nel piego del notaio,
alla quale andava unito un biglietto scritto da lei, a lapis, del seguente
tenore:
«Muoio avvelenata da mio marito
Raffaele Vattani, con una polvere eguale a quella dell’unita cartolina,
cadutagli inavvertitamente di mano, mentre me ne versava un’altra in un
bicchiere di limonata. Lo vidi co’ miei
occhi mentre lo faceva, riflesso nello specchio. E così continuò ogni giorno. Ormai perduta, ho lasciato che il misfatto si
compiesse. Lo denunzio alla giustizia
degli uomini, perché, adeguatamente punendolo, lo sottraggano alla vendetta
divina. »
Schiacciato da siffatta rivelazione,
Raffaele Vattani non tentò neppur di negare il delitto, con tanta
freddezza perpetrato, per potersi liberare della moglie e sposare una ganza che
s’era fatta, della quale era pazzamente innamorato, perché, come lui, fervida
ed ardente.
Una folla enorme assisteva alla sua
decapitazione in piazza del Popolo la mattina del 15 settembre, perché il
misfatto aveva sollevato un grido d’orrore per tutta Roma, e accesi gli animi,
segnatamente delle donne, di fierissimo sdegno.
Ce n’era più di un migliaio ne’
dintorni del carcere, quando uscimmo colla carretta: birri e soldati ebbero a
faticar di molto per difenderlo. Le
imprecazioni salivano al cielo. La
decapitazione pareva pena troppo esigua: avrebbero voluto vederlo mazzolato e
squartato.
Nondimeno egli si conservò
freddo ed imperterrito. Giunto al palco,
scese dalla carretta, e circuito dai soldati, vi salì con franco passo.
Al rumore del colpo della mannaia, fece
eco un urlo del popolo.
La vendetta umana era così
soddisfatta.
Eccomi al fatto che condusse il 23
agosto 1823 Giovanni Binzaglia alla ghigliottina, in Perugia.
Era costui un giovane aitante della
persona, ma di volto punto simpatico. In
mezzo alla faccia l’enorme naso sorgeva a foggia di promontorio e sotto esso si
apriva una bocca ampia, carnosa, dalle labbra bestialmente sensuali e
senz’ombra di pelo.
I suoi naturali istinti lo portavano
alle lotte amorose, nelle quali era validissimo campione e a queste tutto
sacrificava. Nella casa dei Facenni,
ricchi borghesi, ritirati dal commercio, presso i quali si trovava, non aveva
campo di abbandonarsi a’ suoi consueti trasporti. Ma trovava egualmente di fuori gustosi
compensi ed anco produttivi, perché molte donne erano attratte verso di lui da
quell’insegna permanentemente esposta ch’era il suo naso.
La signora Facenni, vecchia bigotta,
non si sarebbe certo sognata di avere alle sue dipendenze un don Giovanni
d’anticamera.
Ma ad ogni modo non aveva a lagnarsi di
lui, che mostravasi attivo e zelante nel servizio, e tollerava le sue frequenti
assenze, specie notturne. Se glie ne
moveva qualche volta rimprovero, Giovanni le rispondeva invariabilmente:
— Signora mia, voglia compatirmi, ho
ventisette anni.
— Compatisco: ma mi pare che abbiate
una età da potervi ammogliare. Perché non lo fate?
— Chi vuole che mi prenda, signora?
Sono povero come Giobbe.
— Pure cogli assegni che avete da mio
marito avreste potuto mettervi da parte qualche cosa.
— Lo vorrei ben fare, ma. . .
— Ma?. . .
— Mi si squagliano appunto nelle serate
che passo fuori di casa.
— Così vi aggirate sempre in un
circolo vizioso: non potete prender moglie, perché non risparmiate; non potete
risparmiare perché non avete moglie.
— Proprio così, signora.
— Basta, pensate a metter giudizio,
perché il tempo vola e quando vorreste farlo non sarete forse più a
tempo.
Quest’era la solita conclusione dei
loro dialoghi.
Giovanni se ne andava ridendo nel suo
cuore. Effettivamente non prendeva
moglie perché stava troppo bene senza.
I Facenni avevano una unica
figliuoletta, bella come un amore e già magnificamente sviluppata,
benché sedicenne appena, molto svegliata e un bel po’ capricciosa, perché
guastata dalla indulgenza soverchia dei suoi genitori.
Si chiamava Elsa ed aveva dell’eroina
della leggenda tedesca, le chiome bionde prolisse, che le coprivano tutta
quanta la persona, come un manto, quando le scioglieva e se le lasciava cader
sulle spalle. Aveva pure l’alta e
slanciata figura, i grandi occhi azzurri, il profilo del viso soavemente
delicato e puro; la pelle candida e fine; le rose delle guancie incarnate; la
bocca perfettamente disegnata, nella quale, fra il rosso quasi incandescente
delle labbra, si celavano due filari di perle, piccole e quasi diafane.
Essa aveva ricevuto un’educazione un
po’ eccentrica, ma completa. Pingeva con
gusto e maestria, cavalcava come un’amazzone e coltivava la musica con grande
successo.
Il suo maestro di piano era un giovane
di cinque lustri al più, dal volto bruno, pallido, dagli occhi a volta
languidi a volta corruscanti, sempre sottocerchiati e natanti in un’onda di
voluttà perenne.
Era stato presentato in casa Facenni da
un vecchio professore, il quale aveva impartito ad Elsa la prima istruzione
musicale, e da lui raccomandato, come colto, intelligentissimo e pieno
d’avvenire. I suoi vestiti lasciavano
molto a desiderare dal punto di vista della solidità e della
qualità, ma rivelavano nel loro proprietario una certa inclinazione
all’eleganza e molta cura nel tenerli puliti e nel prolungarne la durata.
Il suo redingote nero e chiuso fino al
mento, i suoi pantaloni oscuri, collanti al piede, e il suo cravattone non meno
bruno avevano sulle prime provocato le ilarità della capricciosa fanciulla.
Ma quando lo ebbe udito toccare il piano
con un magistero d’arte ed un sentimento più presto unico che raro, le
apparve agli occhi come trasfigurato.
E dal primo giorno le lezioni andavano
prolungandosi e moltiplicandosi sempre più, talché il signor Facenni,
aveva giudicato dovere d’equità raddoppiargli gli emolumenti.
Corrado, «il maestro» aveva allora
incominciato a migliorare la sua toletta, che si fece in breve accuratissima,
di buon gusto, elegante e quasi ricercata, concorrendo così ad accrescergli
le simpatie dell’allieva, la quale dallo studio del piano, volle passare a
quello del canto.
Si alternavano così i pezzi a
quattro mani e i pezzi di concerto a due voci, le ballate senza parole e le
romanze, le arie e i duettini, nei quali maestro e scolara potevano scambiarsi
una quantità di frasi amorose e di parole inebbrianti, senza venir meno
ai più scrupolosi riguardi, alle convenienze sociali più strette.
La signora Facenni non era molto
portata per la musica. Assistendo alle
lezioni di sua figlia incominciava ad annoiarsi presto e finiva
coll’addormentarsi profondamente.
Ora le mamme che dormono sembrano fatte
apposta per le figlie che studiano la musica, specie sotto la guida di un
maestro giovane.
Elsa e Corrado si toccavano spesso
colla mano, scorrendo sugli avori e gli ebani della tastiera, involontariamente
s’intende.
Ma ogni qualvolta si toccavano, pareva
che una scintilla elettrica si sprigionasse dalle loro mani e ne investisse
tutte le persone.
Ma presto le toccatine di mano non
bastarono più e neppure le pressioni dei piedi sul pedale. Una sera, mentre Elsa inchinava leggermente la
testa a destra, accompagnando con quel vezzoso moto il suono, Corrado le
appioppò un bacio sul collo a sinistra.
La fanciulla arrossì fin nel
bianco degli occhi, ma non disse verbo e continuò ad accompagnarsi
coll’ondulazione del capo.
— Perdonatemi, signorina,
mormorò il maestro all’orecchio della fanciulla, benché non ce ne fosse
il più piccolo bisogno — perdonatemi.
Elsa lo guardò di sottocchio e
sorrise — quasi a dirgli:
— Grullo! Se mi hai fatto piacere.
Corrado ne fu inebbriato; ma non ebbe
il coraggio di procedere oltre.
Intanto l’esecuzione del «pezzo»
continuava, accompagnata dal russare intenso della signora Facenni, la quale
andava digerendo un certo fagiano con ripieno di tartufi bianchi, che, per far
onore al suo cuoco, aveva quasi divorato completamente a pranzo.
Continuando il moto ondulatorio della
testa, la fronte d’Elsa venne a trovarsi sotto le labbra del maestro; e questi,
ormai sicuro del fatto suo, la sfiorò colle labbra.
Era il secondo bacio e fu l’ultimo per
quella sera.
All’indomani si trattò di
provare un duetto d’amore di un valente autore, che Elsa contava di eseguire,
sempre col maestro, nel prossimo ricevimento serale della sua famiglia. La signora Facenni, sicura della virtù
di sua figlia e della discrezione del musicista, credette di potersi assentare
senza pericolo, dicendo che le prove l’annoiavano e le avrebbero messo in uggia
il duetto, il quale le sarebbe tornato più gustoso ed aggradito udendolo
per la prima volta, la sera del ricevimento.
Corrado stava al piano; Elsa in piedi
alla sua manca: il maestro cantava e accompagnava; la fanciulla cantava e
divorava cogli occhi il giovanotto. Il
fascino di quella musica sensuale, afrodisiaca la vinceva, e quando Corrado
dominato pur lui dalla passione le cinse con un braccio la vita, si
chinò sopra di lui e rovesciatogli il capo indietro cacciandogli la
bianca mano nei capelli, la baciò sulla bocca.
— Mi amate, signorina? — domandò
il maestro balbettando per l’emozione.
— E me lo chiedete?
— Lo so. Ma è sì dolce sentirselo
ripetere da una bocca come la vostra.
— Ebbene, sì t’amo; t’amo
pazzamente, non vedo che pei tuoi occhi, non ho alito di vita che per te.
— Sei un angelo. Eppure questa confessione che dovrebbe farmi
il più felice degli uomini, mi agghiaccia di spavento.
— Perché?
— Perché non potrà che esserci
cagione di affanni, di dolori infiniti.
— Pazzo! Ci sarà cagione di
ebbrezze ineffabili, se davvero tu pure m’ami, come io ti amo.
— Non riflettete, signorina, alla
disparità delle nostre condizioni? — le domandò Corrado assumendo
un fare riguardoso e con piglio quasi severo. La fanciulla ne fu scossa vivamente e
sentì più ardente il desiderio dei baci. Pure sforzandosi di riporsi in
tranquillità rispose con voce appena intelligibile:
— È da molto tempo che ci
rifletto.
— E non avete riconosciuta
l’impossibilità d’esser mia?
— No.
— Io non ho beni di fortuna.
— Che importa?
— Sono indispensabili per vivere.
— Ne ho io.
— I vostri genitori non consentiranno
mai ad un’unione così disparata. Forse, se la fortuna mi sorregge, quando
avrò dato alle scene la mia grande opera, e mi sarò fatto un nome
e sarò sulla via di arricchirmi. . .
— E quanto tempo occorrerà per
questo?
— Che ne so io? Forse due, tre, forse
dieci anni.
Elsa alzò bruscamente le spalle,
segno evidente di corruccio. Ma in quel
momento s’udì uno stropicciare alla porta, e maestro e allieva ripresero
le prove.
Era tempo.
La signora Facenni ritornava in
compagnia del suo signor consorte.
La relazione amorosa dei due giovani
incominciata sotto così felici auspici progredì rapidamente; ma
non varcò troppo i limiti del lecito e dell’onesto. Corrado avrebbe potuto avere la fanciulla in
sua piena balìa, solo che lo avesse voluto. Ma la sua passione non andava disgiunta da
calcoli profondi ed eminentemente pratici.
Elsa era leggiadra, passionata, cara,
ma la sua dote e le speranze dell’avvenire non mancavano di grandi attrattive. Possederla gli avrebbe procurato una
soddisfazione deliziosa, ma passeggera. Condurla in isposa avrebbe invece assicurata,
colla sua fortuna, una perenne felicità. Un’ereditiera milionaria, anche essendosi
permessa di sfogare qualche capriccio, non avrebbe mancato di aspiranti alla
sua mano. Bisognava diffidare dei suoi
slanci, bisognava contenersi, bisognava trarla al punto di volerlo ad ogni
costo per marito. I genitori l’amavano ed
erano ricchi abbastanza per assicurare ad entrambi un’esistenza beata, una vita
largamente signorile.
La riservatezza di Corrado irritava
sempre più la fanciulla. Mille
volte gli si era gettata nelle braccia e mille volte egli l’aveva dolcemente,
ma coraggiosamente respinta.
— Io ti adoro come una santa — le
diceva spesso — e per nulla al mondo verrei meno al rispetto che ti devo.
Che orribile seccatura è mai il
rispetto degli uomini per una fanciulla — diceva a se stessa Elsa, e aggiungeva
forte: — Io vorrei essere amata da te, un po’ meno come santa, e un po’
più come donna.
Corrado non rispondeva.
Un giorno finalmente l’allieva disse al
maestro: — Perché non mi chiedi in isposa a mio padre?
— Perché non mi garberebbe di essere
costretto a fare un salto dalla finestra.
— Forse non hai torto. . . Mio padre accorda un gran valore al danaro,
perché dice di averlo guadagnato con sudore. Ma, se realmente mi ami, è un’alea che
è necessario correre.
— Perché non gliene discorri tu?
— Per la ragione identica.
— Rivolgiti a tua madre.
— Conta assai la mamma!
— Pare ti porta molto affetto.
— Non lo nego, ma. . .
— Almeno ella potrà esplorare
l’animo di tuo padre e predisporlo alla richiesta.
— Forse non hai torto. . . Gliene parlerò questa sera stessa.
E come disse fece.
La sera medesima, non appena levata la
mensa della cena, essendosi il signor Facenni ritirato, Elsa abbordò la
sua genitrice con una domanda a bruciapelo:
— Che te ne pare, mamma del maestro?
— Mi pare bravino assai.
— Non è questo che ti chiedo.
— Spiegati meglio allora.
— Che te ne sembra? Come uomo.
— È un bel giovane.
— Non è vero? Sarebbe fortuna
per una donna pigliarlo per marito.
— Se avesse a darle da mangiare.
— Una posizione non gli può
mancare: ha tanto ingegno. La sua opera
deve essere un portento. Quando
l’avranno messa in scena gli procurerà di punto in bianco la
celebrità.
— Se non gli procurerà una
raccolta di torsi di broccoli.
— Mamma, ti beffi di me?
— Di te? Perché mai, figlia mia?
— Perché l’amo, l’adoro, voglio
sposarlo, sarò sua moglie, o andrò a chiudermi in un chiostro.
— Lo prevedevo! — esclamò la
signora Facenni, tirando un profondo sospiro dal petto. Domani ti porterò a confessarti da
padre Agostino. Penserà lui a
levarti le ubbie dal capo.
— Lo voglio! Lo voglio! Non c’è
padre Agostino che tenga! Lo voglio — gridò la fanciulla pestando i
piedi. E se non me lo date mi
ammazzerò.
Questa crudele minaccia atterrì
la povera signora.
— Giusto Cielo! — esclamò. — Mi punisci di qualche colpa? L’affare
è più grave di quanto pensavo.
— Dunque?
— Che vuoi che ti dica, Elsuccia mia,
parlane tu stessa a tuo padre.
— Devi farlo tu.
— To!. . . Non mi lascierà finire. Lo conosco bene. Ti adora. Ma ha le sue idee di grandezza: vuol fare di
te una principessa, una duchessa, una marchesa almeno. Su questo punto non transigerà mai.
— Non è la ricchezza che forma
la felicità di due sposi.
— L’ho udito dire anche questo; ma ci
credo poco. D’altra parte non è
questione di ricchezza. Se ti fossi
innamorata di un nobile, disperato come Giobbe, ma di grande casato, saresti
certa di ottenere il suo consenso. Ha
delle ambizioni tuo padre.
— Se non diventerò contessa,
diventerò moglie di un maestro celebre, come Rossini, come Morzat.
— Non è pane pe’ suoi denti.
— Insomma, mamma mia, se mi vuoi bene
se desideri che io viva, fatti in pezzi per persuaderlo.
— Mi proverò; ma senza speranza.
L’effetto della missione assuntasi
dalla signora Facenni fu che il suo consorte uscì dai gangheri, la
trattò da mezzana e peggio, licenziò il maestro e ordinò a
Giovanni di buttarlo dalle scale, se avesse osato di ripresentarsi.
Quell’ordine fu per Binzaglia come una
rivelazione. Egli aveva già
notate le assiduità di Corrado, e le deferenze di Elsa per lui; ma non
ci aveva dato soverchio peso. In quel
momento gli ritornarono alla mente tutte le piccole intimità che aveva
sorprese fra i due, si convinse che la loro relazione non doveva essere stata
troppo innocente; diede ad essa una portata molto superiore al vero.
E la sua fantasia erotica si accese per
modo da concepire per il maestro un odio accanito. Gli pareva di essere stato truffato da lui. Se c’era un frutto proibito da godere in
quella casa, doveva essergli riservato.
Risolse per tanto di esercitare la
più attiva vigilanza e di cogliere l’occasione, non appena gli si
presentasse, per prendere la rivincita.
— Un bocconcino di quella fatta cadere
in bocca di quell’allampanato — mormorava, in preda ad un eccesso di cordoglio.
Oh! me la pagherà!.
Elsa non appena fu informata dalla
madre dell’infelicissimo esito della missione assuntasi e del licenziamento del
maestro, anziché perdersi in querimonie o dare in inutili smanie,
deliberò di giungere, per qualsiasi strada, al conseguimento dei suoi
desideri.
La sua tranquillità
ingannò i di lei genitori, che la supposero più ragionevole di
quanto era a sperarsi.
Elsa trovò modo di mettersi in
corrispondenza con Corrado, per mezzo di una vecchia cameriera, mutata in
messaggera d’amore. Ma Giovanni vigilava
e presto fu informato di tutto.
— Tu t’affatichi troppo — disse un
giorno alla vecchia per portare al maestro le lettere della signorina.
— Che ne sapete voi?
— So quanto basta, e siccome mi fai
pena, mi incaricherò io della bisogna, per puro amor del prossimo,
lasciandone a te i proventi.
La vecchia non amava di meglio e di
grand’animo consentì alla proposta del domestico. Per tal modo il Binzaglia conosceva per filo e
per segno i progetti dei due amanti, perché prima di consegnar le lettere si
faceva un dovere di leggerle.
Elsa aveva proposto a Corrado di
rapirla; ella porterebbe con sé le sue gioie e un migliaretto di scudi che
aveva risparmiato sul suo spillatico. Questo avrebbe bastato a farli vivere, senza
stenti, finché placata l’ira paterna, le nozze, diventate indispensabili per
riparare l’errore commesso, sarebbero state consentite.
Il maestro sulle prime mostravasi
riluttante: ma alla perfine aderì al progetto.
Approfittando della illimitata libertà
che godeva in casa, Elsa fece tutti i suoi preparativi. Mandò all’amante le gioie, il denaro e
tutto il corredo della sua biancheria e de’ suoi vestiti.
E finalmente fu stabilito il giorno
della fuga.
Doveva aver luogo sull’albeggiare. Elsa sarebbe uscita dal palazzo per una
porticina di servizio, della quale si era procurata la chiave. Corrado doveva attenderla poco lontano, con
una carrozza di posta, che li avrebbe condotti a Firenze.
La sera della vigilia affettuosamente
più del consueto baciati ed abbracciati i suoi genitori si ritirò
per attendere l’alba, con ansia indescrivibile.
Elsa si era ritirata nella sua camera
da letto, un piccolo nido di colomba, nella quale la semplicità e
l’eleganza si fondevano con felicissima armonia. Nel fondo il letto piccolo, quale conveniva ad
una fanciulla, con cortinaggi di merletto, sormontati da altre tende di seta
rosa tenuissima, quasi bianca, perfettamente simili ai panneggiamenti della
porta e della finestra. Una toletta del
secolo XVII, pure a cortinaggi bianchi, con servizio d’argento cesellato e
porcellana pompadour. Un piccolo
scrittoio di legno di rosa intarsiato, con madreperla. Un grande armadio a specchi, riccamente
scolpito. Sedie e poltroncine coperte di
velluto e di broccato, completavano l’arredo della stanza.
Elsa aveva licenziata la vecchia
cameriera, ed avvolta in un accappatoio di finissima battista trasparente,
s’era seduta allo scrittoio e andava tracciando sulla carta delle piccole zampe
di mosca, colle quali intendeva partecipare ai suoi genitori i motivi che
l’inducevano a lasciare il tetto paterno e quali erano le sue intenzioni per
l’avvenire.
Ma convien dire che le parole non
corrispondessero perfettamente al suo pensiero, perché aveva già
incominciato parecchie volte la lettera, e giunta a mezzo se l’era
ripetutamente fatta a brani.
Pareva agitata da sinistri
presentimenti. Se suo padre indignato da
quella fuga che troncava tutti i suoi sogni di ambizione non avesse voluto
assolutamente saperne più di lei? Poteva ella fare assegnamento
sull’affetto della madre, ma questa non aveva tempra d’animo energico e non
avrebbe mai trovato in se stessa il coraggio necessario per contrariare gli
ordini del marito. E d’altra parte chi
la assicurava della lealtà di Corrado? Chissà se egli, sbolliti i
primi entusiasmi, non trovando più in lei la ricca ereditiera, non
l’avrebbe abbandonata? Che ne sarebbe avvenuto di lei, sola al mondo in terra
straniera, lungi dalla sua casa, da tutte le cose e le persone che aveva fin
dall’infanzia imparato ad amare?
Vinta da queste paure, ella si
attaccò al cordone del campanello, per chiamare la cameriera.
La vecchia comparve sulla soglia della
porta, pochi momenti dopo, già mezzo assonnolita e in una toletta notturna,
che moveva al riso.
— Che vuole la signorina?
— Non lo so — disse essa sbadatamente,
seguendo il filo de’ suoi pensieri.
— Le occorre qualche cosa? Vuole che
rimanga a tenerle compagnia, fino al momento della partenza?
Questa offerta, richiamò la fanciulla
alla realtà della situazione.
— Credi tu che io faccia bene o male ad
andarmene? — chiese francamente alla fantesca.
— Signorina, ella non mi ha mai rivolta
prima d’ora una simile domanda.
— Ebbene?
— Io l’ho accontentata per
quell’affetto che le ho posto fin da quando la ressi bambina sulle braccia. Se mi avesse domandato consiglio prima ne
l’avrei forse dissuasa?
— Ed ora?
— Ed ora non saprei. Al punto cui sono giunte le cose sarebbe
strano retrocedere. Ma dal momento che
la signorina esita, vuol dire che non è più dominata da quella
passione indomita, irremovibile, che la trasse all’audace proposito.
— È vero — mormorò essa. E quasi per riscaldarsi, per ravvivare la
fiamma del suo amore, trasse da un tiretto dello scrittoio le ultime lettere
inviatele dal maestro e si diede a rileggerle ansiosamente, dimenticando la
cameriera, che stava ad aspettare e non osava né di interromperla, né di
andarsene.
D’un tratto Elsa alzò gli occhi
sopra di lei e vedendola in quell’atteggiamento, presa da’ brividi, si
alzò, andò alla vecchia e abbracciatala, le disse:
— Quello che è deciso, è
deciso. Tu perorerai la mia causa, non
è vero?
— Certamente, se non mi metteranno
sulla strada.
— Non temere: ti scagionerò
completamente. Va pure a coricarti.
La cameriera non se lo fece ripetere.
Elsa, tornò allo scrittoio,
vergò la lettera a’ suoi genitori, affettuosa, ma energica e perentoria
nel frattempo. La piegò con mano
sicura e la suggellò; quindi toltasi la vestaglia si avviò verso
il letto per coricarvisi.
Un capriccio troppo naturale in una
donna, e pure in una fanciulla che stava per distaccarsi da’ suoi e per andare
a buttarsi fra le braccia dell’amante, la fece ritornare sui suoi passi.
Presa in una mano la lucerna la
collocò innanzi allo specchio, per ammirarvi riflessa la propria
immagine.
Era veramente leggiadra e affascinante
colla elegante persona coperta dalla sottilissima batista della camicia, che
l’avvolgeva, come candida spuma, delineandone le forme superbe; ignude le
bellissime braccia, ignudo il seno torreggiante, dalle punte coralline rivolte
all’insù, l’ampie curve delle anche poderose, le gambe snelle, nervose,
come quelle di un cavallo di corsa, e la testa cinta dal nimbo d’oro de’ capelli,
che le scendevano in ricche anella sugli omeri.
Un sorriso di compiacenza le
infiorò la bocca soave. . . dalla
quale le sfuggì a quel momento un piccolo grido, vedendo disegnarsi sul
fondo del quadro la figura di un uomo, pure riflessa dallo specchio. Grido di sorpresa e di angoscia insieme, a
stento represso dalla paura di svegliare i parenti.
Elsa si volse rapidamente incrociando
le braccia sul petto, per nascondere i tesori, e vide innanzi a sé il domestico
Giovanni Binzaglia.
— Voi, Giovanni? — domandò
sorpresa.
— Io, signorina.
— Che volete a quest’ora, in questo
luogo? Chi vi ha permesso d’entrare?
— Pazienti un momento, signorina, e
risponderò a tutte le sue questioni.
— Pazientare? Siete ubriaco forse?
Chiamerò gente e sarete licenziato su due piedi.
Così dicendo Elsa stendeva la
mano al cordone del campanello, facendo atto di prenderlo.
Giovanni non si mosse.
— Le osservo signorina, che chiamando
gente, ella provocherà un inutile scandalo, certamente più
nocevole a lei che a me.
— Impudente
— E ciò che è peggio,
continuò imperterrito il domestico, manderà a monte una fuga
tanto bene architettata e preparata.
— Una fuga? — disse Elsa esterrefatta.
— Quel povero maestro, che
l’attenderà sul far del giorno colla carrozza di posta per trasportarla
a Firenze, ne sarebbe desolatissimo.
— Si potrebbe sapere, chi vi ha
così bene informato — chiese la fanciulla fremendo d’ira e di sdegno.
— Mi sono informato da me. È da parecchio tempo, anzi da molto
tempo che vigilavo la signorina.
— Fate un bel mestiere! E per conto di
chi?
— Per conto mio.
Elsa si lasciò sfuggire un
sospiro di soddisfazione; non trattandosi che di un servo, le cose sarebbero
presto accomodate.
— Non credo che possiate avere
l’intenzione di opporvi ai miei divisamenti.
— Tutt’altro! Anzi li
favoreggerò, per quanto è da me, come li ho favoreggiati sin qui,
risparmiando alla vecchia l’incomodo grave di portare le lettere della
signorina e di riportarle quelle del signor Corrado.
— Voi dunque. . .
— Io mi sono assunto per amor vostro
l’arduo compito.
— Avete diritto ad un compenso e
l’avrete. Ma potevate ben scegliere un
momento ed un modo diverso per reclamarlo.
— Riservandomi all’ultimo istante, ho
stimato di mostrarmi più delicato e di non abusare della sua
condiscendenza.
— Forse è vero! — disse Elsa,
quasi rispondesse ad un suo intimo pensiero, e tosto aggiunse: Gli è che
non essendo prevenuta mi sono privata del denaro di cui avrei potuto disporre.
Un sorriso satanico spuntò sulle
labbra di Giovanni Binzaglia, il quale mosse un passo verso la fanciulla.
— Ma ora che ci penso, possiamo
aggiustar benissimo le cose — riprese Elsa.
— Non desidero di meglio.
— Prendete questo anello: è un
dono che mi ha fatto la mamma per la mia festa. Vale almeno cento scudi. Al mio ritorno me lo ridarete e io vi
sborserò questa somma. Se non
tornassi potrete sempre averla da mia madre.
Elsa s’era tolto l’anello dal dito e lo
porgeva a Giovanni, senza più pensare a farsi schermo delle braccia alle
nudità del seno. La sua mano
sfiorò quella del domestico, che bruciava come un tizzo ardente. La fanciulla la ritrasse più che mai
sorpresa e alzando gli occhi sopra di lui, fu presa da un brivido di terrore.
Il Binzaglia non era più un
uomo, ma una belva umana nel parossismo della passione erotica.
— Non è l’anello, non è
il denaro che io voglio, signorina.
— Che mai? — mormorò Elsa
sbigottita, sentendosi divorata dagli sguardi del giovane.
— È un’ora del tuo amore,
è un’ora di quelle ebbrezze che hai prodigate al maestro, che egli ancora
attende e che fra breve riavrà. E
così dicendo il mostro l’afferrava colle braccia poderose e se la
stringeva al seno, coprendola di baci.
— Lasciami, scellerato! — singhiozzava
la fanciulla — lasciami infame!
Ma la voce le restava nella strozza e sentiva
venirle meno ogni forza di resistenza.
Con un conato supremo tentò
svincolarsi e non essendo riuscita cadde in deliquio, offrendosi così
facile preda alla foia di quel mandrillo, che trasportatala sul letto ne fece
orrido strazio.
I rosei vapori dell’aurora
incominciavano a diffondersi sull’orizzonte e penetrando la mitissima luce per
la finestra della camera d’Elsa, disegnava le forme degli oggetti, quando
questa ricuperò i sensi. L’accaduto di quella terribile notte le si
affacciò alla mente, come un sogno. Ma la triste realtà le stava accanto
nella persona del suo seduttore, il quale, supponendo svanite le sue collere,
tentò di baciarla nuovamente e le disse:
— È ora d’andarsene, non
è vero piccina?
Quella voce, che il Binzaglia si
sforzava indarno di rendere tenera ed insinuante finì di scuotere i
nervi della fanciulla disgraziata, la quale ricuperata tutta la sua energia, lo
respinse, con voce soffocata dallo sdegno:
— Mostro! pagherai il fio del tuo
delitto.
E stese la mano per afferrare il cordone
del campanello. Giovanni ve la trattenne
appena in tempo. Elsa volle allora
chiamare aiuto e il domestico dovette chiuderle la bocca colla mano, per
impedirle di gridare. Ma s’ebbe in breve
a persuadere che non sarebbe riuscito a dominarla, perché si dibatteva
disperatamente sotto le sue strette.
Un solo modo di salvarsi, restava ormai
al Binzaglia: ucciderla. E a questo egli
volse tosto la mente.
— O taci, o muori.
— Uccidimi, assassino, vigliacco! —
volle più che non poté dire, Elsa, colla voce soffocata dalla mano del
Binzaglia.
Questi afferrò i guanciali, le
coprì il volto e montatole con un ginocchio sul petto, barbaramente la
strozzò.
Accertatosi della sua morte,
ascoltandole il cuore muto di battiti, la sollevò, le passò al
collo il roseo cordone di seta del panneggiamento della finestra e così
ne appiccò la salma; quindi le pose sotto i piedi una sedia rovesciata
per far credere che si fosse suicidata e se ne andò pian piano dalla
camera, accuratamente chiudendone la porta dietro di sé.
A giorno fatto la vecchia cameriera,
entrò, come di consueto per smuovere ogni sospetto di complicità
per parte sua nella fuga della padroncina.
Ma all’orribile spettacolo che si
offerse alla sua vista, arretrò spaventata e proruppe in acutissime strida.
Accorsero i famigliari, il padre, la
madre. Si mandò pel medico e per
l’autorità. Il cadavere venne
staccato e deposto sul letto; ma il sanitario non poté che constatare il
decesso d’Elsa seguito già da parecchie ore.
Intanto si fecero delle indagini e si
scoperse la lettera che la fanciulla aveva scritta ai suoi genitori. Interrogata la vecchia tremante, narrò
tutti i particolari, non tacendo che la bisogna era stata condotta da Giovanni
Binzaglia, del quale venne operato l’arresto immediatamente.
L’autopsia constatò le violenze
subite dalla fanciulla, violenze che dovevano aver avuto luogo la notte stessa.
Una cinghia trovata appiedi del letto e
che si conobbe aver appartenuto al Binzaglia, aggravò singolarmente la
posizione di costui. L’istruzione del
processo, ricostituì il terribile dramma e a nulla valsero le ostinate
negazioni dell’imputato, il quale dovette alla perfine arrendersi e confessare
i particolari del delitto.
Giovanni Binzaglia cercò di
attenuare la propria responsabilità, descrivendo l’amore ispiratogli
dalla padroncina, la gelosia suscitatagli dalla progettata fuga col maestro. Disse che era entrato nella camera d’Elsa per
dimandarla, che la vista della fanciulla semisvestita gli aveva tolta la
ragione e che era stato costretto ad ucciderla per occultare il misfatto
commesso in un momento di delirio erotico.
La sua difesa fu molto eloquente; si
vedeva che gli premeva di salvare la testa. Ma non riuscì menomamente a commuovere
i giudici, i quali lo condannarono alla decapitazione.
All’annunzio della sentenza diede in
ismania feroce, disse di essere vittima della influenza esercitata dai genitori
della vittima, respinse ogni conforto e il giorno dell’esecuzione
bisognò portarlo a viva forza sul palco.
Per buona sorte la ghigliottina
funzionò colla massima regolarità e la sua testa cadde con
rapidità fulminea nel paniere, destinato a raccoglierla.
Il 19 luglio 1825, decapitai in Ancona
Casimiro Rainoni, il quale in un impeto di bestiale furore aveva ucciso con una
pedata, nelle parti vitali, un suo garzone. E dopo quattro mesi di riposo decapitai al
Popolo Leonida Montanari e Angiolo Targhini, due cospiratori contro il governo
di Sua Santità, appartenenti alla setta dei Carbonari, i quali avevano
gravemente ferito un loro compagno, tale Spontini, sospettando che li avesse
traditi e denunziati all’autorità.
Di questa esecuzione si fecero di molti
discorsi in Roma, perché la tenebrosa associazione alla quale appartenevano
incuteva spavento alla popolazione di Roma, onesta, timorata e fedele al Papa. Ma benché si sussurrasse di tumulti ed
insurrezioni preparate dai loro confratelli, per sottrarli al patibolo, la
tranquillità, grazie alle saggie ed energiche disposizioni adottate dal
governo, non fu menomamente turbata. Ecco come si svolsero i fatti.
Un affigliato, certo Angiolo Targhini,
romano, fu incaricato dell’operazione. Era un popolano d’animo deliberato e di
braccio sicuro.
Una sera Targhini passa dalla farmacia
Peretti e vedendo lo Spontini sulla porta, l’invita a seguirlo, dicendo
dovergli parlare di cosa grave. Spontini
accondiscende e lo segue.
Svoltano per il vicolo di Sant’Andrea
buio e deserto: Targhini si guarda attorno un momento e, non vedendo nessuno,
trae un pugnale dalla tasca in petto dell’abito e lo infigge in seno allo
Spontini dalla parte del cuore. Spontini
cade e Targhini si allontana con rapido passo con un altro che l’attendeva. Spontini non era morto.
Chiama aiuto; accorrono verso di lui
due carabinieri pontifici che pattugliavano in quei pressi e lo trovarono
seduto per terra, col capo appoggiato alla colonnetta, che stava sotto la
cappelletta della Madonna, illuminata dalla lampada, sull’angolo del palazzo. Esaminatolo lo trovano ferito e vanno alla
farmacia Peretti a chiedere se c’era qualche medico, per aiutare il malcapitato
e giudicare se era trasportabile. Esce
fuori il chirurgo Leonida Montanari di Cesena e s’avviano verso il ferito,
sempre al medesimo posto. Montanari tira
fuori la busta chirurgica, vi prende uno specillo, si mette a specillare la
ferita e non la trova mortale. Ma uno
dei carabinieri che osservava attentamente il Montanari, si accorge che collo
specillo tentava di approfondire la ferita. Non gliene lascia il tempo; gli toglie lo specillo
e gli lega i polsi con un buon paio di manette. Poi, chiamata man forte, condussero il Leonida
Montanari alle carceri; Spontini alla Consolazione, ove lo guarirono della sua
ferita. Fu eretto il processo contro il
Targhini, del quale il ferito declinò il nome, accusandolo del fatto, e
che venne tosto arrestato e contro il Montanari, che aveva tentato di compir
l’opera, e, quantunque opponessero i più sfrontati dinieghi, furono
condannati dalla Sacra Consulta alla decapitazione.
Si temeva che per l’esecuzione, gli
altri settari volessero tentare qualche colpo audace, e furono prese tutte le
disposizioni opportune. Quanto a me,
sebbene avessi ricevuto una quantità di lettere anonime, che mi
minacciavano di morte se avessi fatta l’esecuzione, ho compiuto il mio dovere
senza esitanza.
Era uno spettacolo imponente. Piazza del Popolo era gremita di gente, come
non la vidi mai. Quando vi arrivammo
colla carretta i soldati stentarono ad aprirci il varco. Giunti sotto il palco, che avevo eretto
durante la notte, col concorso del mio aiutante, Targhino prima e Montanari poi
scesero colla maggior franchezza di questo mondo, e ne salirono i gradini
circondati dai confortatori, saltellando quasi. Tutti i tentativi per indurli al pentimento ed
alla confessione riuscirono vani. — Non
abbiamo conto da rendere a nessuno: il nostro Dio sta in fondo alla nostra
coscienza — rispondevano invariabilmente.
Avevo avuto ordine da Monsignor Fiscale
di far presto e i confortatori, a quanto credo, lo stesso. Quindi non si perdette altro tempo. Li legai solidamente ai polsi, perché avevano
rifiutato di lasciarsi bendare, poi spinsi innanzi Angelo Targhini, che porse
il capo sorridendo alla ghigliottina e in un secondo fu spedito. Leonida Montanari mi salutò
beffardamente dicendomi: «Addio collega. » e fece poi come il Targhini e come
il Targhini lo spedii al Creatore.
Ci fu un subitaneo movimento nella
folla; pareva volesse scoppiare un applauso. Ma la vista della forza armata la contenne e
non si ebbe a deplorare il benché menomo incidente.
Quattro mesi e dieci giorni dopo,
cioè il 16 settembre, eseguii un’altra decapitazione a Piazza del Popolo
in persona di Giuseppe, quondam Biagio Macchia, un macellaro che aveva
mazzolato la moglie. Dico mazzolato,
perché veramente il mezzo adoperato da lui per ucciderla, somigliava
precisamente alla mazzolatura. Su questo
proposito posso dare il mio parere con una certa competenza.
Aveva il Macchia sposata una loretana
formosissima che attraeva a sé, per la rotondità pastosa delle sue
forme, l’attenzione di tutti i giovani de’ Monti, ove egli teneva bottega. Ma nessuno aveva potuto ottener nulla da lei e
la sua riputazione d’onesta donna s’era solidamente stabilita. Ingravidata quasi subito dopo le nozze,
partorì in capo a dieci mesi una femminuccia, la quale morì quasi
subito. La mammana le propose allora di
entrare a far da balia in una casa principesca, profferendole emolumenti
lautissimi. Rosa, la macellara, ne
parlò al marito. Questi sulle prime
esitò, ma poi si lasciò vincere dalla seduzione del denaro. Gli affari di bottega non gli andavano troppo
bene: aveva dei debiti, i cui interessi gli assorbivano la maggior parte de’
guadagni. La prospettiva di poterli
pagare e d’essere così liberato da quell’onere lo indusse al sacrificio
e lasciò che la moglie entrasse nella casa del principe, per dare il
latte al piccolo principino.
Rosa fu tosto vestita sfarzosamente nel
costume del paese. Le fecero un
magnifico guarnello di casimiro celeste, con una larga banda di raso giallo oro
al basso, breve per modo da lasciar scoperto, fin oltre la caviglia, il piede
calzato con scarpine scollate, di copale, guarnite con un fiocco di seta dello
stesso colore della banda; un busto di seta celeste, come la veste, colla
fettuccia e gli ornamenti di seta gialla; la camiciuola a larghe maniche
sbuffate di casimiro bianco e uno scialletto di crespo indiano pur giallo, che
gettava degli sprazzi di luce aurata sul collo bianchissimo e molto scoperto di
dietro e davanti; le adornarono la testa leggiadra di una larga fettuccia
intrecciata di seta celeste, con frangie d’oro, trattenuta da un grosso
spillone di filigrana pur d’oro.
Vedendola in quella toletta per la
prima volta il povero Macchia fu preso da un capogiro: mai gli era apparsa
tanto bella la sua sposa e mai aveva desiderato più ardentemente di
possederla. Ma questo gli era
impossibile, perché era stabilito per patti, che Rosa non avrebbe mai lasciato
il palazzo principesco, durante l’allattamento. Giuseppe non poteva parlare con sua moglie che
in presenza della cameriera e della governante.
Il macellaro se ne struggeva. E quasi non gli bastasse l’interno cruccio si
aggiungevano i motteggi degli amici e dei conoscenti, i quali si vendicavano
dell’austerità di Rosa, verso di loro, suscitando le gelosie del marito.
— Eh! Beppe da quanto tempo non
abbracci tua moglie? gli diceva uno.
Un altro: — Te la lasciano almeno
vedere?
Un terzo: — Forse prende il latte anche
il principe? Dicono che le è sempre attorno. Dopo tutto non ha torto. Era il più bel pezzo di carne che avevi
in negozio.
Macchia si schermiva alla meglio, ma
nel suo interno fremeva e malediva l’ora e il momento in cui si era lasciato
vincere dalla gola del denaro.
Finalmente prese il suo partito. Andò da Rosa e le spiattellò
chiaro e tondo che intendeva tornasse a casa ed a bottega.
— Sei matto? — fu la risposta di Rosa.
— Matto, o non matto, voglio
così. Svestiti ed andiamo.
Ne nacque una disputa gravissima. Ma il Macchia aveva dato il suo consenso per
il baliatico, Rosa si diceva contentissima di rimanere in casa del principe e
il macellaro fu cacciato dal palazzo, dai servitori.
Macchia ricorse a monsignor Fiscale, e
monsignor Fiscale lo minacciò di metterlo in carcere, se si fosse recato
ancora a disturbar sua moglie.
Per forza o per amore a Beppe convenne
di starsene zitto, mordendo la catena ch’egli stesso si era fabbricata,
accordando il consenso. Ma continuava a
mulinare progetti di vendetta. L’aveva
con tutto il mondo, colla moglie, col principe, coi domestici, col Fiscale, e
credo pure col Papa.
Un giorno stava chiudendo la bottega,
quando gli si presentò un giovane imberbe, che aveva tutta l’aria di un
famiglio di casa signorile.
— Sor Beppe? — chiese costui
timidamente.
— Sono io. Che volete?
— Sono un uomo di scuderia del
principe, in casa del quale vostra moglie fa da balia.
— Ah! sì. Aspetta che t’acconcio io — urlò il
macellaro — e corse in un canto per prendere il palo, con cui soleva sbarrare
la porta posteriore del negozio.
— Che fate? — domandò sbigottito
il famiglio.
— Niente, ti voglio soltanto
accarezzare le spalle. E così
potessi fare altrettanto col tuo padrone.
— Fareste meglio ad accarezzare quelle
di chi vi fa cornuto, strillò il giovane, balzando fuori dal negozio con
un salto e soffermandosi in mezzo alla via.
Il Macchia era diventato livido: il suo
fegato secerneva tanta bile, che pareva volesse soffocarlo. Tuttavia riuscì a dominarsi: depose il
palo e chiamò il famiglio così:
— Eh! giovinotto scusatemi un po’. Mi fanno e mi son lasciato trasportare. Ora chiudo, se volete andremo a farcene una
foglietta, qui da Zi’ Pippo.
— Meno male! Siete diventato
ragionevole. Vengo per rendervi un
servigio, e un poco ancora mi accoppate.
— Non lo sai che un uomo in furia
diventa una bestia?
— Me ne sono accorto.
Giuseppe Macchia chiavò per bene
la porta del negozio e infilato il suo sotto il braccio del famiglio, lo
trascinò da Zi’ Pippo.
Il famiglio e il macellaro s’erano
accantucciati innanzi ad un tavolino e andavano vuotando un boccale di
frascatano, che avrebbe dovuto scioglier loro la lingua. Ma né l’uno né l’altro osavano entrare
nell’argomento: questi desiderava e nel tempo stesso temeva di conoscerne la
verità: quegli aveva paura che Beppe montasse un’altra volta in furia.
— Siamo qui da un quarto d’ora, disse
finalmente il Macchia con voce sommessa e appena intelligibile, e ancora non
abbiamo abbordato l’affare. Vi
piacerebbe spiegarmi. . .
— Di gran cuore, se promettete d’essere
uomo e di non abbandonarvi agli impeti del vostro carattere.
— Sta tranquillo, amico. Ormai sono preparato a tutto. Mi rendi un servizio e non sono uomo di mancar
di riconoscenza. Mia moglie dunque. . .
— Vi tradisce.
— Ne sei certo, perché bada, non vorrei.
. .
— Ne sono certo, come d’aver ricevuto
il santo battesimo. L’ho veduta coi miei
occhi.
— Svergognata! Dove!
— In scuderia. Nel camerino del cocchiere.
— Non è dunque il principe?
— Ma che principe! È innamorata
morta del cocchiere.
— Baldracca!
— Ogni sera all’ora della tavola della
servitù, abbandona il bambino nella sua culla, certa che nessuno
l’andrà a cercare, scende al buio, giunge nella scuderia, dove l’amante
l’aspetta.
— E vi si trattiene?
— Mezz’ora o tre quarti al più.
— Come lo sapesti?
— Il cocchiere mi licenziò per
quell’ora: io risposi che ci avevo qualche affare a spicciare ed egli mi disse:
«Se ti vedo in scuderia a quell’ora ti mando all’inferno. » Io non me lo feci
ripetere. Ma volendo sapere che cosa
succedeva, mi nascosi una sera nella mangiatoia di due cavalli che ora sono
stati mandati in campagna e vidi tutto. Allora ho pensato di avvertirvi.
— Ed hai fatto bene perdio! Beviamone
un altro boccale.
Il boccale fu ordinato e mentre passava
dal recipiente negli esofaghi dei due nuovi amici, Beppe prese a dire:
— I servizi non si vendono a
metà.
— Son qui tutto per voi, purché non mi
compromettiate.
— Non aver paura.
— Che volete da me?
— Voglio che tu mi introduca nella
scuderia, senza che altri mi veda; occuperò il posto d’osservazione che
ha servito a te. Voglio vedere co’ miei
occhi.
— Non le farete mica del male a Rosa?
— Manco per sogno. Voglio soltanto confonderla. Poi la manderò al diavolo.
— Così sia. Venite sull’imbrunire. Il portone è aperto, a quell’ora il
guardiaporta se ne sta a far quattro chiacchiere cogli amici. Entrate franco e venite alla scuderia,
ch’è nella seconda corte a destra. Io ci sarò.
Poco dopo famiglio e macellaro si
lasciarono. Il primo rientrò a
palazzo, ben felice di aver trovato modo di vendicarsi del cocchiere, col quale
l’aveva a morte; il secondo tornò a bottega e prese tutte le
disposizioni per ciò che intendeva fare.
All’ora convenuta il Macchia si
presentava alla scuderia, dove il garzone l’attendeva: questi fu un po’
sorpreso di vederlo munito di quel palo, col quale lo aveva minacciato il
mattino, ma Beppe lo rassicurò dicendogli, che soleva sempre portarlo
con sé la notte, essendo minacciato da molti nemici. Il famiglio gli additò la greppia in
cui doveva nascondersi, gli raccomandò la massima prudenza, e se ne
andò per tema di venir sorpreso. Si diedero convegno per la sera stessa
all’osteria di Zi’ Pippo.
Non appena uscito il garzone, Macchia
si accovacciò nella mangiatoia e attese.
La scuderia era illuminata da una
lampada appesa alla volta nel mezzo, munita di un grande cappello a riverbero,
che spandeva la luce nella parte dove stavano i cavalli. Il posto dove stava appiattato il macellaro
era immerso nell’oscurità più profonda.
Macchia non aspettò di molto. La porta si aperse pian piano e il cocchiere
entrò munito di una di quelle piccole lanterne ad occhio di bue che
spandono un fascio di raggio innanzi a sé, lasciando nell’ombra la porta. Diede un’occhiata ai cavalli, quindi
salì i pochi gradini che menavano al camerino di guardia e vi
penetrò lasciando la porta socchiusa.
Passarono cinque minuti, che al marito
oltraggiato parvero cinque secoli, si udì un lieve scricchiolìo
alla porta e comparve Rosa nel suo provocante costume, più scollato del
consueto. Non appena ebbe posto piede
sul primo gradino, l’uscio del camerino s’aprì e la formosissima donna
fu investita tutta quanta dalla luce dell’occhio di bue.
Impossibilitato a frenarsi più
oltre Giuseppe Macchia balzò fuori dal suo nascondiglio armato del suo
palo e menò un colpo terribile al capo della balia. Rosa cadde mandando un acutissimo grido e
più non si mosse. Intanto il
tradito si lanciava nel camerino del cocchiere, ma questi si era buttato
giù dalla finestra, verso la corte, alta pochi metri dal suolo.
Il grido richiamò alla scuderia
i domestici, il portiere ed altre persone di servizio, che trovarono la balia
col capo fracassato e morente. Altri
frattanto arrestavano il macellaro, che seguendo l’esempio del cocchiere era
saltato dalla finestra nella corte.
Inutile descrivere lo scompiglio che
seguì nel palazzo. Giuseppe
Macchia fu consegnato alle guardie accorse e portato in carcere, Rosa venne
trasportata alla camera mortuaria della vicina chiesa dopo che il medico ebbe
constatato il suo decesso.
Nel suo interrogatorio innanzi ai
giudici il macellaro confessò il delitto, ne disse il movente, senza
declinare il nome del famiglio che lo aveva edotto di tutto. Ma questo fu tosto indovinato, sapendosi da
tutti l’inimicizia che esisteva fra lui e il cocchiere.
Condannato alla decapitazione, Giuseppe
Macchia domandò egli stesso i conforti religiosi e subì la pena
con coraggio, ma senza ostentazione di baldanza.
L’uxoricidio del quale ho testé
discorso me ne chiama alla mente un altro, accaduto a Tolentino, alcuni anni
dopo, del quale la memoria mi soccorre gli interessantissimi particolari.
Giuseppe Valeri, merciaio ambulante,
aveva condotto in moglie una appetitosa forosetta dalle forme scultorie e dal
viso capriccioso e furbo, dallo sguardo incandescente, la quale prima di
impalmarsi al merciaio aveva commesse parecchie scarpette che avevano aumentato
il contingente dei ricoverati al brefotrofio del suo paese.
Brutto come il peccato, secco, allampanato,
con delle braccia e delle gambe lunghe, che quando s’aprivano parevano ali d’un
molino a vento, più vicino ai quaranta che ai trentacinque, spilorcio,
avido di denaro, taccagno, mal vestito e peggio costrutto, Domenico non poteva
certo aspirare a nozze cospicue. Ma
anche la venustà della fanciulla sulla quale aveva posti gli sguardi era
una pretesa al disopra dei suoi meriti. Doveva dunque essere, necessariamente, molto
corrivo per quanto concerneva il di lei passato e proporsi di chiudere un
occhio anco per l’avvenire.
Ed è precisamente quello che
egli aveva fatto.
Le sue frequenti assenze dal paese
erano una fortuna, sulla quale Michelina, sposandolo, aveva fatto assegnamento.
I primi tempi del matrimonio passarono
per entrambi tranquilli. La moglie
vinceva coraggiosamente la ripugnanza che la bruttezza del marito le ispirava,
e questi, per ripagarla dei godimenti che ne traeva, oltre al mostrarsi molto
indulgente con lei, largheggiava nelle spese. Michelina approfittava generosamente d’una
cosa e dell’altra. Si trattava con
lautezza, per quanto concerne il vitto, vestiva con relativo lusso, non faceva
mai nulla di nulla, e si era procurata una folla di cugini, che le allietavano
gli ozi.
In breve Domenico si ebbe conquistata
la fama d’essere il più grande, fortunato e contento marito cornuto
dell’umanità.
Ma l’appetito vien mangiando, come si
suol dire, e presto il trattamento del marito parve a Michelina troppo scarso. Pensò che gli amanti di cuore se le
fruttavano molte gioie fisiche, non gliene procuravano punto di morali, e
cominciò a trar profitto della sua libera vita.
Una sera, ritornando prematuramente a
casa da uno de’ suoi consueti viaggi, trovò Domenico la sua diletta
sposa a cena con un grasso e grosso curato. La tavola era fornita d’ogni ben di Dio. Bottiglie coperte dall’onoranda polvere del
tempo, fiaschi dalla pancia tumefatta contenente topazi e rubini sciolti; un
magnifico cappone fumante sulla scansia ed altri bipedi alati ed implumi, sulla
credenza. I più deliziosi aromi
impregnavano l’ambiente e vellicavano le nari del reduce merciaio, anco
più deliziosamente di quelle dei due convivi.
All’improvvisa comparsa di Domenico
Valeri, il curato fece atto di alzarsi e le sue gote già rubizze,
diventarono color di fiamma, ma Michelina lo trattenne con un delizioso moto
della bianca manina ed un quasi impercettibile alzar di spalle.
— Buon Menico, — disse poi — Sei
tornato a tempo, il signor curato sarà ben felice di averti per
commensale.
— Certamente! Certamente! —
borbottò il prete, benché temesse di non trovarsi completamente a suo
agio.
— Vieni qui — ripigliò Michelina
— un’ala di questo cappone ti rifocillerà lo stomaco e ti
preparerà a mangiare il resto di buon appetito.
— Permette proprio, signor Curato? —
domandò Domenico, con emozione, e prendendo la mano del reverendo e
baciandola con gran rispetto.
— Figuratevi.
Man mano che la cena procedeva il
curato smetteva il broncio e vista la compiacenza del marito, lo affogava di
bere e mangiare. E intanto andava
mulinando come avrebbe potuto liberarsi da quell’impiccio, rompendo il
programma della sua serata.
Michelina aveva messe lenzuola di
bucato, acutamente profumate colla spazzetta, nel talamo nuziale, aveva mutate
le fodere de’ guanciali e sarebbe stata una così bella occasione di
passare una gioconda nottata.
Il prete interrogava la capricciosa
moglie del merciaio sul delicato argomento, cogli occhi e coi piedi. Questa comprese a volo e rispose con un
sorrisetto pieno di malizia.
Ma Domenico Valeri non era un grullo. Da quella cena comprese tutto ciò che
poteva sperare per l’avvenire, mostrandosi condiscendente e indovinando i
desideri e le intenzioni del curato, uscì fuori con una esclamazione che
scese fin nei più nascosti recessi dell’anima del prete:
— Che peccato che io non possa
trattenermi più a lungo in sì grata compagnia.
— Perché? — domandò prestamente
il degno ecclesiastico.
— Bisogna che riparta subito. Ho un contratto da stipulare e non sono venuto
che per prendere certi denari dei quali ho bisogno.
— Partirai domattina — disse la
pudibonda sposa — se te ne vai così, il signor curato se n’avrà a
male.
— Certamente! — biascicò il
prete.
— Il signor curato è tanto buono
che vorrà perdonarmi. Gli affari
prima di tutto, non è vero?
— Sicuro — scappò detto
all’anfitrione in sottana nera.
— Almeno trattienti un’altro pochetto,
tanto da accompagnare a casa don Gaspare — miagolò Michelina, che si
divertiva a tener sulle spine il prete.
— Oh! per questo non c’è
bisogno, ribattè costui.
— Dunque me ne vado.
E vuotato un ultimo calice d’aleatico,
Domenico si alzò, finse di andar a prender qualche cosa nel canterano e
rimessosi sulle spalle il ferraiolo, se ne andò accompagnato dagli
auguri e dalle raccomandazioni della moglie.
La relazione col curato, così
felicemente continuò, con molta soddisfazione dei tre contraenti. Da quel momento la casa di Domenico Valeri era
sempre fornita d’ogni ben di Dio e il bravo marito si dimenticava sempre
più frequentemente di dare a Michelina il denaro per le spese di casa. Questa d’altra parte aumentava il lusso de’
suoi vestiti e la ricchezza de’ suoi ornamenti. Il prete era ricco e generoso, la donna
ambiziosa, il marito avido.
Non poteva quindi accadere diversamente.
Ma la cupidigia del merciaio aumentava
continuamente e godeva nell’ammirare i gioielli, gli oggetti d’oro di cui sua
moglie faceva pompa ma avrebbe però voluto pigliarsene una larga parte.
Una sera rientrando, dopo l’assenza di
parecchi giorni, in casa, trovò Michelina a mensa, assisa davanti un
desco, sul quale erano i resti della succolenta cena che ella aveva, come di
consueto, fatto col curato. Ma il bravo
prete se ne era andato perché alla mattina seguente doveva officiare
prestissimo.
Il merciaiolo sedè allegramente
a fianco di Michelina, e dopo averle dato un abbraccio, con tutto quel tanto di
galanteria che teneva a sua disposizione, disse:
— Vediamo un po’ che cos’è
rimasto di buono. Del pollo, del
prosciutto, dei tartufi di Norcia, pizza di Civitavecchia ecc. bene, benone, benissimo.
E incominciò a mangiare a
quattro ganasce, suscitando l’ilarità della sua sposa, che avendo alzato
un po’ il gomito col curato, si sentiva in vena di tenerezze.
— Bevi, allocco — esclamava versandogli
del vino; questo è di Grottaferrata asciutto, che aiuta la digestione. Poi c’è lì del moscato di
Gradoli, che par. . .
— Piscio d’angioli?
— L’hai detto tu, sozzone.
Quando Domenico si fu ben bene
rimpinzato di cibo e di vino, stimò giunto il momento di tenere alla sua
pudica metà un certo discorso, che andava mulinando in testa da parecchi
giorni.
— Dimmi un po’ Michelina,
incominciò — il curato è generoso non è vero?
— Generosissimo.
— Non ti rifiuta mai nulla?
— Non ho bisogno neanche di chiedere,
suppone che abbia un desiderio, non me lo lascia manifestare, lo previene.
— Brava persona! Prete modello! Curato
eccellente! Dunque se gli domandassi qualche cosa, non te lo negherebbe?
— Che dovrei domandargli?
— Che so io? De’ quattrini.
— Me ne ha già dati di molti.
— Ah si? Quanti press’a poco?
— Guarda!
In così dire Michelina si
alzò, andò al canterano, ne trasse fuori una cassetta fatta a
mò di stipo antico, coperta di velluto, con ornamenti e borchie di
metallo, si frugò nel colmo seno, e tirata fuori una piccola chiave, aprì
il cassetto.
Il merciaiolo sbarrò gli occhi
stupefatti e gridò:
— Ma qui ci saranno almeno tremila
scudi.
— Lo credo bene.
E frattanto Michelina si divertiva a
tuffare le mani bianche e grassottelle nelle monete d’oro: provava una specie
di voluttà al contatto di quel prezioso metallo.
Domenico era diventato più
pallido del consueto. La vista dell’oro
gli cagionava delle vertigini, e più volte in pochi secondi aveva
portato gli sguardi dalla cassetta alla punta di un coltello, che aveva servito
per tagliar la pizza e giaceva ancora sulla tavola.
— È pericoloso tenersi in casa
tutto questo denaro — disse d’un tratto.
— Perché?
— Perché si potrebbe sapere, sospettare
e un bel giorno od una bella notte venirci a sgozzare in letto per derubarci.
— Sei impazzito?
— D’altronde il denaro ne’ cassoni non
frutta niente, invece impiegandolo saviamente, si può ricavarne
interessi.
— No, no! Esclamò Michelina, la
quale non voleva saperne di distaccarsi dal suo tesoro.
— C’è un bel podere da vendere
presso Macerata.
— Che ne sappiamo noi di coltivazioni?
— Si potrebbe comperarlo e
subaffittarlo.
— No, preferisco tenermi il mio denaro.
— Ebbene, se ti piace aver del denaro
da maneggiare, mettiamo un bel negozio da mercante: io smetterò di andar
per le fiere e potremo fare una vita comodissima e da buoni borghesi.
— Neppur questo mi va. Finché c’è il curato di quattrini non
me ne mancheranno: dopo ci penseremo.
Il Valeri tentò con altre
proposte di rimuoverla dal proposito di tenere i suoi cespiti morti, chiusi nel
canterano. Ad ogni nuova insistenza
Michelina diventava più inflessibile e mostravasi per giunta seccata dei
discorsi del marito. Questi dovette
quindi persuadersi che per il momento non c’era a far nulla, propose di
coricarsi e Michelina consentì.
Il letto era come di consueto, quando
il curato cenava in casa dell’amante, preparato con grande cura, colla
biancheria pulita e più fina, e ben sprimacciato. La donna satura di voluttà vi
entrò e Domenico dietro di lei, ma troppo turbato per pensare a
sovvenire ai bisogni fisici della moglie, la quale dopo aver atteso invano
qualche carezza almeno, profondamente si addormentò.
Il merciaiolo invece non poteva chiuder
occhio: aveva sempre dinanzi a sé la cassetta e la mano di Michelina, che
rimuginava le monete d’oro.
Passarono così lunghe ore. La testa di Domenico s’era mutata in un
vulcano, gli martellavano le tempie, aveva la bocca e la gola arse dalla sete;
pareva in preda ad un violento attacco di febbre. Ma a forza di volontà riuscì a
dominare sé stesso, a riacquistare una tranquillità relativa ed a
riordinare le sue idee.
— Colle buone, pensava, io non
riuscirò mai ad ottenere nulla da questa baldracca. Essa continuerà a spillar quattrini al
prete e ad accumularli. Ma chi mi
assicura che non verrà il giorno in cui, presa da una passione imperiosa
per qualche giovane mascalzone, non si faccia mangiar tutto da lui? Chi mi
assicura che quando si sarà fatta un capitale sufficiente a vivere in
una comoda agiatezza, non mi mandi all’inferno, e se ne vada a vivere da sé?
Così dovrei sopportare il danno e le beffe. No, bisogna sopprimerla. Tremila scudi di patrimonio li ha, un altro
migliaio di scudi almeno valgono i suoi gioielli. Con questa somma un uomo solo può
vivere senza affaticarsi, e godere. Aspettare più oltre sarebbe una pazzia.
Entrato in tal ordine di
considerazioni, il merciaiolo non si fermò. Formò un piano di guerra, confuso sulle
prime, ma che andò man mano precisando ne’ più minuti
particolari, colla riflessione.
Sull’albeggiare la moglie si
svegliò: si sentiva la testa pesante e indolenzita, pei fumi alcoolici. Lo disse al marito e questi le propose
d’alzarsi e di andare a fare una passeggiata in montagna. L’aria fresca del mattino le avrebbe giovato. Conosceva un bugigattolo dove si vendeva
dell’ottimo vino e avrebbero potuto fare un piccolo spuntino. Michelina aderì di grand’animo;
balzò fuori dalle coltri e si vestì in fretta e furia. Domenico fece altrettanto e mezz’ora dopo, mentre
Tolentino era ancora immersa nel sonno e non si vedeva per le strade anima
viva, i due coniugi uscivano dalla città e si avviavano per la campagna
ad un sentiero montano.
Man mano che salivano il sentiero si
faceva sempre più ripido ed aspro, il paese fitto d’alberi, d’arbusti e
di inestricabili liane. Usciti
finalmente dalla macchia si videro aprirsi, innanzi uno stupendo panorama. Il sole ormai alto indorava una successione di
colli digradanti verso la pianura per un lato. Sotto i piedi avevano un burrone profondo e
nero; alle spalle l’erta scoscesa.
— Guarda — disse Domenico alla moglie —
che bella vista.
— Stupenda! — esclamò Michelina,
realmente ammirata.
In quell’istante si sentì
afferrata per la vita. Credette ad un
trasporto di voluttà del marito e gli si abbandonò volenterosa,
benché sorpresa dal fatto inusitato.
Il merciaiolo, con uno sforzo
prodigioso, la sollevò sulle braccia e la lanciò giù per
il burrone.
S’udirono due gridi contemporanei e
nulla più. Il corpo bellissimo
della donna appariva denudato, essendosele rimboccate le vesti nella caduta e
precipitando sobbalzato di picco in picco, di sterpo in sterpo si tingeva di
sangue, finché giacque esamine e disfatto sul fondo del burrone.
— Ecco fatto — mormorò
tranquillamente il merciaiolo che aveva voluto veder gli effetti del suo colpo;
quindi rifacendo la via percorsa s’avviò a casa, pensando con gioia al
piacere che avrebbe fra pochi momenti provato, ficcando pur lui le mani
nell’oro del bauletto, del quale aveva avuto cura di strappare la chiave alla
vittima, mentre la scaraventava nel vuoto.
Egli aveva fatto i suoi calcoli con
matematica precisione. La Michelina era
ben nota per la sua vita avventurosa. Nessuno l’aveva veduto tornare la sera, e
nessuno uscire la mattina. Egli avrebbe
potuto mostrarsi ignaro di ciò che era avvenuto e mettere intanto in
salvo i suoi valori. Forse lo avrebbero
arrestato: ma non si sarebbe trovata né una prova, né una testimonianza ed
avrebbero dovuto rilasciarlo, dichiarandolo innocente e attribuendo il delitto
a qualche amante geloso e vendicativo.
In base a questi calcoli, rientrato nel
proprio domicilio, si impossessò della preziosa cassetta, vi chiuse i
gioielli che la moglie aveva lasciati nel canterano e avvoltala, a mo’ de’
soliti involti di merce che soleva portare da un paese all’altro, chiuse la
porta di casa ed uscì.
Giunto sulla via si vide venire
incontro un personaggio che lo fece rabbrividire. Era il bargello, al quale s’unirono tosto due
gendarmi, che lo ammanettarono e lo trassero in carcere coll’involto.
Aveva creduto d’aver compiuto il
misfatto senza testimoni ed era stato invece veduto da un giovane contadino, il
quale s’era affrettato a portar l’avviso alla polizia.
Domenico Valeri tentò di
adottare il sistema di difesa preventivamente architettato. Ma contro di lui stava la testimonianza del
contadino e il corpo del delitto. Abilmente interrogato dal giudice finì
per confessare, attribuendo alla infedeltà di sua moglie il movente del
delitto, e così credette di poter salvare la testa. Ma il piano non gli riuscì.
Condannato nel capo dopo sei mesi di
prigionia, il 15 febbraio 1830 io fui chiamato ad eseguire la sentenza. Benché munito dei conforti religiosi,
morì vilmente, portato di viva forza sul palco fatale da me e dal mio
aiutante.
I movimenti rivoluzionari di Napoli e
del Piemonte avevano esagitati anche gli Stati di Sua Santità e
segnatamente le Legazioni. I carbonari,
fierissima setta politica che si era proposta di rovesciare tutti i troni,
compreso quello del Sommo Pontefice, ordivano continue congiure, aiutandosi
vicendevolmente, da una provincia all’altra, da un capo all’altro d’Italia.
Per meglio riuscire all’intento,
combinarono di sollevare le Romagne, custodite da scarso numero di truppe e di
far di quelle il punto d’appoggio delle ulteriori insurrezioni, che andavano
preparando e che dietro un primo successo dei ribelli, non avrebbero mancato di
scoppiare.
Il governo pontificio era informato in
parte delle loro mene e stava sull’avviso; ma gli tornava impossibile di
raccogliere notizie precise, per poter colpire i capi ed i promotori, stante il
terribile ordinamento della setta, la quale colpiva di morte inesorabilmente
traditori veri o supposti, come s’era già veduto in Roma, nel processo
di Leonida Montanari ed Angiolo Targhini, da me giustiziati al Popolo il 23
novembre 1825.
Erano trascorsi d’allora tre anni, e la
carboneria, disfatta dai rovesci di Lombardia, del Piemonte e di Napoli,
s’andava ogni giorno più estendendo e rinvigorendo. Anche coloro che non v’erano propriamente
ascritti l’aiutavano, per paura di peggio, o almeno non ne denunziavano le
opere, delle quali fossero venuti in cognizione. Ravenna doveva essere il punto di partenza del
progettato movimento.
Stava allora in quella città
l’eminentissimo cardinal Rivarola, uno dei membri più austeri e
più acuti del sacro collegio. I
cospiratori formarono l’audace progetto di impossessarsi della sua persona, per
averlo come ostaggio e di ricorrere quindi alle armi per abbattere il governo
del papa e sostituirvi un governo rivoluzionario, al quale avrebbero fatto capo
gli altri dei paesi insorti costituendosi in lega.
L’eminentissimo Rivarola aveva
l’abitudine di recarsi ogni giorno a diporto in carrozza fino alla spiaggia del
mare, costeggiando la famosa Pineta, ed inoltrarsi in questa anche per breve
tratto, onde godersi la soave frescura e l’aria saluberrima, pregna delle
esalazioni delle piante resinose, tanto giovevoli ai polmoni.
Sull’imbrunire di una giornata dei
primi di maggio 1828, il cardinale ritornava dalla consueta passeggiata, e
stava per uscire dalla pineta, quando sei individui vestiti alla cacciatora e
muniti di moschetti, balzarono fuori da una delle macchie più fitte: due
si portarono ai lati dei cavalli gridando al cocchiere:
— Ferma, o sei morto.
Il cocchiere intimidito fermò le
bestie, benché il domestico che aveva a lato, lo esortasse a spronarli per
giungere sulla strada maestra.
Contemporaneamente gli altri quattro si
avvicinarono alle portiere, e quello fra essi che funzionava da capo, disse,
levandosi con una mano il cappello, coll’altra brandendo il fucile:
— Scenda, eminentissimo: non vogliamo
farle alcun male.
— È inutile — rispose il
cardinale — prendetevi pure tutto ciò che abbiamo e non versate
inutilmente sangue.
— Non è la sua roba che ci preme
— replicò il capobanda — non siamo ladri, siamo patrioti e vogliamo
soltanto impossessarci della sua persona, che tratterremo in ostaggio.
E siccome il cardinale pareva esitante,
aperta la portiera lo afferrarono per le braccia onde trarlo fuori.
Intanto il domestico era balzato in
terra da cassetta ed aveva scaricato addosso ai banditi le pistole di cui era
munito, disgraziatamente senza colpirli. Uno dei cospiratori che tenevano i cavalli,
trasse pur lui una pistola che portava alla cintola e scaricandogliela nella
testa, lo freddò.
Il rumore degli spari fece accorrere
immantinente una pattuglia di gendarmi, che perlustrava la pineta.
Si impegnò tosto un conflitto a
colpi di moschetto; due dei gendarmi caddero gravemente feriti. Una palla sfiorò la fronte del
segretario che accompagnava il cardinale ed altre fischiarono alle orecchie di
Sua Eminenza.
Ma la forza ebbe in breve ragione degli
aggressori, dei quali due soli, il capo e un suo luogotenente riuscirono a
fuggire; gli altri quattro vennero solidamente legati e portati a Ravenna,
dietro la carrozza del cardinale, che un’ora dopo rientrava trionfante a
palazzo.
La cittadinanza fu estremamente
commossa dall’iniquo attentato: venne decretato lo stato d’assedio. Cionullameno gli altri cospiratori indiziati e
conosciuti dalla polizia, riuscirono a sottrarsi nella notte alle sue indagini.
Si eresse il procedimento per omicidio
ed attentato omicidio, contro i quattro arrestati: Luigi Zanoli, Angiolo
Ortolani, Gaetano Montanari e Gaetano Rambelli. Ma per quanto si facesse per trar loro di
bocca i nomi dei complici e i particolari del delitto, non venne fatto. Legati dal giuramento alla setta, rifiutarono
ostinatamente di rispondere alle interrogazioni dei giudici, né valsero a
rimoverli dal loro proposito, blandizie e minaccie; disprezzarono le une e le
altre, e condannati tutti quanti alla forca, risposero unanimemente
Ha già vissuto assai.
L’esecuzione ebbe luogo il 13 maggio
sulla gran piazza di Ravenna, occupata militarmente, per modo che non potessero
accostarsi ai patiboli eretti, altro che i personaggi addetti alla curia, i
soldati, e i penitenzieri.
Le finestre e le porte e le botteghe
della città erano tutte chiuse e molte erano addobbate a lutto. Non una persona si vedeva per le strade. Ravenna pareva mutata in una necropoli.
Tutti i tentativi fatti per convertirli
erano stati energicamente respinti dai condannati, i quali non ne vollero
sapere né di confessarsi, né di confortatori religiosi e protestavano contro
l’accompagno di due frati, ordinato dal cardinale.
La carretta traversò le vie
deserte e silenziose, tutta circondata da soldati a piedi ed a cavallo al gran
trotto.
Giunta ai piedi del patibolo, i
giustiziandi scesero con un fermo passo, intrepidamente salirono uno ad uno
sulle scale delle forche, e prima che il capestro stringesse loro il collo
gridarono, con voce robusta, e priva di qualsiasi emozione:
— Viva l’Italia! Abbasso il papato!
L’esecuzione fu rapidamente compiuta. E io partii col mio aiutante la notte sotto
buona scorta, perché era corsa voce che i carbonari volessero farci la pelle.
Geltrude Pellegrini era la perla di
Monteguidone, la perla e la stella insieme, perché alla virtù più
scrupolosa accoppiava una bellezza incomparabile. Persona superba dalle forme slanciate e dense
ad un tempo, capelli neri, morbidi, lucidi e lunghi per modo che quando li
scioglieva sulle spalle, pareva avvolta in un peplo greco; occhi morati, pieni
di languori misteriosi e di iridescenze abbaglianti; un profilo meraviglioso di
purezza e di attraenza insieme; bocca sanguigna, denti bianchissimi, con lievi
interstizi fra l’uno e l’altro, labbra tumidette e sensuali, pelle fine e
vellutata, di quel bruno dorato pallido, che forma la disperazione dei pittori,
incapaci a ritrarlo.
Appartenente ad una agiata famiglia di
massai, vestiva con semplice eleganza e gusto squisito. Quando la festa si recava in chiesa, gli
angioli se ne innamoravano, diceva una leggenda; ma se non gli angioli,
certamente tutti i giovanotti, i quali facevano ala al suo passaggio,
all’entrata ed alla uscita, indirizzandole sguardi da incendiare i pagliai e
sospiri da muovere le ali di un mulino a vento.
Geltrude passava e sorrideva, senza
ostentazione di una esagerata modestia e senza alterigia. Tutti quanti le volevano bene; tutti, anche le
ragazze sue coetanee, forse perché non temevano in lei una rivale, avendo ella
mille volte dichiarato che non si sarebbe mai maritata, perché non voleva
distaccarsi dai suoi genitori, che amava, teneramente riamata.
— Geltrude — le diceva spesso la
vecchia madre, — è tempo che tu pensi ad accasarti.
— Non me ne parlate nemmeno, io voglio
godere della mia libertà, — rispondeva prontamente la fanciulla.
E il padre: — Pazzarella, dici
così, perché non sai ancora che cosa sia il matrimonio.
— Nessun altro stato potrebbe essere
per me più felice di quello che godo. Io voglio sempre stare colla mia famiglia.
— Si potrebbero accomodar le cose. Cerchiamo un marito che venga a star con noi.
— No, no, non voglio padroni, non
voglio chi abbia diritto di comandarmi, di impormi la sua volontà,
all’infuori di voi.
— E l’avvenire? — insisteva la vecchia
— Non siamo mica eterni, noi. Un giorno
o l’altro il Signore ci chiamerà a sé e tu resterai sola al mondo, in
mezzo a molti pericoli.
— Non parliamo di malinconie, mamma;
lasciatemi godere le gioie dell’oggi; quando arriverà domani ci
penseremo.
E così si chiudevano sempre le
discussioni sull’argomento fra Geltrude e i suoi genitori.
Bisogna però avvertire che la
leggiadra fanciulla era un po’ romanzesca: le avevano dato una educazione
cittadina, sapeva ricamare, scrivere, far di conti, leggere. E leggeva assai.
La sua occupazione più favorita,
quando aveva sbrigate le sue faccenduole, era la lettura. L’inverno, di sera, mentre la famiglia era
adunata nel tinello e gli altri chiacchieravano o si occupavano delle cose
domestiche, leggeva. E spesso se ne
andava a letto portandosi un libro e continuava a leggere per parecchie ore. Nella buona stagione se ne andava a diporto
per la campagna, s’internava nella macchia e trovato qualche posto, ove poteva
starsene a proprio agio, si adagiava sui tappeti erbosi, o su qualche masso
coperto di muschio, e leggeva.
Alle amiche che la rimproveravano della
sua selvatichezza, rispondeva invariabilmente, ch’ella amava più di
vivere in compagnia de’ personaggi ideali de’ suoi libri, che in quelli della
gente di questo mondo. Pure qualche
volta si acconciava a raccontar loro le storie dei romanzi che aveva divorati,
e allora favellava d’amore, come avrebbe potuto farlo una fanciulla innamorata,
suscitando così il sospetto, che covasse qualche passioncella segreta. Ma poi dovevano persuadersi che non era vero,
e il loro stupore cresceva.
Sullo scorcio di una giornata d’agosto
Geltrude che aveva passato tutto il dopopranzo nella macchia, leggendo,
s’avviava a casa, quando sentì uno scricchiolìo di fronde
calpestate poco distante da lei. Si
volse e si trovò faccia a faccia con un giovinotto alto e biondo vestito
da cacciatore. Portava un abito di
fustagno verde, alte uose di cuoio, un cappello a cencio, e il fucile
attraverso le spalle.
— Scusate, bella ragazza — le disse,
l’incognito — mi sono sperduto nella macchia, vorreste essere tanto gentile da
insegnarmi ad uscirne?
Geltrude arrossì fin nel bianco
degli occhi, vinta da un’emozione nuova.
Il cacciatore aveva degli occhi
cilestrini, una voce insinuante e dei portamenti non volgari.
— Non siete né del paese, né dei
dintorni? — si arrischiò a domandargli la fanciulla.
— No. Sono romano e poco pratico di questa plaga; mi
hanno detto che abbonda la selvaggina in queste macchie e ci sono venuto. Disgraziatamente il mio cane si è
azzoppato per un pruno che gli è entrato in una zampa e ho dovuto
lasciarlo all’osteria.
— Scendendo per la macchia tre tratti
di fucile, troverete a manca un sentiero traversale che conduce alla strada
maestra.
— Grazie mille. Ma voi, perdonate, non seguite la stessa
strada?
— No, io sono di Monteguidone, che si
trova a un quarto d’ora dalla macchia e devo risalirla per giungervi.
— Peccato. Avrei fatto tanto volentieri la strada in
vostra compagnia.
— Vi allontanereste di troppo dalla
vostra meta e non vi converrebbe perché si approssima la sera. . . Le strade sono malsicure, specie pei
forastieri.
— Val bene la pena di scomodarsi un
poco per intrattenersi con una bella fanciulla, come voi, ed anco di correre
qualche rischio.
Geltrude a tali parole si sentì
ancora più calde le vampe al volto e volendo troncarla rispose:
— Addio, signor cacciatore.
E affrettando il passo si
allontanò. Ma non seppe resistere
alla tentazione di volgersi indietro, per vedere se l’incognito seguiva le sue
indicazioni. Egli era invece sempre
là, fermo al posto dove l’aveva lasciato, colle braccia incrociate sul
petto e l’occhio intento a lei.
I loro sguardi si rincontrarono.
Quella sera Geltrude, si mise innanzi
il libro come di consueto ma poco o punto lesse e non appena coricata spense il
lume.
La sua avventura del giorno le
preoccupava la mente: ella si rivedeva innanzi il biondo giovinotto e parevale
d’udirne la voce armoniosa. Che
più? Non le sembrava ch’egli fosse nuovo per lei. Doveva averlo incontrato altrove, forse nelle
pagine di qualche romanzo.
Geltrude si alzò all’indomani
mattina, che non aveva chiuso occhio. La
sua fisonomia aveva in sé qualche cosa di insolito, di affaticato, di languente.
— Ti senti male. Geltrude? — le domandò premurosamente
la madre.
— Punto.
— Se sei giù di cera?
— Ho dormito poco. Faceva tanto caldo.
— Perché non torni a riposarti?
— No, no. È meglio che mi goda un po’ d’aria
fresca.
La madre non insistette più
oltre e Geltrude attese come di consueto alle bisogna di casa, affrettando con
voti il pomeriggio per recarsi a passeggiare e a leggere nel bosco. Sentiva come un vago presagio che l’attendeva
qualche cosa di inusato. Forse sperava
di incontrarvi di nuovo il cacciatore.
I presagi di una fanciulla si avverano
sempre, segnatamente quando sono ispirati dal cuore.
Giunta poco lungi dal posto dove aveva
passato il dopopranzo il giorno innanzi, vide un’ombra, la quale prese tosto
consistenza e forme precise: quelle del cacciatore dagli occhi cerulei. Sostò un momento perplessa, ma si
decise tosto e continuò la strada; quando fu innanzi all’incognito, gli
volse per prima la parola.
— Ancora qui, signore? Avete dunque fatto
buona caccia, ieri?
— Non quale la desideravo — rispose
l’incognito. — Vi aspettavo.
— Aspettavate me? Eppure, a quest’ora,
avreste dovuto conoscer bene la via.
— Sedete, Geltrude — disse l’incognito,
facendole posto sul masso colla maggiore naturalezza del mondo e come si fosse
trattato di una vecchia conoscenza.
Sedotta da quelle maniere disinvolte,
senza soverchia affettazione, Geltrude accettò l’invito e sedette.
— Come conoscete il mio nome?
— Me lo hanno detto in paese.
— Vi siete dunque occupato di me?
— Sì, perché vi amo.
La fanciulla si levò di scatto:
quella parola buttata là così, senza circonlocuzioni, l’aveva
offesa. Con chi credeva d’avere a che
fare quel cacciatore ardito?
— Sedete, — ripeté l’incognito — e non
vi offendete. So che siete una fanciulla
virtuosa, che non avete mai avuto amanti, che non volete saperne di matrimonio.
Se vi confesso candidamente il
sentimento che mi avete ispirato, credo di mostrarmi onesto e leale. Temete forse di me?
— No — rispose francamente Geltrude.
— Riprendete dunque il vostro posto. Non ho nulla a dirvi che possa appannare la
vostra virtù. Vi amo. Ebbene che male c’è?
La fanciulla non rispose; ma si
lasciò convincere dalla voce insinuante del cacciatore e gli sedette di
nuovo a fianco.
— Anch’io m’ero proposto di non
ammogliarmi: e non ho amato mai. Voi
siete la prima fanciulla che mi ha fatto deviare dal mio proposito. Forse non ci rivedremo più. Ma permettete che vi manifesti l’animo mio.
— Ebbene? — mormorò Geltrude
chinando gli occhi.
— Sarei tanto fortunato d’avervi
ispirato un briciolo di simpatia? È una domanda indiscreta, lo so, e vi
autorizzo a non rispondere né ad essa, né a quelle che per avventura mi
sfuggissero. Io non ho dormito la scorsa
notte, e voi?
— Neppur io — sussurrò la
fanciulla.
— La vostra immagine mi è sempre
stata innanzi agli occhi. Per quanto mi
vi sforzassi non sono riuscito a fugarla.
— Mi è accaduto altrettanto.
— Sarei infelice se non dovessi
più rivedervi, se non dovessi più parlarvi, se non dovessi
più ascoltarvi. E voi?
— Forse anch’io.
— Voi non volete maritarvi pei vostri
genitori, io non posso. . .
— Perché?
— A che servirebbe il dirvelo? Forse
per una causa simile. Ma non potrebbe
continuare questo mutuo scambio di confidenze e di affetti?
Geltrude sollevò la testa che
teneva china al suolo e guardò negli occhi del cacciatore. Era più che una risposta, era
più che una confessione. Era un
assenso.
I convegni fra Geltrude ed Enrico —
tale il nome del cacciatore, — continuarono ogni giorno e finirono a diventare
sempre più intimi. Mutavano il
luogo, ma di volta in volta si internavano sempre più nella macchia.
— Noi intessiamo un romanzo — diceva il
giovanotto alla fanciulla.
— E ciò val meglio di leggerlo —
rispondeva Geltrude sorridendo.
— E non arriveremo mai all’epilogo?
— Sarebbe finito e non si potrebbe
ripigliar da capo.
Un dopo pranzo, un improvviso temporale
li sorprese, mentre passeggiavano nella macchia. Grossi goccioloni incominciavano a cadere, forieri
di un terribile acquazzone. Infervorati
nel discorso non se n’erano avveduti in tempo e fu ventura per loro di trovarsi
vicino ad una grotta naturale, da Geltrude ben conosciuta, dove poterono
ripararsi.
In breve la pioggia diventò
diluvio. Soffiava una raffica terribile
che pareva volesse schiantare tutti gli alberi della selva. Le scariche elettriche si succedevano con
rapidità spaventosa; talché v’erano dei momenti in cui il bosco pareva
in fiamme.
Accoccolati uno vicino all’altro sopra
un pezzo di roccia, staccata dalla volta della grotta, dalla quale pendevano le
stallatiti, bizzarre nella forma elegante, guardavano fuori l’imperversare del
tempo senza sgomento; si sarebbe detto che assistessero ad uno spettacolo. E di tratto in tratto, si comunicavano le loro
impressioni. Geltrude si sentiva invasa
da un senso arcano, che le faceva scorrer dei brividi acuti e deliziosi nelle
vene. Talvolta il bruno dorato della sua
pelle acquistava dei toni caldi e i suoi occhi sfolgoreggiavano, come i lampi. L’aria satura di elettricità influiva
sui suoi nervi.
Enrico lo comprendeva, ma non tentava
di approffittarne. Aveva preso sul serio
quella relazione tutta spirituale e non voleva mutarle il carattere, o
prolungandola acuiva maggiormente la passione fisica?
Quando Dio volle l’infuriare del
temporale cessò; la pioggia rallentò, tacque il vento e un iride
superba stese il suo arco settemplice sulla volta celeste.
— È passato — disse Geltrude
sospirando e togliendosi a malincuore dal fianco del biondo cacciatore. Enrico non cercò di trattenerla, si
alzò pur lui ed entrambi si affacciarono all’imboccatura della grotta. Allora uno spettacolo nuovo si offerse loro. Innanzi alla grotta scorreva impetuoso e
rumoreggiante un torrente d’acqua giallastra e limacciosa, travolgendo con sé
rami d’alberi, massi di pietre ed animali.
Si trattava di una inondazione in piena
regola. Un corso d’acqua superiore
gonfiato dalla pioggia aveva straripato e scendendo giù per la selva,
aveva formato nella parte avallata quella specie di fiume improvvisato.
Per riguadagnare la parte alta del
bosco e la strada, era mestieri attraversare quel torrente; e non c’era tempo
da perdere, perché le acque ingrossavano sempre più e il tramonto si
avvicinava.
— Bisogna uscire ad ogni costo — disse
Enrico, non senza inquietudine.
— Usciamo — rispose sospirando
Geltrude, tentando di mettere il piedino fuori della soglia della grotta.
Il cacciatore la trattenne appena in
tempo.
— Siete pazza esclamò — l’acqua
arriverà già a quest’ora sopra le mie ginocchia, e la furia con
cui scende vi travolgerebbe.
— Non possiamo passar qui la notte —
rispose gaiamente la fanciulla, inconscia del pericolo. Come fare?
— Concedete che io vi trasporti sulle
braccia attraverso il torrente.
Per tutta risposta Geltrude con ingenuo
abbandono passò il manco braccio attraverso al collo del cacciatore e
appoggiò all’omero di lui la bellissima testa. Enrico la sollevò come una bimba e
mosse i primi passi nel torrente. Ma il
fondo era sdrucciolevole; l’acqua rapida e saliva molto più che egli non
credesse. In breve sentì che non
avrebbe potuto resistere alla furia e dovette ritornare indietro e posare sulla
soglia della grotta il prezioso fardello.
— Impossibile! — esclamò.
Ma oltre all’emozione prodottagli dalla
situazione, Enrico si sentiva invaso da un’altro trasporto. Quelle morbide forme che egli aveva cullato
nelle sue braccia poderose per alcuni istanti, l’alito soave di Geltrude che si
era confuso col suo, il contatto dei loro capelli, lo avevano reso pazzo di
amore, sentiva che lo trascinavano. . .
E Geltrude rideva, rideva sempre.
— Ma non sai, disgraziata, —
gridò riaccostandosele e protendendole di nuovo le braccia, che siamo
perduti?
— Che importa se mi ami? — rispose
collo stesso tono eccitato la fanciulla, in preda pur essa al fascino della
passione. Un istante di felicità,
non vale una vita stupida e noiosa?
Enrico afferrò di nuovo Geltrude
fra le braccia e stringendola disperatamente al seno le diede un bacio, sulle
labbra, lungo, intenso, snervante. E fu
quello il punto che li vinse.
Fu un’orgia di amplessi frenetici,
quella a cui i due giovani inebbriati si abbandonarono; un’orgia, nella quale
la passione toccò lo zenit. Si
credevano votati a morte sicura e volevano giungervi per un’agonia deliziosa.
Un ultimo raggio di sole occiduo,
traversando fra le fronde degli alberi penetrò nella grotta a svegliare
i due innamorati dal loro delirio; si sciolsero simultaneamente dall’ultimo
gagliardo amplesso e tornarono sul limitare del loro ricovero.
L’imperverso torrente aveva smessa la
furia della sua corsa, le acque erano discese a un bassissimo livello e fu
agevole al cacciatore di attraversarlo, e di riguadagnare la strada della
macchia, portando in salvo la fanciulla che aveva ripresa sulle sue braccia
tuttora fremebonde.
Da quel dì fatale Geltrude
subì una trasformazione. Alla
giocondità consueta, successe in lei una malinconia dolce e soave. Amava il consorzio de’ suoi genitori come per
l’addietro, ma passava delle intere giornate sola nella sua camera. Le sue assenze si facevano più
frequenti e più lunghe.
Ella s’era data pienamente in
balìa della passione che l’aveva travolta, e i suoi amori con Enrico
continuavano più ardenti che mai. Ma l’inverno si avvicinava. I convegni nella macchia diventavano
impossibili, e per lo meno ingiustificabili. E già più d’una volta i due
amanti favellando avevano dovuto trattare lo spinoso argomento della
separazione, senza nulla concludere.
— Enrico, disse finalmente la
fanciulla, al cacciatore, tu mi hai detto che non potevi pensare al matrimonio,
vorresti confessarmene il perché, francamente, schiettamente? Io non ho alcun
rimprovero a farti. Mi sono data a te
senza patti, senza condizioni, perché così la sorte ha voluto. Parla, sono pronta a tutto.
— Perché rammaricarci?
— Parla Enrico. Ho abbastanza forza per udire la verità
e coraggio per sopportarla. Forse sei. .
.
— Lo vuoi assolutamente sapere?
— Lo voglio.
— Ebbene, sì, sono. . .
— Dillo.
— Sono ammogliato.
Geltrude chinò il capo sul seno
e stette per alcuni istanti assorta in meditazione. Enrico non osava distoglierla. Quando ebbe a lungo riflesso e parve aver
presa una determinazione; si alzò e tendendo la mano all’amante, gli
disse con ferma voce:
— Tutto è finito. Enrico addio. Dimenticami, se puoi; io non ti
dimenticherò mai.
Il cacciatore le strinse la mano
portagli, la baciò e ribaciò, la rigò di lagrime, ma non
disse verbo.
E così si lasciarono.
Tre mesi dopo gli abitanti di Monteguidone
erano sorpresi da una grande notizia. Geltrude Pellegrini si faceva sposa di un
ricco bottegaio romano sulla quarantina.
Le nozze si celebrarono con grande
pompa e solennità. Dodici ragazze
del paese, in bianchi vestiti, l’accompagnarono all’ara. Dalla casa alla chiesa fu una processione. Le finestre delle case per le quali passava il
corteo erano addobbate e piovevano sovr’esso freschi fiori; le campane
suonavano a festa. La gente si affollava
sul passaggio. Vi fu distribuzione larga
di denari e di derrate ai poveri. Nella
casa del vecchio massaio ebbe luogo un sontuoso banchetto e levate le mense si
ballò.
La sposa appariva palliduccia, ma pur
sempre bella. Lo sposo era raggiante di
felicità. E di quegli sponsali
rimase la tradizione nel paese.
Compiuto il viaggio di nozze Geltrude
Pellegrini e suo marito si stabilirono in Roma e la loro vita consuetudinaria
incominciò e continuò tranquilla e serena. Toto era innamorato di sua moglie, e le
riservatezze di questa non facevano che alimentare la sua passione, la quale si
traduceva in gentilezze, cure e prodigalità infinite.
Non tardarono i vagheggini a farsi
intorno all’avvenentissima donna, come già si erano fatti intorno alla
leggiadra fanciulla, ma inutilmente, Geltrude si mostrò insensibile a
qualsiasi seduzione e seppe frenare le audacie dei più intraprendenti,
senza suscitar scandali e senza compromettere il marito o le faccende del
negozio, nelle quali in breve diede mostra di accorgimento e di un tatto non
comune.
Così si acquistò le
simpatie universali e colle simpatie il rispetto e l’ammirazione. Avevano creduto di aver a che fare con una
mezza contadina e si trovavano invece innanzi una persona non solo civile, ma
dal portamento e dall’educazione quasi signorile.
— Guarda un po’ com’è fortunato
quel Toto — dicevano i suoi compagni — è già sulla quarantina e
si è pescato un boccone da principe, onesta e virtuosa, quanto bella, ed
esperta negli affari del negozio, come se ci fosse nata.
Toto gioiva de’ trionfi di sua moglie e
sentiva farsi sempre maggiore l’adorazione per lei. Un solo dispiacere provava, ed era quella di
non aver figli. Attribuiva ciò
alla ritrosia di Geltrude, ma si confortava dicendo: «Quel che non è
venuto verrà. » E agli amici che per beffarlo gli domandavano se aveva
bisogno d’aiuto, per assicurarsi un successore, rispondeva:
— Provatevi pure, se ci riuscite.
Tanta e tale era la fiducia che
riponeva nella incontestata virtù di sua moglie.
Aveva veramente dimenticato Geltrude il
suo primo ed unico amore? Si era completamente atrofizzato il suo cuore? Si era
spento quell’ardore del suo sangue, che l’aveva tratta a darsi così
completamente ad Enrico?
Lo vedremo.
Benché stabilito anche lui in Roma, la
romantica innamorata del biondo cacciatore di Monteguidone, non l’aveva mai
riveduto. E questo contribuiva alla sua
tranquillità.
Una mattina Geltrude se ne stava seduta
nel fondo del negozio, quando la sua attenzione fu richiamata da un lontano
salmodiare di voci, che si andava avvicinando e nel contempo vide la gente di
fuori accalcarsi sui marciapiedi. Doveva
essere un trasporto funebre di qualche importanza. Spinta dalla curiosità si
affacciò anch’essa, per assistere dalla soglia della bottega allo
sfilare del funebre corteggio.
— È una zitella, poveretta —
diceva una donnicciuola. Vedete che ha
il panno bianco, sul feretro.
— No, rispondeva un’altra.
— E chi è, dunque?
— Una signora morta di parto.
— Poverina, lascia dei figliuoli?
— No. Era il primo, dopo parecchi anni di matrimonio.
— Guarda un po’ che disgrazia.
Il convoglio intanto si avvicinava
preceduto e seguito da una quantità di frati dei vari ordini e da una
folla di persone per bene, munite di grossi ceri, che alternavano le preci e i
canti funebri. E il chiacchierio degli
spettatori e delle spettatrici continuava.
Chi ne sapeva qualche cosa, lo diceva,
per mostrarsi ben informato. Chi non
sapeva nulla, o inventava delle fole, o chiedeva notizie ai vicini.
— Vedete — disse d’un tratto quella che
pareva meglio al giorno delle cose — il marito, segue la cassa, col padre e coi
fratelli.
— Qual è il marito? — si
richiese d’ogni parte.
— Quello là biondo, nel mezzo,
tutto vestito di nero.
— È un bel giovanotto,
troverà presto da consolarsi.
— Povero sor Enrico!
All’udire questo nome Geltrude, colta
da uno strano presentimento, uscì dal negozio e mischiandosi alla folla,
volse lo sguardo dalla parte indicata dalla donnicciuola.
Impallidì subitamente, si
appoggiò alla parete, ma sarebbe indubbiamente caduta al suolo, se gli
astanti non se ne fossero accorti e non l’avessero sorretta.
— Sora Geltrude vien meno, bisogna
portarla nel negozio disse una bottegaia sua vicina.
— Poveretta! È tanto buona. Non ha potuto resistere all’emozione.
— Quando non si ha più coraggio
di una gallina, si dovrebbe starsene a casa.
Così si diceva intorno, mentre
un forte giovinotto levandosela sulle braccia la trasportava in negozio.
Lo svenimento di Geltrude portò
un po’ di scompiglio nel corteggio e fu avvertito da coloro che lo formavano e
segnatamente dal giovinotto biondo, che era stato designato per il vedovo
marito, il quale parve assai commosso da quell’incidente e pur continuando a
seguire il feretro dell’estinta, volgeva frequentemente il capo verso la
bottega di Geltrude, finché gli fu dato di vederla.
— È un conforto per chi soffre,
veder diviso il proprio dolore sentenziò un rigido signore, rispondendo
all’osservazione di taluno, cui sembrava strano quel contegno.
Quando Toto tornò a casa,
trovò la sua cara sposa adagiata sul letto, e circondata dai garzoni e
dalle donne del vicinato, perché lo svenimento di Geltrude aveva quasi avuto le
proporzioni di un deliquio. E le sue
smanie non cessarono se non quando la vide pienamente ristabilita.
Ma convien dire che l’impressione della
donna fosse stata ben terribile, perché le lasciò in fondo una
tristezza, che indarno cercava di vincere.
Passò così una settimana.
Sull’imbrunire di un sabato Geltrude se
ne stava sulla soglia della bottega, guardando la folla della gente che andava
e veniva per un verso e per l’altro, quando i suoi occhi si fissarono sopra un
uomo che fermo sull’angolo della via dirimpetto guardava intensamente il suo
negozio.
Non tardò a riconoscere in lui,
Enrico, il biondo cacciatore di Monteguidone, lo sconsolato vedovo che aveva
veduto sette giorni innanzi seguire il feretro della moglie. Una subita emozione si impossessò di
lei; con un breve chinar del capo, accennò affermativamente alla muta
interrogazione che sembrava farle.
Enrico mosse alcuni passi giù
per la via, quindi tornò indietro e passando rasente il negozio di Toto,
porse a Geltrude un pezzo di carta arrotolata, che teneva fra le dita, senza
soffermarsi, e senza salutarla.
Geltrude, si cacciò in tasca il
biglietto e rientrò prontamente in bottega: i garzoni avevano accesi i
lumi ed ella potè leggerlo Diceva semplicemente: «Domenica alla
Aveva deciso di vincere quella
tentazione, di resistere all’inclinazione che la trasportava, di rifiutare
l’appuntamento e di conservarsi fedele ed intemerata moglie.
Ma le memorie del passato ripresero il
sopravvento durante la notte, che scorse per lei agitatissima. Verso il mattino credette d’aver vinta la
battaglia e che la palma fosse rimasta al dovere, e si addormentò,
proponendosi irremissibilmente di non recarsi al convegno, di tagliare alle
radici, quella passione che accennava a risorgere. Dormì fino alle otto del mattino
cullata da rosei sogni di larve gentili e carezzevoli. Quando si svegliò la vittoria era
rimasta in pugno ad Amore.
Toto era uscito, senza destarla, e
aveva lasciato detto che sarebbe tornato soltanto a sera, perché doveva andare
a Frascati per un certo suo affare.
Geltrude si vestì colla consueta
eleganza, ma senza sfarzo di ninnoli e di gioie, uscì e si trovò,
quasi senza saperlo, forse senza volerlo, sulla gradinata di San Pietro. Sulla porta del tempio Enrico l’attendeva. Che si dissero?
Una sola cosa. Enrico era libero di sposarla. Geltrude non era più tale. Apparteneva ad un altro uomo. Enrico l’amava sempre disperatamente, come il
primo giorno che l’aveva veduta. Geltrude non lo amava meno, ma non aveva avuto
il coraggio d’attendere. L’ostacolo
insormontabile alla loro felicità l’aveva creato lei. Avrebbero continuato una relazione
clandestina? Perché allora l’avevano interrotta, spezzata anzi violentemente a
Monteguidone?
Usciti dal tempio erano saliti a Monte
Mario e Roma cominciava già ad avvolgersi nei vapori del tramonto quando
si decisero di scendere. Enrico
accompagnò la bella, ormai decisa al peccato, fino a Ponte Sant’Angelo,
e Geltrude rientrò in casa pochi minuti prima di suo marito.
— Sei uscita oggi? — le domandò.
— Ho passata la giornata a Monte Mario:
avevo bisogno di prendere un po’ d’aria.
— Hai fatto bene. Ora ti senti meglio?
— Sto benissimo.
Cenarono allegramente e coricatisi
presto, fu Gertrude prodiga di sé al marito più assai, e più
intensamente del consueto. Ma a chi
volava il suo pensiero?
Toto ne fu felice e beato. Tanto è vero che la felicità
è relativa.
I convegni fra i due amanti si
moltiplicarono; ma furono condotti colla massima cautela. Geltrude chiedeva spesso ad Enrico:
— Se fossi libera?
— Ti sposerei.
— Lasceresti Roma?
— Con te verrei anche in capo al mondo.
Toto, sollecitato da Geltrude, aveva
ceduto il proprio negozio, perché intendeva ritirarsi dagli affari. Era abbastanza ricco per poterlo fare e non
gli pareva vero di poter dedicare tutta la sua vita alla moglie, i cui
trasporti erotici erano da parecchio tempo diventati inebbrianti. Egli non sapeva spiegarsi quella metamorfosi
strana, ma ne accettava i benefici, senza indagarne la causa. Forse nella vanità che è innata
nell’animo umano, la attribuiva all’ardenza del suo amore, alla gagliardia dei
suoi amplessi.
Geltrude era in preda ad una
straordinaria sovreccitazione erotica. I
suoi ritrovi coll’amante non bastavano a saziarla: se ne ripagava col marito. Poi quando l’effervescenza della passione era
calmata, questi le destava una ripugnanza invincibile. Ma era abbastanza destra, e già
abbastanza corrotta per dissimularla. Il
pensiero però che rinunziando al negozio ed agli affari si sarebbe
trovata in piena balìa di quell’uomo, che se lo avrebbe avuto sempre al
fianco, che non le verrebbe più fatto di incontrarsi col suo idolo,
l’atterriva e la raffermava nel feroce proposito già formato di sbarazzarsi
di lui. Quella notte doveva essere
l’ultima del suo supplizio. Bisognava
uscire ad ogni costo da una situazione insostenibile.
Aveva in casa un lungo ed affilato
coltello, che pareva fatto con un pezzo di lama di spada, foggiato a pugnale. Mentre, estenuato dalla lotta amorosa s’era
assopito, Geltrude scese pian piano dal letto e andò a munirsi di quel
micidiale strumento. Ritornando si
accorse che il marito aveva aperti gli occhi e si affrettò a nascondere
l’arma sotto il guanciale. L’uomo si svegliò
di fatto e le domandò:
— Che hai, Geltrude?
— Nulla, amor mio, rispose la perfida.
— Perché non dormi?
— Sono tutt’ora in preda all’ineffabile
piacere che mi hai arrecato.
— Sei un angelo!
Per tutta replica Geltrude gli cinse
un’altra volta il collo colle bianche braccia, squisitamente modellate e
cacciandogli la mano dalle dita rosee e affusolate nei capelli, l’attirò
a sé e lo baciò sulla bocca.
Fu una nuova giostra, lunga, terribile,
snervante, in capo alla quale il povero marito giacque completamente spossato,
rifinito di forze, impossibilitato a muovere un braccio a sua difesa. Geltrude stette per lunga pezza sorridente a
vederlo ed egli, l’incauto, si addormentò tranquillamente, accarezzato
da quello sguardo, che credeva pieno d’amore e di riconoscenza.
Quando si fu assicurata che il marito
era immerso in un sonno duro e profondo, Geltrude balzò dal letto
seminuda come era e afferrato il pugnale, con un terribile colpo glielo immerse
nel petto spaccandogli il cuore.
Il disgraziato non mandò un
lamento, spalancò gli occhi e tosto li richiuse, quasi non volesse
conoscere la persona che lo aveva colpito. Dopo brevi momenti era morto e irrigidito nel
letto. Geltrude gli coprì il capo
colle coltri, lasciandogli infisso il pugnale nella ferita; quindi si accinse a
vestirsi tranquillamente, senza un’ombra di terrore o di rimorso. Il primo ostacolo alla sua felicità lo
aveva rimosso la sorte, facendo morir di parto la moglie del suo amante. Giudicava pertanto naturale ch’essa avesse a
toglier di mezzo l’altro. Quell’uomo,
anziano, brutto, avea goduto anche troppo di lei. Non poteva dire di averla pagata troppo cara.
Tali i pensieri dell’assassina, mentre
compiva i preparativi della partenza.
Raccolti tutti i suoi effetti preziosi,
i denari che il marito aveva ritratti dalla vendita del negozio già
effettuata, e i valori che possedeva, e messili in una valigia, che richiuse
co’ suoi indumenti necessari e colla biancheria, mise il resto dei suoi effetti
in un’altra valigia, e pian piano uscì, serrando la porta accuratamente.
Cominciava appena a far giorno, quando
giunse a casa dell’amante, affaticata, stanca, anelante, ma sempre ebbra
d’amore e smaniosa di gettarsi nelle braccia di lui.
Sentendo bussare leggermente alla
porta, Enrico si tolse dal letto e andò ad aprire, non sapendo ideare
chi potesse a quell’ora cercarlo. Ma
appena la vide, esclamò sorpreso e trasognato:
— Geltrude!
— Io.
— Tu qui? A quest’ora? Come mai?
— Lasciami portar dentro le valigie e
lo saprai.
— Le valigie?
— Sì, ti sorprende?
Il giovinotto aderì alla
richiesta di Geltrude, perché non poteva crudelmente lasciarla sulla porta di
casa. Ma quel carico che gli cascava
improvvisamente sulle spalle non gli garbava di soverchio: lo preoccupava assai.
Come tutti gli amanti, nel trasporto
della passione aveva risposto affermativamente a tutte le domande della sua
innamorata, benché gli sembrassero molto strane ed arrischiate; ma era ben
lontano dal credere che quei propositi, scaturiti dall’ebbrezza, fra un bacio e
l’altro, avessero a tradursi in fatto, e sopratutto a tradursi in fatto
così sollecitamente.
Come ebbero trasportate in casa le due
valigie, Enrico infreddolito si ricacciò tra le coltri.
— Che fai? gli disse Geltrude stupita.
— Non vedi? Mi corico. Fa un freddo birbone. Non vorrei prendere una costipazione. Si fa presto ad andarsene all’altro mondo e
sarebbe troppo comodo a tuo marito.
Geltrude a quell’uscita sorrise
sinistramente; i suoi occhi mandarono un bagliore di fiamma. Benché sorpresa da quella accoglienza non
proferì verbo; e attribuendo all’amante il desiderio di gioire di lei,
incominciò a spogliarsi.
— Vieni a letto anche tu? le chiese
Enrico.
— Poiché ci sei tu. . .
— È il meglio che ci resta a
fare.
— Bisogna però pensare a partire.
— A partire?
— Certamente. Non vorrai credo, che io resti qui. Lo scandalo sarebbe troppo grosso e collo
scandalo il pericolo.
Le preoccupazioni d’Enrico crescevano
di momento in momento. Egli non era per
nulla disposto a mettersi nella briga di un’unione clandestina, con una donna
fuggita dalla casa maritale. Le sue
supposizioni non andavano oltre. Al
primo risveglio della passione, incontrando Geltrude, gli era parso possibile
tutto. Ma sbolliti i primi entusiasmi,
gli era rinata la riflessione. Ed era
giunto già a tale da reputare come un grave impiccio per lui quell’amore
troppo fervente e troppo esclusivo.
Geltrude dal canto suo s’era accorta
che Enrico non aveva capito quello che era accaduto fra lei e suo marito e non
si sentiva il coraggio di confessarlo.
Quando si fu completamente spogliata ed
ebbe preso posto nel letto, pensò che la confessione gli verrebbe
più spontanea, fra i deliri degli amplessi. Ma anche questi deliri non vennero punto. Tutto assorto nel pensiero delle conseguenze
della fuga di Geltrude, Enrico fu quella mattina un pessimo amatore; gli
mancava, se non la lena e la vigoria, l’entusiasmo. Geltrude ne provò una delusione
crudele; ma sperò ancora.
— Ora è mestieri che ci alziamo
— disse.
— Alzati pure.
— E tu?
— Io resto.
— Ma disgraziato! noi non possiamo
rimaner qui, esclamò, esterefatta da quel contegno del suo amante,
Geltrude. — Bisogna andarsene, se no
saremo sorpresi.
— Ascolta Geltrude — le rispose Enrico,
oramai deciso a disingannare quella donna ed a farla tornare da suo marito — le
pazzie, sono sempre pazzie: si fa presto a dirle, quando la testa riscaldata
non sta a segno; ma prima di commetterle, bisogna pensarci e ripensarci bene.
— Non è più tempo: ormai
è fatto.
— Si è sempre in tempo per
rimediare ad un errore, a un fallo, o ad una colpa:
Geltrude volle sorridere ancora; ma il
suo non fu neppure un sogghigno amaro, fu una contrazione spasmodica della
bocca.
Fortunatamente l’amante non la vide; gli
avrebbe destato orrore. Enrico
continuò:
— Ritorna da tuo marito, raccontagli
una bubbola purchessia, e ti crederà. Che cosa non credono i mariti, quando si
tratta di non perdere una bella moglietta come sei tu?
Queste blandizie, invece di lusingare Geltrude,
la fecero impallidire, come una morta. La freddezza dell’amante, era una doccia su la
passione che l’aveva condotta fino all’assassinio del marito. Lo spettro dell’ucciso, si levava in
quell’istante innanzi ai suoi occhi, terribile e minaccioso. Ella incominciava a sentirsi perduta,
irremissibilmente perduta, e ne era sgomenta.
— Impossibile! — mormorò
rabbrividendo.
— Perché impossibile?
— Impossibile, ti dico.
— Fole. Vattene in un albergo, colle tue valigie. Scrivigli una lettera, dicendogli che hai
lasciato la sua casa, perché. . . perché.
. .
— Perché ho un amante? — chiese
Geltrude con accento tragicamente ironico.
— Non è il caso. Ma non saresti la prima, come non saresti la
prima perdonata da un marito tradito.
— Enrico, tu mi hai perduta!
— No, ti ho trovata.
— Celii? E non ricordi che mi giurasti
di non vivere che per me, che di me, quando fosse rimosso l’ostacolo che ci
divideva?
— Sta bene. Ma l’ostacolo esiste, e per ora almeno, non
è possibile toglierlo di mezzo. Né urge. Noi siamo felici anche così? Non
possiamo continuare ad esserlo egualmente?
— Felici? Ho creduto di poterlo essere
ancora, ad onta. . .
— Ad onta di che?
— Ad onta di tutto. Ma la glaciale freddezza con cui mi accogli,
con cui rispondi a colei, che ha tutto sacrificato per te. . . mi ha completamente delusa.
— Parole! Parole! Benedette donne, se
non chiacchierate, se non declamate, se non piangete. . .
— Piangere io? Ascolta. Non ho pianto il giorno in cui seppi d’essermi
data ad un uomo che non poteva sposarmi, non ho pianto stanotte quando mi
decisi. . .
— A fuggire da tuo marito. Sarebbe stato meglio che avessi versato
quattro lagrime e ti fossi rappattumata con lui.
— Vile! Codardo! Infame! — urlò
Geltrude che era scesa dal letto e si andava rivestendo, movendo co’ pugni
stretti verso Enrico, tuttora giacente. E forse se avesse avuto fra le mano il
pugnale, con cui aveva nella notte trafitto il cuore del marito, avrebbe fatto
altrettanto coll’amante.
Enrico tentò di rappacificarla.
— Via, che parolaccie son queste
Geltrude? Non le ho udite mai sulle tue labbra. Perché vuoi contaminarle ora?
Il giovane aveva messo tutta la
tenerezza, tutta la dolcezza di cui era capace, in questo rimprovero: la sua
voce suonò all’orecchio di Geltrude soavissima.
Si dileguarono in un baleno le truci
memorie e i truci propositi. Si
chinò sopra l’amante lo baciò, ribaciata, con tutta l’effusione
dell’anima e gli mormorò all’orecchio:
— Se sapessi quanto t’amo.
— Lo so, ti credo e non ti amo meno.
— Eppure mi discacci.
— Non ti discaccio punto. Ti impedisco di commettere una pazzia, che
sarebbe la tua rovina.
— Fuggiamo, Enrico. Qui non posso più stare, e andarmene
non voglio senza di te.
— E dàlli con questa ubbia.
— Ubbia la chiami?
— Sì, se ubbia significa ancora
una cosa irrealizzabile.
— Ma non capisci che non posso
ritornare alla casa di mio marito, che ho abbandonata per sempre, portando via
tutto, tutto; la roba mia e la sua?. . . Vedi in quelle valigie sono tutti gli averi di
mio marito. Il ricavo della vendita del
negozio, i denari, le gioie, i valori.
Enrico a, quella rivelazione si
rizzò a sedere sul letto, in preda ad un orrore, che non tentava neppure
di dissimulare.
— Ma questa è un’infamia! Tu
vuoi farmi passare per tuo complice, vuoi disonorarmi! Prima ti pregavo di
ritornare da tuo marito, ora te lo impongo.
— Me lo imponi?
— Certamente. Come ti impongo di riportargli quella roba. Mi par di sentirmi bruciare le mani, soltanto
per aver toccate quelle valigie. Se si
potesse sapere, se si potesse credere. . .
— Non si saprà nulla, non si
crederà nulla, accertatene.
— Io potrei bene sfidare il giusto
sdegno e l’ira di tuo marito, per avergli portata via la moglie; ma morrei di
vergogna se avesse ragione di sospettare che. . .
— Non temere egli non sospetterà
nulla.
— Dovrà pur accorgersi. . .
— Non si accorgerà di nulla.
— Geltrude spiegati. Quali arcani mi nascondi?
— Nessuno arcano. Mio marito era l’ostacolo che ci separava; tu
mi hai detto che se fosse stato tolto, mi avresti sposata, e saremmo stati
liberamente uniti per tutta la vita.
— Ebbene?
— Ebbene, questo ostacolo non esiste
più.
— Come?
— È soppresso.
— Finiscila colle ambiguità, in
nome di Dio, non istraziarmi. Parla.
— Vuoi saper tutto?
— Tutto.
— L’ho ucciso questa notte, sul far del
giorno, un quarto d’ora prima di giunger qui, con questa mano stessa che lui ha
tante e tante volte baciate, l’ho ucciso per te, per amor tuo, l’ho ucciso per
diventar tua moglie.
— Orribile! Orribile! — esclamo Enrico
comprimendosi con ambo le mani la testa, per contenere il tumulto de’ pensieri.
— E questo mostro, questa assassina, mi
ha prodigate le sue carezze, colle mani ancor lorde di sangue!
Enrico accompagnò queste parole
con un atto di disgusto, di nausea, di ribrezzo tale, che Geltrude ne fu
colpita nell’imo del cuore. Comprese che
tutto era finito per lei, e, senza più, raccolte un’altra volta le due
valigie, si precipitò fuori della porta, senza profferire una parola, e
senza che l’amante tentasse di trattenerla.
Non appena la vide uscita, Enrico
balzò dal letto, corse a chiudere la porta, e la sbarrò
guardandosi attorno, pauroso di rivederla ancora.
Uscendo dalla casa dell’amante,
Geltrude incontrò una vettura, chiamato il cocchiere, si fece caricar su
le due valigie e gli ordinò di condurla da Monsignor Fiscale. Era estremamente pallida, aveva i capelli irti
sulla fronte, gli occhi infossati, le labbra tremanti: aveva la febbre. Ma la fresca aura del mattino la calmò
e giunse innanzi a monsignore in condizioni di poter essere ricevuta senza
allarmare gli usceri e le guardie. Il
severo magistrato non appena la vide, sempre bella, anzi resa forse più
attraente dal pallore del volto e dalla fisionomia accasciata, sorse, e le
mosse cortesemente incontro, e la invitò a sedere nella miglior poltrona
del suo gabinetto: quindi passatole a lato un’altra scranna, come avrebbe
potuto fare con una signora di qualità, le domandò:
— Che posso fare per voi? Assicuratevi
anticipatamente di tutta la mia deferenza.
Geltrude mandò un profondo
sospiro.
— Qualche segreto affanno, certamente
vi conduce — Apritevi liberamente con me. Nell’esercizio delle mie funzioni io sono una
tomba vivente e queste pareti non hanno né occhi, né orecchie continuò
il fiscale.
— Ho una terribile rivelazione a farle,
monsignore, mormorò Geltrude fissandolo negli occhi.
— V’ascolto e sarò felice di
potervi giovare.
— Per me non v’ha lenimento possibile,
malgrado la vostra buona volontà.
— Siete sotto un’impressione sinistra,
tranquillizzatevi: c’è rimedio per tutto, fuorché per la morte.
— Monsignore l’ha detto.
— Una grande sventura vi ha colpita;
dunque? Siete forse vittima. . . . .
— Sì, vittima di una passione
terribile, funesta, che mi ha tratto al delitto.
— Al delitto? — domandò
lentamente il fiscale, levandosi gli occhiali, ripulendone le lenti, e figgendo
poi acutamente lo sguardo negli occhi di Geltrude.
— Sì, monsignore, al delitto.
— Una schietta confessione, diminuisce
la gravità della pena e vi accaparra la grazia divina. Spiegatevi.
— Ho ucciso mio marito.
— Per gelosia forse?
— No, per amore.
— D’un altro?
— Per l’appunto.
— Complice quest’altro?
— Ignaro di tutto.
— Si può credere ad una donna,
innamorata al punto di uccidere il marito. . .
— Per toglierlo di mezzo e sposar
l’amante? Parrebbe di no. Eppure
è così.
— Vedremo.
— Lo vedete fin da questo momento.
— Come?
— Egli mi ha respinta, mi ha scacciata.
Forse mi denunzierà.
Giunta a questo punto Geltrude
Pellegrini narrò al fiscale tutti i particolari del delitto e della
scena che era seguita fra lei ed Enrico, nella casa di costui; ma non volle
saperne assolutamente di declinare il suo nome o di dare qualche indagine sul
suo conto. La segretezza più
scrupolosa aveva sempre regnato ne’ loro rapporti e nessuna indagine avrebbe
potuto scoprirlo. Ad onta della tremenda
delusione patita, ad onta dell’oltraggio da lui ricevuto tale ella riteneva il
disprezzo, che le aveva dimostrato, voleva risparmargli il dolore di
coinvolgerlo nel processo. E fu
irremovibile ed accorta.
Il colloquio fra Geltrude e il fiscale,
terminò coll’arresto della colpevole e col sequestro delle due valigie,
che aveva portato seco.
L’istruzione della causa durò
parecchio tempo, perché il giudice inquirente volle esaurire tutte le pratiche
per rintracciare l’amante e per udirlo, quantunque apparisse evidente che non
poteva aver avuto complicità alcuna colla Geltrude.
Pronunziata sentenza di morte, la
Pellegrini domandò i conforti religiosi e si chiarì contrita e
devota, si mostrò rassegnata, ma coraggiosa e convinta d’aver meritata
la pena inflittale.
La mattina del 9 gennaio
Giunta innanzi al palco, scese dal
veicolo con fermo passo, in modesto, ma non avvilito atteggiamento. La bruna veste che aveva indosso, scendendo a
larghe pieghe lungo la persona, dava risalto maggiore alle sue forme scultorie
e aggiungeva una cert’aria di sentimentalità alla sua bellissima
fisionomia. Era pallida, non abbattuta. Salì sicuramente i gradini del patibolo
e dopo aver baciato il crocifisso, che le porgeva il confessore, mentre gli
altri confortatori si ritiravano, porse il capo alla mannaia. Non appena fu caduto sotto il colpo della
ghigliottina, afferrai per i capelli il capo della bellissima donna e
sollevandolo lo mostrai alla folla attonita e commossa come non mi era mai
accaduto di vedere.
Pietro Tagliacozzo di Olevano, figlio
unico di un agiato proprietario, avendo perduto il padre in giovanissima
età, era stato allevato dalla madre, la quale ebbe il torto di volerne
fare un pezzo grosso. Prima tentò
di avviarlo alla carriera ecclesiastica. Le sorrideva l’idea di diventare un giorno la
madre di un vescovo, di un prelato, di un cardinale, chissà? fors’anco
d’un papa. Se Sisto V aveva potuto
ascendere sulla cattedra di San Pietro, dopo aver custodito i porci, perché non
avrebbe potuto fare altrettanto suo figlio, che in fin de’ conti discendeva da
famiglia campagnola, ma ricca e universalmente stimata?
Pietro però la dissuase da
questo proposito mostrandosi inclinato a tutto, fuorché a fare il pastore
d’anime.
Pensò allora la buona donna di
farne un grande scienziato, un medico famoso, un insigne avvocato, od un
ingegnere architetto, da oscurare la fama del Bernini, che riedificò
mezza l’urbs moderna e lo mandò all’università di Roma.
Pietro Tagliacozzo ne approfittò
tosto per entrare in rapporti d’amicizia co’ più celebrati scavezzacolli
della città eterna, coi più consumati crapuloni; e in breve tempo
si acquistò fama di primo fra i primi. Conseguentemente alla Sapienza i professori lo
conoscevano di nome, perché si era iscritto ai corsi, ne conoscevano anche le
gesta, perché spesso se ne parlava, ma nessuno lo conosceva di persona.
Presto però i giocondi simposi,
le partite di piacere ai castelli, le tropee e gli svaghi consueti gli vennero
a noia. Desiderava qualche cosa di
più piccante, e la trovò. Un amico, di quelli che si era fatto
frequentando le sale dei bigliardi, i caffè e i ristoratori, gli propose
di condurlo in una casa, ove c’erano delle leggiadre donnine allegre, dove si
faceva all’amore, si cenava e si giocava; sopratutto si giocava. Pietro Tagliacozzo accettò di
grand’animo e in breve diventò uno fra i più assidui
frequentatori di quella casa.
Giocava e perdeva con molta
distinzione, cioè senza disperarsi; giocava e vinceva con molto garbo,
sciupando i quattrini delle vincite cogli amici e segnatamente colle signorine
che rallegravano la casa della loro gradita presenza.
Di queste, una delle più
avvenenti e distinte era Lalla, una francese stabilita a Roma da poco tempo,
che aveva cambiato in questo nomignolo, dirò così, di guerra, il
suo nome di Mélanie. Essa aveva delle
parigine la grazietta gentile, le piccole furberie, ed anche le grosse, e
un’avidità insaziabile, abilmente mascherata. Aveva della romana la magnificenza delle
forme, il bagliore degli occhi neri fiammeggianti e lascivi ad un tempo, i
bellissimi capelli neri e l’abbandono sapiente.
Accortasi delle simpatie di Pietro,
Lalla, da quella calcolatrice che era, si mostrò con lui fredda e
ritrosa oltre i confini del ragionevole. Cercava di evitare a bello studio i contatti
da sola a sola con lui, mentre lo investiva e lo avvolgeva co’ suoi sguardi,
quando si trovavano in compagnia, e non c’era pericolo, ch’egli potesse
spingere i suoi attacchi oltre i limiti della convenienza.
Una bella sera Pietro riuscì a
trarla in un canto del salone da giuoco, nella strombatura di una finestra,
coperta dai cortinaggi, e l’afferrò per le mani.
— Questa volta non mi fuggirete — le
disse.
— Che volete da me?. . .
— Desidero una spiegazione.
— Ed è perciò che mi
usate violenza?
— Lungi da me quest’idea.
— Parlate allora.
— Voi mi detestate?
— Bella pretesa.
— Come bella pretesa?
— Detestarvi sarebbe una distinzione
dagli altri ed io non voglio.
— Neppure detestarmi?
— No. Si comincia col detestare e si finisce
coll’amare.
— Detestatemi allora, ve ne scongiuro.
— Per far capo all’altro termine.
— All’amore.
— All’amore? È precisamente ciò
che non voglio.
— La vostra virtù è
dunque incrollabile.
— Credete voi a quella goffaggine che
si chiama la virtù?
— La domanda è imbarazzante. Lasciate che io ci pensi. Vi risponderò questa sera, dopo cena se
vi degnate di cenare con me.
— Dove? qui?
— No: da Lepri.
— E sia.
Due ore dopo Lalla e Pietro Tagliacozzo
cenavano in un elegante salottino del celebre ristorante romano e i suoi
intingoli facevano prodigi.
Smessa la selvatichezza fino allora con
arte soprana adoperata per meglio invischiare il merlotto, Lalla era diventata
dolce, chiacchierina, espansiva. Pietro
era raggiante di felicità, ma di una felicità relativa. Improvvisamente l’affascinante fanciulla
passò un braccio intorno alla vita del poco studioso studente e
accostando il proprio viso al viso di lui, quasi esortando a baciarla, gli
domandò:
— Mi sei debitore di una risposta:
credi dunque alla virtù?
Pietro le cinse il collo col braccio
sinistro e attraendola dolcemente a sé incollò le labbra ardenti sulle
labbra di lei, non meno frementi di voluttà. E fu un bacio lungo, intenso, ineffabile, nel
quale pareva che le anime di quelle due giovani persone volessero fondersi in
una.
All’indomani mattina quando Pietro ebbe
lasciata quell’alcova deliziosa, ove aveva spremuta tanta felicità, in
una piena notte d’amore, con Lalla, questa si stese mollemente sul letto,
ributtandone le coltri e pensando alla promessa del suo novello amante si
addormentò, mormorando:
— Verrà quel citrullo? Se non
venisse proverebbe di non esserlo. Ma
verrà, oh sì verrà. E un sorriso cinicamente beffardo le si
disegnò sulle labbruzze coralline e roride, mai sazie di baci.
Che cosa aspettava Lalla?. . .
Una cosa semplicissima. Duemila scudi che le occorrevano per pagare la
sua sarta, la quale le aveva fatto l’ingiuria di pignorarle il mobilio. Senza quei duemila scudi la povera Mélanie,
avrebbe dovuto abbandonare il suo quartierino di via del Babuino, quel
dolcissimo nido, dove Pietro aveva gustate gioie del cielo; avrebbe dovuto
andare in camere ammobiliate, o all’albergo, dove non sarebbe stata concessa
loro alcuna libertà; avrebbe dovuto fors’anco tornarsene a Parigi e dire
per sempre addio alla bella Italia, alla superba Roma ed al suo amante
novellino. Che erano alla fine dei conti
duemila scudi? Una vera miseria. Più volte le avevano offerto dei monili
che valevano molto di più, per avere un suo bacio, ed ella s’era
rifiutata.
Naturalmente queste cose le aveva dette
a Pietro, fra un’amplesso e l’altro, fra un sorriso e una lagrimuccia, fra un
piccolo bacio e un piccolo morso.
E Pietro si affrettò a
prometterle i duemila scudi; ma non li possedeva; per iscrivere a sua madre e
farseli mandare, occorreva troppo tempo e per di più un pretesto molto
ben colorito. Conosceva però un
Giudìo, che prestava all’onesta tassa del 200 per cento, al quale non
aveva mai ricorso prima di allora, ma di cui conosceva appuntino le abitudini. Uscendo da Lalla si recò diffilato da
lui. Il Giudìo lo accolse, come
se lo aspettasse da lungo, cordialmente, affabilmente, rispettosamente. Ma quando Pietro incominciò a toccare
il tasto de’ quattrini, insorsero le mille difficoltà. Prima di tutto già non li aveva. Avrebbe dovuto ricorrere ad altri per trovarli
e forse li avrebbe trovati; ma si sarebbe accontentato della semplice firma del
Tagliacozzo? Lui avrebbe risposto per lui; ma quello là non prestava
senza garanzia scritta. Egli il suo nome
sulla carta non l’avrebbe posto per tutto l’oro del mondo.
Pietro si impazientiva; ma il
Giudìo implacabile continuava nella esposizione delle difficoltà.
Intanto Lalla s’era svegliata dal lungo
sonno, che aveva riparato le sue forze fisiche, estenuate dall’orgia della
notte e si stirava le bellissime membra, come una giovane pantera che sente i
primi impulsi dell’amore. Col capo
circondato dalle candide braccia che gli facevano cornice, mentre lo
sorreggevano, il turgido seno scoperto ed eretto, fra le finissime guarnizioni
della camicia, le linee dense e morbide della persona guizzanti, pei suoi moti
ferini, aspettava Pietro, sorpresa del suo ritardo.
Erano già le due pomeridiane,
quando il giovane Tagliacozzo comparve. Aveva dato una grande battaglia e l’aveva
vinta. Il Giudìo si era arreso
alle sue istanze e gli aveva procurati duemila scudi. Ma a quale prezzo?
Lalla lo accolse col più
carezzevole de’ suoi sorrisi. Gli disse
che non aveva voluto accettar prima la sua corte, perché sentiva che lo avrebbe
amato troppo, ed ella non voleva amare, perché amando soffriva. Ma ormai era fatto. Ed aveva già provato il primo dolore,
per il suo ritardo. Temeva di non
rivederlo più; temeva di aver distrutta ogni poesia, con quella prosaica
domanda che gli aveva fatta. Era stata
una stupidità. Avrebbe potuto
farne a meno. Quand’anco le avessero
venduto il mobilio, non sarebbe mancato loro un rifugio. Il sole del loro amore, avrebbe allietata
anche una spelonca.
Ascoltandola Pietro era inebriato. Avrebbe firmato non una cambiale, ma una risma
intera di cambiali, per far piacere a quella celeste creatura, così
leggiadra, così amorosa e così disinteressata.
La tresca dell’olevanese colla
capricciosa parigina continuò; le cambiali si moltiplicarono e le
richieste di denaro alla mamma del pari. Vennero la scadenze e Pietro non potendole
pagare fu costretto a rinnovarle, accumulando interessi sopra interessi. Quando la somma toccò una cifra enorme,
il Giudìo pensò bene di fare gli atti al suo giovane cliente e
ottenne un sequestro sui beni di sua proprietà, dei quali era
usufruttuaria la madre. L’indignazione
della povera donna per tale disastro fu terribile. Energica com’era, ricorse al sussidio di un
esperto avvocato e colla minaccia di un processo penale per usura,
riuscì a pagare i debiti di suo figlio, spogliati dagli enormi interessi
che li avevano fatti crescere a dismisura. Quindi gli assegnò una pensione
mensile, avvertendolo che all’infuori di quello non gli avrebbe dato un soldo
di più. E quasi non bastasse
chiese ed ottenne di farlo riporre sotto tutela, per modo che qualunque debito
contraesse, fosse nullo. Così
intendeva di assicurargli il patrimonio.
Pietro non si accasciò di
soverchio per tutte queste cose. Egli si
sapeva amato da Lalla, o almeno ci credeva, e questo bastava a confortarlo
delle privazioni alle quali avrebbe dovuto per qualche tempo assoggettarsi. Ma dubitava che Lalla si sarebbe del pari
sottoposta ad una falcidazione delle spese che gli aveva accollate.
Lieto quindi di essersi tolto dagli
impicci, che lo avevano per parecchio tempo assediato, tornò a Roma,
munito di un discreto gruzzolo di quattrini, strappati a sua madre col pretesto
di metter casa del proprio per economizzare.
Grandi accoglienze ebbe dalla sua
tenera amica, la quale coi suoi bianchi dentini da sorcetto lo aiutò a
sgretolare il peculio portato da Olevano. In breve si ritrovò colle mani vuote e
dopo aver esaurita la condiscendenza di qualche amico, dovette rifare la strada
che menava dal vecchio giudìo.
Questi non appena lo vide montò
su tutte le furie possibili,
Lo trattò da straccione, da
ladro, da assassino. Gli disse che gli
aveva usurpato il frutto de’ suoi sudori e delle sue fatiche. Inviò sopra di lui i fulmini del Dio
d’Israele e lo invitò ad andarsene per la porta, prima che gli venisse
meno il lume della ragione e fosse tratto a buttarlo dalla finestra.
Pietro, che ormai vi aveva fatto il
callo alle scenate del giudìo, ascoltò pazientemente fino alla
fine le sue contumelie e non si risolse a rispondergli che dietro l’intimazione
di andarsene.
— Proprio vero che a voler trattare da
galantuomo coi furfanti è tempo sprecato — esclamò movendo un
passo verso l’uscio.
— Come sarebbe a dire? Chi è il
furfante e chi il galantuomo? Spiegatevi — urlò il giudìo.
— Il galantuomo, a rigor di termine,
sono io, il furfante lascio alla vostra persona d’indovinare chi sia.
— Bel galantuomo! Dopo essersi mangiati
i frutti sacrosanti del mio denaro.
— Vi faccio osservare che io non ho
mangiato niente più di quanto mi avete sborsato.
— Egli interessi? gli interessi?
— Non sono stato io che ve li ho tolti.
— E chi dunque.
— L’avvocato di mia madre.
— Un altro galantuomo come. . .
— Come chi?
— Come voi?
— Non siete in vena di complimenti
stamattina. Eppure per mostrarvi che
sono qual mi vanto, era venuto per proporvi di cautelare questi frutti, che vi
furono arbitrariamente tagliati dall’avvocato.
— Portate quattrini? tirateli fuori e
proclamerò che siete la perla, la fenice dei galantuomini.
— Ecco veramente i quattrini non li ho;
ma. . .
— Se non ne avete è colpa
vostra, dovevate pagare a tempo.
— Vostra. Dovevate aspettare un po’ ancora.
— Sapete che i sovventori non volevano
più oltre indugiare.
— E così hanno danneggiato i
loro affari e i miei. Ma siamo in tempo
di riparare.
— Come.
— Vi rilascerò una cambiale per
i frutti.
— Una cambiale senza la vostra firma,
vale il prezzo del bollo, sottoscritta da voi non vale più neanche
quello.
— Non siete molto gentile.
— Siete interdetto.
— No, interdetto, riposto sotto la
tutela di mia madre.
— Se non è zuppa è pan
bagnato.
— Questa tutela cesserà.
— Finché vive vostra madre ci ho dei
dubbi forti.
— La mia non è una madre eterna.
— Iehowa non aveva moglie, infatti.
— Una cambiale senza scadenza fissa.
— Per potersene valere, dato che non
voleste farla impugnare, bisognerebbe che fosse in bianco anche per la data
d’emissione.
— La farò come vorrete.
— Meglio poco che niente.
— Mi restituite la vostra fiducia?
— Riconosco in voi delle buone
disposizioni, ma quanto alla fiducia aspetteremo alla scadenza.
Il giudìo tirò fuori una
cambiale e la porse a Pietro dicendogli:
— Ecco qui, mettete la somma e firmate.
— Per la somma non ci siamo ancora
intesi.
— Ah! Ho capito, mi chiedete quanto
dovete aggiungere per gli interessi del tempo che dovrò aspettare. Voglio mostrarmi generoso, e non vi
farò pagar nulla per questo.
— Grazie. Ma non siamo ancora arrivati al busillis.
— E sarebbe?
— Mi occorre un migliaretto di scudi. Datemeli e faremo la somma rotonda.
— Siete impazzito? Mille scudi a voi?
Sarebbe come buttarli dalla finestra.
— Sia per non detto. Me ne vado.
— E la cambiale?
— Se la mia firma neppure in bianco non
vale mille scudi è meglio che risparmi di insozzare la cambiale.
— Eh! È questo il vostro
galantomismo?
— Mi occorrono mille scudi.
Il dibattito continuò a lungo. La conclusione fu che il giudìo,
tirò fuori quattrocento scudi e Pietro gli rilasciò la cambiale
per mille, oltre l’importo degli antichi interessi.
Disgraziatamente pareva che l’appetito
di Lalla crescesse in ragione inversa dei fondi del suo amante.
Ogni giorno erano nuovi capricci de’
più costosi. In capo ad otto
giorni i quattrocento scudi del giudìo erano sfumati.
Tagliacozzo tornò dallo
strozzino, ma per quanto battesse e ribattesse il chiodo non gli venne fatto di
cavargli un soldo.
— Non c’è proprio nessun modo di
trovar quattrini colla mia firma? chiese alla perfine il giovane dissoluto.
— Colla vostra firma no.
— Se trovassi quella di qualche amico?
— Peggio che andar di notte. I vostri amici sono più indebitati di
voi e non hanno neppure la speranza di uscir un giorno o l’altro dagli impicci.
— Che firma vorreste dunque.
— Quella di vostra madre.
— La firma di mia madre? Impossibile;
quando mai mi darebbe i denari.
— Andate dunque a chiederglieli.
— Mi farebbe chiudere in un manicomio.
— Inutile perdere il tempo in altri
discorsi.
— Portandovi la firma di mia madre.
— Aspetterò fino alla scadenza
della cambiale, per verificarla.
— Ah! Ma è orribile ciò
che mi proponete.
— Io non vi propongo nulla.
Pietro, aveva compreso ciò che
voleva il giudìo, avere in mano un documento che costringesse la vecchia
a pagare per salvare il suo onore. Ma
per quanto corrotto l’idea di commettere un falso gli ripugnava.
Tornò da Lalla a mani vuote. S’era messo a stare con lei e in tutti i modi
bisognava provvederle. Tirò
innanzi per alcuni giorni a furia di spedienti. Ma la sua dolce amica, ne fu presto stufa e
gli disse chiaro e tondo che le si levasse dai piedi. Di un amante pitocco non sapeva che farsene.
All’indomani mattina Pietro Tagliacozzo
portava al giudìo una cambiale di diecimila lire colla firma della
madre, naturalmente fatta da lui. Il
giudìo sogghignò e gli sborsò settemila lire. Lalla gli ridonò subito il suo affetto.
Un mese dopo la scena si ripeté, e
così il successivo. Così
giunse la scadenza della prima cambiale falsa. Prima che fosse presentata Pietro si
recò ad Olevano.
La madre che nulla ancor sapeva fu
lieta di rivedere il suo figliuolo e gli prodigò tutte le più
festose accoglienze. Cenarono insieme, e
quando ebbero finito la madre disse di esporle la ragione che l’aveva condotto
al paese.
Pietro esitava. Avrebbe voluto chiederle i denari per pagar
lui la cambiale e lasciar ignorare la perfidia commessa, ma non se ne sentiva
il coraggio. Finalmente buttò
fuori l’audace parola:
— Mamma, mi servono duemila scudi.
La vecchia balzò sulla sedia,
come se fosse colta da un moto sussultorio, e diede in escandescenza.
— Mamma, mi sono indispensabili. Ci va del mio onore.
— Ma che onore, che onore!
Scavezzacollo impenitente, urlò la vecchia.
Pietro era diventato pallido come un
morto, pregò, supplicò la madre, in ginocchio colle lagrime agli
occhi, singhiozzando.
Non riuscì a niente, e il
disgraziato si trovò costretto a rivelarle il fatale segreto delle firme
falsificate. L’indignazione della
vecchia a tale notizia non ebbe più limiti. Vomitò contro il figlio ogni sorta di
vituperi e concluse che l’avrebbe denunziato ella stessa alla giustizia. Preferiva saperlo chiuso in galera, che libero
a commettere nuovi delitti.
— Salvami, mamma! — scongiurava
l’infelice, madido di freddo sudore.
— No, no, no. Mille volte no. Quando bene mi fossi ridotta sulla paglia per
salvarti, torneresti da capo, e falsificheresti altre firme, o commetteresti
qualche altro delitto. In galera,
infame, in galera! Ci sei predestinato.
Pietro pazzo di furore a questa
terribile invocazione, balzò addosso alla inesorabile vecchia e
stringendole con ambo le mani il collo, la rovesciò al suolo.
— Assassino! — mormorò la madre
colla voce soffocata — Matricida!
E più non disse, perché le mani
di Pietro Tagliacozzo s’erano mutate in una morsa, e stringevano, stringevano
sempre, stringevano convulsamente.
Quando il giovane ricuperò un
barlume di ragione e lasciò il collo della sua vittima, la povera
vecchia era morta e irrigidita.
Accortosene, Pietro Tagliacozzo
fuggì inorridito dal teatro del suo delitto ed errò tutta la
notte, come un pazzo per la campagna dei dintorni di Olevano. Fu raccolto sul far dell’alba, da una
pattuglia in perlustrazione, in preda al delirio e confessò subito
l’orribile misfatto. Furono costretti a
mettergli la camicia di forza, perché tentò reiteratamente di suicidarsi.
Il pentimento di Pietro Tagliacozzo, fu
pari all’enormità del crimine. Condannato all’estremo supplizio,
dichiarò solennemente d’averlo meritato, ringraziò i giudici e li
pregò di sollecitare l’esecuzione.
Questa seguì, per mia mano, il
19 gennaio
Lalla ebbe l’impudenza di assistervi da
una finestra, ma riconosciuta da taluno e additata dalla folla, ne
suscitò l’indignazione, che si tradusse in imprecazioni e minaccie; per
le quali dovette ritirarsi e nascondersi. All’indomani un decreto del fiscale la
espelleva da Roma.
Cesare Abbo aveva portato dalla natura
un temperamento estremamente lussurioso. Appartenente a famiglia ricca e di ottime
origini, che godeva di gran credito nella migliore società, egli si era
abbandonato giovanissimo a tutti gli eccessi, ed aveva sciupato il proprio
patrimonio nel giuoco, nella crapula, negli stravizi di ogni genere, seminando
il sentiero della sua vita di vittime infelici della sua foia.
Non una donna poteva passargli vicino
senza ch’egli tentasse di farla sua colla violenza o colla seduzione,
sorprendendola e assoggettandola per forza alle sue voglie, se gli veniva
fatto, ingannandola con mentite proteste d’amore, o guadagnandola coll’oro, che
spargeva a piene mani, se non gli era stato concesso di possederla altrimenti. Egli non conosceva ostacoli, in una parola. Quando incontrava delle difficoltà i
suoi desideri si acuivano e diventavano irresistibili, e per appagarli non
rifuggiva da qualsiasi mezzo.
Alto e ben proporzionato della persona,
dotato di un vigore erculeo, coll’ampio torace eretto, lo sguardo ardito e
provocante, la bocca estremamente sensuale, Cesare Abbo spirava ed aspirava
voluttà per tutti i pori e incontrava spesso le simpatie muliebri. Ma nessuna passione durava a lungo in lui. Spossato dai godimenti di una notte, era
capace di abbandonare e di respingere il giorno dopo l’incauta donna, per la
quale aveva commesse le più grandi pazzie alla vigilia.
Le sue avventure correvano su tutte le
bocche, ne’ crocchi della gente poco scrupolosa, ed erano argomento di perenni
facezie di incitamenti erotici. Si
parlava di lui come di un Don Giovanni della peggiore specie.
Si narrava che una notte in un albergo
aveva sorpreso una signora sola, penetrando dalla propria nella camera di lei
dopo averne forzata la porta. La signora
aveva tentato di chiamare aiuto, ma egli le aveva posto un bavaglio alla bocca
e non potendo trarla per amore a soddisfare il suo capriccio, l’ebbe colla
violenza e dopo averne oscenamente abusato fino al mattino, non sapendo come
sottrarsi alle conseguenze del suo misfatto, la legò sul letto per le
gambe e per le braccia con delle salviette, quindi, indossati gli abiti della
signora, se ne fuggì, dopo essersi calato sul volto il fitto velo del
cappellino che ella portava, lasciandola in quella terribile posizione.
Quando i camerieri entrarono nella
camera della disgraziata e la liberarono, Cesare Abbo aveva già lasciato
la città e non ci fu verso di rintracciarlo.
In un’altra occasione, incaricato da un
amico di portare sue notizie alla propria moglie, si reca da lei per eseguire
la commissione avuta e viene dalla signora accolto colle migliori cortesie.
Ma le grazie soavissime di quella donna
giovane e bella lo incantano, lo abbagliano, gli danno le vertigini. D’un tratto interrompe bruscamente il discorso
e, afferrandole la candida mano, le dice con accento inesprimibile:
— Sofia!
La signora stupefatta, cerca di
ritirare la mano, ma Cesare la trattiene e continua ad investirla.
— Sofia, io ti amo.
— Signore — risponde indignata la
signora, voi dimenticate dove vi trovate e con chi parlate.
— Mi trovo accanto ad un angelo e parlo
colla più cara, la più avvenente, la più vezzosa delle
donne.
— Queste parole che io dovrei respingere
in qualunque momento le pronunziaste, sono ora un insulto per me. Ricordate che siete qui presentato da una
carta di mio marito, di un vostro amico, che si è affidato alla vostra
lealtà.
— Parole, parole, Sofia, inutili parole.
L’amore è una fiamma che divampa
improvvisa, o non è.
— Io respingo questo amore, che voglio
ritenere per un’aberrazione istantanea.
— Aberrazione sarebbe per noi non
aprofittare delle gioie che ci promette questo involontario incontro. Forse tuo marito in questo momento medesimo,
fa con un’altra, ciò che io desidero fare con te. Amiamoci Sofia. Val più un’ora d’oblio e d’ebbrezza che
vent’anni di felicità calcolata, autorizzata, legittimata da quella
scempiaggine che è il matrimonio.
Atterrita da questo impudente linguaggio,
la signora resta perplessa. Vorrebbe
evitare lo scandalo e cerca di persuadere colle buone l’audace a desistere dai
suoi insani progetti.
— Io non giungo a spiegarmi — gli dice
— questa follia, dalla quale siete assalito. È una sventura per me, l’avervi destato
dei sentimenti che non posso dividere, non debbo assecondare.
— Perché?
— Dimenticate dunque la mia condizione?
S’anco una lontana simpatia mi rendesse meno insensibile alle vostre
dichiarazioni, io sarei costretta a combatterle dal vostro singolare ardimento.
— Sciocchezze. Puerilità indegne di una bellezza
divina qual sei.
— Vi scongiuro, signore, di mutar tono.
Un gentiluomo deroga mancando alle
convenienze.
— Ma io t’amo, Sofia. T’amo come non ho amato mai. Per un tuo solo bacio darei non una, dieci
volte, la vita. Ingiuriami, calpestami,
disprezzami poi, ma sii mia.
In così dire Cesare Abbo si
lancia sulla signora le cinge con un braccio la vita e rovesciandole coll’altra
la testa, la bacia furiosamente sulla bocca, sulla gola e tenta di usarle
l’estrema violenza.
Di fronte ad un tale attacco la
signora, che si vede ormai perduta, fingendo per un secondo di abbandonarsi
all’assalitore, ottiene che rallenti la foga del suo amplesso, si svincola da
lui e riesce ad attaccarsi al cordone di un campanello, cui dà una
terribile strappata.
Due servi in livrea accorrono tosto
dall’anticamera.
— Allontanate questo signore e
ricordatevi ch’egli non deve aver più accesso in questa casa.
I due domestici si fanno addosso a
Cesare, ma questi tenta di ribellarsi loro. Ma ha da fare con due robustissimi giovanotti,
i quali dopo breve colluttazione riescono a metterlo fuori.
L’oltraggio patito non fece che
aumentare la passione suscitata da Sofia in Cesare Abbo. Egli giurò a se stesso di avere quella
donna, dovesse costargli la vita e tenne il giuramento.
Una notte di aprile, ritornando da una
serata, Sofia ordinò al cocchiere che aveva preso da pochi giorni al suo
servizio di fare una corsa fuori di Porta San Giovanni. Era nervosa più del consueto e
affaticata. Voleva godersi le fresche e
profumate aure primaverili. Il ballo
aveva alquanto eccitato i suoi sensi e sperava con quella gita di ricuperare la
calma.
Abbandonata sui cuscini della vettura
elegante, s’era tolta il piccolo mantello di casimiro bianco, a ricami d’oro,
soppannati di seta celestina e colle opulenti spalle le pur bellissime braccia
ignude, gustava i lievi brividi che l’aria notturna, penetrando da una delle
portiere il cui cristallo era calato, le procurava. La sua fantasia immersa nei ricordi della
serata, spaziava: sognava ad occhi aperti. Ma il freddo fattosi più pungente, la
consigliò di far alzare il cristallo. Chiamò il cocchiere e gli disse:
— Ho freddo, scendi, chiudi bene la
portiera e ritorniamo.
Il cocchiere discese, aprì lo
sportello, vide l’affascinante spettacolo, di quella donna così poco
vestita di trine e di seta e acceso di subito fervore amoroso, stese le
braccia, e l’attirò a sé.
Sofia cercò di svincolarsi e di
respingerlo. Ma la stretta era troppo
vigorosa.
— Questa volta non mi farai cacciare
dai tuoi servi, come sei mesi fa — disse sghignazzando l’assalitore.
— Che, voi? — esclamò più
sorpresa che sdegnata, la formosissima donna.
— Io stesso, Cesare Abbo. Sfuggimi se puoi. Sarai ben mia.
Le resistenze di Sofia, furono deboli,
per non dir nulle. Le condizioni
patologiche della donna erano favorevoli a quell’avventura arrischiatissima. Se è vero che tutte le donne hanno dei
momenti nei quali sono di chi le piglia, doveva essere quello uno dei suoi
momenti. I baci di Sofia non furono meno
numerosi, né meno ardenti di quelli dell’audace assalitore, trasformatosi in
cocchiere, corrompendo il vero cocchiere della signora, per raggiungere il proprio
intento. Gioiva Sofia d’esser vittima di
un innamorato della propria classe e non nella brutalità di un servo. La passione che aveva ispirato, solleticava
inoltre il suo amor proprio. La forza
amatoria dell’Abbo, compì il miracolo. Rientrando al suo palazzo era pazzamente presa
dell’intraprendente suo amante; si pentiva della sua fierezza che le aveva
rapito sei mesi di godimenti e si prometteva di ripagarsene ad usura.
Giunto al convegno stabilito, Cesare
Abbo rimise al vero cocchiere il cappello gallonato e il grande pastrano di
livrea e si accomiatò da Sofia. All’indomani costei l’attendeva
impazientemente nel suo gabinetto. Ma
Cesare Abbo non vi si recò, né più mai si fece vedere. Il suo capriccio era esaurito.
Quando una passione non ha potuto avere
il suo svolgimento nei sensi di una donna questa ne soffre orribilmente, il suo
carattere si altera e di leggieri si dà in balìa agli eccessi
più mostruosi.
Così accadde a Sofia, la quale
perduto il cocchiere finto si abbandonò al vero, che gli richiamava
quella notte di piacere acre, ma delizioso. Man mano discese per tutti i gradi della
depravazione e giunse a recarsi incognita ne’ pubblici lupanari, come
Messalina, per godere dell’improvviso e dell’ignoto.
Quivi si incontrò di nuovo con
Cesare Abbo e dopo aver passato una notte con lui in quella casa infame,
tornata a casa, si uccise con un colpo di pistola al cuore.
Compromesso da una serie di fatti turpi
Cesare Abbo, per non incorrere in guai maggiori, dovette lasciar Roma e lo
stato pontificio. Dopo aver passato
qualche anno soggiornando in varie città d’Italia, passò
all’estero e finì collo stabilirsi a Parigi, dove, dato fondo fino agli
ultimi resti della sua fortuna, aveva dovuto, per vivere, ricorrere alla sua
cultura e trar profitto dalle sue cognizioni. Ammesso in una casa signorile in
qualità di precettore diventò l’amante della madre, una donna
sulla quarantina, tuttor fresca e piacente ed ebbe da lei dovizia di mezzi. Avrebbe potuto vivere tranquillo e felice, ma
la sua sete insaziabile di godimenti sempre nuovi lo trasse a rovina. Insegnava italiano e musica alla figlia
quindicenne della sua amante, leggiadrissima creatura, rosea e bionda come un
cherubino e se ne invaghì. Non
potendo sperare di sedurla le propinò una bevanda inebbriante, mentre la
conduceva in villa e la violò. La
fanciulla ne uscì gravida e Cesare Abbo dovette lasciar la casa, non
solo, ma ben anco Parigi.
Riparato a Liegi ebbe un posto di
professore in un collegio cattolico e corruppe una quantità di fanciulli
affidati alla sua cura, suscitando uno scandalo gravissimo e facendosi istruire
un processo, dal quale non sarebbe uscito incolume, senza l’aiuto della
famiglia la quale riuscì ad assopire la cosa.
Era stato in quel mezzo investito della
sacra porpora un suo nepote in linea femminile e questi spiegò tutta la
sua influenza a favor dello zio. Erano
passati di molti anni e la memoria dei fatti di Cesare Abbo era impallidita a
Roma. Il cardinale, fatte le debite diligenze
pensò di richiamarlo a sé, e gliene fece la proposta per lettera.
L’offerta non poteva essere più
lusinghiera e vantaggiosa per il lussurioso e randagio buontempone. Egli vide aprirsi innanzi un nuovo orizzonte e
si promise di approfittare largamente di tutte le gioconde prospettive che esso
gli presentava. Chiese ed ottenne di
entrare negli ordini e sorvolando per volere del nipote a tutte le
difficoltà, vincendo tutti gli ostacoli, fu fatto prete in breve volger
di tempo, mutando il suo nome di Cesare troppo compromesso in quello di
Domenico, che pur si trovava nella lunga filatessa di nomi impostigli al fonte
battesimale.
Don Domenico, ormai bisogna chiamarlo
così, fece il suo solenne ingresso nella sua città natia in abito
talare, accuratamente sbarbato, corretto nel portamento, talché difficilmente
si sarebbe riconosciuto in lui l’antico libertino, che aveva dato tanta materia
alla cronaca scandalosa dei paesi da lui visitati. Era ancor nel fiore dell’età; toccava
la quarantina, ma dimostrava quindici anni di meno, tant’era robusto e fresco e
pieno di vigoria.
Il cardinale fu molto sorpreso di
trovarsi avanti uno zio che pareva meno anziano di lui, quantunque foss’egli il
più giovane dei membri del sacro collegio; investito della porpora cardinalizia
da Sua Santità Gregorio XVI per la grandissima dottrina ond’era fornito.
Tuttavia sedotto dai modi squisitamente
signorili del neoprete, giudicò che sarebbe tornato di lustro alla sua
corte e gli fece pertanto le migliori accoglienze.
— Don Domenico, sono ben lieto di
vedervi. Desideravo da molto tempo di
conoscervi e mi spiace solo di dover questa fortuna a circostanze sulle quali,
voglio sorpassare in questo momento, certo che saprete onorare l’abito e il
carattere che avete assunto.
— Cardinale, nipote mio dilettissimo,
il dente della calunnia mi ha morso spesso, ma sotto l’egida della vostra
porpora, spero vorrà d’ora in poi lasciarmi in pace. Voi avete fatto opera degna della vostra e
della mia famiglia, associate negli interessi e negli affetti dai matrimoni,
richiamandomi a Roma.
— Voi farete parte della mia casa. Vi nomino mio segretario onorario ed
eserciterete le funzioni di cerimoniere, per le quali mi sembrate tagliato
apposta.
— L’ufficio mi garba e lusinga il mio
amor proprio e lo accetto. Tuttavia
siccome intendo di esercitare seriamente il mio ministero di sacerdote, per il
quale mi son sempre sentito inclinato, desidererei aver cura d’anime.
— Il vostro passato. . . veramente. . .
— Ma ho fatto una pratica eccezionale
delle vicende umane.
— Lo credo. Però vi esporreste a nuove tentazioni,
dalle quali parmi opportuno tenervi lontano.
— Cardinale, abbiate pazienza, vi sono
gratissimo delle vostre buone disposizioni a mio riguardo e tuttociò che
avete fatto per me, ma poiché sono diventato prete, non voglio esserlo di pura
mostra.
L’ostinazione dello zio irritava un po’
l’illustre Principe della Chiesa. Egli
subodorava delle seconde intenzioni nel tenace proposito di Don Domenico, ed
ebbe una punta di resipiscenza per averlo richiamato. Ma comprendendo che non sarebbe stato agevole
persuaderlo a rinunziare alle sue aspirazioni gli fu giocoforza di assentire. Dopo tutto la cura delle anime che reclamava,
lo avrebbe allontanato da pericoli maggiori e salvaguardato il decoro della sua
Corte.
— Volete dunque assolutamente
esercitare il sacerdozio in tutte le sue più gelose cure —
domandò.
— Lo desidero, Eminenza.
— E sia. Avrete la confessione, per ora.
— Mi basta.
— In seguito vedremo, se convenga farvi
titolare di qualche parrocchia.
— Non spingo tant’oltre le mie
aspirazioni.
— Resta convenuto che risiederete a
palazzo e farete parte della famiglia. Vi sarà facile prendere conoscenza e
pratica del cerimoniale. Errare
humanum est: voi avete, se la fama non mente, errato la vostra parte. Guardatevi bene dal ripigliar da capo e di
offrir l’occasione a quel dente della calunnia, di cui dite d’aver provato i
morsi, di nuovamente attaccarvi. Siate
cauto, almeno. . .
— Se non casto. Questo va da sé.
Zio e nipote dopo questo colloquio, si
lasciarono ne’ migliori termini.
Il giorno stesso don Domenico prendeva
possesso del suo piccolo ed elegante appartamento nel palazzo del Cardinale, e
stropicciandosi allegramente le mani, esclamava:
— Ho ritrovato il paese della cuccagna.
Attenti a non farsi esiliare.
Domenico Abbo conservò per
parecchio tempo un contegno castigatissimo ed una condotta irreprensibile. Il cardinale suo nipote ne era edificato e non
cessava di lodarsi della determinazione presa. L’affabilità de’ suoi modi e la
giocondità del suo spirito gli accaparravano tutte le simpatie. Mai le anticamere del prelato erano state
così affollate di clienti delle migliori società. Le signore erano in prevalenza e si
intrattenevano con maggior compiacimento col cerimoniere, che col cardinale. Quel bel prete, dall’aspetto di granatiere,
per l’imponenza della persona, dall’occhio nero e corruscante, dalla bocca
larga e sensuale, tuttora adorna dei suoi denti candidi e forti le attraeva. E dal palazzo del Cardinale passavano
volentieri alla chiesa, dove don Domenico officiava, per accostarsi al
tribunale di penitenza da lui presieduto.
In breve Abbo era diventato il
direttore spirituale di una quantità di famiglie patrizie e vi era
accolto con straordinarie feste, ogni qualvolta si degnava di accettare un
invito a pranzo o a qualche ricevimento.
La giovialità del suo carattere
faceva di lui un prezioso commensale, e un consigliere molto competente per
tuttociò che concerneva la vita mondana, non meno che per riguardo della
vita celeste.
Il cardinale nepote non era geloso dei
successi di suo zio, che si riverberavano sopra di lui, e si fece premura di
presentarlo al papa, non appena, essendogliene giunta notizia, manifestogli il
desiderio di conoscerlo.
Papa Gregorio XVI, tolto dalla
gravità delle preoccupazioni del governo della Chiesa e dello Stato,
tolto dalle afflizioni che gli cagionavano i cospiratori e i rivoluzionari,
sempre intesi a nuove mene per sovvertire l’ordine politico e sociale, era d’umore
giocondo e sollazzevole, amava la bottiglia e le storielle amene. Si narrano di lui un’infinità di
aneddoti.
Ne ricordo due, che calzano
meravigliosamente per spiegare la deferenza che esso mostrò poi a don
Domenico Abbo.
Aveva il Ganganelli preso di fresco un
nuovo segretario particolare, il quale dormiva nella stanza attigua alla camera
da letto del papa per essere pronto ad ogni sua richiesta.
Una notte gli parve di sentire il papa
parlare. Scese dal letto e si
accostò alla porta per distinguer meglio la voce di Sua Santità. Ad un tratto intese papa Gregorio XVI che
diceva:
— Biondina mia, dammi un bacetto.
Il segretario fu altamente sorpreso, se
non scandalizzato. Donde mai era passata
quella biondina che letificava le ore notturne di Sua Santità? Quale
mistero si nascondeva sotto quella intimità così confidenziale?
Il giorno seguente il curioso
segretario fece del suo meglio per scoprir terreno, ma non gli venne fatto di
saper nulla. La notte origliò di
nuovo alla porta della camera cubiculare del pontefice e l’udì ad un
certo punto, ripetere l’invocazione:
— Biondina mia, dammi un bacetto.
Così continuò per molte
notti, senza che la curiosità sempre più eccitata del Segretario,
potesse appagarsi. Soltanto le domande
di bacetti si facevano sempre più frequenti nel corso della notte
medesima.
Finalmente una notte che il papa aveva
domandati più baci del consueto alla sua biondina, il segretario
udì un tonfo ammortito dal tappeto. Allora giudicò necessario di
intervenire, e passò benché non chiesto nella stanza del papa.
Uno strano spettacolo si offerse agli
avidi suoi sguardi.
Gregorio XVI se ne stava accoccolato a
fianco del letto in camicia, con una bottiglia di ambrato vin santo in mano, e
non riusciva a rialzarsi, per quanti conati facesse. Altre bottiglie giacevano al suolo abbandonate.
La notizia dai segreti penetrali del
Vaticano, si diffuse per tutta Roma, suscitando l’universale ilarità e
il Segretario curioso e chiacchierone venne rimandato.
L’altro aneddoto è il seguente.
Un dopo pranzo parecchi cardinali erano
adunati intorno a Sua Santità e favellavano sopra diversi argomenti.
Un cardinale meno prudente e meno
accorto essendo il discorso su papa Gregorio I, si mise a tessere l’elogio
delle sue vere e supposte virtù, esaltandole oltre ogni dire, e concluse
che meritamente era passato nella storia col titolo di Gregorio Magno.
Ganganelli, cui quelle sperticate laudi
tornavano un po’ ostiche, chiamò il cameriere e gli ordinò di
recargli una bottiglia di lacryma christi e versatosene un calice colmo,
lo tracannò d’un fiato, poi uscì con questa sentenza:
— Gregorio I passò nella storia
col titolo di Gregorio Magno, Gregorio XVI vi passerà con quello di
Gregorio Bevo.
Don Domenico Abbo fu affabilmente
ricevuto dal Sommo Pontefice, col quale seppe mostrarsi scaltramente allegro,
senza uscir dai limiti del conveniente riserbo e questo lo rimise nelle grazie
di Sua Santità.
I favori di Gregorio XVI uniti a quelli
del cardinale nipote nocquero all’antico libertino. Imbaldanzito, egli non avea più veruna
cura ad occultare i suoi intrighi colle belle penitenti. I sontuosi pranzi, le luculliane cene
incitavano sempre più i suoi sensi e le lascivie succedevano alle
lascivie degeneranti in oscenità indescrivibili. Le spose e le zitelle non bastavano più
alla sua foia invereconda e andava ripescando nella storia della prostituzione
greca, assira, babilonese i più infami riti per soddisfare le luride sue
cupidigie. Appositi provveditori gli
procuravano teneri garzoncelli, ai quali imprimeva il marchio della sua
libidine, escogitando sempre nuovi adescamenti, per ravvivare la sua
sensibilità ed acuirla, quando sembravagli intorpidita.
Egli rinnovava nel palazzo stesso del
cardinale le neroniane orgie di Capri e di Baia, giungendo ad infiggere degli
spilli nelle carni de’ giovinetti pazienti, che si assoggettavano alle sue
lubriche voglie, per trar godimento più intenso dai sussulti che
cagionavan loro gli spasimi delle atroci punture.
Le notizie di tali dissolutezze si
diffondevano intanto per Roma ed eccitavano gli sdegni dei cittadini. Nelle sfere superiori si era più
corrivi e tolleranti. Ma a lungo andare
lo scandalo, facendosi sempre più grave, si dovette richiamare sovr’esso
l’attenzione del cardinale, perché provvedesse a farlo cessare, e questi
ripetutamente ammonì lo zio, affinché tornasse a vita morigerata e
tranquilla, almeno nelle apparenze.
Sulle prime don Domenico Abbo si
scusò, si disse vittima di bel nuovo della calunnia de’ suoi invidi, e
promise di non offrir loro altri pretesti. Ma poi, sempre più imbaldanzito dai
suoi successi, rispose al nipote arrogantemente, gli ricordò le
turpitudini medicee e farnesi, e conchiuse che la Santa Chiesa, se sopportava
l’onta di un cardinale eunuco, come lui, aveva ben diritto di essere compensato
da uno zio del cardinale, capace di surrogarlo nelle sue deficienze.
Il cardinale giudicò ormai
necessario di liberarsi da quel sozzo prete, che disonorava così
ignominiosamente il suo carattere e la casa che lo ospitava e decise di
coglierlo in fallo, per giustificare le severe misure che aveva ideato di
prendere contro di lui.
Avvertito una notte che
nell’appartamento dello zio doveva aver luogo una delle solite orgie,
deliberò di assistervi e di piombare su Domenico Abbo, al momento
opportuno, per cacciarlo dal palazzo, come nostro signor Gesù Cristo
cacciò i mercatanti dal tempio.
Se ne stava il sibarita cenando
allegramente in compagnia di due baldracche ed era mezz’ebbro, quando il
cardinale comparve sulla porta del salotto.
— Benvenuto, nipote mio! — sorse a dire
l’Abbo non appena lo vide, senza punto scomporsi: ce n’è anche per voi. Abbiamo dei tartufi del Perigord, capaci di
ridar vigore a un morto. Questo vino
spremuto dai grappoli, indorati dal sole della Sciampagna, vi infonderà
spirito allegro e frizzante. Queste due
Maddalene, non per anco convertite e che spero avranno il buon gusto di non
convertirsi mai, avrebbero domato le ribellioni delle carni dell’anacoreta
Sant’Antonio. Io metto tutto ciò
a vostra disposizione, eminentissimo, perché vogliate farmi l’onore di sedere
alla mia mensa, come io siedo quotidianamente alla vostra. Venite, venite, cardinal nipote. So che godete fama di illibato, ma questo non
vi nuocerà. Si è sempre a
tempo a peccare, come a far atto di contrizione.
Il cardinale rimase esterefatto da
tanta audacia. Egli avrebbe voluto
ritirarsi, per evitare una scena disgustosa. Ma ormai non era più a tempo. Pensò convenirgli mostrarsi mite per il
momento e disse:
— Don Domenico avrei bisogno di parlarvi.
— Subito, eminenza. Favorite.
— Devo intrattenervi sopra argomenti
che non richiedono la presenza di testimoni.
— Come vi piace.
— Rimandate quelle. . . signore.
— Ben volentieri. Sono ben educato. Vedrete.
E così dicendo buttò una
borsa di scudi alle due donne, le quali si levarono prontamente da tavola,
ricomposero i loro vestimenti discinti, e buttati sulle spalle i mantelli
presero la via della porta.
— Giacomo, Giacomo! — gridò il
prete, e tosto un servo giovane ed imberbe, che fungeva da di lui cinedo
comparve.
— Accompagna queste signore — disse — e
non tornare. Per questa notte hai
licenza.
Non appena donne e garzone se ne furono
andati, l’Abbo si alzò, mosse incontro al cardinale e prendendolo per
mano lo costrinse a farsi presso alla tavola tuttora imbandita, gli disse con
piglio ironico:
— Eccoci soli, eminenza, ora non avrete
più a temere che il vostro pudore ne soffra detrimento. Sedete.
Il cardinale severo, ma non accigliato,
poiché si era proposto di evitare qualsiasi chiasso, dopo avere aderito
all’invito, disse lentamente:
— Vi pare don Domenico, che queste
scene cui mi fate assistere, sieno tollerabili, nel palazzo di un principe
della Chiesa?
— Se ne son viste di peggiori.
— Altri tempi, altri costumi.
— Tutti i tempi sono buoni per giocondarsi
l’esistenza; è tanto breve.
— Vi ho già tante volte
richiamato all’esercizio de’ vostri doveri.
— Dove mai ho mancato, eminenza?
— E osate chiederlo?
— Certamente che l’oso, dal momento che
so di aver sempre e col maggiore scrupolo adempito alle mansioni affidatemi.
— Non si tratta di ciò.
— E di che dunque.
— Del vostro carattere di sacerdote,
per dio!
— Eminenza siete male informato sul
conto mio. Il mio confessionale è
il più frequentato e le più belle dame di Roma, e più
cospicue per censo e per nascita, fanno a gara, per avermi a direttore
spirituale, a guida sullo spinoso sentiero della vita.
— Non miscere sacra profanis! —
sentenziò il porporato per evitare una risposta diretta.
— Quando io diffondo dal pergamo la
parola di Dio, la gente affolla il tempio. Sono chiamato in tutte le case, ove s’ha
bisogno di spargere i balsami della consolazione. Spesso sono costretto a disertare la vostra
tavola, per accorrere a quella d’altri principi della Chiesa. Che più? Sua Santità mi vede di
buon occhio.
— Tanto di buon occhio, che è
appunto da lui che fui esortato a liberarmi di voi.
— A liberarmi di me?
— Precisamente.
— Ah! Papa ubbriacone, così
corrispondi alle mie piacevolezze. Oh!
ma mi sentirà.
— Voi vi guarderete bene d’andare da
Sua Santità.
— Ci andrò sicuro. Ogni suddito ha diritto di ricorrere al suo
legittimo sovrano.
— Non v’andrete, perché sareste
arrestato ipso facto.
— Non sarebbe la prima volta veramente.
— Ho piacere che lo ricordiate.
— Anch’io, perché mi rammenta la vostra
bontà eminenza.
Ingannato da queste parole, che
parevano sincere, il Cardinale credete di poter proceder oltre con tutta
coscienza e riprese:
— Voi lascerete domani questo palazzo.
— Siete il padrone, vi obbedirò.
— E vi ritirerete nel convento dei
Domenicani, per passarvi sei mesi d’espiazione.
— Questo poi no.
— Tali sono gli ordini di Sua
Santità.
Don Domenico Abbo, si versò un
calice di vino sciampagna spumeggiante e lo bevve centellinandolo: quindi,
forbendosi le labbra, esclamò:
— Squisito! Scommetto che se papa Gregorio
XVI fosse qui, non ne rifiuterebbe un bicchiere, come fate voi, troppo rigido
nipote.
— Pensereste di farmi testimonio delle
vostre orgie?
— Nepote mio, scusate, ma io non vi ho
chiamato, e avrei proprio fatto di meno della vostra compagnia, perché ne avevo
altra, come avete veduto, se non più interessante, più dolce.
— Vergognatevi!
— Di che? di seguire le leggi della
natura? Giammai! Si vergogni chi pretende contraddirle.
— Non sono qui per impegnare delle
discussioni vane ed oziose, bensì per porgervi gli ordini del sommo
pontefice.
— Me ne infischio di lui e de’ suoi
messi. Ditegli che gli esercizi
spirituali e corporali li faccio in casa mia.
— Questa non è casa vostra, lo
dimenticate?
— No, e domani all’alba me ne
andrò, e pianterò le mie tende, ove non vi saranno degli
indiscreti, che abusando del loro grado, vengono a disturbare le mie
distrazioni, i miei sollazzi.
Il cardinale a questa uscita del
lussurioso suo zio, fu preso da violenta collera. Don Domenico aveva realmente esaurita la sua
longanimità.
— Voi non uscirete più di qui —
tonò con voce cupa e solenne.
— Perché di grazia?
— Non ne uscirete che accompagnato dai
birri, i quali vi porteranno alle carceri per essere giudicato e punito di tutte
le nequizie che avete commesse, antiche e recenti.
— Sarebbe troppo lungo. Verrebbe la fine del mondo, prima che il
processo fosse esaurito.
— Il vostro cinismo vale le vostre
azioni.
— Si possono quotare alla borsa.
— Credete che si ignorino le vostre
turpitudini, le vostre seduzioni, le vostre corruzioni di minori, i vostri
stupri.
— Oh delizie! Non rammentatele eminenza
perché mi fate correre l’acquolina in bocca.
— Turpissima e sozza creatura, indegna
d’anima d’uomo; così si parla in presenza di un porporato, di un membro
del sacro collegio, di un principe della Chiesa?
— Un principe della Chiesa. . . un porporato. . . un cardinale. . . ! Oh la bella splendida idea
che mi viene. Fra i molti capricci che
mi son levato, questo mancava. L’occasione non potrebbe essere migliore.
Il cardinale lo ascoltava, senza
comprendere il senso delle parole. . . e
incominciava a ritenerlo in preda ad un delirio alcoolico, e stava riflettendo
ciò che gli convenisse di fare, quando si sentì afferrato a mezza
vita dalle braccia poderose del prete osceno e buttato a bocca sotto, sopra un
divano del fondo del salotto. Supponendo
che volesse ucciderlo e preso da irresistibile terrore, mormorò con voce
soffocata:
— La vita! La vita, lasciatemi la vita.
— Voglio ben altro che la vita da te,
nipote mio. Non capita tutti i giorni
d’assaggiar carne di cardinale.
E senza più s’accinse ad
infliggergli l’estremo oltraggio.
Tentò di ribellarsi l’infelice. Ma l’Abbo tenendolo colle ginocchia serrato,
lo afferrò con ambo le mani alla gola, né lo lasciò che
quand’ebbe compiuto il nefando misfatto.
Il corpo del cardinale cadde allora
bocconi al suolo. Era morto per
soffocazione.
Rinvenuto in sé, dinanzi al cadavere
del nipote, Domenico Abbo fu preso da terribile sgomento. Egli misurò d’un tratto la situazione. Comprese che la salvezza per lui era
impossibile e per sottrarsi all’immancabile forca che l’aspettava, decise di
buttarsi a fiume. Lasciò il
salotto maledetto, e si diede a fuggire come un pazzo giù per le scale
del palazzo. Alcuni servi lo seguirono,
altri salirono nel di lui appartamento e trovata la salma dell’assassinato
cardinale, sparsero per ogni dove l’allarme.
Mentre il prete dissoluto giunto al
ponte Sant’Angelo, rincorso dai servi, tentava di salire sul parapetto per
lanciarsi nell’acqua, fu afferrato da alcuni soldati e trattenuto.
Intanto giungevano i primi ed i secondi
servi informati del delitto. Domenico
Abbo venne portato a Castel Sant’Angelo e chiuso nelle prigioni di quello.
Il processo ebbe luogo segretamente, e
fu prontamente spicciato, perché premeva all’autorità di evitare
l’enorme scandalo. Intanto si era fatto
correr voce che il cardinale era morto per improvvisa sincope e fu severamente
ingiunto ai domestici di parlare del fatto. Ma di molte ciarle erano già state
fatte e la verità trapelava nel pubblico.
La notte del 3 al 4 ottobre 1849 fui
chiamato nel forte di Castel Sant’Angelo e quivi sull’albeggiare mozzai la
testa al prete dissoluto. Domenico Abbo
aveva svestiti gli abiti sacerdotali e gli erano stati raschiati i polpastrelli
delle dita, colle quali aveva tante volte amministrata la sacra particola, e la
tonsura per sconsacrarlo. Egli si era
cinicamente confessato di tutte le sue oscenità, menandone vanto, ed
entrando ne’ più minuti particolari. Esortato a far atto di contrizione, per
meritarsi la grazia celeste, rispose beffandosene:
— Ho goduto un cardinale, spero di aver
buona fortuna anco col diavolo, lasciate che me ne vada all’inferno.
Chiese ed ottenne di non essere né
bendato, né legato. Camminò
imperterrito e con saldo passo dalla carcere al posto ove era stato eretto il
patibolo, guardò sorridente il patibolo e porse la testa alla mannaia
dopo aver esclamato:
— Tutto è finito.
Il 25 settembre 1852 decapitai sulla
piazza di Spoleto Pietro Giammarese, detto Cascotta di Terni, domiciliato a San
Gemini distretto di Terni, delegazione di Spoleto, reo di parecchie grassazioni
ed omicidi; il 20 agosto 1853, mozzai la testa sulla piazza del ponte di Rieti
a Sebastiano Proietti d’anni 25, pure condannato all’estremo supplizio per
grassazione e ladrocinio. La sua morte
fu edificantissima. Fece una sincera
confessione de’ suoi misfatti e se ne mostrò pentito. Volle assistere alla santa messa e ricevere il
cibo eucaristico prima di muovere al supplizio. Lungo il tragitto dalle carceri alla piazza
continuò a pregare ad alta voce, coi confortatori. Salì sul patibolo cantando le litanie
lauretane e morì come un santo.
Una doppia esecuzione ebbi a fare il
dieci settembre dell’anno medesimo in piazza della Madonna dei Cerchi, nelle
persone di Giacomo Biacetti, fu Carlo, romano, d’anni 26, gramiciaro, e Andrea
Leveri del vivente Antonio, romano, d’anni 28, vaccinaro, rei ambedue di
grassazione, furto qualificato ed omicidi. Mossero entrambi al supplizio, gioiosi e
cantarellanti, quasi andassero a nozze. Giunti innanzi alla ghigliottina la guardarono
sorridenti. Severi disse:
— Presto, mastro Titta, fammi la pelle,
che poi penserà mio padre a conciarla.
— Raccomandagli anche la mia — aggiunse
Biacetti.
La loro indifferenza per la morte
suscitò l’ammirazione di tutti i facinorosi che assistendo
all’esecuzione dicevano: «Così muoiono i veri romani».
L’8 ottobre, manco un mese dopo, mi
dovetti trovare a Viterbo per una triplice esecuzione: due uomini, Vincenzo
Iancoli di Ronciglione e Francesco Valentini di Letera, e una donna, Francesca
Levante, vedova Ferruccini, che avevano combinato con molto accorgimento un
omicidio a scopo di furto.
La Ferruccini era una bellissima donna,
che aveva viaggiato il mondo e fatto un po’ di tutti i mestieri, segnatamente
la danzatrice di teatro. Innamoratasi
del Valentini lo aveva seguito a Viterbo, e quivi vivevano, come potevano. Ma presto le privazioni vennero a noia ad
entrambi e la Francesca pensò a trar profitto dalla sua bellezza, col
consenso dell’amante, che divideva il ricavo della di lei prostituzione.
Ne’ dintorni di Viterbo era venuto a
stabilirsi, in una elegante casina, un signore francese, ex ufficiale
dell’esercito, il quale pare avesse avuti dei gravi dispiaceri per causa di
donne al suo paese, e si era recato colà, per godervi un po’ di pace e
tranquillità, for’anche per sottrarsi a qualche possibile vendetta. Egli conosceva il paese, per esservi stato di
guarnigione mentre era sotto le armi, e gli parve che nessun ritiro, gli
potesse convenire meglio di quello.
Veduta un giorno a Viterbo Francesca,
ch’egli aveva conosciuta, mentre esercitava il suo mestiere di ballerina, le si
accostò e l’abbordò così:
— Voi qui? Come mai? Mi pare d’avervi
veduta sul teatro.
— Ci fui infatti.
— E vi siete ritirata?
— Son qui col mio uomo. — Così dicendo Francesca saettò
con uno sguardo il giovane forastiero, che si chinò al suo orecchio e le
susurrò una misteriosa parola.
— Perché no? — rispose la Levante.
— Quando?
— Stasera stessa.
— Sei libera?
— Perfettamente.
— Il tuo uomo?
— Chi si preoccupa di lui?
— Allora t’aspetto.
— Verrò. Preparatemi una buona cena e dello Champagne. Amo lo Champagne, sapete?
La sera stessa, come aveva promesso la
ballerina, si trovava nell’elegante salotto della palazzina del francese. Avevano cenato superbamente e lo Champagne era
stato servito a profusione. Gli spiriti
erano molto riscaldati e l’orgia d’amore fu completa. Solo un capriccio non volle Francesca
soddisfare, e fu di ballare uno dei suoi passi, per lui solo.
Pregata si schermiva, dicendo:
— Son fuori d’esercizio da troppo
tempo, non sono più buona a nulla.
Il forestiere insisteva facendole le
proposte più generose, ma la Levante persisteva nel suo rifiuto.
All’indomani mattina, prima di
accomiatarla, il forestiere condusse Francesca innanzi ad un forziere e la
regalò splendidamente, quindi le disse:
— Vedi, se tu accondiscendi al mio
capriccio, ti darò quanto di quest’oro tu vorrai.
Francesca l’investì con uno di
quei suoi sguardi, pieni di misteriosa voluttà, e uno di quei sorrisi
lascivi che parevano morsi al midollo spinale.
— Ebbene ti compiacerò un’altra
volta.
— Subito?
— No, subito no.
— Domani?
— È troppo presto. Posdomani.
Il forestiero l’abbracciò in
segno di assenso e la congedò. La
mariuola aveva avuto il suo scopo, procrastinando il soddisfacimento del
capriccio del francese. Innanzi tutto
bramava lasciargli il tempo di rinfrancarsi le fibre, perché sensuale com’era
voleva che le nuove giostre d’amore si compissero in tutte quelle condizioni di
vigoria fisica che la sua insaziabile natura richiedeva. Poi perché la vista di quell’oro le avea dato
il barbaglio e fatto concepire il desiderio di impossessarsene. Per quanto glie ne avesse a dare il francese,
le pareva non dovesse bastarle: lo voleva tutto.
Tornata dal suo amante, Valentini,
mostrandogli l’oro avuto, gli disse:
— Vedi, questo non è che la
millesima parte di quello che potremmo avere se. . .
— È adunque molto ricco il tuo
francese?
— Mi ha mostrato un forziere pieno di
rotoli di napoleoni d’oro.
— Troppo pochi gliene hai cavati,
allora.
— C’è tempo.
— Devi tornare da lui?
— Posdomani.
— Converrà che tu coltivi bene
la relazione.
— Sarebbe meglio fare un colpo.
— Ti comprendo. Ma come?
— Non ha che un domestico, il quale
quando ha preparato il pranzo se ne va desiderando il suo padrone di restar
solo.
— Ebbene?
— Potresti venire: io ti aprirei la
porta.
— Solo?
— Avendo un compagno sarebbe più
sicuro.
— Ho il fatto mio.
Il giorno stabilito, Francesca si
recò alla palazzina del francese e fu accolta con grande entusiasmo dal
giovinotto dissoluto, il quale per godere di tutte le più ampie
libertà aveva già licenziato il domestico.
Francesco Valentini, accompagnato dal
suo amico Vincenzo Iancoli, del quale poteva fare completo assegnamento si
appostarono nei pressi.
Terminata la cena fredda Francesca si
spogliò dei suoi vestiti di città e indossato un costume di
baiadera che aveva portato con sé, molto semplice, poiché non constava che di
una sottile e trasparente veste di velo che lasciava scorgere tutta l’opulenza
delle sue magnifiche forme, incominciò una danza bizzarra, nella quale
Francesca andava sempre più accentuando le movenze procaci e lascive.
Il francese, steso su di una ottomana
la seguiva cogli occhi avidi, saturi di desiderio, anelante di stringersi la
formosissima donna fra le braccia. E
così continuò buona parte della serata, finché estenuato di forze
il forestiero si abbandonò ad un sonno profondo ma affannoso.
Vincenzo Iancoli e Francesco Valentini
erano stati introdotti dalla Levante nell’appartamento e già si
accingevano a scassare il forziere, cogli arnesi che avevano portato con sé,
quando il francese, il cui sonno, come avvertii, era agitato, aperse gli occhi.
Stette un secondo in forse, ma la
percezione del vero subito lo colse e si levò a sedere, per lanciarsi
contro i ladri. Non ne ebbe il tempo. Francesca seguendo le istruzioni avute, gli
immerse nella gola la larga lama di un coltello, di cui era munita.
Il francese proruppe in un grido: i due
grassatori tosto accorsero a lei e tolto di mano alla Francesca il coltello
fumante di sangue lo crivellarono di ferite.
Compiuto il misfatto e rubato tutto il
denaro dal forziere, del quale avevano ritrovato la chiave sul francese, se
n’andarono tranquillamente.
Il mattino vegnente il domestico del
francese, che aveva una chiave propria per entrare nella palazzina, trovando il
padrone assassinato, andò alla polizia a denunziare l’orribile fatto.
La polizia si recò sopra il
luogo per le indagini, e trovò l’abito di baiadera, che Francesca si era
dimenticata di portar via, nella furia dell’andarsene, dopo commesso il delitto.
Assunte informazioni, seppe della notte
passata tre giorni prima dall’ex ballerina alla palazzina e si decise ad
arrestarla. Operata una perquisizione in
sua casa trovarono tutto il denaro rubato. Mentre la perquisizione si eseguiva,
capitò a casa del Valentini e della Levante il Vincenzo Iancoli, e fu
arrestato anche lui.
Il processo non andò per le
lunghe: le risultanze erano troppo positive e gli imputati dopo aver riluttato
un po’, confessarono. Solo Francesca
tenne duro: ammise di aver passato la notte col francese; ma disse d’esser
stata sorpresa dal Valentini il quale ne era geloso; che lui insieme al
compagno avevano assassinato il giovanotto, quindi, scassato il forziere e
portata via la roba, minacciandola di morte se avesse parlato. Ma il suo sistema di difesa non approdò
e venne condannata co’ suoi complici al taglio della testa.
Venuto l’8 ottobre, giorno
dell’esecuzione, Iancoli e Valentini si confessarono ed invocarono i conforti
religiosi. Erano disfatti dalla paura e
furono portati sul palco più morti che vivi; la sola Francesca Levante,
vedova Ferruccini, si mostrò, coraggiosa. Aveva voluto indossare i suoi abiti più
belli, come se avesse dovuto recarsi ad una festa e non alla morte. Si acconciò la testa con grande cura e
mi raccomandò che presentandola alla folla, quando glie l’avrei recisa,
facessi in modo di non deturparla. Vedendola salire imperterrita sui gradini del
patibolo, col capo alto, il petto torreggiante, lo sguardo superbo, il passo
sicuro, le anche lievemente ondeggianti, sfuggirono al pubblico grida di
ammirazione.
— Quanto è bella! — dicevasi da
una parte.
— Che peccato ammazzarla! — si
aggiungeva dall’altra.
Francesca udiva ed evidentemente se ne
compiaceva. Non volle essere legata. E mentre porgeva la testa allo strumento mortifero,
s’acconciava le pieghe delle veste.
Serafino Benfatti era un uomo aitante
della persona, forte come un toro e violentissimo. A queste sue qualità aggiungeva quella
di essere un dissipatore di primo ordine, un famoso gozzovigliatore e un
dissoluto di prima forza, per il quale il maltalento era legge.
Aveva condotto in moglie una leggiadra
e soavissima giovinetta Perugina, da lui conosciuta ad Ancona, ove si era
recata colla famiglia per le bagnature. Capo di una casa commerciale di molto credito,
che teneva in mare parecchie navi, non aveva incontrato soverchie
difficoltà per ottenerla in isposa.
Sulle prime Serafino pareva pazzamente
innamorato della sua Cesarina, e questa corrispondeva alla sua passione con
tutto il fervore di cui era capace. Ma
il suo carattere riservato e il suo temperamento delicato non le consentivano
quei trasporti, quegli slanci, quelle pazzie che il marito avrebbe desiderato.
Incominciò quindi il Benfatti a
raffreddarsi e in breve volgere di tempo la moglie gli venne in uggia. Allora tornò alla vita di dissipazione
che aveva incominciata, alla morte di suo padre, quando gli era succeduto nelle
ragioni della ditta. Amoreggiò
con donne di ogni qualità, spendendo molto più che non gli
permettessero i suoi redditi; per rifarsene si diede a giocare sfrenatamente e
perdette somme enormi. Ridotto al verde,
cercò di intascare il patrimonio della moglie, ma questa, nauseata della
sua condotta, si oppose con una energia della quale non la si sarebbe supposta
suscettibile.
Di qui, scene violente, terribili,
minaccie e percosse.
Cesarina, stanca di quella vita di
continui strazi, ricorse alla sua famiglia, la quale rafforzata dall’appoggio
di un esperto avvocato, fece chiedere ed ottenere una separazione.
Serafino Benfatti ne parve soddisfatto
e non si oppose menomamente, che sua moglie ritornasse a Perugia, per vivere
co’ suoi parenti.
A questa acquiescenza c’era però
una ragione: il traviato aveva stretto una relazione amorosa con Maria
Rossetti, giovane donna di temperamento sanguigno, che meglio si confaceva al
carattere di lui. Erano due esuberanze
fisiche che si equilibravano e compenetravano.
Maria non era al suo primo amore, forse
non era più neanche al secondo; ma, pur abbandonandosi completamente al
Benfatti, senza ritegni e senza riguardi, non voleva saperne di mettersi con
lui, e di vivere pubblicamente in concubinaggio, com’egli pretendeva.
— Vieni a star con me — le diceva
spesso in mezzo ai suoi trasporti amorosi — fammi felice del tutto: io ho
bisogno di averti a fianco ad ogni ora del giorno e della notte.
— Impossibile.
— Perché, impossibile?
— Lo sai pure.
— Dillo.
— Tu non sei libero. Hai una moglie. . .
— Che ha voluto separarsi da me.
— Non cessa per questo d’esserti moglie.
— E lo credi giusto?
— Non sarà giusto, ma è
così. Io posso compatirti,
compiangerti, anche amarti, come realmente t’amo, prodigarti la mia persona,
come te la prodigo, ma non posso usurpare il posto che appartiene ad un’altra
donna.
— Chi te lo vieta?
— La società innanzitutto.
— Poi?
— La mia coscienza. Io la detesto quella donna, tanto che potrei
ucciderla; ma non surrogarla mentre vive.
Queste parole si figgevano nel cerebro
di Serafino Benfatti e gli tornavano spesso alla mente; gli sembrava di udirne
il suono, e cercava in essa un consiglio, un’esortazione, un incitamento a
liberarsi di Cesarina.
Intanto i suoi affari andavano alla
peggio. Perdette in un anno due
bastimenti col carico e la sua rovina fu completa.
Non gli restava che liquidare il poco
che gli era rimasto e prendere imbarco su qualche naviglio mercantile.
Ed è appunto ciò che egli
decise di fare.
Una sera Maria Rossetti si vide
comparire innanzi Serafino Benfatti in abito da marinaio.
— Che strana fantasia ti ha preso? —
gli domandò aprendogli le braccia e stringendolo poi fortemente al seno.
— Non è una fantasia, è
un fatto, rispose il marinaio.
— Spiegati, non ti comprendo.
— Sono rovinato.
— Non è da oggi che me lo dici.
— Quando te lo dicevo, la rovina era semplicemente
in prospettiva; ora è compiuta. Ho liquidato i miei conti: ora non sono
più armatore, non sono più commerciante. Non mi rimane più che la mia
intelligenza, sorretta dalle braccia e da qualche migliaio di lire.
— Ebbene?
— Sono venuto per dirti addio. Mi imbarco: andrò al nuovo mondo, per
tentare la sorte. Se mi arride
tornerò; se mi continua avversa non ci rivedremo più.
A queste parole, presa da un subitaneo
slancio d’affetto, Maria gli gettò le braccia al collo, e, sciogliendosi
in lagrime, proruppe in un grido d’angoscia straziante:
— Impossibile! Impossibile! Ne morrei.
— Seguimi allora.
— Seguirti? Ma come?
— Io prendo imbarco in qualità
di nostromo: tu puoi prenderlo come passeggiera, pagando il trasporto. Giunti in America, a Buenos-Ayres ci
stabiliamo. Ciò che mi è
rimasto di denaro è più che sufficiente per iniziare un piccolo
corso d’affari. In breve mi
rifarò una fortuna e. . .
— E allora?
— Saremo sempre uniti e felici.
— Questo non basta, lo sai, Serafino. C’è un ostacolo insormontabile: tua
moglie, Cesarina. . .
— Non ricordarmela, Maria, perché nella
mia testa corrono da tempo delle idee nere in proposito.
La Rossetti, invece di staccarsi da
lui, gli si accostò più e se lo strinse di nuovo fra le braccia,
sussurrandogli all’orecchio:
— Quali idee?
— Non chiedermelo.
— Hai dei segreti per me? Non mi ami.
— T’amo, fino a concepire il progetto
di un delitto.
— È così che voglio
essere amata.
L’incitamento non poteva essere
più diretto e più preciso. Ma Serafino Benfatti esitava ancora, aveva
paura di comprender male: temeva di destar orrore a quella donna adorata
manifestandole il suo truce proposito.
— Dunque? — chiese Maria.
— Quando un ostacolo è
insormontabile, invincibile bisogna. . .
— Sopprimerlo.
— L’hai detto. Parto per Perugia questa notte medesima.
— Ti seguo.
— Che? — esclamò atterrito il
marinaio — tu seguirmi?
— Se c’è un pericolo, voglio
dividerlo con te.
— Se mi mancasse il coraggio all’ultimo
momento?
— Colpirei io stessa.
E suggellarono con un bacio il patto
infame, che doveva legarli per tutta la vita. Mortifero bacio.
Cesarina era uscita a diporto, quando
suo marito si recò da lei. Imbruniva, ed egli era penetrato nel giardino
d’onde intendeva scivolare nell’appartamento della moglie non appena questa
fosse rientrata, e di nascondersi per perpetrare nella notte il delitto.
Maria Rossetti l’attendeva di fuori;
avrebbe voluto entrar pur essa nel giardino e nella casa; ma Serafino si era
opposto, temendo avesse a riuscirle più d’impaccio che di aiuto.
Cesarina, non tardò guari a ritornare
e ritornò sola. Entrò per
la porticina del cancello del giardino e passò oltre nella prima camera
del suo appartamento terreno, che su quello si apriva.
Serafino Benfatti la seguì. Il momento non poteva essere più
opportuno: tutto sembrava concorrere al buon esito della scellerata impresa.
Ma mentre il marito entrava dietro di
lei, Cesarina che era già penetrata nella seconda stanza ne uscì
e si trovò a fronte di Serafino, il quale, alzato il coltello, di cui
era armato, le lasciò piombare un colpo nel petto dalla parte del cuore.
La disgraziata mandò un grido:
— Assassino!
E cadde riversa al suolo.
Serafino Benfatti, invaso da un terrore
invincibile, fuggì verso il giardino, sempre brandendo il coltello
insanguinato.
Quivi si imbatté con Maria che aveva
attraversato il cancello. In quel mentre
si vide rizzarsi, sulla porta di ingresso dell’appartamento, Cesarina, la
quale, ferita soltanto leggermente, perché le stecche del busto avevano fatto
deviare la lama del coltello, si era levata e teneva dietro al marito, che
aveva riconosciuto.
Maria Rossetti, misurò la
situazione e vide che era mestieri sostituirsi a Serafino. In un baleno strappò l’arma al
Benfatti, che le muoveva incontro pazzo di terrore, e fattasi sulla moglie del
suo amante la crivellava di ferite, al volto, alla gola, dove le veniva fatto
di colpirla.
L’odore del sangue le dava una specie
di ebbrezza. Né lasciò la sua
vittima che quando sentì le grida di Serafino e dei parenti che
rientravano in tempo per assistere all’orrendo spettacolo.
Maria Rossetti e Serafino Benfatti,
furono immediatamente arrestati. L’uomo
confessò il delitto in tutti i suoi particolari, cercando di rigettare
la maggior parte di responsabilità sulla sua amante, dalla quale si
disse incitato a commettere il misfatto.
Condannati entrambi alla decapitazione,
subirono il supplizio in ben diverso modo.
Serafino Benfatti si mostrò
pentito e contrito del delitto commesso, si confessò e si
comunicò esemplarmente e mosse al patibolo confortato dai frati,
invocando il perdono di Dio e degli uomini.
Maria Rossetti, per converso, si
conservò impenitente. Accolse la
sentenza con un sogghigno. Rifiutò perentoriamente le religiose
consolazioni e i sacramenti.
L’uomo arrivò sul patibolo
disfatto dalla paura e senza manco potersi reggere. La donna impenitente pose, per la prima, come
ne avea diritto, la testa sotto il ferro, dopo aver rivolto al suo complice uno
sguardo di supremo disprezzo.
L’emozione destata nel pubblico che
assisteva al supplizio, fu immensa, indescrivibile. Molte donne ed anco parecchi uomini piangevano.
Altri imprecavano. Ma la giustizia ebbe il suo corso preciso ed
esatto, com’era di ragione.
Luigi Finocchi di Corneto possedeva una
bellissima moglie della quale era estremamente geloso. E veramente la sua Geltrude non pareva tale da
lasciarsi sfuggire le occasioni.
Alla naturale leggiadria accoppiava uno
spirito poco comune. Appartenente a
buona famiglia vestiva con singolare eleganza ed aveva un gusto deciso per
tutte le cose fini ed aggraziate.
Questo suo carattere contrastava con
quello del marito rozzo; superbo e refrattario a tutte quelle gentilezze della
quale la sua Tuta non sapeva fare a meno.
Come mai si era unita una coppia
così poco felicemente assortita?
La solita storia o quasi.
Tuta co’ suoi capriccetti si era
procurata delle conseguenze, che avevano sortite le forme di un piccolo feto
nelle sue giovani viscere. La madre
avvertita in tempo si diede attorno per trovare un marito alla sua figliuola,
il quale riparasse al momentaneo errore da lei commesso e legittimasse col
matrimonio il nascituro.
Ma la condotta di Geltrude aveva
già suscitato delle dicerie e non era tanto facile tenerle occulte in un
piccolo paese, dove per la gente che non ha nulla a fare, una mosca che vola
sul naso di un personaggio eminente assume l’importanza di un avvenimento.
Occorreva un uomo il quale non avesse
l’abitudine di frequentare i suoi simili e di ascoltare i loro cicalecci. Quale miglior uomo di Luigi Finocchi, rozzo,
ma denaroso, una specie di orso, che non se la faceva con nessuno?
La buona genitrice di Tuta essendo
stata informata che egli aveva delle intenzioni coniugali e che la sua
figliuola gli dava nel genio, si mise subito a giocar la partita.
Innanzi tutto si trattò di persuadere
Geltrude. E non sarebbe stato agevole
compito, senza quel piccolo essere che incominciava già a dar segni di
vita nell’alvo materno.
Tuta si mostrò ragionevole e
l’affare fu tosto per questo lato reso possibile.
Rimaneva l’altra parte. E anche con quella non fu disagevole cosa il
combinarlo.
Un’amica di Tuta si incaricò
della bisogna. Conosceva il Finocchi ed
aveva avuto de’ rapporti con lui. Con un
pretesto qualunque andò a trovarlo e attaccato discorso, del più
e del meno favellando, uscì a dirgli:
— Eh! Sor Giggi. Voi continuate a vivere come un orso, sempre
solo?
— Meglio solo che male accompagnato —
rispose il Finocchi.
— Si sa; ma un uomo prudente come voi
trova presto modo di accompagnarsi bene, se vuole. Perché non prendete moglie?
— È un brutto affare, non si
può prevedere dove si cascherà.
— Dunque non siete contrario in massima
al matrimonio?
— Non ci ho mai pensato.
— Una bella e buona moglie è un
dolce conforto, una compagnia utile e cara.
— Il difficile è appunto di
trovarla bella e buona, due qualità che generalmente si escludono l’una
l’altra.
— È difficile sicuro, ma non
impossibile. Io per esempio mi
impegnerei di trovarla.
— Voi?
— Perché no? Se non si è capaci
di rendere un servizio ad un amico si è inutili a questo mondo. Conoscete le Montini?
— Quella vedova che ha una bella
figliuola?
— Per l’appunto.
— Le conosco di lontana vista. Ma la ragazza mi pare una superba creatura.
— Buona e bella.
— Bella certamente; quanto al buona. . .
— Me ne faccio io mallevadrice:
è una perla, una colombella, un giglio di purità e di candore.
— Chissà quali idee le
frulleranno per il capo!
— Idee savie e positive.
— Lo credete?
— Altro che crederlo! Lo so per certa
scienza. È stata educata da una
madre, che, non faccio per dirlo, è come me: severa, rigida,
intransigente. Oh! non ha frasche per la
testa, Tuta.
— Si chiama Geltrude, lo so.
— Compare! O m’inganno o le avete messo
già gli occhi addosso.
— Non posso dir questo. Ma la mi andrebbe. . . . .
— A fagiolo, non è vero?
Lasciate fare a me; se vi piace me ne incarico io.
— Sarà un buco nell’acqua. Una ragazza come quella vorrà un
bellimbusto, un giovanotto elegante, per marito.
— Se v’accerto di no. Voi siete un uomo nel fiore dell’età,
robusto, gagliardo.
— Sotto questi rapporti non temo rivali.
— Avete de’ quattrini molti.
— Grazie a Dio e la mia attività
ho di che farmi lume sulla strada della vita.
— Non avrete delle esigenze impossibili.
— Per esempio?
— Geltrude è stata allevata
civilmente; le dorrebbe di dover mutar vestiti.
— E chi glielo dice? Mi piace
com’è. Perché dovrebbe mutarsi?
Non sono gli scudi che mi mancano e vorrei coprirla d’oro e di gemme.
— Oh! Non esigerà tanto perché
il padre ha lasciato poco e questo poco è andato squagliandosi. Dote non ne ha.
— Non ne cerco.
— Quanto alla madre. . .
— Se non le basta quello che le
è rimasto, son pronto a farle un assegno.
— Non chiederà molto.
— In casa mia però non la voglio.
Mio padre buon’anima sua, mi ha sempre
detto: guardati dalle suocere.
— La madre di Tuta è una donna
ammodo. . .
— No, no. Vade retro Satana! Non voglio suocere.
— Lasciatemi finire, compar Giggi.
— Finite pure, ma suocere in casa non
ne prenderei per tutto l’oro del mondo.
— Dicevo che la Montini è una
donna a modo e che per il bene della sua figliuola acconsentirà a
staccarsi da lei.
— Alla buon’ora! Su questo terreno ci
ritroviamo.
— Ne parlerò oggi stesso alla
madre di Tuta.
— Vorrei che esploraste prima il
sentimento della ragazza.
— Ci penso io non dubitate.
Il Finocchi si cacciò le mani
nella tasca del panciotto, ne trasse due napoleoni d’oro e li fece scivolare
nelle mani della compiacente comare dicendole:
— Queste per le prime spese. Il giorno delle nozze ne darò un paio
di dozzine.
— Grazie compare. È affare fatto.
Le nozze ebbero luogo con grande pompa.
Luigi Finocchi pareva avesse deposta
tutta la sua selvatichezza ed aveva usate alla sua promessa delle finezze
squisite.
È un fenomeno che si verifica
spesso: il sole dell’amore rischiara le menti più ottenebrate e suscita
negli animi apparentemente più insensibili e rozzi, sentimenti di
delicatezza incomparabili.
Giggi amava già passionatamente
Geltrude e nessun sacrificio gli sarebbe sembrato troppo grave per esserne
corrisposto. Ma la trovava troppo al di
sopra di lui. Le si sentiva inferiore
talmente, che disperava di giungere alla sua altezza e avrebbe salutato con
piacere qualunque fatto, per quanto doloroso, che avesse diminuita la ipotetica
distanza che li separava.
Il Finocchi aveva voluto, con delicato
pensiero, che le feste nuziali avessero luogo in casa della Montini, benché
sopperisse del proprio alle spese. Terminato il ballo, che aveva seguito la
sontuosa cena, gli invitati se ne andarono. E gli sposi si avviarono alle loro abitazioni,
accompagnati fin sulla soglia dalla madre di Tuta e da altri parenti. Accomiatatisi si trovarono finalmente soli.
Il momento psicologico si avvicinava:
Giggi condusse la sua diletta fino alla porta della camera da letto, che aveva
fatto allestire con ricchezza e buon gusto, e si ritirò un momento, per
lasciarle compire in libertà la toletta notturna.
In quel mentre un famiglio gli
recò una lettera dicendogli:
— Sor padrone, hanno portato questo
foglio fin da stamattina, dicendo di consegnarvelo subito. Ma io non ho voluto disturbarvi.
— Hai fatto bene.
Il famiglio se ne andò, e
Finocchi si pose in tasca la lettera, rimandandone la lettura all’indomani. Ma poi per ammazzare il tempo e vincere
l’impazienza, la tirò fuori, e guardò la soprascritta:
Signor Luigi Finocchi, Corneto. Urgentissima.
Uomo d’affari anzitutto,
quell’urgentissima colpì il destinatario, l’aperse, la lesse,
impallidì e dovete appoggiarsi ad un mobile per non cadere.
Entrò nella camera nuziale, dopo
aver fatto uno sforzo disperato per vincere la emozione e porse la lettera alla
sposa dicendole:
— Leggi.
Avvolta in un bianco e sottile
accappatoio, che le scendeva in fitte pieghe lungo la persona, superbamente
bella, disegnandone le forme dense ed aggraziate ad un tempo, colle carni rosee
e palpitanti delle rotonde spalle, dal seno eretto e dalle magnifiche braccia
sotto le trasparenze del diafano tessuto, Geltrude era divina a vedersi ed
avrebbe tentato anche un santo. Ma Luigi
Finocchi aveva la testa in fiamme, una vampa sanguigna gli saliva agli occhi e
non scorgeva che un immane quadro rosso innanzi a sé.
Geltrude lesse la lettera,
tranquillamente, serenamente, come se si trattasse di cose che non la
riguardassero e quando ebbe finito pronunziò una sola parola, ma con
tale accento di supremo disprezzo, che scosse tutte le fibre del suo sposo:
— Vigliacco!
— Dunque è vero? — chiese
Finocchi con una inflessione di voce che pareva un rantolo.
— Sì — rispose con accento
fermo, pieno di muta disperazione Geltrude.
— Ebbene? — domandolle ansante il
marito.
— Vi ho ingannato, sono indegna di voi,
cacciatemi; siete nel vostro diritto.
— Perché ingannarmi? — disse con
accento straziante Luigi.
— Per salvare il mio onore; porto nelle
viscere il frutto della mia colpa, se è colpa per una fanciulla
inconsapevole l’essersi lasciata sedurre da un vile.
Quella confessione schietta, piena di
rammarico e di rassegnazione, colpì profondamente il disgraziato e fu
come un refrigerio per lui. Riprese la
calma, e considerò la situazione freddamente.
Era stato ingannato; ma lo scopo se non
giustificava, scusava l’inganno. Quella
fanciulla era caduta sotto le arti di un malfattore: era una vittima più
da compiangersi che da condannarsi. Poteva egli d’altronde supporre che tanto
tesoro di leggiadria, fosse creato per lui, rozzo, villano, ineducato? Aveva
desiderato che la distanza che lo separava da Geltrude fosse dimezzata: ecco il
fatto che lo assecondava. Se la
fanciulla non amava il suo seduttore, egli l’avrebbe perdonata, le avrebbe
conservato tutto il suo amore, tutta la sua adorazione. Era stata sincera fino a quel momento, perché
avrebbe cessato d’esserlo? Guardò negli occhi di Geltrude e gli apparve
come una visione angelica, celeste. La
sua mente non era mai arrivata a concepire tanta beltà. Le prese una mano candida e un fremito gli
agitò tutte le fibre.
— Geltrude! — le disse con tale accento
di tenerezza che pareva una contraddizione col suo fisico — l’ami quell’uomo?
— L’odio, lo detesto, vorrei
immergergli un pugnale nel cuore colle mie mani.
Così favellando la fanciulla
mandava lampi dai corruscanti occhi neri, le sue labbra rosse erano agitate da
un tremito, la sua fronte aveva formata una piega profonda, le martellavano le
vene gonfie delle tempia, nella sua voce c’era tutta l’impronta della
verità.
— È noto il tuo errore ad
altrui?
— A mia madre sola.
— È egli di Corneto?
— No, è un viaggiatore di
commercio, che capita qui due o tre volte al mese e non si trattiene mai
più di quarant’otto ore.
— Quando verrà?
— Dev’esser qui. . . poiché v’ha scritto: è di suo pugno
questa lettera infame, che vi ha rivelato la mia colpa.
— Se l’uccidessi?. . .
— Ti adorerei come un Dio!
esclamò Geltrude, con uno slancio di passione, cingendogli il collo
colle braccia ignude che uscivano dalle ampie maniche della vestaglia.
Luigi a quel contatto si sentì
inebbriato fino al delirio, strinse la bellissima donna poderosamente al petto
e rovesciandole indietro la testa, le diede un lungo bacio sulla bocca.
Quelle quattro labbra ardevano come
braci.
Poi repentinamente si svincolò
dalla stretta, che Geltrude gli aveva corrisposto, dicendo risolutamente:
— No: prima la vendetta.
— Voglio assistervi.
— Assisterai.
— Dove vi incontravate? domandava
all’indomani mattina Luigi Finocchi, a Geltrude, entrando nella camera da
letto, ove l’aveva lasciata sola la notte, per mantenere il suo fiero proposito.
— Ad una piccola casina lungo il mare,
a pochi passi dalla città. È proprietà di una vecchia
sorda, che gliel’affittava.
— Prendi penna, carta e calamaio e
scrivigli.
— Perché?
— Per dargli un convegno.
— Ho capito, va bene. Eccomi pronta.
Finocchi si fece a dettare, mentre
Geltrude scriveva:
«Arturo.
«La tua denunzia è stata una
viltà: l’attribuisco alla gelosia e la perdono. Lui è partito stanotte. Né so che ne avverrà. Ho bisogno di vederti. Scrivimi, se ti potrò trovare al posto
consueto, per il latore. »
«Tuta. »
Finita la lettera e fatto l’indirizzo,
Giggi la prese ed uscì, affidandola ad un de’ suoi più fidi
famigli, per il recapito. Quando
ritornò da Geltrude aveva la risposta. Diceva:
«Angelo mio,
«Perdonami! Hai indovinato il
sentimento che mi ha spinto. Vieni ti
attendo stasera. Duolmi d’aver una vita
sola per espiare l’infamia che ho commessa. È poco, ma è tutta tua. »
«Arturo. »
— Una vita sola basta! — disse Finocchi
dopo averla udita leggere da Geltrude. —
Non è vero?
— Sì, purché taccia per sempre.
Erano le undici di sera quando Tuta
bussava alla porta della casina dell’antico suo amante. La notte era buia e temporalesca. Il cielo coperto di dense nubi nere, rotte di
quando in quando dal bagliore dei lampi. Non si vedeva intorno anima viva.
La vecchia sorda affittuaria non
abitava nella casina, la quale non era che un pied-à-terre da
cacciatori e si componeva di un ambiente a terreno, che serviva di cucina e di
tinello ad un tempo, e di una camera superiore, ove si trovavano i letti per
riposarsi e dormire. Da questa camera,
tirando una sottile catena si alzava il saliscendi che chiudeva la porta della
casina.
Non appena ebbe Tuta bussato, il
saliscendi si alzò e la porta si dischiuse. Geltrude entrò lasciandola aperta. Quasi contemporaneamente un uomo usciva
dall’ombra e penetrava dietro di lei nella casina.
Era Luigi Finocchi.
— Geltrude, non sali? — disse una voce
dalla camera superiore.
— Non ho lume, rispose la donna.
— Ah! scusami. Scendo.
Quasi contemporaneamente si vide un
lume a capo della scala di legno, che dal tinello conduceva al piano superiore
e comparve l’elegante figura di Arturo, ancor vestito di tutto punto.
Scese lentamente il giovinotto, sempre
credendo che Geltrude gli salisse incontro. Ma con sua grande sorpresa la vide immobile
appiè della scala.
— Sei dunque sdegnata? — le disse il
leggiadro, quando si trovò nel tinello, afferrandole una mano e tentando
di attirarla a sé.
Ma in quel momento un terribile colpo
al collo, lo faceva stramazzare al suolo. La lama del pugnale di Luigi Finocchi, gli
aveva orribilmente squarciata la gola e troncata colla jugulare la vita. Il lume che egli portava gli era sfuggito di
mano, si era spento. Giggi lo raccolse e
lo riaccese. Quindi si chinò
sopra l’assassinato per accertarsi che era morto. Geltrude lo guardava impassibile, senza che un
muscolo del suo volto tradisse la benché menoma emozione, senza che il colorito
del suo bel viso ovale e delicato si alterasse di un punto.
— Bisogna sbarazzarsi di questo
cadavere, che potrebbe procurare delle noie alla giustizia e pur anco a noi.
— Diamo il fuoco alla casina, il
cadavere brucierà con essa e si crederà ad un fortuito accidente.
— No: sarebbe pericoloso. La notte è temporalesca, soffia un
vento indiavolato, l’incendio potrebbe dilatarsi e recar danni gravi, se non
accorrono in tempo ad estinguerlo: se se ne accorgono prontamente e riescono a
domarlo, si troverà il cadavere combusto, si cercherà il movente
del delitto, si faranno delle indagini e forse delle scoperte.
— Dunque?
— È mestieri buttarlo a mare:
è assai mosso e lo porterà chissà dove.
Senza più, Luigi Finocchi si
recò sulle spalle il cadavere di Arturo e uscì dalla porta;
Geltrude spense il lume e lo seguì sbattendola leggermente, affinché il
salicendi avesse ad alzarsi e rinchiuderla.
Giunti al mare Finocchi si trasse dalle
spalle l’assassinato, lo frugò, gli tolse la lettera che Geltrude gli
aveva scritto il mattino, quindi lo sollevò sulle braccia e dopo averlo
un po’ bilanciato per dar maggior vigore e più forte impulso al colpo,
lo gettò nell’acqua. La donna,
sempre imperterrita, dietro di lui, assisteva alla scena, resa più
terribile dall’oscurità della notte.
Arturo non si era recato a Corneto per
affari, ma solamente chiamatovi dalla notizia del matrimonio di Geltrude e non
aveva quindi con sé che una piccola valigia di oggetti personali. La vecchia sorda non fu sorpresa della sua
insalutata scomparsa. Le dolse di non
ricevere alla scadenza, come di consueto, il prezzo della pigione, e di non
più vederlo, ma non ne parlò ad alcuno. Il mare, inghiottita la sua preda, l’aveva
trasportata chissà dove, nessuna traccia era quindi rimasta del delitto,
il quale rimase occulto, permettendo così al Finocchi ed a Geltrude di
godere le delizie di una luna di miele, rosseggiante di sangue, ma non meno
gustosa.
È un fenomeno avvertito da molti
fisiologi, che il sangue versato per causa d’amore accresce la passione e il
diletto fra i complici. Quella geniale,
soave creatura di Geltrude, aveva preso ad amare freneticamente il rozzo
marito, vedendolo compiere per causa sua l’assassinio del giovane che l’aveva
sedotta. Dal canto suo Luigi Finocchi
era così soddisfatto della sua vendetta e delle ebbrezze ritratte dal
matrimonio, che sarebbe tornato da capo se l’occasione gli si fosse presentata.
— Mi ami? — diceva spesso alla sua
donna nel delirio degli amplessi.
— Io ti adoro. Per possederti mi par poco di avere ucciso un
uomo.
— Lasciamo questi ricordi — rispondeva
flebilmente Geltrude, senza esprimere veruna ripugnanza, anzi ricostruendo
nella mente il tremendo dramma al quale aveva assistito e cooperato e ritraendo
nuovo eccitamento ai sensi, da siffatta ricostruzione.
— Ti fanno male? A me no — ripigliava
Luigi — Rammentando, gioisco viemmaggiormente.
— Pur io.
— Se qualcuno tentasse di toglierti a
me, mi sentirei capace di qualunque strage, di tutto, fuorché di lasciarti.
Questi morbosi eccitamenti e queste
ripetute dichiarazioni del marito, finirono col ridestare l’umor capriccioso
della moglie e col farle nascere il desiderio acre di voluttà nuove e
peccaminose.
Quantunque fino a quel momento la sua
condotta coniugale fosse stata irreprensibile, ed avesse fatto dimenticare la
mobilità del suo carattere di zitella, non mancavano di svolazzarle
intorno dei calabroni, che avrebbero voluto suggere dalle sue roride labbra il
miele de’ baci. Ma Geltrude opponeva
loro la più estrema indifferenza.
Luigi Finocchi aveva da qualche tempo
dei rapporti misteriosi col di fuori.
Un’insurrezione era scoppiata in
Sicilia. Garibaldi, partito da Genova
con mille volontari, aveva operato uno sbarco in Sicilia, una quantità
di insorti unitisi a lui, e date battaglie sanguinose ai soldati del Borbone,
si erano impossessati di tutta l’isola, abbattendovi il legittimo governo. La rivoluzione tendeva ad estendersi e cercava
aderenti anche negli Stati di Sua Santità, per mezzo di emissari che
spandevano denari a piene mani. L’avidità di Finocchi, cresciuta per le
ingenti spese, che gli cagionava la moglie, ne fu sedotto: egli si gettò
a corpo perduto nella cospirazione.
Pareva che si volesse operare uno
sbarco sulla costa pontificia del Tirreno e a questo intento lavoravano
Finocchi e i suoi nuovi amici. Le sue
assenze da casa erano frequenti, tanto la notte che il giorno, e talvolta si
prolungavano perfino di una settimana. Diceva che andava a Grosseto, nello Stato del
granduca di Toscana, cacciato anche lui dal trono l’anno antecedente. E realmente vi si recava, ma sempre con
segreti scopi politici.
Una notte ritornò a casa in
compagnia di un giovanotto. I famigli
erano già coricati e Giggi chiamò Geltrude, già ritirata
nella sua camera da letto, ma tuttora in piedi, perché preparasse qualche cosa
da mangiare per lui e per l’incognito suo compagno.
— Vuoi che svegli la fantesca?
— No: il forestiero non deve essere
veduto da nessuno.
— Io non vi posso servire che della
roba fredda.
— Non importa. Basterà la tua presenza a rallegrare il
mio compagno e i cibi offertigli da te gli parranno più saporiti.
Sorrise la donna del complimento di suo
marito e discese nel tinello, ove l’incognito s’era fermato. Giggi le aveva già parlato delle sue
imprese e de’ suoi cooperatori. Credeva
quindi d’avervi a trovare innanzi un brigante barbuto, col cappello a pan di
zucchero, i calzoni di pelle di capra e le ciocie ai piedi. Fu quindi assai meravigliata di vedere invece
un gentiluomo elegante e gentile, che non appena la scorse si alzò, le
mosse incontro, e le disse:
— Sono desolato, signora, di recarvi
disturbo: non avrei acconsentito a farlo, senza la cortese insistenza del mio
amico Luigi.
— Gli amici di mio marito — rispose
Geltrude gratamente sorpresa e desiderosa di mostrarsi non meno gentile e
finamente educata — sono sempre benvenuti, e la nostra povera casa è a
loro disposizione.
— Così parlano le leggiadre
donne d’Italia — esclamò con enfasi il forestiero e aggiunse con un
piglio mezzo da predicatore e mezzo da apostolo:
— Quando avremo liberata la Patria
dalle Alpi al mare, distrutte le tirannidi e abbattuto il governo de’ preti,
sarà ambito premio per quelli che non avranno lasciata la vita
nell’ardua impresa, d’aver il guiderdone dalle loro belle mani. Le Clelie, le Virginie, le Cornelie di Roma
insegneranno ai nostri figli la via del sacrifizio e della gloria.
Questo linguaggio che avrebbe forse
fatto sorridere un’altra donna, impressionò Geltrude, sempre inclinata
per lo straordinario ed il trascendentale. Si inchinò sorridendo, senza rispondere
per tema di non sapersi mostrare all’altezza del suo interlocutore e
andò in cucina a preparare la cena.
Il pasto fu frugale, composto di
vivande fredde, ma inaffiato di vino generoso, allegro e vivace. Il forestiero smessa la prima aria
cattedratica, assunta per darsi del tono, si era chiarito buon commensale,
spiritoso, giocondo. Raccontò
brillantemente i fatti della campagna di Sicilia ai quali aveva partecipato ed
espose gli intendimenti di Garibaldi, il quale voleva far l’Italia una. Ma non si sbottonò per quanto
concerneva la sua missione, né i suoi rapporti col Finocchi.
Geltrude si sentiva rapita dal
linguaggio insinuante del cospiratore, che non si lasciava sfuggire occasione
alcuna, per frammischiare al proprio discorso, dei complimenti al di lei
indirizzo, e le lanciava delle occhiate piene di sottintesi, alle quali ella
corrispondeva sulle prime un po’ timidamente, poi man mano, con maggiore
franchezza ed ardimento.
La capricciosa non poteva far a meno di
istituire un confronto fra il marito grossolano e brutale, della persona come
delle maniere, e l’incognito educato a tutte le squisitezze della vita
cittadina, avvenente, elegante, colto e bel parlatore. Prima del levar della mensa il tradimento
coniugale era per parte sua spiritualmente compiuto.
Al forestiero venne assegnata una
cameretta, comunicante colla stanza da letto dei padroni di casa, che serviva
di gabinetto di toletta per Geltrude. Aiutata dal marito, la moglie, già
virtualmente infedele, la trasformò in un piccolo Eden, confortato da
tutti gli agi, con un soffice letto, le cui candide lenzuola e i morbidi
guanciali odoravano di lavanda e di gaggiolo.
Entrandovi il forestiero ne fu
dolcemente sorpreso, si profuse in ringraziamenti, diede una robusta stretta di
mano all’inglese al Finocchi, toccò colle punta delle dita quella di
Geltrude, che corrispose all’eloquente pressione con pari intensità.
I cospiratori sono tutti così:
trovano ospitalità in una casa e la prima cosa che fanno, se appar loro
innanzi una graziosa figura di donna, è quella di violarla,
approfittando del prestigio che esercitano sui deboli animi muliebri il mistero
ed il pericolo.
All’indomani giunse, al commissario di
Corneto, avviso dalla polizia di Roma, che doveva giungere colà un famoso
cospiratore. Lo si esortava a vigilarlo
per conoscere le persone colle quali si sarebbe messo in rapporto e ad
arrestarlo quando fosse per partire.
Quando si tratta di affari politici,
generalmente parlando, le polizie sono sempre informate ventiquattr’ore dopo il
fatto.
Il commissario di polizia si
affrettò a partecipare la nuova ai suoi intimi, per cui, in men che non
si dica tutta Corneto fu edotta della cosa, e Luigi Finocchi per il primo. Si convenne pertanto che il forestiero non
sarebbe uscito dal suo nascondiglio. Geltrude avrebbe pensato a provvederlo di
tutto l’occorrente, finché esauriti i primi slanci di zelo, la polizia si
sarebbe acchetata, e sarebbe stato possibile farlo partire, di notte, su
qualche barca di cabotaggio, per la vicina Toscana.
La volontaria prigionia del cospiratore
non durò che tre giorni: Luigi era sempre fuori di casa, per scrutare il
terreno ed aver notizie. Sua moglie ed
il bel giovane ebbero quindi tutto il tempo per intessere il loro piccolo, ma
piccante romanzo amoroso. Dodici ore
dopo il forestiero, se non aveva per anco intrapresa la conquista dello Stato
Pontificio, aveva già compiuta quella della sposa del suo ospite.
Tutto era ormai disposto per la
partenza del cospiratore, quando Luigi Finocchi, tornò inaspettato a
casa, e mosse verso la camera di Geltrude.
Il rumore di un bacio dato e ricambiato
lo fermò impietrito dietro la porta della stanza precedente. Fulminato da un sospetto geloso si
chinò e guardò per la toppa della serratura.
Il forestiero usciva dalla camera da
letto e sua moglie in bianca vestaglia lo accompagnava cingendolo colle sue
braccia. Si scambiavano baci e tenerezze.
Si facevano gli ultimi saluti.
— Dunque non ti vedrò più
amore mio? chiedeva con voce semispenta Geltrude.
— Ci rivedremo non appena le sorti
della patria me lo consentano. Ma se
dovrò morire su un campo di battaglia, sarà col tuo ritratto sul
cuore e il tuo nome sulle labbra.
Il povero marito ingannato vedendo ed
udendo, si morse disperatamente le mani e pianse di rabbia.
Avrebbe voluto aprire la porta,
lanciarsi sui perfidi e strozzarli entrambi colle proprie mani. Ma pronto gli sopravvenne un altro pensiero:
denunziare il traditore e vendicarsi della moglie.
Si allontanò rapidamente, ma
senza usare le debite cautele. Il rumore
dei suoi passi avvertì Geltrude. Si affacciò alla finestra prospiciente
sulla strada, e vide Giggi uscir dal portone, senza cappello, correndo, come un
pazzo.
— Siamo scoperti: fuggi, — gridò
al forestiero. Mio marito ci ha veduti
abbracciati.
— Fuggiamo.
— Impossibile, io resto. Affronterò sola l’ira sua e lo
placherò, aggiunse con un sorriso indefinibile.
Il cospiratore non si perdette in
discussioni; gli premeva anzitutto di salvare la propria pelle. Seguì Geltrude che lo accompagnò
fino al giardino, dietro la casa e gli insegnò la via della fuga,
saltando un piccolo muro di cinta allo scopo di arrivare per altra strada alla
marina.
Intanto Luigi Finocchi giungeva alla
polizia. Ma prima di varcarne la soglia,
rifletté un istante e questo bastò per ritoglierlo dall’infame proposito.
Ritornò sui suoi passi: aveva
mutato decisione. Avrebbe ucciso il
violatore della ospitalità accordatagli in sua casa come aveva ucciso il
seduttore di Geltrude e l’avrebbe al par di lui buttato a mare. Dopo tutto la colpa era sua, poiché aveva
messo il fuoco accanto al pagliaio. Egli
non voleva perdere la moglie, rinunziare ai suoi amplessi. La morte dell’amante sarebbe stata sufficiente
punizione per lei. Glielo aveva detto
tante volte: chiunque tenti rubarmi le tue carezze morrà.
Ritornò a casa: si munì
del coltello col quale aveva sgozzato Arturo e andò direttamente alla
camera da letto: ivi trovò Geltrude, semisvenuta sopra una sedia. L’afferrò per un braccio e le disse:
— Vieni a vedere, come si puniscono i
colpevoli, i traditori.
E la trascinò violentemente nel
gabinetto, dove credeva si trovasse ancora il forestiero. Ma quando lo vide vuoto si sentì
assalito da un eccesso di furore.
— Dov’è? — gridò alla
moglie con voce soffocata — dov’è, boiaccia, il tuo amante?
— È partito, mormorò
Geltrude, più morta che viva.
— Partito, fuggito, per opera tua?
— Sì.
— Ebbene, paga tu per lui!
E pronunziando queste parole
l’afferrò pei capelli, la trascinò al letticciuolo e colla
formidabile lama del suo coltello, le recise la testa.
Quindi si affacciò alla
finestra, urlando come un pazzo:
— Eccola! Eccola!
Mostrava, sempre tenendolo per i
capelli, il capo troncato di Geltrude, dal cui collo pioveva ancora a fiotti il
sangue.
Quel terribile spettacolo fece volgere
in fuga i pochi passanti. Ma in breve
altri ne sopraggiunsero, e si addensò la folla. . .
Finocchi continuava ad agitare la testa
di sua moglie gridando:
— Eccola! Eccola!
Giunse finalmente la polizia, che non
senza stento giunse ad impossessarsi del forsennato, prima che avesse a farle
del male, col coltello che ancora brandiva.
Portato alle carceri dovettero
mettergli la camicia di forza, perché non avesse ad attentare alla propria vita.
Se non che ricercando il movente del
delitto in casa dell’uxoricida, la polizia trovò delle carte, che
rivelavano le sue aderenze coi rivoluzionari e a furia di indagini venne a
sapere della venuta del cospiratore e della sua fuga. L’istruzione ricostruì il dramma, ma la
ragione vacillante del reo, non permise di giungere a chiarire i fatti.
Luigi Finocchi venne condannato
all’estremo supplizio e in capo a cinque giorni fui chiamato ad eseguirne la
sentenza.
La voce delle condizioni mentali
infelici del giustiziando si era diffusa per ogni dove, e si parlava di un
movimento che i rivoluzionari intendevano di tentare per sottrarlo al patibolo.
Fu quindi fatto venire da Roma buon
nerbo di truppa, per evitare qualsiasi inconveniente.
La mattina del 21 luglio, Corneto
pareva militarmente occupata.
Uscendo dalle carceri, la carretta
sulla quale con me e col paziente stavano due frati incaricati di confortarlo,
benché non avesse alcuna conoscenza di sé, fu circondata dai carabinieri.
Giunti ai piedi del palco, lo tirammo
giù, e lo portammo su pei gradini di peso, perché non poteva reggersi.
— Giustiziano un morto! — gridò
una voce.
— Assassini, ripeté un’altra.
In un momento il subbuglio
diventò generale. I fischi
intronarono le orecchie. Ma il palco era
troppo ben custodito, perché si avesse a temere.
Mentre io compivo l’esecuzione, i
tamburi rullavano a più non posso. Venne eseguito qualche arresto e la calma fu
ristabilita.
Ma dovetti essere riaccompagnato alle
carceri, col mio aiutante, dalla stessa scorta, e partimmo di notte di
soppiatto, per evitar dispiaceri.
Timoteo Castroni era un giovane
studente dell’università romana, molto stimato per il suo fervido
ingegno e per la facilità con cui apriva la sua borsa, agli amici,
sempre ben fornita, poiché apparteneva a ricca famiglia della provincia.
Frequentava la buona società ed
era assai ben accolto, per la squisitezza delle sue maniere, per il brio della
sua parola, colta, fluente, simpatica e per le sue doti fisiche non comuni. Alto e slanciato della persona, col bel viso
ovale, di quel colore leggermente olivastro pallido, che esercita tanta
influenza sull’animo del bel sesso, illuminato da due grandi occhi neri morati,
pieni di sentimento, di passione e di dolcezze, con una bocca carnosa,
sensuale, ombreggiata da due baffetti neri, lucidi, fini, come la ricca
capigliatura ricciuta, era realmente un bel giovane, nel senso più
assoluto della parola. Il suo istintivo
riserbo aumentava il fascino che esercitava.
Le signore lo attribuivano ad una punta
di orgoglio suscitatogli da precoci fortune amorose, e si incapricciavano
facilmente di lui, smaniose di vincere quel disdegno che credevano ostentasse e
che realmente era ben lontano da lui.
C’era fra l’altre sue conoscenze,
conoscenze da salotto, ben inteso, una leggiadra francese, romanizzata che godeva
una fama un po’ piccante, la quale si era presa di Timoteo, perdutamente, e mal
sapeva tollerare la indifferenza da lui dimostratale.
Invece di indifferenza era timore
ch’ella gli ispirava. Innanzi a quella
superba bellezza, il giovane studente si sentiva piccino, piccino, non osava
innalzare gli sguardi fino a lei, gli pareva che fosse stata messa al mondo
solo «per miracol mostrare. » Il desiderio l’avrebbe attratto verso di lei, ma
combatteva strenuamente, negli imi suoi penetrali, siffatto desiderio,
giudicandolo, non solo temerario, ma insensato addirittura.
Quando l’immagine di quella donna gli
appariva ne’ sogni, ne risentiva uno spossamento fisico inconcepibile, e
cercava di cacciarla, come un succubo tentatore.
I sorrisi che l’avvenente creatura gli
prodigava li considerava come beffe, come scherni atroci e invece di sentirsene
incoraggiato la fuggiva.
Una sera ad un gran ballo dato ad
un’ambasciata, al quale Timoteo era stato invitato, vide entrare la
formosissima signora, in un’ardita toilette, che metteva in evidenza tutte le
grazie incomparabili della sua persona.
Vestiva in abito bianco, molto
scollato, dalla breve vita del quale sorgevano le superbe spalle divinamente
modellate, il seno torreggiante fra i finissimi merletti spumeggianti. Intorno al collo un vezzo di perle nere di
rara bellezza, che aggiungevano splendore alla tinta calda della rasata
epidermide.
La sua comparsa aveva suscitato d’ogni
intorno mormorii d’ammirazione, i più cospicui personaggi e i giovanotti
più eleganti della romana aristocrazia le si affollavano vicino, per
contendersi un sorriso, un lieve cenno del capo, un saluto.
Blanche — tale il suo nome —
trascorreva oltre con un incesso da dea, incurante quasi degli omaggi. D’un tratto scorse in fondo alla sala il giovane
studente, che la guardava esterefatto e sembrava assorto in estasi. Ella volle godere del suo trionfo e si
fermò a pochi passi da lui, conversando gaiamente con un brillante
ufficiale del suo paese natio.
Timoteo si trovava, come assediato, da
quella coppia, che attirava sopra di sé tutti gli sguardi. Non avrebbe potuto togliersi dal suo posto,
senza dimandar loro licenza e gli pareva grottesco il farlo; più
grottesco ancora rimanere, indiscreto testimonio.
La signora, mentre discorreva
coll’ufficiale lo guardava di sottecchi e sembrava compiacersi del suo
imbarazzo. Ma quando lo vide
impallidire, a segno da parer prossimo a svenire, licenziò l’ufficiale
con un piglio da regina, e mentre questi le si inchinava innanzi, si volse
rapidamente e passò il suo braccio, meraviglioso, sotto quello di
Timoteo, dicendogli:
— Portatemi a fare un giro per le sale.
Qui fa troppo caldo; si soffoca.
E lo trascinò seco in un
gabinetto, lontano, dove appena giungevano le note della musica, che metteva in
effervescenza le coppie danzanti della sala da ballo; dove la luce di una
grande carcel, soavemente moderata da rosei paralumi, dava all’ambiente
un carattere dolcemente misterioso; dove pareva che le dichiarazioni di amore e
i baci aliassero nella tepida atmosfera.
Blanche si abbandonò sopra un
piccolo divano di raso rosso, i cui riflessi rendevano fiammeggianti le sue
rotonde spalle ignude e le sue braccia anelanti d’amplessi, come il suo bel
viso, acceso dalla passione intensa e dalla brama irrefrenata di voluttà,
e trasse seco il giovane trasognato, chiedendogli, con un accento riboccante di
promesse.
— M’ami?
Timoteo volle inginocchiarsele innanzi.
Non aveva fibra che tenesse ferma: aveva
un tremito nelle labbra, nella voce, nella persona.
— Vi adoro, come una santa sull’altare.
— Fanciullo! — esclamò
l’inebbriata signora e gli chiuse la bocca colla sua.
Da quella sera lo studente
diventò il suo amante e non ebbe più vita che per lei.
Era venuta la state e dopo la bagnatura
Blanche era stata condotta dal marito ad un suo castello, che s’ergeva
sull’Appennino abruzzese. Timoteo la
seguì ed ogni notte, per una segreta porticina, della quale aveva la
chiave, penetrava nella sua camera da letto.
Il marito non tardò ad
accorgersene. Conosceva le abitudini di
Bianca. Prima di sposarla era stato suo
amante ed aveva ingannato il marito di lei, come ora Timoteo ingannava lui. Non erano scorsi che tre anni, e il primo
consorte della leggiadra signora era morto, dicevasi in un accidente di caccia.
Ma la sorte era stata aiutata dalla mano
dell’uomo. E quest’uomo era il bandito
Angelo Isola.
Risoluto a liberarsi dell’amante, come
si era liberato del primo marito, andò in traccia dell’antico suo
complice e lo rinvenne in una bettola di Rocca Secca, dove soleva riparare fra
l’una e l’altra delle sue brigantesche imprese.
Era una stanzuccia scavata si
può dire nella montagna e che s’internava sotto, come una grotta nella
medesima, divisa in due da un semplice assito. Nella parte prospiciente sulla strada stavano
gli avventori che capitavano a bere; nella parte posteriore facevano la cucina,
tenevano il vino, e si ricoveravano i più intimi amici del padrone, il
quale non è escluso che cooperasse alle frequenti grassazioni segnalate
ad ogni tratto in quei dintorni.
Non appena il marito ingannato
entrò, il bettoliere si levò il berretto, ed ossequiandolo
umilmente, gli domandò:
— In che posso servirla, signor Conte?
— C’è Angelo? — mormorò a
voce sommessa l’interpellato.
Il bettoliere, per tutta risposta, lo
accompagnò nel secondo scompartimento dell’osteria, dove il conte vide e
riconobbe tosto il suo uomo.
— Angelo, gli disse sedendogli
famigliarmente accanto, su di un barile capovolto, c’è da guadagnare un
centinaio di scudi. Ti servono?
— Pofferbacco, signor Conte, a questi
lumi di luna, per cento scudi darei la scalata al cielo.
— Si tratta di più agevole
impresa.
— Tanto meglio.
— Invece di salire, bisogna far
discendere qualcuno pel burrone del diavolo.
— Non sarà il primo! —
osservò sogghignando il bandito. Si tratta ancora di un marito?
— No, si tratta d’un amante.
— Allora si sono invertite le parti.
— Precisamente. Verso la mezzanotte, un giovinotto sui venti
anni, abbigliato da touriste, passa da quella parte, colla sua brava
borsetta ad armacollo e l’alpenstock fra’ mani.
— Glie lo faremo deporre, perché non
l’aiuti a risalire. L’ora del resto
è buona.
— No. È meglio aspettarlo al ritorno, verso
l’alba. Chi lo attende la notte, non
vedendolo comparire, potrebbe concepire qualche sospetto.
— Precauzione utilissima l’evitarlo.
— Eccoti dieci napoleoni in acconto: il
resto ad affare compiuto.
Così dicendo il conte porse al
bandito un pizzico di monete d’oro, che egli fece saltare nel cavo della mano.
— Conchiuso! — esclamò il
bandito — e il marito oltraggiato se ne andò.
All’indomani, al primo luccicar del
giorno Angelo Isola era appostato al burrone del diavolo, per dove Timoteo
doveva passare. Il tempo imperversava;
spessi lampi rosseggiavano nel cielo coperto di nubi, pioveva a diluvio. Il povero studente, inconscio dell’agguato che
lo attendeva, e tuttora ebbro di baci e di carezze, affrettava il passo, di
ritorno al villaggio, dove aveva preso stanza, per trovarsi vicino al castello
di Blanche, quando due robuste braccia lo afferrano a tergo, e sollevatolo di
peso, lo lanciano di piombo nel burrone. Il terreno ove andò a cadere, a
metà del dirupo, era molle della pioggia e Timoteo poté rialzarsi ed
aggrappandosi alle sporgenze della rupe, tentare la salita. Ma mentre stava afferrando uno sterpo,
uscì un terribile avvoltoio da uno speco, che il medesimo occultava, e
temendo un assalto al suo nido, si fece sopra di lui.
Un terribile colpo di rostro,
accompagnato da un non meno formidabile colpo d’ala, fece cadere in fondo al
dirupo, sfracellato contro i massi sporgenti, il disgraziato giovane.
Angelo Isola, che aveva assistito alla
scena, levò un sospiro di soddisfazione ed esclamò:
— Il diavolo protegge i suoi.
Il cadavere dello studente venne
trovato e raccolto all’indomani. Blanche
indovinò il truce dramma, che si era svolto in quella tempestosa
mattinata, ma non pensò a vendicare il suo amante.
Angelo Isola continuò il suo
mestiere di sicario e di bandito, e quando Dio volle la giustizia umana
potè colpirlo. Arrestato,
processato e condannato, gli fu da me reciso il capo, a Subiaco l’11 giugno
1864.
Con quest’ultima esecuzione Giovanni
Battista Bugatti fu collocato a riposo, su proposta di Monsignor Fiscale il
quale nella sua relazione lo qualifica per l’illustre Bugatti. Il Consiglio de’ Ministri avanzò la
proposta a Sua Santità.
Pio IX l’approvò il 28 febbraio
dello stesso anno concedendogli la pensione mensile di scudi 30 «in vista della
di lui senile età e dei lunghissimi servigi» con decorrenza dal primo
novembre, nel qual giorno gli succede Vincenzo Balducci, suo aiutante fin dal
1850. Le esecuzioni di Balducci furono
poche (la più famosa quella avvenuta il 24 novembre 1868 nella quale
furono giustiziati i patrioti Monti e Tognetti alla presenza anche di Mastro
Titta) perché sopraggiunse la Breccia di Porta Pia ad interrompere la sua carriera.
A Giovanni Battista Bugatti non fu dato
di assistere a quell’avvenimento in quanto quindici mesi e due giorni prima, ed
esattamente il 18 giugno 1869, egli moriva. Il suo decesso è registrato a pagina 89
del libro IX della Parrocchia di S. Maria Traspontina.
Appendice
La solitudine in cui Mastro Titta era
costretto a vivere lo annoiava alquanto e tendeva a distruggere la
giovialità del suo carattere, e la sua espansività.
Egli anelava di avere un amico, col
quale potere liberamente intrattenersi e conversare, parlare del presente e del
passato, ritrarre il conforto di mutui servigi e di scambievoli cortesie.
Frequentando le bettole egli aveva
avuto più volte l’occasione di stringere delle relazioni, con persone
che ignoravano l’esser suo. Ma
ciò non gli bastava. Egli sapeva
benissimo, che non appena risapevano il suo nome e il suo mestiere,
rallentavano e man mano cessavano d’aver rapporti con lui.
Un giorno, mentre se ne stava cogitabondo
nel giardino di una osteria alla Lungara guardando il corso del vecchio fiume e
pareva chiedesse alle bionde sue acque i segreti della storia, sentì
toccarsi da una mano sulla spalla e una voce toneggiante che gli diceva:
— Mastro Titta, che nuove abbiamo?
È un bel po’ che non si lavora. . . Ci annoiamo, non è vero? C’è ben
di che.
Il Bugatti si volse al verboso
interlocutore, sorpreso dalla famigliarità benevola che usava con lui, e
gli domandò a sua volta:
— Mi conoscete dunque?
— Perfettamente. Vi ho veduto lavorare e vi so dire che a buon
dritto vi compete il titolo di maestro. Ma che andiamo chiacchierando a bocca
asciutta? Ho l’ugola secca. Mastro Titta
vogliamo «farcene» una foglietta insieme?
— Benvolentieri, rispose il boia,
traendo dal suo petto un sospiro di soddisfazione.
— Vedo che vi fa piacere e ne son lieto.
Eh! Toto, portacene un boccale di
frascatano. — È limpido, dolce e
color del sole che ha scaldato i grappoli con cui è fatto —
continuò poi, tornando a volgersi a Mastro Titta.
— Amate molto il vino, per quanto mi
pare? — gli disse sorridendo il Bugatti.
— Credo bene! Amore e vino, il vecchio
Lieo e le giovani Camene confortavano i tardi giorni di Anacreonte.
Questo linguaggio, poco comprensibile
per lui, sorprendeva non poco Mastro Titta e si volse ad osservare il parlatore.
Pareva un operaio, poiché aveva le
maniche della camicia rimboccate al disopra de’ gomiti, e portava dinanzi un
grembiale turchino, sollevato a metà, per un de’ lembi infisso nella
cintura. Lo sparato della camicia aperta
lasciava scorgere l’ampio petto velloso, donde usciva la maschia voce che
abbiamo notato.
— Vi sorprende il mio linguaggio?
— Ve lo confesso. Parlate come un dottore.
— E vesto come un artiere: completo il
vostro pensiero?
— Precisamente.
— Gli è che sono un po’ poeta?
Vi sorprende?
— Non vi offendo rispondendo
affermativamente?
— Manco per sogno.
— Beviamoci sopra.
Il gigante tracannò due o tre
bicchieri del frascatano, recato dal garzone dell’oste, dopo aver brindato col
carnefice, il quale era rimasto al primo. Poi asciugatasi la bocca col dorso della mano
disse:
— Mastro Titta, io vi offro la mia
amicizia e vi chiedo la vostra: sono Giuseppe Marocco d’Imola, poeta e
tornitore.
Il boia si ricordò allora
d’averne udito il nome, pronunziato con quella riverenza che dovevano ispirare
il suo carattere franco ed aperto e il suo braccio terribile.
— Ben felice d’avervi incontrato —
disse il Bugatti. Per quel che valga
potete contare su di me, se non vi desta ripugnanza il mio mestiere.
— Non ho pregiudizi, io. So che siete un galantuomo. E questo mi basta. Sono i birbanti che hanno paura della
giustizia, de’ suoi ministri e de’ suoi esecutori.
Si strinsero le destre, stettero a
lungo a chiacchierare in quel giardino, e si lasciarono promettendo di rivedersi
ogni giorno all’osteria.
— La mia casa vi è aperta ad
ogni ora — concluse il Marocco — vi troverete sempre un cuore leale e un fiasco
di Vin Santo d’Imola, che non ha paura del nettare che bevevano gli antichi
iddii.
Da quel giorno la relazione fra il Bugatti
ed il Marocco divenne sempre più intima e durò perenne. Il tornitore-poeta diventò il
consigliere ed il segretario del carnefice, al quale infuse il desiderio di
conoscere la storia dell’arte sua e di lasciare alla posterità quella
delle «Operazioni» che andava eseguendo.
Mastro Titta, colla scorta del Marocco
iniziò i suoi studi storici sulle esecuzioni di giustizia in Roma e
potè così erudirsi nella materia, che doveva fornirgli argomento
delle sue future elucubrazioni.
Non potendo seguirlo per filo e per
segno nelle sue indagini, noi ne riferiremo sommariamente i risultati, come ce
lo impone il compito che ci siamo prefissi ponendo mano a quest’opera, di
metter cioè in chiara luce, come sia stata in quei tempi efferata e
terribile la così detta giustizia dei Papi, valendoci all’uopo delle
sapienti note del non mai abbastanza encomiato Ademollo.
Nel medio evo campo di giustizia era
sempre la Rupe Tarpea. Presso un leone
di basalto, i delinquenti udivano la lettura della sentenza che li condannava,
e quanto ai malfattori di bassa condizione solevasi porli a cavalcione di quel
leone con una mitra in testa e con la faccia impiastricciata di miele. Non si dice qual fosse il modo dello spaccio
finale, ma è lecito credere la decapitazione almeno per i condannati,
colpevoli o no, di condizione non plebea. Si trova infatti fino al 1354 un esempio
illustre. Nel dì 29 agosto di
quell’anno, fra’ Monreale veniva decapitato sulla piattaforma del Campidoglio
nel luogo ove oggi è la statua di Marco Aurelio, ma la decapitazione si
eseguiva con lo spadone del carnefice al quale il chirurgo del gran venturiero
indicò la giuntura dove doveva colpire. La testa che fra’ Monreale, lieto di morire a
quel modo poiché si aspettava di peggio, aveva adagiata sul ceppo con la
miglior grazia possibile, sbalzò al primo colpo; fortuna che non toccava
a tutti.
Nel 1488 venne designato per luogo di
giustizia un recinto davanti al Ponte S. Angelo, nelle cui adiacenze era il vicolo
denominato del Boja. Anche Campo
di Fiore serviva all’oggetto in casi straordinari, specie di supplizi preceduti
da gogna, onde prendeva nome, in prossimità della piazza, la via
della Berlina oggi trasformata in via del Paradiso. Ma tutti i luoghi erano buoni per ammazzare
gente con legalità. Nel 27 maggio
Intorno al supplizio di Carafa, uno de’
nipoti di Paolo IV, da questi prima in ogni modo favorito scandalosamente, poi
privato dei benefici impartiti e condannato da Pio IV (Medici) suo acerrimo
nemico, riproduciamo la seguente importantissima relazione di Francesco
Thonnina al Duca di Mantova, suo signore, «Data da Roma, li viijs de Marzo
1559» pescata nell’Archivio Gonzaga, del chiarissimo cav. Antonio Bartolotti.
«È finalmente finita quella
tragedia carafesca mercore alle cinque hore di notte ando il baricello
Gasparino (come egli stesso ha narrato di bocca), primieramente al Cardinale
Caraffa quale dormeua supino et benché già gli era stato nuntiata la
morte, come per la precedente mia scrissi a V. E. non di meno non poteva pur crederlo et
così entrato in camera gli disse quello che era venuto a fare il che era
per far esseguire quel tanto ch’era in mente di N. S. in
farlo morire. Al che ei dice che detto
Cardinale rispose per dieci volte «Io morire! Adunque il Papa vuole che io
muoia?». E finalmente chiarito che
questa era l’ultima hora el che se non attendeva a confessarsi et accomodare li
casi suoi fra quel poco tempo che ad esso bargello era stato statuito per far
l’esercitio, né egli senz’altro aspettare haueria fatto eseguire la commissione
sua, ancorché più volte replicasse: «Io che non ho confessato cosa
alcuna morire!» si dispose poi a confessarsi; il che fatto chiamò tutti
gli astanti et li disse: siate testimoni come io perdono al Papa, al Re di
Spagna et al Governatore et Fiscale et altri nemici miei; poi postolo a sedere
sopra una scragna gli pose il carnefice il capestro al collo et dopo hauerlo
fatto molto stentare lo finì pur all’ultimo di strangolarlo. Andorno poi al Duca di Palliano qual
condussero in Torre di Nona et nel descender dalla prigione di Castel
Sant’Angelo dimandò dove lo conduceuano, et allhora il Bargello non gli
volse dire che lo conducessero a far morire, ma solo gli disse che lo conduceua
in Torre di Nona et più altro non sapea sino a quel hora, al ché detto
Duca rispose che ben sapea che lo conduceuano alla morte, che Christo glielo
aueua rivelato et che di gratia gli lasciassero scriuere una lettera al figlio;
così ridottosi nella Camera doue sta prigione con sigurtà di non
far fuga Gioanni da Nepi, interessato anch’egli in questo negotio esso Duca
dettò due lettere l’una al figlio l’altra alla sorella, le quali sono
ueramente christiane. Poi fu condotto a
Torre di Nona doue a lui et al Conte di Aliffe et Don Leonardo di Cardine fu
troncata la testa. Morì il Duca
dispotissimo eccetto che nell’istesso voler porre il capo sotto il ceppo o
tagliuola cominciò a dire aiutatemi de gratia tentatione obrenuntio
Satano et finalmente fu ispedito. Il
Conte di Aliffe si dice che ragionaua anch’egli alcune parole christiane pure
era fuori di sé — Don Leonardo di Cardine morì finalmente disposto. Delli corpi loro seguì questo: il
cardinale fu portato nella chiesa Transpertina, il Duca, et il Conte d’Aliffe
et Don Leonardo, furono portati lo mattino per tempo in Ponte. Il Duca in un cadeletto piccolo ed assai
miserabile, oue giaceua con una ueste di pelle intorno con due torse rosse per
ciascun capo il Conte d’Aliffe et Don Leonardo erano coricati in terra su due
miserabili tappeti lunghi due brazzi o circa et poi tutti infangiati et
calpestati dal numero delle genti che andauano a vedere. Il Cardinale è stato portato poi a
seppellire alla Minerva et si dice anco il Duca. Gli altri dui dicono che li parenti trattino
di condurgli a Napoli».
Dai Processi Verbali redatti
dalla Compagnia di S. Giovanni
Decollato, che il governo opportunamente, ha con savio decreto avocati a sé,
togliamo la narrazione della esecuzione di questa infelice.
«Martedì notte venendo il
mercoledì, a dì 3 d’Agosto 1568, alle sei ore di notte in Roma fu
menata nel luogo solito della Compagnia della Misericordia in Torre di Nona per
esser fatta morire per via di giustizia madonna Caterina dell’Anguillara, la
quale resasi in colpa dei sua peccati e confessatasi disse perdonare a tutti
quelli che l’avessero offesa siccome ancora desidera che sia perdonato a lei e
volendo fare un codicello al testamento ultimamente da lei fatto, disse
restando fermo il detto testamento e le cose contenute in esso, lascionne scudi
20 ai poveri vergognosi, e ducati dieci alla Compagnia di San Giuseppe sotto
Campidoglio, e dichiarò ancora che il legato dei cento cinquanta ducati
l’anno, lasciato da lei nel prefato testamento a messer Bandino Piccolomini
gentiluomo sanese suo ultimo marito, s’intenda libero, e che non abbia a concorrere
al pagamento di nessun lascito: ma che se gli debbano pagare liberissimamente
senza farlo stentare o litigare, ed in che luogo vorrà lui: e questo
tanto volendo stare e vivere insieme, con li suoi figliuoli, quanto no; perché
questo rimette nel suo libero arbitrio. E non volendo stare con detti suoi figliuoli,
gli lascia letto, padiglione, lenzuoli, camicie, sciugatoi, e pannamenti lini
ad arbitrio suo, e che questo arbitrio s’intenda tanto circa alla
qualità quanto circa alla quantità; cioè che di tutte queste
cose possa pigliare quella quantità che ad esso parerà, e di che
sorta vorrà. Grava ancora la
signora sua madre, come tutrice dei suoi figliuoli, che le piaccia fare tutti i
perdoni che corrono in un anno, e che se le debbano di più far dire le
messe per tutti gli altari che cavano le anime del purgatorio, e subito le
messe di San Gregorio con le cento messe appresso. E questo disse volere che sia il suo ultimo
conticello e volontà, la quale vuole con voglia in ogni miglior modo.
«Presenti messer Tommaso Aldobrandini,
messer Francesco Scanfartoni, messer Antonio Cocchi, Bastiano Caccini, Monte,
Zaffei ed io Vincenzo Rampini provveditore.
«Messer Jacopo Margani, il quale
essendosi reso in colpa dei suoi peccati e fatta la debita confessione pregando
nostro Signore che gli die fortezza nell’estremo punto della morte, disse
perdonare a tutti quelli che l’avessero offeso; come ancora desiderava che
fosse perdonato a lui. E non volendo
morire senza fare menzione di alcune sue cose disse non avere da dire cosa alcuna
e fece fine.
«La mattina all’ora solita si partirono
processionalmente di Torre di Nona e andarono in Ponte, dove furono decapitati.
Nostro Signore Iddio sia stato quello
gli abbia dato luogo di riposo.
«La sera all’ora solita si portò
da Santo Celso alla Compagnia di detto messer Iacopo ed a ore XXIV fu portato
in Araceli dove fu sotterrato.
A dì 12 d’Agosto.
«Si vendè i panni di messer
Iacopo Margani e se ne cavò giuli ventotto e si consegnarono a messer
Francesco da Carmignano nostro camerlengo. E adì detto si ebbe dalle rede di
madonna Caterina delli Merletti ducati quattro».
Abbiamo accennato alla presenza, nella
giustizia dei papi, delle confraternite e alle grazie che parecchie di esse
avevano diritto di chiedere, nelle occorrenze di date festività, o
solennità speciali, per concessione dei vari Sommi Pontefici. Parrà strano questa abdicazione del
più grato e più prezioso attributo della sovranità, a chi
consideri superficialmente la cosa. Ma a
chi voglia approfondire il concetto che la inspirava, troverà che essa
era molto accorta ed opportuna, come quella che circondava le confraternite di
un prestigio straordinario, le rendeva non solo rispettate, ma amate dal popolo
e colla simpatia faceva convergere sopra di loro cospicui benefici. Valgono a chiarirlo in parte gli «Ordini con
li quali deve esser governata la Venerabile Confraternita della Santissima
Madonna del Suffragio» che qui ripetiamo: «Della liberazione del Prigione. Ord. XLI. Manum suam aperuit inopi, et palmas suas
extendit ad pauperem Salomon. Cap. XXXI. In Carcere eram, & visitastis me. Mat. Cap. XXV. »
* * *
Fra l’altre gratie che la nostra
Archiconfraternita ha ottenuto da nostro Signore Papa Clemente VIII è
che ha concesso privilegio in forma di breve che possa, & abbia
facoltà ogni anno nel giorno del Venerdì Santo overo della
Commemoratione de’ morti, deliberare un prigione condannato a morte, come
appare in esso breve, & però conviene sopra de ciò fare un
ordine particolare di quanto intorno a tal materia si doverà osservare
& insomma faranno le cose sequenti.
Che se della Compagnia vi sarà
alcun fratello ch’abbia bisogno d’esser liberato per questa strada, si
preferisca ad ogni estraneo, & solo li Santissimi Primicerio, &
Guardiani senz’esplorar la volontà della congregatione generale, o
segreta, haveranno da deliberar sopra de ciò.
Se nella Compagnia ve ne fusse
più d’uno in simil necessità, si proponghino il primo da
chiederlo in grazia Nostro Signore, & in caso che non ne fusse concesso, si
facc’istanza per il secondo, & poi sussequentemente per il terzo &
quarto, di maniera che qual di essi ebbe manco voti di congregatione, sia anco
posteriore in esser dimandato.
Questa gratia della liberazione del
prigione si doverà domandar per uno delli doi giorni suddetti, &
quando per quelli non vi fusse occasione, dimandarlo per il giorno della
Natività della Gloriosa Vergine nostr’Advocata, una delle feste
principali della nostra Archiconfraternita, overo in altre festività,
acciocché tal gratia ogni anno sia adempita, & non resta vacua per
benefitio di tal prigione condennato, & honore della nostra
Archiconfraternita, & per quest’effetto il Camerlengo deverà
ricordare un mese avanti al SS. Primicerio, & Guardiani questo negozio.
Quest’opera pia se facci per mera
carità, e non per premio temporale, acciocché sia più grata a
Iddio. Et perché li SS. Primicerio, & Guardiani conoscono li
bisogni della Compagnia; dopo fatta stia in arbitrio loro di accettare o
dimandare qualche elemosina dal prigione liberato, & questo sin tanto che
piacerà a sua Divina Maestà di accrescerla in modo, che non habbi
bisogno di tal subvenimento. Ma s’el
prigione sarà de’ nostri fratelli non doverà essere astretto, né
ricercato pagare cosa alcuna, sol che la spesa della cera, o altra che per tal
effetto si farà, nel resto si lasci al suo beneplacito se vorrà
dare, o no, elemosina alcuna alla Compagnia.
Li Vesperi, & Messe che in tal
solennità si diranno si cantino solo di Canto fermo che si faranno per
il medesimo effetto, si fuga parimente ogni fausto, & ostentatione
superflua, & particolarmente de musica, ma con molta devotione, &
quiete li fratelli anderanno dicendo il Te Deum laudamus; li salmi Benedictus
Dominus Israel, & Magnificat, alla piana, & all’uso Cappuccino che
sarà di maggior edificatione nostra, & de gl’altri il tutto a laude,
et gloria de Dio, & della sua Santissima Madre, pregandola che siccome nel
giorno della sua santissima Natività la nostra Compagnia la prima volta
uscì fuori, & in uno medesimo, si è ottenuto la tal prima
gratia della liberatione del pregione, così si degni esserci sempre
propitia, impetrando dal suo Santissimo figliuolo, a i vivi libertà di
spirito, & a morti, quiete perpetua.
Toccava a Clemente XI della casa Albani
il triste vanto di infierire contro i giornalisti, mandando a morte nel 1708
l’abate A. Rivarola e, nel 1720, l’abate
Volpini.
Accusato il Rivarola, d’aver tentato di
lacerare la reputazione di papa Clemente XI con «il dente ferino delle sue
furiose mordacità» e d’aver avuto rapporto con eretici, Cavalieri
Ugonotti, Inglesi ed Olandesi e d’esser stato amico di Luterani, fu d’ordine di
monsignor Goveru fatto carcerare, e perquisita la sua casa, dove sequestraronsi
le sue carte.
Dopo essere stato esaminato parecchie
volte si decise di lasciarlo in riposo — dice la relazione. Ma vedendosi che egli andava deperendo e che
la sua fine si approssimava, perché non avesse a sfuggire alla pena, fu eretto
sulla Piazza di Ponte S. Angelo un palco
per farlo decapitare. Recatisi i
Fratelli della Compagnia di San Giovanni Decollato per prepararlo al supplizio,
lo trovarono estatico e quasi privo di sensi, talché temevano avesse a spirare
fra le loro braccia. Perciò fu
accelerata la messa e interrogato intorno a tutti i suoi bisogni dell’anima —
dice la relazione — e animato alla morte e a mostrar coraggio contro le
tentazioni del comune nemico. Narrate le
sue colpe chiarendosene pentito, e baciando un piccolo crocifisso prestatogli
mentre trovavasi nelle carceri, protestò, lagrimando, di voler morire da
vero penitente. Fu quindi comunicato per
viatico e sollecitato dai confrati perché il polso gli andava mancando, «e alle
volte — continua testualmente la relazione — come insensato, non rispondeva
alle interrogazioni dei Confrati, procedendo ciò dal non aver gustato
alcun cibo per un giorno e mezzo, fu ristorato per forza».
Non potendo l’infelice reggersi in
piedi e temendo avesse a morire naturalmente fu duopo far venire la barella e
una seggiola per portarlo sul palco — «già reso semivivo e che la morte
gli andava chiudendo le labbra, non avendo altro spirito che quello di un
flebile lamento». I confortatori non
cessavano di assisterlo suggerendogli ora uno, ora un altro atto di sommessione
e preghiera, che egli quasi automaticamente eseguiva, mentre s’avvicinava al
patibolo.
«Si era il popolo così affollato
e stretto insieme quando spuntò sulla piazza che, per vederlo, molti
messero in compromessa la loro vita perché stringendosi il popolo accorso per
vederlo morire, sicché i birri fecero tutta la loro forza per tenere indietro
le persone, che si erano spinte verso il palco e simile faceva il bargello di
Roma che era a cavallo in mezzo alla calca. »
«Il Maestro di giustizia si trovava per
essere poco pratico e di poco spirito confuso che non sapeva come maneggiare il
paziente, che si trovava quasi spirante, onde si era malamente imbrogliato e
non sapeva accomodarlo al ceppo, e benché avesse l’aiutante gli riusciva molto
difficile vedendosi e scorgendosi da tutto la sua inesperienza; onde dopo
averle messa e più volte aggiustata la testa, quale non era a giusto
filo della mannaia la quale gli tagliò un pezzo di mento: ma per
rimediare presto prese il mannarino (l’accetta) in mano e gli tagliò con
questo il resto del collo che stava attaccato ad un pezzo di ganascia; onde il
popolo fece sì gran movimento e si strinse tanto sotto al palco per
lacerare il boia; ma furono presto gli esecutori di giustizia a rimediare a
questo tumulto, che per frenare l’ardire del popolo e lo scompiglio fu
necessario di mettere a tiro le armi come se si dovessero adoperare contro quei
tumultuanti. Allora fu che il popolo
dando addietro furiosamente per timore delle archibugiate, fecero cadere molte
persone che furono calpestate, e siccome il bargello si trovava ivi presente
per dar terrore di sé trovandosi sommerso nella mischia e non potendo uscire
restando sequestrato, cadutogli il ferraiolo ed il cappello fu lacerato dal
popolo e li birri con l’archibugio alla mano proseguivano a far stare indietro
il popolo dal palco.
«Destò però la morte del
Rivarola gran compassione e per lo strazio ricevuto dal carnefice e per essere
stato veduto così malridotto portare sopra il palco, un uomo quasi
morto, perché questa giustizia, conforme dissero alcuni, doveva essere fatta
due o tre giorni prima. Ma il carnefice
fu carcerato e pagò la pena della sua inesperienza. Molti degli astanti presero la spada ed il
cappello e chi il ferraiolo ed alcuni sino la parrucca, quali cose furono
calpestate e ritrovate per terra sulla piazza di Ponte; quietato il popolo
essendo l’ora tarda, fu aggiustato il giustiziato in un cataletto, e come il
solito portato processionalmente al luogo solito di San Giovanni Decollato,
seguitato il cadavere da molta gente per conseguire l’indulgenza del Santissimo
Pontefice».
Santissimo davvero! Ma iniquo al pari
della sua giustizia.
Non si può figurare lo sdegno di
Mastro Titta nell’apprendere dalla storia, i particolari orrendi di questa
esecuzione, che parrebbe incredibile se non fossero stati consegnati nella
relazione ufficiale, dalla quale abbiamo voluto riprodurla, senza aggiungervi,
né frange, né chiose, né commenti, essendo di per sé stessa abbastanza
eloquente.
Giovanni Battista Bugatti fremeva di
giustissimo sdegno e di legittimo orgoglio, ad un tempo, ricordando la propria
perizia ed abilità.
Eppure non fu soltanto il supplizio del
Rivarola che riuscì così straziante. Quando un condannato, dice l’Ademollo, moriva
in carcere, la sentenza eseguivasi sul cadavere, ma, ad evitare quanto fosse
possibile questo caso pei condannati in procinto di morte naturale, si
affrettava il supplizio, e si mandavano al patibolo anche moribondi, facendoli
portare in una sedia d’appoggio con stanghe da uomini mascherati e si tiravano
sulle forche con girelle. Gli uomini
mascherati non erano gente col volto coperto di una semplice maschera, ma
vestiti proprio da arlecchini, pulcinelli, ecc. e aiutavano in quel costume il boia a compire
le sue opere.
L’abate Placido Eustacchio Ghezzi, che
nacque nel primo ventennio della seconda metà del secolo XVII — la data
non è precisata — cessò di vivere nel 1740, appartenne
all’Arciconfraternita — tuttora sussistente nella chiesa detta di Santa Maria
degli Agonizzanti a piazza Pasquino — lasciò scritto un Diario
autografo, posseduto ora dalla Biblioteca della Chiesa di Sant’Agostino nel
quale sono menzionate e in parte descritte le 210 esecuzioni che ebbero luogo
dal 1674 al 1739. Questo Diario è
intitolato precisamente così:
Libro di tutte le Giustizie eseguite in
Roma dall’anno 1674
à tutto l’anno 1739 con di
più tutto quello che è su
cesso di notabile nelli giorni
che sono state eseguite; registrate
dall’Abbte.
Placido Eustachio Ghezzi, Confratello
della Venerabile Arciconfraternita
della SS. Nati
vità di N. S. Gesù Cristo degli Agonizzanti
di Roma
Principiando dal tempo di Papa Clemente
X dal quale ottenne la sudd. Arciconfraternita
il Breve di esporre il SS. ogni volta
che si eseguiva le predette giustizie
con indulgenza.
Qui giova avvertire che i condannati,
recandosi al patibolo, passavano di consueto innanzi alla Chiesa degli
Agonizzanti e soffermavansi alquanto per adorare il SS. Sacramento. Alla porta della Chiesa si affiggeva una
tabella col nome del condannato e l’indicazione del delitto. Appena finita l’esecuzione si spegnevano i
lumi, si riponeva il Sacramento, e toglievasi la tabella. Per il centro di Roma era questo il segnale
che tutto era fatto. Quando
l’esposizione si prolungava, era indizio che il condannato non voleva acconciarsi
alla morte colla confessione.
Da questo libro del Gherzi togliamo i
particolari di un’altra esecuzione, quella di Antonio Nicola d’Angelo, detto
Sciarretta, che fu portato semiestinto sulla forca e nondimeno «stentò
molto a morire».
Eccoli:
«Sabato, 18 marzo 1689. Antonio Nicola d’Angelo, detto Sciarretta,
della Villa Palazzati, Diocesi di San Severino, impiccato di mattina a Ponte
Sant’Angelo per Grassatore, giovane di 25 anni, e particolarmente per essere
stato in casa del suo curato, per assassinarlo con alcuni altri compagni, quali
furono impiccati, e questo si rifugiò in Chiesa, ma perché non
capitò in mano della Corte, fu condannato in contumacia; s’intese
però dal Sant’Offizio, che quest’Antonio haveva proferito più
volte derisioni contro la Nostra Santa Fede; lo fece prendere in Chiesa, e lo
ritenne per tre mesi carcerato; nel fine dei quali lo condannò alla
galera per cinq’Anni. In questo mentre
saputosi dalla Consulta essere questo catturato, lo domandò al S. Offizio, il quale, terminato il suo processo,
lo consegnò; fattasi pertanto la ricognizione delle persone, fu
condannato alla forca; doveva seguire la giustizia tre giorni prima, ma perché
nella giornata destinata N. S. volse per Concistoro per il Decanato del Sacro
Collegio; fu perciò trasportata a questa giornata. Alle 4 ore della notte gli fu portata la
citazione ad mortem, al quale avviso diede un calcio all’anguinaia al
Cursore, quale fu miracolo che non morisse, et al Capitano delle Carceri con le
manette diede in testa, e si avventò anche verso li Confortatori, quali
se non scappavano pativano qualche disastro; ordinorno pertanto che fosse
meglio ligato sicché gli furno messi li Ceppi; e mentre si faceva questa
operazione portò via con un morsico una polpa di braccio ad uno sbirro. Diceva che erano matti, che Lui non doveva
morire, perché era stato preso in Chiesa, che non era esaminato, e che non
doveva avere altra pena, che quella assegnatagli dal Sant’Offizio; al qual
effetto fu mandato a chiamare anche il P. Commissario per capacitarlo. Quando li Confortatori gli parlavano di
conversione; gli rispondeva levatemi dal culo, e quando gli dicevano che
Christo era morto per noi, per redimerci da’ peccati, rispondeva: Chi gli l’ha
comandato? e diceva che S. Agostino
haveva lasciato scritto, che di cento pazienti non se ne salvava uno, che
però lo lasciassero stare che lui havrebbe lasciato il corpo al Boia e
l’anima al Diavolo, per il che, vedutolo così ostinato, furno fatti
venire altri Confortatori più provetti, ma tutto invano; fu chiamato il
carnefice per vedere se si atterriva con fargli mettere la corda al collo, e li
carboni alle mani, ma tutto invano, anzi, si stimò bene mettergli due
manette, perché le prime le spezzò, furono mandati a chiamare li
Religiosi, e particolarmente il P. Galluzzi Gesuita, al quale con l’aiuto del
Signore riuscì convertirlo verso le ore 16, intese la sua Messa e si
communicò. Finalmente, prolongata
più di due ore la giustizia, uscì dalle Carceri ad ora di
mezzogiorno, e fu strascinato sopra la carretta, perché si era indebolito, et
è da considerarsi, che appena haveva spuntata la barba, e la mattina
l’haveva più longa di un dito. Andiede al patibolo con li P. P. Gesuiti predetti a piedi avanti la carretta, e
dietro andavano due mascherati con maschere di traccagnino, et abito da
pulcinella inferraiolati con girelle e corde sotto per tirarlo sopra il
patibolo, se bisognava.
Arrivato alla Cappelletta si
riconciliò, et arrivato alla scala, non potendola salire, gli aiutanti
gli mettevano i piedi nelli piroli, et il Boia lo tirava di sopra, essendo
quasi morto, ma gettato dalla schala, stentò infinitamente a morire:
quasi che il Popolo cominciava a tumultuare. Non passò avanti la nostra Chiesa,
perché l’ora era tarda verso le 18, ma dalla medesima gli furono fatti li
soliti suffraggij. Si seppe poi haver
commesso il suddetto 15 omicidij».
Il giorno 3 febbraio 1720, essendo di
sabato ed entrando il Carnevale, la giustizia di Sua Santità Clemente XI
per offrire al popolo romano un po’ di svago pensò bene di mandar a
morte l’abate don Gaetano Volpini, altro degli invisi fogliettanti, precursori
degli odierni giornalisti.
Era il Volpini di Piperno, figlio di un
macellaio, nipote d’un canonico e fratello d’un giustiziato. Aveva soli ventidue anni e sette mesi ed era
dotato di molta vivacità e spirito arguto. Venuto in Roma a studiare dall’abate Paracina,
si trovò solo col conte di Sisindolf, gran cancelliere dell’Imperatore,
col quale si legò in amicizia. Partendosi questo da Roma incaricò il
Volpini di inviargli notizie della città e questi segnando l’impulso
naturale del carattere inclinevole alla satira, approfittò di questa
contingenza per far delle critiche acerbe e pungenti contro la corte papale e
giunse per fino a scrivere de’ brevi apocrifi.
Un giorno mentre leggevansi alla Corte
imperiale i foglietti del Volpini, capitò il sovrano in persona e
domandò la cagione della ilarità, in preda alla quale trovavansi
gli astanti. Risaputala volle egli
stesso leggere i foglietti e se ne mostrò inorridito. Mandò quindi tosto a chiamare il
Nunzio, monsignor Spinola, al quale comunicò gli scritti del Volpini. Di più fece ordinare al suo
ambasciatore, Cardinale di Sirotembach, di non accordare più al satirico
fogliettante la sua protezione e di lasciarlo fare imprigionare se così
piacesse alla pontificia autorità.
Il Nunzio non appena avuto il piego
degli scritti del Volpini li mandò al Cardinale Paolucci, Segretario di
Stato, il quale li rese tosto ostensibili al pontefice. Presane cognizione papa Clemente XI
mandò a chiamare il Fiorelli Luogotenente Criminale dell’Auditore
Camerale e si stabilì la cattura del Volpini, la quale ebbe luogo in una
farmacia prossima agli Agonizzanti.
Nel contempo fu arrestato il maestro di
scuola di faccia all’Apollinare e un altro prete che pur si trovava e coi quali
il Volpini coabitava. Altri furono
parimenti incarcerati, ma poi rilasciati tutti, tranne il figlio del farmacista
a Santa Maria in Campo Carleo, il quale copiava i foglietti del Volpini e li
andava leggendo su tutti i pubblici ritrovi di Roma, aggiungendovi de’ fronzoli
per proprio conto. Operò questa
importantissima cattura il bargello del Vicario, Silvestrucci, il quale lo
condusse in Campidoglio.
Incoato il processo fu deputata a
discutere la causa una congregazione speciale, dalla quale fu condannato. La sentenza avrebbe dovuto eseguirsi subito,
ma la mancanza d’un carnefice, la fece procrastinare fino all’epoca suindicata.
Quando nella notte gliene diedero
partecipazione rispose:
— Me l’aspettavo.
E quando il guardiano lo tolse dalla
segreta dicendogli che gli era stata commutata la pena col perpetuo esilio,
sclamò:
— Anche questa burla, dopo tanti
strazi!
Fino alle 22 ore non volle saperne da
confessarsi e rifiutò il Cappellano della Misericordia. Poi domandò del padre Angelo
Carmelitano di San Martino. Gli
risposero ch’era morto. Il Volpini si
mostrò dispiacentissimo e chiese il gesuita padre Galluzzi, il quale
accorse prontamente e lo confessò. Si lagnò con lui d’essere stato
tradito, e che si fossero intercettate le lettere che scrivevano l’Imperatore e
il conte Sisindolf per la sua liberazione.
Prima d’uscir dalle carceri volle
essere vestito nobilmente da Abate col cappello alzato e ciò gli fu
benignamente concesso!
Scese a piedi dal Campidoglio fino al
piano dal lato del palazzo Caffarelli, salutando per via tutti quelli che
incontrava, e altrettanto fece quando fu salito sulla carretta. Giunto al patibolo volle gli fosse levata la
benda, per vedere come doveva morire e ottenutolo, dopo aver ben guardato,
disse:
— Questo è un supplizio da bovi
non da esseri umani. Gli eretici
condannati dal Santo Uffizio per aver detto male di Dio, dopo aver fatto
onorevole ammenda con pubblica abiura, vengono assolti, io per aver detto male
del papa dovrò morire.
Fu necessario chiamare di nuovo il
padre Galluzzi per persuaderlo a rassegnarsi al suo destino. Questo gl’impartì l’assoluzione; quando
il carnefice afferratolo per gli scarsi capelli che aveva al disotto della
parrucca lo trascinò per forza sotto il patibolo, l’aiutante gli pose un
ginocchio sulla schiena e caduta la testa la mostrò al popolo,
affollato, ad onta del tempo cattivo, perché il Volpini era uomo assai noto.
Fu compassionato da tutti, dice il
Ghezzi, perché si vide morire così giovane e così generosamente.
E il suo sangue, aggiungiamo noi, lorda
d’un onta indelebile un’altra pagina della trista storia dei papi, e quella in
ispecie di Clemente XI.
Nel 1727 fu giustiziato per primo,
cioè mazzolato e squartato il giorno di sabato 18 gennaio Antonio Maria
Valentino che aveva avuto una vita burrascosissima. Nato ebreo, voleva farsi turco e per ottenerlo
gli convenne avere prima il battesimo. Stanco di stare fra i Turchi tornò a
Roma, domandò ed ottenne di essere riammesso nel grembo della Chiesa
cattolica e gli fu concesso. Il papa
stesso lo battezzò con grande solennità insieme ad altri, la
Pentecoste, 29 maggio del 1724 e gli diedero un posto di soldato a Ponte Sisto.
Stando sotto le armi si innamorò
di una meretrice benestante che abitava a piazza del Fico e gli corrispondeva
cinque scudi al mese. Una notte, mentre
giaceva con lui, la povera donna gli disse che era stanca di menar quella vita,
e voleva abbandonarlo per chiudersi in un convento ed espiare i suoi falli. Il Valentino dolendogli che tutta la roba
ch’essa possedeva dovesse andar perduta, si alzò mentre dormiva e tratto
dalle tasche un coltello la scannò, e portata via ogni sua cosa,
andò a nasconderla fra le macerie, adunate di fronte al palazzo Monte
Cavallo: il coltello lo spezzò e lo buttò nella cantina di uno
stagnaro di que’ pressi. Fu accusato
dell’assassinio uno sbirro che abitava a piazza del Fico, nella casa stessa
della meretrice, ma questi fece voto di un cuore d’argento alla Vergine, se la
sua innocenza fosse riconosciuta e fu esaudito. Arrestato il Valentino e sottoposto alla
tortura, dopo pochi tratti di corda confessò tutto e fu condannato. Non volle saperne di pentimento. E siccome il giorno dell’esecuzione era la
festa di San Pietro, perché il convoglio non avesse ad incontrarsi con qualche
cardinale, nel qual caso, sarebbe stato spontaneamente graziato, fu fatto
passare per via Giulia, San Giovanni de’ Fiorentini, piazza Ponte, via
dell’Orso, e per Ripetta giunse al Popolo, dove fu mazzolato e squartato dal
garzone del carnefice, essendo questi degente allo Spedale di Santo Spirito per
malattia.
Il secondo fu Francesco Tarquinj
romano, impiccato sabato mattina 5 aprile a Campo Vaccino per aver scassinato
parecchie botteghe. Lo denunziò
una donna che l’aveva veduto nascondere all’arco de’ Pantani i ferri di cui si
serviva. Fu appostato e arrestato due
giorni dopo mentre sull’imbrunire era andato a riprendere i summenzionati ferri.
Subì un esame durato cinque ore. Ciò accadde il venerdì, il
susseguente sabato venne fatto girare per tutta Roma seduto a ritroso a cavallo
d’un asino con un trivello pendente al petto. Era un bel giovane di 22 anni, figlio di un
beccamorto ammazzato alla Pace; aveva un altro fratello in galera, una sorella
ed una zia monache ai Santi Quattro. Delle tredici botteghe che aveva scassinato
non aveva riportato che 10 scudi, essendosi limitato a levare il denaro dalle
cassette.
L’ultimo di quell’anno, Ludovico
Benigno da Macerata, fu impiccato al Popolo, la mattina del 22 novembre. Era un giovane di ventidue anni, non molto
alto della persona, colla barba nera, folta e prolissa, il naso leggermente
aquilino, lo sguardo vivace. Avendo
avuto una rissa con un suo compare, fecero la pace. Ma incontratolo per via un anno dopo, preso da
subita ira gli cacciò il coltello nel petto e passò oltre. Ma dubitando che non fosse morto tornò
indietro e vide infatti che tentava di rialzarsi.
— Dammi il mio coltello gli
intimò.
Il ferito ne tirò la lama fuori
dal petto e glielo porse; il Valentini in quel mentre lo freddò con una
pistolettata.
Un caso forse unico nella storia fu
l’ultima esecuzione dell’anno 1731.
Antonio del quondam Gentile
Tonelli da Mondolfo doveva essere impiccato la mattina di mercoledì 22
agosto a Ponte Sant’Angelo. Aveva 45
anni, era alto ed aitante della persona, la lunga barba gli scendeva sul petto
e gli dava un aspetto feroce. E
ferocissimo era, avendo per molti anni esercitato il mestiere di contrabandiere
e spacciato molti birri, che cercavano di prenderlo. Arrestato finalmente, stette in carcere per
ben dodici mesi e siccome aveva promesso di strozzare con due dita chi si fosse
recato da lui per portargli la sentenza della sua condanna, quando questa fu
pronunziata bisognò usare uno stratagemma, per impedirgli di compiere il
proprio progetto. Due birri, istivalati
e in abito da viaggio vennero introdotti nella sua segreta, dicendo che avevano
ordine di condurlo in esilio.
Sopraggiunse il carceriere e chiese
loro:
— Avete la lettera di monsignor
Governatore?
— No — risposero quelli.
— E allora andatela a prendere, perché
senz’essa, io non vi consegnerò certamente un arrestato, del quale sono
responsabile.
I due birri uscivano, promettendo di
tornar tosto colla lettera di monsignor Governatore. Il carceriere voltosi al Tonelli, gli disse:
— È necessario prepararsi alla
partenza.
— Sono pronto.
— Abbiate pazienza, ma devo
ammanettarvi. È un incomodo che
durerà poco e val bene il prezzo della libertà, che ricupererete
al confine.
Il delinquente sporse le mani.
Il carceriere gliele legò
solidamente in modo che non potesse svincolarsi.
Passò tutta la notte e i birri
non si fecero più vedere. Il
Tonelli, incominciava a comprendere qual sorte l’attendesse e cadde in preda
all’avvilimento. Il mattino seguente, il
carceriere, dopo essersi bene assicurato che il prigioniero era reso
all’impotenza assoluta, gli annunziò che doveva essere impiccato, e
quegli si mostrò rassegnato.
Ma frattanto era accaduto un caso ben
singolare.
La sera innanzi mentre doveva rizzarsi
il patibolo, non si trovarono più, né il carnefice, né il suo aiutante.
Cercali di qua, cercali di là,
non fu dato rinvenirli.
La moglie del boia si presentò
allora a monsignor Fiscale e dichiarò d’esser disposta ad adempiere le
funzioni di suo marito, il quale, non essendo stato precisamente avvertito,
s’era forse allontanato da Roma, per qualche improvviso affare.
Forse le minaccie del Tonelli
v’entravano per qualche cosa.
Monsignor Fiscale, per quanto gli
sembrasse la cosa anormale, acconsentì che la moglie del carnefice
facesse i suoi preparativi per l’esecuzione. Sperava che prima di giorno le indagini
ordinate per trovare il boia, sarebbero riuscite.
La donna si disimpegnò
perfettamente; senza aiuto di sorta eresse il patibolo, il quale venne visitato
e trovato in eccellenti condizioni di solidità.
Sull’albeggiare, essendo riuscite vane
tutte le ricerche, monsignor Fiscale si fece venire innanzi la moglie del boia
e le chiese:
— Ti senti tu veramente capace di
supplire tuo marito nell’esecuzione?
— Monsignor sì.
— Senza aiutante?
— Monsignor sì.
— Sai che se non ti venisse fatto, o si
prolungasse di soverchio l’esecuzione, ti esporresti ad esser fatta a pezzi
dalla folla, contro la quale, birri e soldati sarebbero forse impotenti a
difenderti?
— Lo so.
— E non hai paura?
— Punto.
— Brava. Se tutto andrà bene, mercé tua, tuo
marito non subirà le conseguenze della sua mancanza e rimarrà in
carica. A te, poi, darò una
congrua rimunerazione.
Si fece di tutto perché la cosa non trapelasse
nel pubblico, temendosi che la novità sorprendente del fatto avesse a
chiamare una maggior quantità di curiosi.
La carretta uscendo dal carcere,
traversò al trotto la via, circondata da un esercito di birri e soldati.
La donna stava dietro il condannato, fra
due confortatori in modo che tornava impossibile vederla. Ma quando fu giunta a piedi del patibolo e la
si vide scendere sorse un immenso bisbiglio da una parte all’altra della piazza.
Tutti i binocoli dei signori si
appuntarono sopra di lei e incominciarono i commenti.
Era una donna di mezzana statura, con
una gran foresta di capelli neri e folti annodata sull’occipite: aveva il collo
taurino, l’occhio lampeggiante; le maniche della veste rimboccate al disopra
dei gomiti le lasciavano scorgere le braccia brune e muscolose.
Non appena scesa dalla carretta spinse
il paziente sulla scala annodandogli al collo la corda piccola, e afferrata
l’altra più grossa detta di soccorso salì sulla seconda scala,
ratta come un lampo. L’enorme sorpresa
del pubblico a quella vista non aveva per anco avuto tempo di tradursi in
alcuna manifestazione, che il corpo del Tonelli già penzolava dalla
forca, sbalzato da un’energica spinta nel vuoto, coi piedi della donna
appoggiati sulle spalle, e un ben assestato colpo di calcagno gli spezzava il
collo alle vertebre cervicali.
Fu l’affare di pochi secondi. Mai un’esecuzione, per impiccagione, era stata
più rapida, più fulminea e più sicura.
Compiuta l’operazione la moglie del
carnefice risalì sulla carretta che la ricondusse alle carceri, con la
stessa sollecitudine con cui era venuta, sempre circondata da una moltitudine
di birri e di soldati.
Intanto erano incominciati i commenti
nella folla; due partiti si erano lì per lì formati. C’erano quelli che avrebbero voluto portare in
trionfo la esecutrice e quelli che avrebbero voluto seguirla e farla a brani. D’ogni parte insorgevano litigi e si veniva
alle mani. Indarno i birri rimasti
cercavano di frapporsi e di sedare il tumulto.
Dovette uscire dal Castello Sant’Angelo
un forte distaccamento di soldati, i quali, chiusi i cancelli, si avanzarono
sulla folla coi moschetti spianati. Allora seguì un fuggi fuggi generale. Molti furono buttati a terra e calpestati. Chi perdette il ferraiuolo, chi il cappello,
chi la parrucca, chi la spada. E ci
volle del bello e del buono perché la tranquillità e l’ordine si
ristabilissero.
Un capitolo a sé meritano i vari
supplizi ai quali erano sottoposti i condannati dalla giustizia papale.
Una domenica di luglio del 1581 un
fanatico Inglese, venuto a Roma con alcuni compagni della nazione medesima, per
fare atto di sfregio al cattolicismo, mentre un sacerdote celebrante alzava
l’ostia consacrata, gli si gettò sopra per strappargliela. Non essendo riuscito, afferrò il calice
e ne disperse al suolo il contenuto. Il
popolo indignato lo investì, lo percosse, e fu finalmente condotto alle
carceri dell’Inquisizione. Fu condannato
a morte e mentre lo conducevano al patibolo gli si inferivano dei colpi con
torce accese di modo che le carni del paziente bruciavano, esalando un lezzo,
nauseante. Nondimeno resistette
impassibile e morì da forte.
Durante la processione del Santissimo
Sacramento, fatta dai frati di Sant’Agata, un altro inglese, fanatico luterano,
volle gettarlo a terra, ma non riuscì, perché i fedeli ne lo trattennero
e consegnaronlo all’Inquisizione. Era un
giovane di 30 anni, maniaco. E
nonpertanto lo condussero in carretta innanzi alla chiesa e quivi gli furono
tagliate le mani, poi a Campo di fiori, bruciandogli per via le carni colle
torce, come all’altro, e quivi finalmente arso vivo.
Eppure anco il rogo par pena mite in
confronto d’altre che si prodigarono agli eretici. Narra Giovanni Rucellai d’aver veduto nel 1450
due donne murate in due pilastri della chiesa di San Pietro.
Nel celebre processo che portò
al patibolo il Carnesecchi furono condannati ad essere murati in vita «Girolamo
Guastavillani gentiluomo, Filippo Capiduro causidico, Ottaviano Fioravanti,
mercante bolognese, e Girolamo Dal Pozzo faentino». Un secolo più tardi questa atrocissima
pena vigeva ancora.
La frustatura, applicavasi, quasi per
sollazzo del popolo, alle meretrici.
Questa solevasi infliggere,
specialmente quando le prostitute venivano meno al divieto loro imposto di
portar la maschera, durante il carnevale. Ed era uno dei più grati divertimenti
che si potesse offrire alla plebe romana.
Il bargello soleva scegliere le
più famose e più note, le quali denudate erano fatte correre per
la via del Corso, mentre il bargello e i suoi aguzzini le colpivano con delle
verghe, fra gli schiamazzi del popolo addensato e delle maschere. Celebre fu la frustatura della «Cecca-Buffona»
colta in un legno al Corso, mascherata, insieme ad un domestico della
Ambasciata Cesarea (austriaca) per la quale intercesse indarno l’ambasciatore
stesso. E parimente quella di «Joanna,
la spagnuola» seguita un secolo dopo.
Ma non ne andavano immuni neppure altri
poveri diavoli accusati di piccoli reati. Il mercoledì mattina, reca un foglio
degli Avvisi di Roma del 10 febbraio 1635, fu frustato per la
città un tale, imputato di falsa testimonianza. Aveva un compagno che doveva subire la stessa
pena. Ma quando il carnefice fece per
legargli le mani, per sottrarvisi, tentò di ammazzarsi e si ferì
con un coltello al collo. Questo atto
inconsulto gli fruttò due anni di galera e non lo sottrasse alla
frustatura, la quale gli fu inflitta non appena risanato dalla ferita, circa 20
giorni dopo.
Ma ben più terribili e della
frustazione ed anco della morte stessa era la tortura, che si applicava ai
giudicandi per estorcere loro la confessione di veri o supposti delitti.
Il padre Labat, un domenicano che
viaggiò l’Italia in qualità di provveditore del Santo Uffizio ed
assistè alle torture così dette della Corda e della Veglia, le ha
descritte de visu e noi traduciamo le sue note, in argomento, dal testo
francese, recato dall’Ademollo:
«S’usano in Italia parecchi sistemi di
tortura. Io ne ho veduti applicare di
due sorta.
La più comune è la corda.
La chiamano la regina dei tormenti. E difatti è dolorosissima. Un uomo vi muore se lo si lascia sottoposto
troppo a lungo; ne uscirebbe storpiato se si trascurassero le precauzioni
necessarie, prescritte onde evitare tali conseguenze.
Prima d’applicarla i medici e chirurghi
visitano accuratamente il paziente per vedere se non ha né aperture, né ernie,
né altri difetti congeneri, o disposizione a produrne, perché in questi casi si
applica una tortura di altro genere, per evitare il pericolo che gli esca l’intestino
e che soccomba per lo strangolamento che ne seguirebbe.
Trovatolo capace a subire la corda, il
disgraziato vien condotto nella camera della tortura.
Il giudice accompagnato da alcuni
assessori, dal cancelliere, dai medici e dai chirurghi, lo interroga sui
particolari del fatto che si vuole chiarire, sia che l’imputato sia confesso o
persista nella negativa la si applica. Nel secondo caso per avere una confessione di
sua bocca; nel primo alfinché confermi tra i tormenti, ciò che ha
confessato negli interrogatorii ciò imponendo la legge per lo
accertamento della verità. E
trattandosi di semplice conferma i tormenti sono più brevi e più
miti.
Si spoglia l’imputato, non lasciandogli
di tutti i suoi indumenti che i calzoni. Il bargello aiutato dagli sbirri, gli prende
la mano sinistra e gli volge dolcemente il braccio dietro il dorso, mentre
colla destra gli palpeggia la spalla manca all’articolazione, come per
avvezzare la giuntura al movimento che le si fa fare. Quindi si fa mettere il piede sinistro del
torturando contro il muro, in modo che possa sostenersi senz’essere fatto a
brani se lo si spingesse con soverchia violenza. Un birro prende allora il braccio destro del
paziente e lo mantiene nella posizione in cui l’ha messo il bargello, mentre il
bargello stesso avendogli fatto stendere il braccio dalla sua parte lo avverte
di abbandonarvisi completamente e maneggiando ancora l’articolazione della
spalla sinistra, prende colla propria destra la destra del torturando e gli
rovescia d’un tratto il braccio indietro.
È qui che si chiarisce
l’abilità del bargello, perché se le braccia del paziente vengono
rivoltate con saggio accorgimento soffre meno e non corre il pericolo di
rimanere storpiato.
Rivoltate le braccia sul dorso, il
bargello gli lega insieme i due pugni, fra la mano e l’articolazione
dell’avambraccio. Si adopera a
quest’uopo una legatura fortissima e morbida ad un tempo, composta di parecchi
grossi fili, o di tre piccole cordicelle flessibilissime avviluppate in un
involucro di pelle tenera e pieghevole, che formano una corda di nove o dieci
linee di diametro; poi attaccata all’anello che ha formato con questa legatura
la corda grossa, destinata a tener sospeso in aria il paziente, abbraccia
questo a mezzo le coscie e lo solleva, mentre gli sbirri tirano la grossa fune
passata sopra una puleggia infissa sul soffitto e lo abbandonano nel vuoto,
colla maggior delicatezza possibile, affinché riesca meno doloroso il
dislocamento delle spalle e non ci sia pericolo di storpiarlo.
In quel momento il torturato soffre
orribilmente, perché il peso del corpo disloca le spalle e gli rompe le braccia
al di sopra del capo. Egli deve rimanere
in siffatta posizione un’ora, e menoché non cada in uno stato di debolezza,
dichiarato pericoloso dai medici, o che per la confessione della sua colpa e la
promessa di ratificare la confessione stessa fuori dei tormenti, i giudici non
abbrevino la durata del supplizio.
Ci sono stati pur non dimeno degli
imputati, e ne fui io medesimo testimonio, che si beffarono della tortura, dei
giudici e dei testimoni, perché erano così ben preparati che provavano
poco o nessun dolore. Bisogna
però avere per ciò delle reni molto gagliarde. Un tale, sentendo il bargello che lo teneva
sollevato, abbandonare la corda fece uno sforzo per modo che riuscì a
collocarsi colla testa in basso e i piedi in alto, senza dislocazione delle
spalle e per tal modo soffriva poco o punto. Tuttavia sudava molto e di quando in quando
emetteva de’ gridi, per farsi credere straziato. Così potè rimanere sospeso per
un’ora senza confessar nulla. I giudici
compresero che erano stati gabbati e dissero al bargello che egli aveva aiutato
il paziente a prendere quella posizione. Il bargello rispose che egli aveva fatto
onestamente il suo dovere e si lagnò d’essere stato sospettato d’avervi
mancato. L’ora era intanto passata e si
dovette distaccarlo, né molto si ebbe a fare per rimettergli a posto le braccia
poiché non erano state slogate. Io credo
che quel galantuomo avesse imparato il suo mestiere da un bravo maestro. Perché non ce ne dovrebbero essere, come in
Ispagna, per applicarsi la disciplina? Il giorno seguente si ripetè
l’esperimento, ma con esito eguale e dopo mezz’ora dovette essere distaccato,
non potendosi prolungare il supplizio oltre questo spazio di tempo, la seconda
volta. Così se la scappò
per mancanza di prove.
Ma siccome tutti non hanno la sessa
robustezza di reni e la stessa disinvoltura, coloro che subiscono codesta
tortura penano molto più che non si sappia immaginare. Dopo pochi minuti sono inondati di sudore e
hanno frequenti svenimenti. Si
richiamano in sensi soffondendo loro il viso con un po’ d’acqua della Regina
d’Ungheria, avvertendoli il bargello di non far movimenti, i quali facendo
oscillare la corda, produrrebbe loro più acuti dolori.
Benché questa tortura sia molto
tormentosa si usa tutta l’umanità possibile verso coloro che devono
sopportarla. La camera in cui la
subiscono è ben chiusa, i giudici, i medici e i tormentatori, rimangono
silenziosi e non fanno il più piccolo movimento. Si compiange il disgraziato e per tema che il
movimento dell’aria aumenti le sue pene si prendono tutte le precauzioni; onde
il paziente goda della calma più completa.
La tortura chiamata la veglia —
continua il bravo domenicano — prende questo nome perché si suppone che colui
cui è applicata per la durata di dodici ore complete, non possa dormire,
a cagione degli acuti e continui dolori che soffre. Giudicatene.
L’imputato viene spogliato tutto nudo e
rasato, gli si attaccano le braccia dietro il dorso, come abbiamo veduto per la
corda. Lo si fa cadere per terra e gli
si legano i piedi ad un lungo e grosso bastone, distaccati un dall’altro quanto
più è possibile. Quindi
tre o quattro uomini lo sollevano all’altezza di quattro piedi; mentre essi lo
tengono disteso, si ferma la corda che gli lega le braccia ad un gancio,
infisso nel muro a circa sei piedi d’altezza, e si mette sotto le natiche del
paziente un tronco di
Qualunque cosa gli accada in quello
stato di dolore non gli si porge altro sollievo, che alcune goccie d’acqua
della regina d’Ungheria, soffiatagli sul volto, dopo averlo avvertito, affinché
non faccia de’ bruschi movimenti per la sorpresa, i quali aumenterebbero le sue
pene.
In tale stato suda abbondantemente per
effetto della contrazione in cui si trova e dei dolori che soffre. Il sudore della parte superiore della testa
gli cala sulle nari e si dice che gli cagioni una inquietezza e un prurito
insopportabile.
Un capitolo a parte merita la
ghigliottina. Sarebbe importante a
questo proposito rintracciare la storia di questo supplizio in Francia, dove la
macchina ha preso la denominazione che le è rimasta, grazie alle celebri
parole pronunziate dal dottor Guillotin all’assemblea nazionale, nella seduta
del 1° dicembre 1789: “Moi avec ma machine je vous fais sauter la
tête d’un clin d’oeil, et vous ne souffrez pas” cioè “Io colla mia
macchina vi faccio saltar la testa in un batter d’occhio senza che
abbiate a soffrire”. La espressione ma
machine ha fatto credere che il Guillotin sia stato l’inventore della
macchina. E per colorire la leggenda si
disse anche essere egli stato uno dei primi condannati che ne fecero
l’esperimento, anzi precisamente il primo.
Nulla di questo è vero. Il dottor Guillotin, medico nato a Secintel
nel 1738, morì nel 1814. Fu
umanitario e filantropo durante tutta la vita. Imprigionato nel tempo del Terrore, riebbe la
libertà il 9 termidoro.
Il Guillotin non inventò la
macchina, alla quale ha dato, senza sua colpa né merito, il suo nome, e non fu
per nulla ghigliottinato. Anzi,
sopravisse lungamente al tempo in cui l’uso della ghigliottina fu, per
così dire consacrato in Francia dalla qualità e dalla
quantità delle vittime. Mal si
spiega per altro come l’errore circa l’inventore e la novità della
macchina prendesse piede, non coll’andar del tempo ma subito. Il contemporaneo Alessandro Verri scrive nelle
sue Vicende memorabili dal 1779 al 1801 (Milano e Napoli 1858, pag. 109): Si stancavano i manigoldi e però
un medico di Parigi acquistò perpetua infamia inventando una macchina,
la quale troncava il capo speditamente; questi fu Guillotin, dal quale trasse
nome questo strumento, ghigliottina, invenzione applaudita più di
qualunque ritrovamento salutare di medicina e posta in uso universale per tutta
la Francia.
La verità storica reca invece
che la macchina era cosa vecchia, e si trovano ricordi che ce ne mostrano l’uso
anche in Francia più di un secolo prima del 1789. È certo difatti che nel 1637 fu
adoperata a Tolosa nel supplizio del duca di Montmorency, secondo racconta il
Puysegur nelle sue Memorie, scrivendo:
«In quel paese si servono d’una
mannaia, che è incastrata fra due travi, e quando la testa del paziente
è posata sul ceppo, si allenta la corda che regge la mannaia, questa
discende e spicca la testa dal busto. »
Abbiamo memorie molto più
antiche per la ghigliottina in Italia; volendo se ne potrebbe seguire la storia
nei supplizi celebri dal principio del secolo decimosesto in poi, per lo meno. È da sapersi primieramente che diverse
incisioni del detto secolo rappresentano uno strumento di supplizio nel quale
è facile ravvisare il primitivo modello della macchina, che poi prese
nome dal deputato francese. Se ne trova
uno nel libro delle Simbolicae questiones de universo genere di Achille
Bocchi, 1555, libro I, Symb. XVIII. Magnanimus sanctis paret vir legib. ultro, e ne citiamo altre anteriori, una
di Giorgio Pentz, morto nel 1550, ed altra di Federico Aldegrave o Aldegraver
con data 1553, le quali rappresentano il supplizio del figliuolo di Tito Manlio.
Molto più delle incisioni
valgono per altro le memorie scritte, e noi abbiamo memoria certa di un ghigliottinato
in Italia nel 1507. Fu questi Demetrio
Giustiniani, di Genova, mandato a morte da Luigi XII re di Francia.
Il supplizio di costui ci viene
descritto nei più chiari termini dal cronista francese Jean D’Anton, che
lo vide, secondo dice egli stesso, scrivendo: qui lors étois au dit lieu.
Ecco la descrizione:
«Ma avvenne che all’indomani, che fu
proprio il giorno dell’Ascensione di N. S. in
punto alle ore 9 del mattino fu dai Marescialli condotto sino alla Piazza del
Moro e fatto salire sul palco d’onde volle parlare, per dire alcun che al
popolo di Genova, incominciando un racconto. Il Prevosto non volle dargli il tempo di
finirlo. Demetrio capacitatosi che gli
sarebbe stato impossibile di farsi udire, mandò un grande sospiro, ed
alzando gli occhi, colla faccia pallida e sparuta, le braccia consente al seno
stette così parecchio tempo, intanto il boia gli bendava gli occhi. Quindi si pose da se stesso in ginochio e
stese il collo sul ceppo. Il carnefice
prese una corda alla quale era attaccato un grosso blocco di legno, munito di
una mannia, scorrente fra due pali. E
lasciando scorrere la corda fece cadere il blocco tagliente fra la testa e le
spalle del paziente, in modo così rapido, che il capo cadde da una parte
e il corpo dall’altra. La testa fu messa
in cima ad una lancia e portata sulla torre della Lanterna del modo col viso
rivolto alla città. Il corpo
giacque sul palco per tutta la giornata e non ebbe sepoltura che alla sera. »
Dal principio del secolo decimosesto
saltando alla fine e da Genova a Roma, troviamo la ghigliottina in un altro
processo celebre. Beatrice Cenci e la
sua matrigna Lucrezia Petroni nel 1599 furono decapitate con la mannaia,
cioè, come direbbesi oggi, ghigliottinate. Infatti dell’esecuzione di Lucrezia nella ben
nota relazione del supplizio dei Cenci si legge: «Non sapendo come dovesse
accomodarsi domandò ad Alessandro primo boia cosa avesse da fare, e
dicendole che cavalcasse la tavoletta del ceppo e si stendesse sopra di
quella, nel che fare per la mole del corpo, ma più per la vergogna
durò grandissima fatica, ma molto maggiore fu quella di accomodarsi
con il collo sotto la mannaia, perché aveva il petto tanto rilevato che non
poteva arrivare a porre la gola sopra quel legnetto in cui cade il ferro della
mannaia, a cagione che, non essendo la tavoletta più larga di un palmo,
non era capace per l’appoggio delle mammelle. » E di Beatrice: «Subito,
quasi fosse informatissima, cavalcò la tavola e pose il collo sotto
la mannaia. Affrettò questo
suo ultimo atto, e questo forse causò la tardanza del colpo. » Se
il colpo non poteva affrettarsi come si era affrettata la paziente, è
chiaro che non doveva venire dal braccio del boia, ma bensì dal congegno
di una macchina.
Passiamo a Napoli, quarant’anni
più tardi. Negli Avvisi di
Roma del febbraio 1640 si legge in data di Napoli che era già posta
la mannara in pubblico per doverglisi tagliare la testa. Ma questa mannara era una ghigliottina?
Quantunque le espressioni degli Avvisi accennino una montatura,
vi potrebbe essere qualche dubbio in proposito, specialmente quando si legge
nei giornali dello Zazzera (6 luglio 1618): «Non ritrovandosi boia, dicono, che
facesse fare l’offizio ad un chiacchieraro (macellaro) con la mannaia
della carne. »
Ma ogni dubbio è tolto dal
racconto sincrono di un altro supplizio celebre, quello del principe di Sanza
nel 13 gennaio 1640. «È giunto
alla fine del luogo (Piazza del Mercato) salì il doloroso palco. E prostratosi ai piedi del confessore a dir
gli scrupoli occorsigli di nuovo e ricevuta l’assoluzione amplissima, non
mancando quei Padri allora far l’ultimo sforzo, l’obbediente principe fatta una
bocca a riso, prontamente pose il collo al ceppo; ma ritirollo tosto: credesi
perché gli facesse nausea quel ceppo troppo lordo di sangue, perché sguarnito
era di lutto e d’ogni altra cosa il ceppo ed il palco. Al che uno dei Padri rimediò subito con
porre sopra il legno un fazzoletto. E
rincorato il Principe con maggior animo e più ridente ripose di nuovo la
testa sul ceppo. E nello stesso punto tagliato
dal manigoldo il laccio, precipitò la mannaia sul collo e divise dal
busto il capo, dalla cui bocca furo l’ultime parole: perdono, misericordia.
Ecco dunque fino dalla metà del
secolo decimosettimo, il supplizio con la mannaia quale lo trovò al
principio del secolo successivo il padre Labat, che nel suo viaggio in Italia
descrive la mannaia come una macchina veramente perfezionata. Notizie consimili si trovano anche in un altro
viaggio in Italia dal 1736 al 1745, egualmente francese ma anonimo. Poiché i francesi parlano della macchina come
cosa per essi nuova, bisogna dedurne che la doloire descrita dal
Puységur pel supplizio del Montmorency nel 1632 fosse andata del tutto in
disuso in Francia, quantunque sia certo che prima della rivoluzione uno dei
privilegi dei nobili era quello di essere, in caso di condanna a morte,
decapitati, supplizio più nobile della forca, riserbata ai condannati di
origine plebea e che dava al supplizio un carattere infamante.
Era così anche in Italia, e
specialmente nello Stato Ecclesiastico ove oltre la forca usava il rogo, lo
squarto, la mazzolatura con variazioni diverse a seconda dei casi.
In Francia nel 1789, il principio
d’uguaglianza dinanzi alla legge doveva portare naturalmente l’uguaglianza
dinanzi al castigo. Il dottor Guillotin,
filantropo ben noto, sottopose la questione all’Assemblea costituente,
riassumendola in due punti; euguaglianza nel supplizio, abbreviamento della
sofferenza. Nella seduta del 1° dicembre
svolgendo in due articoli la sua proposta, indicava come mezzo più pronto
e meno barbaro di supplizio, qualunque fosse la condizione sociale del
colpevole, venne approvata ad unanimità. Fu nella discussione del secondo articolo che
il dottor Guillotin, ribattendo le obiezioni con insistere nel dovere di
risparmiare al condannato tutto ciò che ne potesse prolungare e
incredulire il supplizio, pronunziò le famose parole, profetiche senza
saperlo per molti dei presenti, i quali le accolsero con uno scoppio
d’ilarità prolungata. Ma dicendo ma
machine, il dottor Guillotin alludeva semplicemente al sistema della
decapitazione mediante una macchina, senza per nulla accennare un meccanismo
determinato.
Di fatti l’assemblea approvò
soltanto la decapitazione con un mezzo meccanico in genere. Furono nella discussione indicati vagamente alcuni
strumenti di supplizio in uso dei tempi andati in diversi paesi, ma nulla
rimase determinato circa il meccanismo da adottarsi per la Francia. Ciò nonostante le parole, ma machine,
del dottor Guillotin ebbero subito un’eco nelle canzoni popolari. Prima che la macchina fosse trovata ed
approvata, la canzone parigina la battezzò col nome di Guillottine.
Di qui l’errore comune passato anche
nella storia.
Prima che la macchina fosse
definitivamente scelta, trascorsero circa trenta mesi. Il Codice Penale, un articolo del quale,
votato sulla proposta di Lepelletier de Saint-Fargeau, portava che qualsiasi
condannato a morte sarebbe decapitato, venne adottato nel 21 settembre 1791. Restava sempre a cercare e scegliere il modo ad
hoc; scartata da tutti la decapitazione colla sciabola, che faceva orrore
perfino al ministro Duport-Dutertre.
Per tale oggetto il Comitato si rivolse
al celebre dottor Louis, segretario della Facoltà di chirurgia,
chiedendogli un rapporto nel quale fossero ricercati ed indicati i mezzi più
acconci per la decapitazione la più rapida e in tutte le regole.
La relazione del dottor Louis
presentata all’Assemblea il 20 marzo 1792, indicava una macchina allora in uso
in Inghilterra, la quale non era altro che quella usata in Italia da quasi tre secoli
e neppure perfezionata, poiché il Louis dimostrava necessari molti
miglioramenti.
Meglio istruito del Louis, il dottor
Guillotin aveva sempre indicato come mezzo di esecuzione la vecchia macchina
italiana, il cui uso in alcuni luoghi durava anche in quel tempo. Difatti nel libro del senatore Gozzadini: Giovanni
Pepoli e Sisto V, troviamo un ricordo preso dal libro dei giustiziati in
Bologna, nel 1791 il trovato Guillotin non esisteva; la macchina che si
chiamò ghigliottina fu messa in uso in Francia soltanto nel 25 aprile
1792 sul collo di un brigante, di nome Nicola Giacomo Pelletier.
La Cronique de Paris l’indomani
dell’esecuzione diceva: «La novità di questo supplizio ha
considerevolmente ingrossato la folla di coloro che una curiosità
barbara conduce a questo triste spettacolo. La prontezza colla quale essa colpisce il
colpevole è pure nello spirito della legge, la quale può essere
severa, ma non deve mai essere crudele. »
È notevole che manca la
denominazione di Ghigliottina. Sul principio la nuova macchina fu chiamata
anche Luisette e grosse Luison dal nome del suo non inventore, ma
perfezionatore, il quale essendo morto nel 20 marzo 1792 ebbe la fortuna di non
vedere l’uso che se ne fece. Il buon
Guillotin invece fu condannato a vederla infierire e sotto il suo nome.
Non si sa che egli protestasse mai
contro tale denominazione, ma non può a meno di aver lamentata la triste
celebrità appioppatagli quasi in punizione di aver egli preso
l’iniziativa umanitaria che abbiamo veduto sopra.
Le barbarie dei supplizi di cui Mastro
Titta andava leggendo faceva si che egli si accendesse di giustissimo sdegno
vedendo l’arte sua così maltrattata. Ma dopo un secolo e mezzo, abbiamo noi di
molto progredito?
Se si badasse soltanto alle esteriori
parvenze si dovrebbe rispondere affermativamente; ma se si esamina
profondamente la questione si trova, che nella vantata civiltà odierna
c’è, per quanto concerne questo doloroso argomento, un tessuto di ipocrisia.
La folla che assiste alla esecuzione di
una sentenza di morte è un controllo, un freno ed una salvaguardia. Noi abbiamo veduto in queste pagine il popolo
fremere e minacciare il carnefice maldestro, che faceva soffrire il paziente. Ma che ne sappiamo noi di ciò che avvenne
nell’interno di un carcere, o di una torre, dove tutti coloro che vi assistono
sono cointeressati ad occultare la verità? Alcuni anni fa il carnefice
di Vienna, prolungò il supplizio di un disgraziato in modo orribile e un
grido di indignazione si sollevò contro di lui in tutto il mondo civile,
perché pubblica era stata l’esecuzione. Ma sappiamo noi a quali pene orrende
può aver soggiaciuto l’infelice Guglielmo Oberdan, impiccato a Trieste,
forse da quello stesso carnefice, in un cortile del carcere, agli incerti
chiarori di un’alba fosca?
Che più?
I giornali americani recarono in questi
giorni un racconto del supplizio di Kemmler, assassino della propria amante,
seguito a New York col nuovo sistema dell’elettricità, che supera per
ferocia fredda e per l’orrore che desta, tutti gli impiccamenti, gli
squartamenti, le decapitazioni, gli attanagliamenti, la ruota stessa in uso
nell’età di mezzo, la cui descrizione ci faceva rizzare i capelli in
capo.
Ne riferiamo qui la storia, ne’ suoi
terribili particolari, perché serva di termine di confronto.
Oh! è ben mille volte
preferibile Mastro Titta, che uccidendo legalmente 514 persone, non ne fece
soffrire, più del necessario, una sola, a questi umanitaristi che
assistono, scientificamente, impavidi e cinicamente immobili allo strazio di un
uomo, dotato di un coraggio sopranaturale, quasi esperimentando in corpore vili
un trovato imperfetto per dar morte.
William Kemmler aveva trent’anni ed era
nato a Filadelfia, da una famiglia tedesca protestante. Da ragazzo fu mandato a scuola, ma il padre lo
ritirò presto per farsi aiutare nel suo mestiere di macellaio. Cresciuto, Kemmler servì come garzone
macellaio presso diversi padroni e finalmente diventò negoziante di
frutta e di verdura; fu allora che annodò con certa Matilde Zeigler
quella relazione che è stata la causa della rovina d’ambedue.
Nel 1888 egli sposò a Chamden
una donna chiamata Poster, che abbandonò dopo due giorni per fuggire
colla Ziegler. Essi si recarono a
Buffalo, dove si stabilirono nel peggior quartiere, menando una vita
disordinata di orgie continue, uno da una parte e l’altra dall’altra, non
trovandosi insieme che per litigare e battersi.
Il Kemmler non poteva più
continuare a vivere con quella donna, che gli rubava tutti i denari per andarli
a sciupare con altri uomini.
Il 29 marzo 1889, tornando a casa
ubbriaco, egli la ritrovò in atto di preparare un lunch e la
rimproverò della relazione che manteneva con uno spagnuolo. Poi, riscaldandosi sempre più prese un
accetta e le spaccò la testa: quindi la tagliò tutta a pezzi e
uscì.
La sentenza che lo condannava a morte
fu pronunziata il 9 maggio dello stesso anno. L’esecuzione, ritardata per la discussione
sorta sull’opportunità di servirsi dell’elettricità ebbe luogo la
mattina del 6 agosto 1890.
A sei ore e mezza in punto la porta
della camera di esecuzione si aperse e apparve la persona del guardiano Durston.
Dietro di lui si videro un uomo di
bassa statura, dalle larghe spalle, e dalla folta barba, accuratamente
pettinato e vestito di un abito completo nuovo.
Era Kemmler il condannato.
Lo seguiva il cappellano.
Kemmler era senza dubbio il meno
commosso dei tre. Egli osservava la
camera con interesse speciale. Ma
provò un breve fremito quando la porta si rinchiuse dietro di lui.
— Volete favorirmi una sedia? — disse
laconicamente.
Il guardiano gli porse una sedia di
legno che egli collocò davanti, un po’ a destra della poltrona
d’esecuzione, in faccia ai ventisette testimoni, riuniti nell’angusta camera.
Kemmler vi si pose a sedere
tranquillamente e volse uno sguardo intorno a sé, poi dall’alto al basso, senza
dar segno né di paura, né di preoccupazione.
Pareva quasi che fosse contento di
servire in quel momento da soggetto di studio.
— Quest’uomo, signori — disse il
guardiano — è Guglielmo Kemmler, gli ho detto che andava a morte e che
se avesse qualche cosa a dire, dovrebbe farlo.
Kemmler, che pareva avesse preparato un
discorso disse:
— Benissimo. Io auguro ogni fortuna a tutti in questo basso
mondo. In quanto a me credo di andare in
un buon posto. I giornali hanno
pubblicato sul conto mio un’infinità di cose non vere. Ecco ciò che ho da dire.
Kemmler voltò le spalle al
giurì, si levò l’abito e lo diede al guardiano. I suoi pantaloni erano stati tagliati
all’estremità del dorso, per modo che si potesse vedere la base della
colonna vertebrale.
Kemmler mosse poi qualche passo
slacciandosi la sottoveste; ma il guardiano lo avvertì che poteva
tenerla, ed egli se la riabbotonò tranquillamente.
— Non vi turbate, disse il guardiano al
paziente. Ma non ce n’era proprio
bisogno, perché Kemmler era più calmo di tutti gli astanti.
Fu fatto sedere nella poltrona
elettrica ed egli lo fece colla massima indifferenza come se si fosse trattato
di porsi a tavola.
Si incominciò subito a passargli
le corregge di cuoio intorno al corpo; Kemmler porgeva da sé le braccia ai
legami.
Quando le corregge furono strette, il
giustiziando disse:
— Guardiano fate a comodo vostro. Non vi affannate; state certo che mi troverete
sempre pronto.
Il guardiano mise la mano sulla testa
di Kemmler e la fermò contro la lamina d’ottone che guarniva la
spalliera della sedia.
Il paziente disse ad alta voce:
— Perfettamente. Vi auguro buona fortuna.
Lo sceriffo Vieling abbassò
l’elmo d’ottone, il quale premette la spugna che conteneva contro la sommità
del capo.
— Vi assicuro che potreste spingere
maggiormente, se vi giovasse, disse Kemmler.
Si ottemperò al consiglio.
Il guardiano Durston prese le corregge
che dovevano serrare la testa di Kemmler.
Durante l’operazione il dottor Spizka
disse:
— Dio ti benedica, Kemmler.
— Grazie, rispose il condannato.
Il coraggio di Kemmler era sorprendente.
Egli conservava nella poltrona fatale la
stessa calma colla quale era entrato nella camera.
Il dottor Spitzka, rispondendo alla
domanda del guardiano carceriere, assicurò che tutto era finito.
— Pronto! — ripetè Durston e
aggiunse:
— Addio.
Poi andò verso la porta, la
semiaperse e disse a qualcuno che si trovava di là:
— Tutto è pronto. —
La corrente elettrica fu stabilita. Il corpo sussultò violentemente e le
membra si rattrassero. I muscoli del
viso rivelarono lo spasimo del paziente, ma non si udì il più
piccolo grido. Il corpo rimase 17
secondi irrigidito.
Il giurì e i testimoni, si
alzarono frettolosamente in quel punto e circondarono la seggiola elettrica.
Il dottor Spitzka, ordinò di
sospendere la corrente elettrica dicendo:
— È morto.
— Sì, è morto, ripeté il
dottor Mac-Donald, con sicurezza.
Gli altri presenti erano del medesimo
parere. Nessuno dubitava della morte di
Kemmler.
Il dottor Spitzka, fece osservare che
il naso del giustiziato era teso, prova evidente della sua morte.
Nessuno lo contestava.
— Toglietegli l’elmo, disse il dottore,
si può portare il corpo allo spedale.
Il dottor Busch, che esaminava
attentamente il corpo del paziente, richiamò l’attenzione del dottor
Spitzka sopra una macchia rossa che scorgevasi in una mano. Erano gocce di sangue.
— Si ristabilisca la corrente —
gridò il dottore — Kemmler non è morto.
Ma la corrente non poté essere
ristabilita subito.
Si videro allora cose orribili.
La schiuma colava dalle labbra di
Kemmler.
Un leggero alito sembra uscirgli dalla
bocca.
Il petto si sollevava.
Si contorceva spaventosamente.
Quando la corrente fu ristabilita, si
sprigionò dal corpo un vapore bianco, con una puzza orribile.
Il cadavere di Kemmler bruciava.
Si capì che bisognava
interrompere la corrente.
La corrente fu interrotta.
Questa volta Kemmler era ben morto.
Divulgatasi per New-York la notizia di
questo nefando supplizio, fu una protesta generale contro l’esecuzione
elettrica.
Di quattro carcerati che aspettavano lo
stesso supplizio, risaputone l’esito, due impazzirono e si dovette trasportarli
al manicomio: gli altri due indirizzarono una fervida supplica al presidente
degli Stati Uniti, perché li facesse appiccare.
Non aggiungeremo commenti a questa
esposizione di fatti, che è di per se stessa eloquente.
delle Giustizie eseguite da Gio. Battista Bugatti
e dal suo successore Vincenzo Balducci
(1796 -1870)
Sono qui riportate le note redatte dal
Bugatti, il quale aveva l’abitudine di registrare le esecuzioni compiute.
Si deve ad
Alessandro Ademollo il ritrovamento di questo documento che venne pubblicato
per la prima volta da Lapi in Città di Castello nel 1886.
1 Nicola Gentilucci, «impiccato
e squartato» in Fuligno li 22 marzo 1796, per avere ammazzato un sacerdote, un
vetturino e grassato due frati.
2 Sabatino Caramina, «impiccato»
in Melia li 14 gennaio 1797, per omicidio
3 Marco Rossi, «mazzolato e
squartato» in Valentano li 28 marzo 1797, per avere ucciso suo zio e suo
fratello cugino.
4 Giacomo dell’Ascensione,
«impiccato» al Popolo li 7 agosto 1797, per avere sfasciato molte botteghe.
5 Pacifico Sentinelli,
«impiccato» in Jesi li 30 ottobre 1797, per avere ucciso il carceriere con la
sua moglie.
6 Gregorio Silvestri,
«impiccato» al Popolo li 18 gennaio 1800, reo convinto di cospirazione.
7 Antonio Felici
8 Gio. Antonio Marinucci
9 Antonio Russo
«Impiccati» a Ponte li 20 gennaio 1800,
per grassazione.
10 Pietro Zanelli, «impiccato» a
Ponte li 22 gennaio 1800, per monetario falso.
11 Francesco Gropaldi,
«impiccato» a Ponte il dopo pranzo li 22 gennaio 1800, per grassazione.
12 Ottavio Cappello, «impiccato»
a Ponte li 29 gennaio 1800, per aver tentato nuova rivoluzione per arme
proibita.
13 Alessandro d’Andrea, «impiccato»
a Ponte il primo febbraio 1800, per aver rubato un orologio.
14 Gio. Batta Genovesi, «impiccato, squartato e
bruciato il corpo» a Ponte li 27 febbraio 1800; la testa fu portata all’Arco di
S. Spirito, per aver rubato due pissidi.
15 Gioacchino Lucarelli
16 Luigi de Angelis
17 Lorenzo Robotti
18 Giovanni Rocchi
19 Antonio Mauro
«Impiccati e tagliate le teste e
braccia», e messe a Porta Angelica li 6 maggio 1800, «e due furono bruciati» a
Ponte, per avere strozzato e assassinato un prete.
20 Bernardino Bernardi, della
medesima causa, «impiccato e tagliato la testa e braccia» e messe a Porta S. Sebastiano, li… anno suddetto.
21 Giuseppe Zuccherini
22 Giuseppe Sfreddi
23 Giacomo d’Andrea
«Impiccati e squartati» al Popolo li 19
gennaio 1801, per avere assassinato il Corriere di Venezia.
24 Luigi Puerio
25 Ermenegildo Scani
26 Gaetano Lideri
27 Leonardo Ferranti
«Impiccati e squartati» in Camerino li
27 gennaio 1801, per avere assassinata una principessa spagnola.
28 Teodoro Cacciona, «impiccato
e squartato» al Popolo li 9 febbraio 1801, per avere rubato un ferraiolo, un
paio di stivali e L. 60.
29 Fabio Valeri, «mazzolato e
squartato» in Albano li 14 febbraio 1801, per avere grassato il pizzicagnolo
dell’Ariccia.
30 Francesco Pretolani,
«impiccato e squartato» in Viterbo li 21 febbraio 1801, per avere grassato e
ucciso un oste con sua moglie.
31 Giovanni Fabrini, «impiccato»
al Popolo li 6 giugno 1801, per omicidio sotto la Pace.
32 Domenico Treca, «impiccato» a
Subiaco li 4 luglio 1801, per avere uccisa la moglie, un prete ed un’altra
persona.
33 Benedetto Nobili, «mazzolato»
al Popolo il primo settembre 1801, per avere ucciso sua moglie, sua comare ed
incendiato la casa.
34 Antonio Neri, «impiccato» in
Ancona li 26 settembre 1801, per avere rubato con chiave falsa ad un orefice
due mila scudi in oro e argento.
35 Domenico de Cesare,
«impiccato» a Ponte li 8 febbraio 1802, per avere grassato uno spazzino.
36 Ascenzo Rocchi
37 Gio. Batta Limiti
«Impiccati e squartati» a Ponte li 20
febbraio 1802, per avere grassato li carrettieri.
38 Gio. Francesco Pace di Venanzio, «mazzolato,
scannato e squartato» a Ponte li 15 marzo 1802, per avere ucciso un ebreo e
grassato.
39 Domenico Zeri, «mazzolato e
scannato» in Fermo li 3 aprile 1802, per avere ucciso il padre.
40 Salvatore Bozzi
41 Giuseppe Flacidi
«Impiccati e squartati» a Ponte li 28
aprile 1802, per grassazione.
42 Agostina Paglialonga,
«impiccata» in Orvieto li 5 maggio 1802, per avere fatto tre fanticidi.
43 Antonio Nucci, «mazzolato e
squartato» in Perugia li 8 maggio 1802, per avere ucciso e grassato un frate.
44 Luigi Fantusati, «mazzolato e
squartato» in Perugia li 8 maggio 1802, per avere ucciso e grassato il suo
padrone.
45 Giovanni Ferri
46 Fortunato Ferri
47 Nicola Ferri
Fratelli carnali, «impiccati e
squartati» in Terracina, per avere grassato il corriere di Napoli, li 25 maggio
1802.
48 Gio. Batta Germani, «impiccato» in Ceccano li
29 maggio 1802, per omicidio volontario.
49 Cosimo Moronti, «impiccato»
in Genazzano il primo giugno 1802, per omicidio, a caso pensato.
50 Filippo Cataletti,
«impiccato» in Frosinone li 18 giugno 1802, per omicidio.
51 Felice Rovina, «impiccato» in
Collevecchio li 7 luglio 1802, per avere strozzato un eremita.
52 Bernardino Palamantelli,
«impiccato» a Ponte li 13 settembre 1802, per omicidio e grassazione.
53 Stefano Viotti, «mazzolato»
in Subiaco li 23 novembre 1802, per avere ucciso il padre.
54 Francesco Angelo Sorelli,
«impiccato» in Ronciglione li 15 dicembre 1802, per avere ucciso una donna.
55 Giacomo Balletti, «mazzolato»
in Ronciglione li 15 dicembre 1802, per avere ucciso il padre.
56 Domenico Guidi, «impiccato»
in Viterbo li 18 dicembre 1802, per omicidio, con avergli intimato la morte 22
per le 23.
57 Antonio Lavagnini, «impiccato
e squartato» in Zagarola li 5 febbraio 1803, per aver grassato un uomo
avendogli levato 27 paoli.
58 Gio. Domenico Raggi
59 Giuseppe Cioneo
«Impiccati» in Viterbo li 5 marzo 1803,
per omicidj e grassazioni.
60 Antonio Boracocoli,
«impiccato» in Ancona li 15 marzo 1803, per aver dato più coltellate ad
un marinaro, lo gettò nel mare ma non restò estinto, e gli
levò 200 scudi.
61 Francesco Conti, «impiccato»
in Città di Castello li 26 aprile 1803, per avere levato la
verginità a forza ad una zitella in casa del padre con altri cinque compagni,
e gli levarono un valsente di 30 scudi.
62 Angiolo Rossi, «impiccato» in
Gubbio li 2 maggio 1803, per omicidio be stiale e irragionevole.
63 Giovanni Tranquilli
64 Vincenzo Pellicciari
«Impiccati e squartati» a Ponte li
21maggio 1803, per grassazione e furti.
65 Nicola Rossi, «mazzolato e
squartato» in Terracina li 7 giugno 1803, per avere ucciso il Cancelliere di
Terracina e la sua testa fu posta in Cisterna.
66 Giuseppe delle Broccole,
«impiccato» in Frosinone li 8 agosto 1803, per omicidio e furti.
67 Vincenzo Bianchi, «mazzolato
e squartato» in Orvieto li 10 dicembre 1803, per omicidio e grassazioni.
68 Giuseppe Ceci, «impiccato» in
Frosinone li 8 marzo 1804, per omicidio e grassazioni.
69 Crescenzio, ossia Vincenzo
Imondi, «impiccato» in Frosinone li 12 luglio 1804, per omicidio volontario.
70 Mattia Ricci, «impiccato» al
Popolo li 22 settembre 1804, per omicidio e resistenza alla Corte.
71 Angiolo di Pietro di Agostini,
«impiccato e squartato» in Cascia li 10 ottobre 1804, per omicidio e sgrasso.
72 Gregorio Pinto
73 Paolo Bimbo
«Impiccati e squartati» in Iesi li 17 ottobre
1805, per grassazione.
74 Giuseppe Gatti
75 Mattia Gatti
76 Valentino Margheri
«Impiccati e squartati» al Popolo li
12febbraio 1805, per grassatori.
77 Domenico Civitella,
«impiccato» il dì suddetto, per grassatore.
78 Luigi Masi, «impiccato» a
Fermo li 30 marzo 1805 per avere sverginato una zitella, datile diversi colpi e
ucciso il padre della suddetta.
79 Filippo Mazzocchi
80 Giuseppe Guglia
«Impiccati e squartati» a Ponte li 10
giugno 1805, per grassatori.
81 Sebastiano Spadoni,
«impiccato» a Iesi li 4 settembre 1805, per avere ucciso il fratello carnale e
gettato nel pozzo.
82 Luigi Giovansanti, forzato,
«impiccato» in Civitavecchia li 23 settembre 1805, per avere ucciso un forzato.
83 Niccola Alicolis, «impiccato
e squartato» alla Merluzza il primo ottobre 1805, per assassinj.
84 Santi Moretti, «impiccato e
squartato» al Ponticello fuori di Porta San Paolo 1805 dall’aiutante, per
grassazione.
85 Gioacchino q. m Bernardino
Rinaldi, «mazzolato e squartato» in Campo di Fiore li 9 ottobre 1805, per
avere ucciso la moglie gravida di due figli ed il garzone.
86 Paolo Salvati, «impiccato e
squartato» in Macerata li 11 dicembre 1805, per avere grassato il corriere del
Papa ed un forastiere.
87 Bernardo Fortuna, «impiccato
e squartato» a Ponte Felice li 22 aprile 1806, per avere grassato il corriere
di Francia.
88 Pasquale Rastelli, «impiccato
e squartato» in Amelia li 20 maggio 1806, per omicidio e grassazione.
89 Tommaso Rotiliesi,
«impiccato» a Ponte li 9 giugno 1806, per avere ferito leggermente un ufficiale
francese.
90 Bernardino Salvati,
«impiccato» in Rieti li 12 luglio 1806, per avere ucciso un suo compare.
91 Giuseppe Pistillo detto
Fatino, «impiccato e squartato» in Terracina li 13 agosto. 1806, per grassatore.
92 Giuseppe Agnone, «impiccato e
squartato» in Terracina li 13 agosto 1806, per grassazione.
93 Giuseppe Chiappa, «mazzolato
e squartato» in Macerata li 25 settembre 1806, per sicario, cioè fu
incombensato di uccidere il padre di un giovane per scudi 50 di premio ed il
giovane fu condannato alla galera perpetua.
94 Gioacchino Cellini,
«impiccato» in Frosinone li 27 gennaio 1807, per omicidj e grassazioni.
95 Tommaso Grassi, «impiccato» a
Ponte li 15 aprile 1807, per avere ucciso il cognato, ed il suo compagno stette
sotto le forche.
96 Luigi Tomeucci, «impiccato»
in Frosinone li 21 aprile 1807, per più omicidj.
97 Cesare di Giulio
98 Bernardino Troiani
«Impiccati e squartati» in Campo
Vaccino li 2 maggio 1807, per grassatori.
99 Giuseppe Brunelli
100 Agostino Paoletti
«Impiccati» a Gubbio li 6 luglio 1807,
per omicidio a caso pensato per gelosia di donna.
101 Giuseppe Romiti, «impiccato»
a Narni li 12 dicembre 1807, per omicidio barbaro.
102 Angiolo Caratelli e il fratello
103 Paolo Caratelli
104 Antonio Scarinei
105 Rosa Ruggeri
«Impiccati» a Todi li 6 luglio 1808,
perché la donna fece ammazzare il marito dai suddetti.
per il taglio della testa nel Governo
Francese.
106 Tommaso Tintori, reo di
omicidio, li 28 febbraio 1810.
107 Saverio Ricca «alias» Principe
108 Giuseppe Loi
Rei di grassazione, li 5 marzo 1810.
109 Giuseppe Giandomenico, reo
di omicidio e grassazione li 12 marzo 1810.
110 Anna Morotti vedova Renzi
111 Vincenzo Gentili
112 Alessandro Valeri
Rei di omicidio, li 12 aprile 1810.
113 Domenico Dichilo
114 Antonio Talucci
Rei di omicidj, li 2 aprile 1810.
115 Raffaele Mori, per omicidio
volontario, li 8 maggio 1810.
116 Giovanni Scipioni, per
omicidio, li 28 maggio 1810.
117 Pasquale Masi, per
grassazione, li 27 giugno 1810.
118 Andrea Dagiuni, per
omicidio, li 3 luglio 1810.
119 Michele Filippi, per avere
tentato la morte del zio, li 7 luglio 1810.
120 Niccola Quintarelli, per
omicidio premeditato, li 30 luglio 1810.
121 Lorenzo Bellucci
122 Francesco Teatini
Per omicidio e grassazioni, li 21
agosto1810.
123 Domenico q. m Gaspero Germagnoli,
per uccisione del padre ed una donna, li 10 settembre 1810.
124 Evangelista Bufalieri, per
omicidio, li 14 detto.
125 Severio Iaunardi «alias» Sfacona,
per omicidi premeditati e assassini, li 25 suddetto.
126 Giovanni Cusciè, per
omicidi premeditati, li 14 novembre 1810.
127 Celio Lanciani, per omicidio
premeditato, detto.
128 Clemente D’Angelis, per
omicidio premeditato con assassinio verso lo zio, li 19 novembre 1810.
129 Camillo Cerini
130 Caterina Tranquilli
Omicidio e assassinio, li 26 suddetto.
131 Antonio Grepi, per omicidi
premeditati, li 9 febbraio 1811.
132 Giovanni Croce, per omicidio
con assassinio, li 2 maggio 1811.
133 Gaspero Bacciarelli, per
assassinio, li 18 maggio 1811.
134 Domenico Brucchioni
135 Gradigliano Patricelli
Per assassinio, li 25 giugno 1811.
136 Bartolomeo Andreozzi, per
assassinio, li 4 luglio 1811.
137 Gio. Domenico Pensierosi
138 Nicola Reali
Per assassinio, li 13 luglio 1811.
139 Silverio Patrizi, per
omicidio ed assassinio, li 22 detto.
140 Prospero Montagna, per
omicidio con premeditazione, li 6 novembre 1811.
141 Luigi Matocci, per omicidio
con premeditazione, li 31, dicembre 1811.
142 Francesco del q. m Pietro Paolo
Mattia, per assassinio, li 3 febbraio 1812.
143 Domenico Cracciani, per
omicidio con premeditazione, li 22 suddetto.
144 Lorenzo Tiberi, per omicidio
in persona del zio, eseguita la giustizia in Poggio S. Lorenzo li 18 marzo 1812.
145 Giuseppe Trombetti, per
omicidio premeditato, e
146 Pasquale De Sartis, per
assassinio, li 30 marzo 1812.
147 Luigi Lombardi, per
assassinio, li 2 ottobre 1812.
148 Maria Antonia Tarducci, per
infanticidio, li 10 novembre 1812.
149 Emanuel Calvi, per omicidio
ed assassinio, li 10 novembre 1812.
150 David Troia
151 Domenica Senese
Per omicidio demandato, li 9 dicembre
1812.
152 Giuseppe Padovani, per
assassinio con furto, li 12 dicembre 1812.
153 Benedetto Canale, per
assassinio, e
154 Giuseppe Sprega, per
omicidio con premeditazione, li 25 gennaio 1813.
155 Pompeo Greco, per assassinio
con premeditazione di omicidio, li 29 gennaio 1813.
156 Germano Franchi, per
tentativo d’uccisione con premeditazione; accaduta la esecuzione in Supino li
15 febbraio 1813.
157 Gio. Crisostomo Martini, per assassinio, li 2
aprile 1813.
158 Angiolo Maria Parisella
159 Antonio Gasparoni
Per assassinio con premeditazione, li
15 novembre 1813.
160 Francesco Grossi, per
omicidio con premeditazione, li 24 novembre 1813.
161 Luigi Bellaria, per omicidio
con premeditazione, li 28 dicembre 1813.
162 Gio. Antonio Antonelli
163 Pietro Proietto
«Forca e squarto», per grassatori, li
22 ottobre 1814.
164 Vincenzo Zaghetti, per
omicidio con grassazione, «alla forca», e
165 Sebastiano Tirelli, per
grassazione, «forca e squarto», li 3 dicembre 1814.
166 Francesco Quagliani
167 Mariano Bonotti
168 Gaetano Giordani
169 Angiolo Pozzi
Per grassatori, «forca e squarto», li
13 marzo 1815.
170 Antonio Cipriani, «mazzola e
squarto», per omicidio e ladrocinio; eseguita la giustizia in Norcia li 14
agosto 1815.
171 Francesco Perelli, per
omicidio appensato, «alla forca», e
172 Carlo Castri, «forca e
squarto» per grassazioni, li 17 febbraio 1816, al Popolo.
173 Domenico Posati, «forca» per
omicidj con premeditazione, eseguita in Narni li 7 marzo 1816.
174 Giuseppe Fiacchi, «forca»
per omicidio premeditato in odio di Liti Civili in Spoleto, li 9 marzo 1816.
175 Giuseppe Micozzi, per
omicidio proditorio con ladrocinio, «mazzola e squarto» al Popolo, li 6 aprile
1816.
176 Vincenzo Bellini
177 Pietro Celestini
178 Domenico Pascucci
179 Francesco Formichetti
180 Michele Galletti
Rei di più grassazioni; eseguita
in Roma li 18 maggio 1816, di «forca e squarto», al Popolo.
181 Gioacchino de Simoni,
«mazzola e squarto» in Collevecchio li 27 maggio 1816, per omicidio barbaro in
persona della moglie.
182 Giuseppe Tomei, «forca» a
Ponte, per omicidio con premeditazione, li 17 agosto 1816.
183 Antonio Antoniani, «forca» a
Ponte, per omicidio con premeditazione, li 7 settembre 1816.
184 Tommaso Borzoni, «taglio
della testa» al Popolo, per omicidi appensati e ladrocini, li 2 ottobre 1816.
185 Pietro Spallotta
186 Benedetto Piccinini
187 Carlo Antonio Montagna
«Taglio della testa e squarto» al Popolo, per
grassazione, li 10 ottobre 1816.
188 Carlo Desideri
189 Luigi Brugiaferro
190 Giovanni Mora
«Forca e squarto» in Viterbo per
grassazioni, li 16 ottobre 1816.
191 Paolo Antonini
192 Francesco Di Pietro
«Taglio della testa» al Popolo, per
grassazioni, li 14 dicembre 1816.
193 Saverio Gattofoni, «taglio
della testa» in Macerata, per avere ucciso sua moglie, li 20 gennaio 1817.
194 Antonio Guazzini,
«impiccato» in Firenze, per omicidio e grassazione, li 22 febbraio 1817.
195 Gio. Francesco Trani
196 Felice Rocchi
197 Felice De Simoni
«Decapitati» al Popolo, per omicidi e
grassazioni, li 19 maggio 1817.
198 Agostino Del Vescovo,
«decapitato» al Popolo, per omicidio e ladrocinio in persona di un prete, li 19
luglio 1817.
199 Antonio Casagrande, «decapitato
e squartato» in Gubbio, e la testa posta alla porta della città, per
avere ucciso tre ragazzi, due maschi e una femmina, con ladrocinio, li 28
agosto 1817.
200 Angiolo Conti, «decapitato»
al Popolo, per omicidio in persona della moglie, li 9 settembre 1817.
201 Alessandro Papini,
«decapitato» al Popolo, per ladrocini e grassazione, li 30 settembre 1817.
202 Domenico q. m. Giacomo Gigli, romano, «decapitato» al
Popolo, per omicidio irragionevole, il primo dicembre 1817.
203 (da ebreo) Angelo Camerino,
(da cristiano) Giuseppe-Angiolo, «impiccato» in Ancona, per omicidio, li
13 gennaio 1818.
204 Ambrogio Piscini,
«decapitato» in Loreto, per omicidio e grassazione, li 14 gennaio 1818.
205 Antonio Galeotti,
«decapitato» in Perugia, per omicidio proditorio e furto, li 23 febbraio 1818.
206 Andrea Emili, «decapitato»
al Popolo, li 13 aprile 1818, per avere ucciso il padre; la sua testa
trasportata e messa sulla porta di Rocca Priora.
207 Martino Sabatini
208 Andrea Ridolfi
«Forca e squarto» in Viterbo, li 22 aprile
1818, per più grassazioni, e trasportati detti quarti.
209 Antonio Cicolono
210 Luigi Renzi
«Forca» in Rieti, per grassazione ed
omicidio, li 21 novembre 1818.
211 Angiolo Antonio Piccini,
«forca» in Viterbo, li 12 dicembre 1818, per più delitti e grassazioni,
e per il barbaro omicidio in Civitella in persona della signora Bonfiglioli,
con derubamento in sua casa.
212 Domenico Fontana,
«decapitato» al Popolo, per più omicidj, li 10 marzo 1819.
213 Andrea q. m Giuseppe Dolfi,
romano, «decapitato» al Popolo, per omicidio irragionevole, essendo forzato al
Colosseo, li 2 agosto 1819.
214 Raffaele Vattani, romano,
«decapitato» al Popolo, per veneficio in persona della moglie, li 15 settembre
1819.
215 Pasquale q. m Vincenzo Ferrini,
regnicolo, per grassazione, «decapitato» al Popolo, li 2 dicembre 1819.
216 Elia Sauve, per ladrocinio,
«decapitato» al Popolo, li 16 settembre 1820.
217 Leonardo Narducci del fu
Bartolommeo, d’Ischia, per omicidj e grassazioni, «appiccato e squartato» a
Viterbo, li 26 ottobre 1820.
218 Gio. Batta Clementi di Giuseppe, da Rotella
nella delegazione d’Ascoli, «decapitato» al Popolo, per omicidio e ferite
qualificate, li 27 gennaio 1821.
219 Carmine q. m Pietro Scaccia
di Torrici, diocesi di Frosinone, di anni 23, reo di più grassazioni,
«decapitato» al Popolo, li 7 aprlie 1821.
220 Giuseppe Moriconi e
221 Benedetto De Carolis
«Decapitati» al Popolo, per
grassazioni, li 7 giugno 1821.
222 Carlo Samuelli e
223 Salvatore Torricelli, di Tivoli
«Decapitati» al Popolo, per
grassazioni, li 14 giugno 1821.
224 Francesco Monti
225 Domenico Taschini
226 Luigi Onelli
«Decapitati» al Popolo, per
grassazioni, li 28 luglio 1821.
227 Vincenzo Zaccarelli
228 Vincenzo Moretti
«Decapitati» a Ponte S. Angelo, per omicidj irragionevoli, li 6 agosto
1821.
229 Francesco q. m Niccola Ferri,
«fucilato» alla Bocca della Verità li 23 marzo 1822, e la sua testa
portata a Collepiccolo, distante miglia 46 da Roma.
230 Giuseppe Bartolini,
«decapitato» in Viterbo, per più grassazioni ed omicidi barbari, li 30
aprile 1822.
231 Angiolo Antonio fu Giuseppe
Monterubianesi
232 Pietro Antonio fu Giovanni Profeta
233 Angiolo fu Giorgio Mannelli
«Decapitati» a Ponte Sant’Angelo, per
grassazioni, li 8 giugno 1822.
234 Domenico Piciconi di
Caprarola, reo di omicidio, assassinio ed altro, «decapitato» in Viterbo, li 24
maggio 1823.
235 Giovanni Binzaglia,
«decapitato» in Perugia, li 13 agosto 1823, reo di omicidio in persona di una
ragazza di anni 16.
236 Francesco Venturi in Castel
Raimondo, per grassazioni ed altri delitti, li 18 dicembre 1823.
237 Antonio Capriotti,
«decapitato» in Fermo, per omicidio volontario e grassazioni, li 10 luglio 1824.
238 Niccola Sebastianelli,
«decapitato» alla Bocca della Verità, per grassazioni a mano armata, li
15 luglio 1824.
239 Domenico Maggi
240 Girolamo Candelori
«Decapitati» alla Bocca della
Verità per grassazioni e latrocinio, li 24 luglio 1824.
241 Pasquale Ciavarra,
«decapitato» in Frascati, per omicidio e grassazioni, li 6 ottobre 1824.
242 Giuseppe Panecascio,
«decapitato» in Frascati, per omicidio e grassazioni, li 6 ottobre 1824.
243 Michele Farelli
244 Camillo Pistoia
«Forca» in Pisterzo per aderenza
all’assassini briganti, li 26 ottobre 1824.
245 Tommaso Transerini, «forca»
in Propeli, per aderenza agli assassini briganti, li 27 detto.
246 Marco Quattrociocchi,
«forca» a S. Francesco, per i suddetti
motivi, li 17 novembre suddetto.
247 Giuseppe Sebastianelli,
«forca» a Vallecorsa, per aderenza agli assassini briganti, li 20 novembre 1824.
248 Francesco Cerquozzi, «forca»
a S. Lorenzo, come sopra, li 22 novembre
1824.
249 Giovanni Pietrantoni
250 Biagio Cloggi
251 Vincenzo Bovi
«Forca» in Giuliano come sopra, il
primo dicembre 1824.
252 Cesare Menta, «forca» a
Supino, come sopra, li 2 dicembre 1824.
253 Giovanni Montini, «forca» a Pratica,
come sopra, li 19 gennaio 1825.
254 Domenico Avoletti, «forca»
in Frosinone, per omicidi con premeditazione, li 14 aprile 1825.
255 Lorenzo Maniconi, «forca» in
Supino, per assassino brigante, li 18 aprile 1825.
256 Giovanni Gasbarroni,
257 Angiolo Gasbarroni
«Forca» in Supino, per aderenza agli
assassini briganti; li 18 suddetto.
258 Casimirro Rainoni,
«decapitato» in Ancona, per omicidio irragionevole, li 19 luglio 1825.
259 Leonida Montanari
260 Angiolo Targhini
«Decapitati» al Popolo li 23 novembre
1825, rei di lesa maestà e per ferite con pericolo.
261 Giuseppe q. m Vincenzo Franconi,
«mazzolato» al Popolo li 24 gennaio 1826, reo di omicidio e ladrocinio in
persona di un prelato.
262 Luigi Ponetti, «decapitato»
al Popolo, il primo marzo 1826, per omicidio con qualità gravanti.
263 Pietro Antonio q. m Felice
Tanucelli, «decapitato» al Popolo, li 15 marzo 1826, per omicidio
irragionevole.
264 Lorenzo Raspante,
«decapitato» in Viterbo, li 6 maggio 1826, per omicidio barbaro e
qualità gravanti.
265 Giuseppe q. m Biagio Macchia,
macellaro reo di omicidio in persona della moglie, «decapitato» li 16 settembre
1826.
266 Luigi Zanoli
267 Angiolo Ortolani
268 Gaetano Montanari
269 Gaetano Rambelli
Per omicidj ed attentato di omicidio
verso dell’E. mo Rivarola, «forca» in Ravenna li 13 maggio 1828.
270 Abramo Isacco Forti, detto Marchino
— ed avvelenamento. (sic)
271 Luigi Borgia del fu Camillo
da Montoro Romano, per omicidio qualificato e resistenza alla forza con ferite
con qualche pericolo, «decapitato» alla Bocca della Verità li 17 gennaio
1829.
272 Filippo di Pietro Cavaterra,
«decapitato» in Genzano li 13 luglio 1829, per avere ucciso il zio.
273 Antonio Vichi, «decapitato»
in Ancona li 5 gennaio 1830, per avere ucciso due creature con assassinio.
274 Angiolo Pasquali e
275 Giuliano, fratello
Di S. Benedetto, diocesi di Rieti, rei di barbaro
omicidio premeditato in odio di lite civile «decapitati» in Rieti li 30 gennaio 1830.
276 Domenico Valeri,
«decapitato» in Tolentino, per avere ucciso la moglie, li 15 febbraio 1830.
277 Luigi De Simoni, per
grassazioni e più delinquenze, «decapitato» in Albano, li 22 maggio 1830.
278 Vincenzo Bagliega di
Chiaravalle, per grassazioni, «decapitato» in Ancona li 12 giugno 1830.
279 Giacomo Martucci, reo di
barbaro omicidio, «decapitato» a Codescipoli, li 28 luglio 1830.
280 Francesco di Tommaso Battistini,
romano, «decapitato» alla piazza di Ponte S. Angelo, per omicidio qualificato con vendetta
traversale, li 18 agosto 1830.
281 Felice di Francesco Teatini
di Frascati, «decapitato» a Ponte S. Angelo, per omicidio irragionevole, li 11
settembre 1830.
282 Mattia Marinelli
283 Giovanni Canulli
Rei di più grassazioni,
«decapitati» li 25 settembre 1830 sulla Piazza di Ponte S. Angiolo.
284 Antonio Ascolani, reo di
omicidio nella persona del zio, «decapitato» in S. Benedetto, diocesi di Fermo, li 23 ottobre
1830.
285 Massimo Testa del Serrone,
reo di barbaro omicidio, «decapitato» in Paliano, li 12 luglio 1831.
286 Prospero Ciolli di Francesco
da Olevano, per prodizione e ladrocinio, «decapitato» a Ponte S. Angelo, li 22 settembre 1832.
287 Francesco Pazzaglia di
Colmurano di Tolentino, delegazione di Macerata, «decapitato» in Via de’
Cerchi, li 4 febbraio 1833.
288 Antonio Majani della
Granciolla
289 Francesco Massarini di Falconara
«Decapitati» in Falconara, diocesi di
Ancona per rapina notturna ed assassinio, li 30 marzo 1833.
290 Luigi Gambaccini d’Arcevia,
«decapitato» in Ancona, per grassazione con omicidio, li 7 maggio 1833.
291 Giuseppe Balzani della
Mendola, delegazione di Rimini, reo di lesa maestà, e
292 Giovanni Antonelli romano,
carrettiere, per aver ucciso la moglie, «decapitati» ambedue in Via de’ Cerchi,
li 14 maggio 1833.
293 Antonio Urbinati di Paterno,
per omicidio premeditato, «decapitato» in Ancona, li 19 giugno 1833.
294 Benedetto Mazio del fu
Giuseppe, romano, per omicidj turpi con premeditazione, «decapitato» a Ponte S.
Angelo, li 13 luglio 1833.
295 Luigi Cesaroni di Monte
Giuducci, legazione di Urbino e Pesaro, «decapitato» in Urbino, per omicidio
qualificato in persona di Luigi Costantini, li 22 febbraio 1834.
296 Filippo Risi di Albano, reo
convinto d’omicidio in causa turpe, «decapitato» in Albano, li 14 giugno 1834.
297 Tommaso Centra di Rocca
Gorga, per omicidio nella darsena di Civitavecchia in persona del cuoco
dell’ospedale, «decapitato» in darsena, li 18 giugno 1834.
298 Mariano Caroli di S. Alberto di Ravenna, e
299 Stefano Montanari da Cesena,
rei ambedue di omicidio nella darsena di Civitavecchia in persona del capo
infermiere, «decapitati» in detta darsena come sopra.
300 Giovanni Amicozzi di
Monteleone, reo di omicidio con premeditazione, «decapitato» in Rieti, li 30
giugno 1834.
301 Michele Bianchi di Osimo,
reo di uccisione della moglie, «decapitato» in Osimo, li 19 agosto 1834.
302 Domenico Egidi, detto Nino,
d’Ancona, per omicidio deliberato, «decapitato» in Ancona, li 11 febbraio 1835.
303 Francesco Lucarini «alias»
Botticelli, per omicidio barbaro, «decapitato» in S. Stefano, provincia di Frosinone, li 24 marzo
1835.
304 Giovanni Orioli di Lugo,
«decapitato» in Roma, li 11 luglio
305 Francesco Grossi di S. Severino, «decapitato» in detto, per
parricidio, li 17 ottobre 1835.
306 Antonio Rongelli di
Belvedere, per omicidio deliberato, «decapitato» in Ancona, li 20 febbraio 1836.
307 Antonio Sordini di Spoleto,
per omicidio deliberato, «decapitato» in Spoleto, li 26 marzo 1836.
308 Antonio Pianesi di Monte
Casciano, per più omicidj, «decapitato» in Macerata, li 27 ottobre 1836.
309 Luigi Galassi di Pofi, per
omicidio e grassazione, «decapitato» in Civitavecchia, li 21 dicembre 1837.
310 Paolo Ceccarelli di Poggio
Nativo, per omicidio premeditato, «decapitato» in Rieti, li 3 gennaio 1838.
311 Geltrude Pellegrini di
Monteguidone, per parricidio in persona del proprio marito, «decapitata» in Via
dei Cerchi, li 9 gennaio 1838.
312 Giuseppe Venturini di Albano
per omicidio con prevenzione e pensamento, «decapitato» in Via de’ Cerchi, li
25 gennaio 1838.
313 Giuseppe Conti di Mangiano
314 Santi Moretti di Castello
Per omicidio premeditato per gelosia di
donne, «decollati» in Perugia, li 10 febbraio 1838.
315 Domenico Bombardieri di
Filettino, per omicidio in persona della madre, «decapitato» in Frosinone, li 8
marzo 1838.
316 Ilario Ilari di Stefano; di
Corneto
317 Pietro Paolo Panci di
Domenico Antonio; di Corneto
318 Domenico Caratelli
319 Giuseppe Bianchi
Di Viterbo, per grassatori «decapitati»
in Viterbo, li 17 aprile 1838.
320 Antonio Piero da Jesi, per
omicidio barbaro, «decapitato» in Jesi
li, 26 aprile 1838.
321 Luigi Martelli
322 Niccola Guadagnoli
Di Manno, «decapitati» in Manno, li 24
luglio 1838, per omicidio e grassazione
323 Luigi Perugini del fu
Vincenzo, di Montolono, «decapitato» alla Madonna de’ Cerchi, li 4 settembre
1838, per ladrocinio.
324 Domenico Antonio Bellini di
S. Angelo in Capoccia, «decapitato» in
Tivoli, li 27 settembre 1838, per barbaro omicidio qualificato.
325 Dionisio Prudenzi di
Camerino «decapitato» in detto, li 27 ottobre 1838 per ussoricidio in persona
della moglie (sic. ).
326 Francesco Ferretti di Anagni
reo di omicidio premeditato, «decapitato» in Anagni, li 3 luglio 1839.
327 Pietro Pieroni, per omicidio
e ladrocinio, «decapitato» a Ponte S. Angelo, li 15 ottobre 1839.
328 Luigi Quattrociocchi, reo di
omicidio con animo deliberato, «decapitato» in Veroli, li 5 novembre 1839.
329 Girolamo Mazza del fu
Lorenzo di S. Marino, per parricidio in
persona di Antonio Celli come demandato, «decapitato» in Via de’ Cocchi, (Cerchi?)
dell’età di anni 29, li 19 febbraio 1840.
330 Anna Tomasi-Celli, «decapitata»
nello stesso giorno e luogo, dell’età di anni 40.
331 Pietro Bidei, per omicidio e
grassazione, «decapitato» a Civitacastellana, li primo aprile 1840.
332 Mariano Laura romano di anni
30 per omicidio deliberato, «decapitato» in Via de Cerchi, li 13 maggio 1840.
333 Luigi Scopigno di Rieti,
«decapitato» a Ponte S. Angelo, li 21
luglio 1840, per furto sacrilego della sacrosanta pisside con la dispersione
delle sacrosante particole.
334 Bernardo Coticone, reo di
omicidio, di Rosano, con premeditazione, in Tivoli, li 28 luglio 1840.
335 Tommaso Brunori di S. Giovanni Rietino
336 Pasquale Priori di Segni
Per omicidj nel Bagno di Spoleto,
ambedue «decapitati», li 6 agosto 1840 nella Rocca di Spoleto.
337 Angelo Crivelli «alias» Epifani
di Terni, per vari omicidj in persona del diacono Valentino Bevilacqua, e
chierico Basilio Luciani, ed secolare Raimondo Trippa, «decapitato», li 8
agosto
338 Pacifico Maccioni di Cingoli
di anni 26, e
339 Filippo Duranti di
Golignano, Delegazione di Ancona, di anni 25, ambedue rei di grassazione, ed
omicidio in persona d’uno Svizzero fuor di Porta S. Pancrazio, «decapitati» a Ponte, li 22 agosto
1840.
340 Baldassarre Fortunati di
Torri in Salina e
341 Vincenzo Stefanini di Torri
in Salina, di anni 29, ambedue rei di omicidio con animo di rubare,
«decapitati» in Rieti alla Piazza del Mercato, li 21 settembre 1840.
342 Angelo De Angelis
343 Antonio De Angelis: fratelli,
344 Giuseppe De Benedetti, tutti
e tre «decapitati» in Tivoli per omicidio e grassazione, li 13 gennaio 1841.
345 Vincenzo Morbiducci di
Albacina, «decapitato» in Macerata il primo marzo 1841 per omicidio premeditato
nella sua età di anni 61.
346 Pacifico Lezzerini di
Cingoli, per omicidio premeditato e grassazione, «decapitato», li 4 marzo
347 Damiano Marconi, figlio di
Nicola, di anni 29, di Capranica;
348 Antonio Demassini, del fu
Pietro, della Fratta, di anni 35;
349 Angelo Casini, d’Eugenio, di
Carbognano, di anni 25; tutti e tre in causa di omicidio nella Galera di
Civitavecchia, in cui erano forzati, in persona dell’infermiere, condannati
alla «decapitazione» in Civitavecchia nella Darsena, li 27 marzo 1841.
350 Pasquale Carbone, del fu
Saverio, d’anni 40, di Cresciano nell’Abruzzo, Regno di Napoli, per omicidio in
persona di un forzato per nome De Angelis nella Darsena di Civitavecchia,
«decapitato», li 27 marzo 1841: e morto impenitente.
351 Lorenzo Jannesi di Arnara,
«decapitato», li 22 maggio
352 Tommaso Olivieri, romano di
anni 24: per omicidio premeditato, «decapitato» in Roma in via de’ Cerchi e
morto impenitente, li 3 giugno 1841.
353 Luigi Lodi di anni 30, per
omicidio premeditato; li 8 giugno
354 Luigi Galletti, di anni 28,
idem.
355 Pietro Firmanti, anni 27,
idem.
356 Vincenzo Orlandi di
Collevecchio, anni 47, per omicidio, ed altri delitti.
357 Pietro Antonio Amici di
Colle Giove, di anni 33 circa, per delitti, cioè ferite ed omicidio, e
358 Michele Spoliti di Colle
Giove, di anni 38, per omicidio di piena deliberazione, li 19 giugno 1841. In Rieti, ambedue «decapitati» per una stessa
causa.
359 Bernardino Carosi del fu
Vincenzo, detto Scelletta, di anni 48: coniugato campagnuolo e segatore di
legname, di Borbone, provincia dell’Aquila;
360 Michelina Cimini del fu
Antonio, moglie di Giuseppe Carosi, di anni 35, filatrice di Cagnano del Regno
sud°;
361 Domenico Recchiuti di
Nicola, detto Saponaro, celibe di Lama, Provincia di Chieti, di arte Cardalana,
tutti e tre rei di latrocinio ed omicidio premeditato in persona di Caterina
Iachizzi moglie di Francesco orologiaro agli Uffizi del Vicario e dal Carosi
strozzata, ed incinta di sei mesi, ciò accaduto li 28 giugno 1840;
«decapitati» sulla piazza di Ponte S. Angelo li 20 luglio 1841. — Gran tumulto popolare e feriti per cagione
di alcuni ladri e borsaroli, ma essi morirono rassegnatissimi.
362 Pietro Tagliacozzo di
Olevano, reo di aver uccisa la propria genitrice condannato al «taglio della
testa», il giorno 19 gennaio
363 Bernardino Mirabelli della
Provincia dell’Aquila, reo di parricidio in persona del molinaro di Decima,
ambedue di anni quaranta, condannato «al taglio della testa» e successiva
esposizione in via de’ Cerchi, li 19 gennaio 1842.
364 Domenico Fiori del fu
Giuseppe, da Sirolo, di anni 30, reo di omicidio, condannato li 11 luglio 1842
al «taglio della testa» ad ore 12.
365 Pasquale Grespaidi di anni
24 fu «decapitato» in Viterbo il dì 30 luglio 1842 per avere ucciso un
carabiniere per averli domandato il suo nome.
366 Gaspare Pierini di
Città di Castello, di anni 23, reo di omicidio e sgrasso, «decapitato»
il dì 15 ottobre 1842.
367 Luigi Serenga di anni 24, di
Fermo, reo per aver ucciso un prete, «decapitato» infermo, li 24 detto mese ed
anno.
368 Giuseppe Ricci di Caprarola
di anni 24, reo di omicidio deliberato, «decapitato» in Ronciglione li 24
gennaio 1843.
369 Pasquale Boccolini di anni
34, di Loreto, per omicidio premeditato, «decapitato» in Macerata il primo
giugno 1843.
370 Gaetano
De Angelis
371 Luigi
De Angelis
di Velletri rei di omicidio e
grassazione, «decapitati» in Velletri li 12 settembre 1843.
372 Domenico Marcelli di Tivoli
di anni 21, per latrocinio, «giustiziato» li 30 settembre 1843 sulla piazza
della Madonna de’ Cerchi.
373 Vincenzo Moresi, romano di
anni 22, latrocinio, «giustiziato» come sopra.
374 Giuseppe Salvatori di
Saracinesco, governo di Tivoli, per omicidio proditorio, «giustiziato» li 30
settembre 1843 come sopra.
375 Domenico Abbo, «condannato
al taglio della testa» il giorno 4 ottobre 1843 ne’ Forte di S. Angelo per avere strangolato e sodomizzato il
suo nipote carnale con altre brutalità che fanno inorridire.
376 Pietro Rossi, romano di anni
24, pescivendolo per rapine notturne, e ferite di qualche pericolo, in unione
di
377 Luigi Muzi, romano di anni
23, calzolaro, del medesimo delitto, condannati alla «morte» in via de’ Cerchi
il giorno 9 gennaio 1844.
378 Angelo Cece
379 Antonio Tintisona
il primo di anni 21, ed il secondo 25,
da Monte Fortino, «decapitati» in Velletri il giorno primo giugno 1844, per
grassazione, e ferite, con qualche pe ricolo.
380 Gio. Battista Rossi di Francesco, di S. Vito, di anni 22 campagnolo, reo di
latrocinio, «condannato alla morte esemplare» il giorno 3 agosto 1844.
381 Bartolomeo di Pietro di anni
28, nativo di Roccantica, e
382 Giovanni Girardi di anni 25,
nativo come sopra, rei di omicidio in persona di un Frate Minore Osservante in
Roccantica «condannati al taglio della testa» il giorno 16 ottobre
383 Angelo Cesarini di Canistro
nel Regno di Napoli, di anni 26, reo di omicidio e grassazione in persona del
suo fratello cugino, «decapitato» in Paliano li 21 dicembre 1844.
384 Giovanni Vagnarelli del fu
Agostino da Gubbio, di anni 26, coniugato, campagnolo, per grassazione, ed
omicidio in persona di Anna Cotten Bavarese, condannato «al taglio della testa»
li 8 marzo
385 Raffaele Gammardella di
Ancona forzato, reo di omicidio deliberato, «giustiziato» in Spoleto li 2
aprile 1845.
386 Giuseppe Micozzi
387 Antonio Raffaelli
maceratesi, rei ambedue di omicidio e
sgrasso in persona di uno spazzino, «decapitati» in Macerata li 7 aprile 1845.
388 Pietro Bartolini di Ancona,
reo di omicidio con animo deliberato contro Berneimer Israelita Svizzero,
«decapitato» il giorno 10 aprile 1845.
389 Luigi Percossi, romano, reo
di omicidio con animo deliberato in persona di Angelo Bruschi Guardiano, perché
il Percossi era forzato; «decapitato» in Roma in via de’ Cerchi li 19 aprile
390 Francesco Antonio Bassani da
Monte Compatri di anni 23. Reo di
omicidio deliberato in persona di altro forzato nella Rocca di Spoleto, ivi
«giustiziato» li 3 luglio 1845, e tale omicidio mentre si faceva la comunione
nel bagno.
391 Niccola Trombetta di Patrica
nel Lazio, di anni 69, reo di omicidio con animo deliberato in persona del
caffettiere di Maenza con furto qualificato; «condannato alla morte» il giorno
12 agosto
392 Vincenzo Mariani di
Macerata, di anni 26, reo di omicidio deliberato, di professione calzolaro,
condannato al «taglio della testa» in via de’ Cerchi il giorno 30 agosto 1845.
393 Giuseppe Dragoni di S. Anatolia, Delegazione di Macerata,
«decapitato» in Spoleto li 23 ottobre 1845 per omicidio con animo deliberato in
persona del Custode della Rocca di Spoleto.
394 Niccola Ciarrocca di
Massignano, di anni 27, reo di omicidio deliberato in persona di una zitella da
lui incinta prima di matrimonio, «decapitato» in Massignano sud, li 30 ottobre
1845.
395 Francesco Meloni del fu
Pietro, nativo della Scarpa, di anni 34, capraro, reo di omicidio in persona di
Maria Lori sua moglie, avendola strangolata; «condannato alla morte esemplare»
li 15 gennaio 1846 ai Cerchi.
396 Fedele Moretta e il suo
fratello
397 Benedetto Moretta, per
grassazioni ed omicidj fatti, ed altre infamità «decapitati» li 4 marzo
398 Francesco Sciarra del fu
Francesco, nativo di Ienna diocesi di Subiaco, di anni 24, reo di grassazione
ed omicidio; «decapitato» in via de’ Cerchi il giorno 21 marzo 1846.
399 Michele Pezzana detto
Mechelone, di Poggio Renatico, reo di omicidio premeditato, forzato della Rocca
di Spoleto, ivi «decapitato» li 26 novembre 1846.
400 Angelo Pecorari, di Poli, di
anni 29. Contadino reo di omicidio
premeditato in persona di una donna, condannato alla «morte di
esemplarità» in Poli li 21 gennaio 1847.
401 Francesco Pesaresi di Osimo,
di anni 30, reo per un omicidio fatto in Ancona nel Bagno in persona di un
forzato; condannato al «taglio della testa» li 24 aprile
402 Giovanni Ciampicolo
403 Giuseppe Galli
404 Francesco Pasquali
405 Mauro Franceschelli
Forzati, per tre omicidj fatti nel
Bagno, «condannati a morte» il 1° luglio 1847, morti impenitenti in Spoleto.
406 Romolo Salvatori di
Cisterna, di anni 40, per aver fatto fucilare dai Garibaldini, in tempo di
Repubblica, l’Arciprete di Giulianello in Anagni; «decapitato» in quella
città li 10 settembre 1851.
407 Gaetano Pettinelli del fu
Giovanni, di Monteleone di Fermo, di anni 34, muratore, per omicidj per spirito
di parte; «decapitato» in via de’ Cerchi li 27 settembre 1851.
408 Bonaventura Stefanini
409 Benvenuto Cavalieri
410 Pietro Ventroni
tutti e tre «decapitati» sulla piazza
di Fabriano li 15 novembre 1851 per tentato omicidio con premeditazione, in
persona di un Sacerdote.
411 Pietro Giammaiere detto
Casciotta, di Terni domiciliato in S. Gemini distretto di Terni delegazione di
Spoleto, «decapitato» li 25 settembre 1852 per omicidio e grassazione in piazza
di Spoleto.
412 Sabbatino Proietti di circa
anni 25, «decollato» in Rieti per ladrocinio e grassazione li 20 agosto 1853,
morto convertito, ed è stata eseguita la giustizia sulla piazza del
Ponte.
413 Giacomo Biacetti del fu
Carlo, romano, di anni 26, gramiciaro;
414 Andrea Severi figlio del
vivente Antonio, romano, di anni 28, vaccinaro; rei ambedue di grassazioni e
furti qualificati ed omicidio, «decapitati» ai Cerchi li 10 settembre 1853.
415 Vincenzo Iancoli di
Ronciglione, reo di grassazione ed omicidio;
416 Francesco Valentini di Letera;
417 Francesca Levante vedova
Ferruccini, per omicidio: tutti e tre «decapitati» a Viterbo li 8 ottobre 1853.
418 Francesco Leandri di Marino,
condannato a «morte» per omicidio per omicidio premeditato li 12 ottobre 1853.
419 Gustavo Paolo Epaminonda
Rambelli del fu Gustavo, di Ravenna, ex finanziere, di anni 28;
420 Gustavo Marioni di Giuseppe,
d’anni 29, di Forlì, ex finanziere;
421 Ignazio Mancini di anni 30,
di Ascoli, ex finanziere; tutti e tre per omicidj commessi il primo il 30
aprile
422 Sante Costantini da Fuligno,
scapolo, di anni 24, complice nell’assassinio del Commendatore Conte Pellegrino
Rossi; condannato il di 15 novembre 1848
al «taglio della testa» in via de’ Cerchi li 22 luglio 1854 alle ore 6
e un quarto.
423 Pietro Chiappa
424 Landerio Civitella
425 Paolo Dolci
426 Filippo Dolci
il primo di anni 22, il secondo di anni
30, il terzo di anni 26, ed il quarto di anni 24, tutti Velletrani e rei di
grassazioni ed omicidj, condannati al «taglio della testa», giustizia eseguita
li 9 agosto 1854 alla Piazza di S. Carlo
in Velletri.
427 Angelo Racchetti di Gradoli,
per omicidio premeditato, «decapitato» nella città di Valentano li 30
settembre 1854.
428 Giovanni Sabbatini
marcheggiano, per omicidio e tentata grassazione «decapitato» in Frascati li 15
novembre 1854.
429 Giovacchino Leoni di
Caprarola, per omicidio ed incendio alla persona dell’ucciso; «decapitato» in
Ronciglione li 28 novembre 1854.
430 Pietro Muzi di Trevisano per
aver grassato ed ucciso il proprio compare, «decapitato» nella Città
d’Acqua Pendente li 16 gennaio 1855, morì impenitente.
431 Giuseppe De Cesaris di Monte
Leone di Cascia condannato per grassazione ed omicidio al «taglio della testa»
li 6 febbraio
432 Luigi Scipioni di Petescia,
di anni 28, «decapitato» in Rieti li 10 febbraio 1855 per omicidio premeditato.
433 Domenico Scappoti di
Sismano, di anni 46, per omicidio con animo premeditato, condannato all’ultimo
«supplizio» li 15 marzo
434 Bernardino Valeriani del fu
Giuseppe da Palombara, di anni 28, bifolco, per omicidio premeditato
«decapitato» in via de’ Cerchi li 2 maggio 1855.
435 Filippo Troncarelli di
Ronciglione, avendo ucciso il suo fratello di anni 29, condannato alla
«decapitazione» in Ronciglione li 23 giugno 1855.
436 Crispino Bonifazi di
Viterbo, per matricidio fatto in Viterbo condannato all’ultimo «supplizio» li 25
giugno 1855.
437 Francesco Bertarelli di
Viterbo, per titolo di grassazione condannato all’ultimo «supplizio» li 25
suddetto.
438 Antonio Moschini dei casali
di Viterbo, reo di grassazione condannato all’ultimo «supplizio» li 25 giugno
1855.
439 Giovanni Cruciani di Rieti,
per titolo di grassazione condannato al «taglio della testa» in Viterbo li 25
giugno 1855.
440 Paolo Moretti di Monte
Fiascone, «decapitato» li 26 giugno 1855, per aver ucciso il suo avversario e
quindi la sua sorella carnale, morì alle ore 12.
441 Pietro Antonio Barbero di
Grotta di Castro, reo di grassazione, condannato all’ultimo «supplizio» li 27
giugno 1855.
442 Arberto Cicoria di
Città di Castello, per ladrocinio e omicidio condannato all’ultimo
«supplizio» li 26 giugno 1855.
443 Giosuè Mattioli di
Viterbo, per grassazioni condannato all’ultimo «supplizio» in Viterbo.
444 Neri Domenico Vetrella, reo
di grassazione; condannato all’ultimo «supplizio» li 30 giugno 1855.
445 Benedetto Ferri di Casali di
Viterbo, reo di grassazione condannato a «morte» a Viterbo li 30 giugno 1855.
446 Salvatore Tarnalli di Casali
di Viterbo, reo di grassazione condannato alla «morte» in Viterbo li 30 giugno
1855.
447 Antonio del fu Ferdinando De
Felici, romano, di anni 35, di professione cappellaro, per attentato
commesso in persona dell’Emo. Cardinale
Antonelli segretario di Stato, condannato a «morte» li 11 luglio
448 Pietro Ciprini di Viterbo,
di anni 19, per grassazione condannato a «morte» in Monte Rosi li 7 agosto 1855.
449 Giacomo Salvatori di Valle
Pietra, diocesi di Subiaco, per omicidio, condannato alla «morte» esemplare li
17 agosto
450 Luigi Sarra nativo di S. Angelo, di anni 29, e
451 Nicola Arrigoli nativo di
Treia, di anni 22, «decapitati» in Civitavecchia li 13 ottobre 1855.
452 Alessandro Guenzi di
Sinigaglia, di anni 31, per omicidio; eseguita la giustizia in Toscanella li 15
ottobre 1855.
453 Germano Proietti reo fu
«decapitato» in Civita Castellana li 18 ottobre 1855.
454 Arcangelo Finestraro da S. Buceto, per aver ucciso la propria moglie,
«decapitato» in Amelia li 20 ottobre 1855.
455 Pietro Pace
456 Giuseppe Partenzi
457 Martino Rossi
Rei di omicidio di una giovane,
«decapitati» in Spoleto li 23 ottobre 1855.
458 Maria Rossetti
459 Serafino Benfatti
Rei di omicidio in persona della propria
moglie, «decapitati» in Perugia li… 1855.
460 Giovanni Di Giuseppe di
Faenza, di anni 36, reo per aver ucciso un ispettore di polizia, «decapitato»
li 29 ottobre 1855.
461 Raimondo Bregna, Spagnolo,
per omicidio premeditato fatto in Campagnano, «decapitato» li 6 novembre 1855.
462 Cesare Barzetto, romano, di
anni 30, e
463 Giacomo del fu Francesco Mercatelli,
romano, di anni 30, per aver ucciso il custode delle carceri di Termini,
«decapitati» in Roma li 9 gennaio 1856, impenitenti.
464 Lorenzo Mariani di Terni,
per omicidio insidioso, morto in Terni li 5 aprile 1856.
465 Giuseppe Conti di Terni, per
omicidio insidioso, morto in Terni impenitente il giorno sudetto.
466 Filippo Lucchetti della
Piaggia, eseguita la giustizia in Trevi il giorno 7 aprile 1856 per omicidio
premeditato.
467 Odoardo Baldassarri di
Ancona, per omicidio impremeditato in persona di Francesco Cinti; eseguita la
giustizia in Trevi li 14 aprile 1856.
468 Giuseppe Grilli di Albano,
di anni 26, per omicidio e grassazione condannato al «taglio della testa» in
Albano li 26 aprile 1856.
469 Antonio de Marzi di Albano,
di anni 55, per grassazione ed omicidio condannato all’«ultimo supplizio» in
Albano il giorno sudetto.
470 Pio Capolei di Marino di
anni 22, per omicidio premeditato in persona del Brigattiere Maccaroni di detta
Città, «decapitato» in Marino il giorno 8 maggio 1856.
471 Giuseppe Terenziani detto
Fritella di anni 59, di Todi, per aver ucciso la propria madre condannato alla
«decapitazione» in Todi li 18 giugno 1856.
472 Antonio Caprara detto
Ciovettolo, romano di anni 27, facocchio, per omicidio premeditato condannato
al «taglio della testa» li 6 settembre 1856.
473 Bartolomeo Oli di Lobo
delegazione di Macerata, di anni 36, campagnolo, per omicidio e grassazione
«decapitato» in via de’ Cerchi il giorno sudetto.
474 Nemesio Pelonzi di
Palombara, di anni 30, per omicidio premeditato in persona dello speziale di
Palombara «decapitato» in Palombara li 13 dicembre 1856.
475 Francesco Roschini di
Marcellina, di anni 27, per omicidio premeditato «decapitato» in Palombara il
giorno sudetto.
476 Nicola De Bonis di
Marcellina, di anni 27, per omicidio premeditato «decapitato» come sopra il
giorno sudetto.
477 Antonio De Angelis di
Marcellina, di anni 27, per omicidio premeditato «decapitato» come sopra il
giorno sudetto.
478 Achille Malaccari di Ancona
di anni 30 per aver ucciso il proprio padre «decapitato» in Ancona li 26
gennaio 1857.
479 Domenico Carloni di S. Valentino diocesi di Perugia, di anni 40, per
omicidio e grassazione «decapitato» in Perugia li 7 marzo 1857.
480 Anacleto Marchetti di
Giulianello di anni 35, per omicidio di un uomo ed una donna e poi per aver
incendiato una casola di grano «decapitato» in Monte Fortino li 5 maggio 1857.
481 Domenico Capolei del fu
Ottavio, di Marino per aver ucciso il Governatore di Marino, Luigi Giuliani,
«decapitato» in Marino li 2 maggio 1857.
482 Francesco Elisei di
Velletri, di anni 23 per omicidio volontario «decapitato» in Civita Castellana
li 22 dicembre 1857.
483 Serafino Ciucci di Subiaco,
di anni 34, reo di omicidio con animo deliberato di rubare ed altri delitti,
«decapitato» in Subiaco li 23 gennaio 1858.
484 Davidde Foschetti di
Bassanello, di anni 32, per omicidio di una donna «decapitato» in Orfe li 16
marzo 1858.
485 Giuseppe Berfarelli di
Viterbo, di anni 22, «decapitato» in Viterbo li 23 giugno 1858 per omicidio e
grassazione.
486 Carlo Camparini di Viterbo,
di anni 21, per omicidio e grassazione «morto» in Viterbo il giorno sudetto.
487 Alpini Giorgio
488 Sebbastiano Filippo
489 Rossi Pietro di S. Martino, per grassazione, «decapitati» nella
Città di Spoleto li 17 agosto 1858.
490 Vincenzo Pagliara di
Frosinone, per omicidio con animo deliberato, «decapitato» in Frosinone li 13
ottobre 1858.
491 Pietro Masciotti, per
omicidio e sgrasso «decapitato» in Perugia li 23 ottobre 1858.
492 Vincenzo Lodovici, di anni
33, per omicidio deliberato «decapitato» li 8 gennaio 1859 nella fortezza di
Civita Castellana.
493 Giovanni Cosinia, di anni
26, del fu Nicola, di Carbognano, condannato alla «morte esemplare» per
omicidio li 2 marzo 1859.
494 Gennaro Castellone, di anni
28, di Silvestro, di Cellano, per omicidio alla «morte esemplare» li 2 maggio
1859.
495 Nazareno Caponi, natio di
Monteleone, reo di fratricidio, «decapitato» in Treia li 11 maggio 1859.
496 Giuseppe Lepri, di anni 30,
nativo di Civitella di Agliano, sgrassatore, «morto» in Viterbo li 17 settembre
1859.
497 Pietro Pompili, di anni 33,
nativo di Civitella di Agliano, sgrassatore, «morti» impenitenti in Viterbo il
giorno sudetto.
498 Vincenzo Vendetta, velletrano
499 Antonio di Giacomo, velletrano
500 Luigi Nardini, velletrano
501 Antonio Vendeta, per
grassatori ed omicidj «morti» in Velletri li 29 ottobre 1859.
502 Valentino Antonio di
Giacomo, tutti e cinque velletrani.
503 Luigi Bonci di Gennaro,
delegazione di Perugia, alla «morte esemplare» li 14 gennaio 1860.
504 Serafino Volpi di Orvieto,
alla «morte esemplare» li 18 gennaio
505 Antonio Simonetti, per
omicidio con animo deliberato «decapitato» nella Darsena di Civitavecchia li 21
gennaio 1860, morto impenitente.
506 Giuseppe Alessandrini di
Luigi, di Mosciano di Jesi, di anni 24, condannato dal Tribunale Criminale li
14 marzo 1859 per omicidio alla «morte esemplare».
507 Lugi Finochi di Corneto, di
anni 30, per uxoricidio «decapitato» in Corneto li 21 luglio 1860.
508 Adamo Mazzanti, di Jesi, per
omicidio in persona di padre, madre e figlio; fu eseguita la «giustizia» li 12
settembre 1860.
509 Luigi Gagliardi, grassatore
per assassinio ed omicidio, «decapitato» in Civitavecchia li 12 gennaio 1861.
510 Nazazreno Gercorini, per
omicidio e sgrasso per lo stesso motivo come sopra.
511 Gaetano Lucarelli, di
Marino, di anni 29, per omicidio traversale «morto» in Marino li 30 aprile 1861
impenitente.
512 Cesare Locatelli, romano, di
anni 37, reo di omicidio con animo di parte, «morto» in via de’ Cerchi li 21
settembre 1861.
513 Angelo Lisi di Alatri, reo
di grassazione con animo deliberato, «morto» in Frosinone li 30 aprile 1862.
514 Angelo Isola di Rocca Secca
nel Regno di Napoli, reo di grassazione, morto in Subiaco li 11 giugno 1864.
515 Antonio Olietti, romano, reo
di omicidj ed altri delitti, morto in via de’ Cerchi li 17 agosto 1864.
516 Domenico Antonio Demartini,
regnicolo, reo, di omicidj, «morto» in via de’ Cerchi li 17 agosto 1864.
Così finisce la lunga lista del
Bugatti. Rechiamo ora quella brevissima
del suo successore.
Nella Darsena di Civitavecchia
addì 20 maggio 1865 Saturnino Pescitelli.
In Viterbo addì 17 febbraio 1866
Salvatore Silvestri.
In Bracciano addì 23 maggio 1866
(doveva eseguirsi la sentenza contro Antonio di Giuseppe o Ventura,
ma non fu eseguita)[1]
In Roma addì 21 luglio 1866 Francesco
Ruggeri e Pasquale Berardi.
In Supino addì 11 febbraio 1867 Paolo
Caprara.
In Frosinone addì 11 marzo 1867 Giovanni
Capri.
In Veroli addì 12 marzo 1867 Ignazio
Bubali.
In Zagarolo addì 8 ottobre 1867 Ascenzo
Palifermanti.
In Palestrina addì 23 maggio
1868 Pasquale Dicori.
In Roma addì 24 novembre 1868 Monti
Giuseppe e Tognetti Gaetano.
In Rocca di Papa addì 14 luglio
1869 Francesco Martini.
In Palestrina addì 9 luglio 1870
Agabito Bellomo.
[1] Ecco la spiegazione del fatto:
Il Condannato salì al patibolo recitando preghiere alla Madonna.
La mannaia non discese perché si erano spostati i travi del palco per il peso delle persone salite sul palco e per essere il terreno molle per la pioggia caduta nel giorno precedente.
Quando la mannaia si arrestò nel discendere il popolo cominciò a gridare: grazia, grazia. Il Carnefice avrebbe voluto ripetere la esecuzione, ma nell’indecisione delle autorità locali si oppose recisamente il Confortatore Monsignor Pelami.
Non essendovi telegrafo a Bracciano si fece immediatamente rapporto al Ministro dell’Interno ed il Pelami volle recarsi in persona dal Ministro a perorare la causa del condannato.
Questi fu ricondotto in Roma e detenuto in carcere, e dopo il cambiamento di governo fu rimesso in libertà.