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F.D. GUERRAZZI
BEATRICE CÈNCI
STORIA DEL SECOLO XVI
PISA
A SPESE DELL'EDITORE
1854.
Questa Edizione è posta
sotto la tutela delle leggi relative. - Per cui si avranno per contraffatti
quegli Esemplari non muniti della firma dell'Editore.
Tip. Vannucchi.
INDICE
Introduzione
Cap. I. Francesco Cènci
II. Il parricidio
III. Il ratto
IV. La tentazione
V. Ancora di Francesco
Cènci
VI. Nerone
VII. La chiesa di San Tommaso
VIII. Disperazione
IX. Il suocero
X. Il convito
XI. Lo incendio
XII. Dello asino
XIII. Il tradimento
XIV. Monsignore Guido Guerra
XV. L'ammazzata di Vittana
XVI. Il memoriale
XVII. Il Tevere
XVIII. Roma
XIX. Le fantasime
XX. La notte scellerata
XXI. Il mantello rosso
XXII. La tortura
XXIII. I giudici
XXIV. Il sagrifizio
XXV. Il giudizio
XXVI. La confessione
XXVII. Le vesti
XXVIII. La figlia del
carnefice
XXIX. La grazia
XXX. La moglie
XXXI L'ultima ora
XXXII. Il sepolcro
A
MASSIMO CORDERO
MARCHESE DI MONTEZEMOLO, SENATORE DEL REGNO
Non potendo in altro modo
sdebitarmi dell'amicizia, che malgrado l'asprezza della fortuna e la
malignità degli uomini, tu, nobile veracemente, mi conservasti, questo
mio libro intitolo al tuo nome, e desidero tu lo abbi caro. - Sta sano.
Bastia, 20 novembre 1853
A
Torino.
Aff.mo Amico
F.D. GUERRAZZI
INTRODUZIONE
Amoroso ti versa a raccontare
Questa storia di pianto, o
pianto mio.
Anfossi.
Io quando vidi la immagine
della Beatrice Cènci, che la pietosa tradizione racconta effigiata dai
pennelli di Guido Reni, considerando l'arco della fronte purissimo, gli occhi
soavi e la pacata tranquillità del sembiante divino, meco stesso pensai:
ora, come cotesta forma di angiolo avrebbe potuto contenere anima di demonio?
Se il Creatore manifesta i suoi concetti con la bellezza delle cose create,
accompagnando tanto decoro di volto con tanta nequizia d'intelligenza non
avrebb'egli mentito a se stesso? Dio è forse uomo, per abbassarsi fino
alla menzogna? I Magi di Oriente e i Sofi della Grecia insegnarono, che Dio
favella in lingua di bellezza. La età ghiacciata tiene coteste dottrine
in conto di sogni, piovuti dal cielo in compagnia delle rose dell'aurora: lo
so. Serbi la età ghiacciata i suoi calcoli, a noi lasci le nostre
immagini; serbi il suo argomentare, che distrugge; a me talenta il palpito che
crea. I pellegrini intelletti illuminano di un tratto di luce i tempi avvenire;
per essi i fati non tengono i pugni chiusi; su l'oceano dello infinito
appuntando gli occhi della mente, scorgono i secoli lontani come l'alacre
pilota segnala il naviglio laggiù in fondo, dove il mare si smarrisce
col firmamento. A questi sogni divini, che cosa avete sostituito voi, uomini
dal cuore arido? La verità, voi dite. Sia; ma la dottrina di cui ci
dissetate è tutta la verità? È ella eterna, necessaria,
invincibile, o piuttosto transeunte e mutabile? No; le verità che
deturpano la creatura non formano la sua sostanza, del pari che le nuvole non
fanno parte del cielo. - O giovani generazioni, a cui io mi volgo; o care
frondi di un albero percosso dal fulmine, ma non incenerito, Dio vi conceda di
credere sempre il bello ed il buono pensieri nati gemelli dalla sua mente
immortale; - due scintille sfavillate ad un medesimo punto dalla sua
bontà infinita - due vibrazioni uscite dalla stessa corda della lira
eterna, che armonizza il creato.
Così pensando io mi
dava a ricercare pei tempi trascorsi: lèssi le accuse e le difese;
confrontai racconti, scritti e memorie; porsi le orecchie alla tradizione
lontana. La tradizione, che quando i Potenti scrivono la storia della innocenza
tradita col sangue, che le trassero dalle vene, conserva la verità con
le lacrime del popolo, e s'insinua nel cuore dei più tardi nepoti a modo
di lamento. Scoperchiai le antiche sepolture, e interrogai le ceneri.
Purchè sappiansi interrogare, anche le ceneri parlano. Invano mi si
presentarono agli occhi uomini vestiti di porpora: io distinsi dal colore del
mollusco marino quello del sangue, che da Abele in poi grida vendetta al
cospetto di Dio; - ahi! troppo spesso indarno. Conobbi la ragione della offesa:
e ciò, che persuase il delitto al volgare degli uomini, usi a supporlo
colà dove colpisce la scure, me convinse di sacrificio unico al mondo.
Allora Beatrice mi apparve bella di sventura; e volgendomi alla sua larva
sconsolata, la supplicai con parole amorose:
«Sorgi, infelice, dal tuo
sepolcro d'infamia, e svelati, quale tu fosti, angiolo di martirio. Lunga
riposa l'abominazione delle genti sopra il tuo capo incolpevole; e non pertanto
reciso. Poichè seppi comprenderti, impetrami virtù che basti a
narrare degnamente i tuoi casi a queste care itale fanciulle che ti amano come
sorella poco anzi dipartita dai dolci colloquii, quantunque l'ombra di due secoli
e mezzo si distenda sopra il tuo sepolcro.»
Certo, questa è storia
di truci delitti; ma le donzelle della mia terra la leggeranno: -
trapasserà le anime gentili a guisa di spada, ma la leggeranno. Quando
si accosterà loro il giovane che amano, si affretteranno, arrossendo, a
nasconderla; ma la leggeranno, e ti offriranno il premio che unico può
darsi ai traditi - il pianto.
Ed invero, perchè non
la dovrebbero leggere? Forse perchè racconta di misfatti e di sventure?
La trama del mondo si compone di fila di ferro. La virtù nel tempo pare
fiaccola accesa gettata nelle tenebrose latebre dello abisso. Fate lieta fronte
alla sventura; per molto tempo ancora siederà non invitata alle vostre
mense, e temprerà il vostro vino col pianto. Quando cesserete di piangere
voi sarete felici. E giovino adesso le lacrime e il sangue sparsi;
imperciocchè il fiore della libertà non si nudrisca che di
siffatte rugiade. La virtù, disse Socrate, in contesa con lo infortunio
è spettacolo degno degli Dei. Bisogna pure che sia così,
dacchè troppo spesso se lo pongano dinanzi ai loro occhi immortali.
Pensoso più di te, che
di me stesso, io piango e scrivo. Educato alla scuola dei mali, mi sono sacri i
miseri. I fati mi avvolsero fino dalla nascita la sventura intorno alla vita
come le fasce della infanzia: - la sventura mi porse con le mammelle rigide un
latte acerbo, ma la sventura ancora mi ha ricinto i fianchi con la zona della
costanza; per cui dentro il carcere senza fine amaro incominciai questo
racconto, e dentro il carcere adesso io lo compisco.
Sopra la terra si levarono e
si levano soli, nei quali la stirpe dei ribaldi, per celare il pallore del
rimorso o della paura, s'imbrattano la faccia col sangue dei magnanimi, come
gl'istrioni della tragedia di Tespi se la tingevano di mosto. - Lo ricordino
bene le genti: quando l'amore di patria è registrato nel codice come
delitto capitale - la tirannide allaga a modo di secondo diluvio.
Ma la storia non si
seppellisce co' cadaveri dei traditi: essa imbraccia le sue tavole di bronzo quasi
scudo, che salva dall'oblio i traditi e i traditori.
Nella sala grande di
Palazzovecchio in Firenze, nella estremità della parete volta a
tramontana havvi un quadro, dove scorgi un nano precursore del duca Cosimo
dentro Siena, con un fanale acceso nella destra. Cotesta immagine è
simbolo, o verità? Cotesto nano non è morto senza posteri: sceso
da serie lunghissima di antenati, ha dovuto lasciare una discendenza che per
ora non sappiamo quando sarà per cessare.
Al tramonto del sole alcuni
uomini hanno guardato la propria ombra; e, vedutala lunga, si sono creduti
grandi. Beati loro se fossero morti a mezza notte! Però non senza
intendimento la fortuna gli ha conservati in vita: essi hanno insegnato che
mille uomini mediocri, uno aggiuntato all'altro, non formeranno mai un grande
uomo; - e molto meno un uomo di cuore.
Apolli di gesso vuoti, ma
tristi; abietti, ma iniqui; - menzogna di divinità. Quando atterrarono
in Alessandria la statua del Sole, trovarono la sua testa ricettacolo di
ragnateli: quello che troveremmo nella vostra non so; quel che conosco di certo
si è, che il vostro cuore racchiude un nido di vipere.
Le mani sono di Esaù,
la voce è di Giacobbe, diceva Isacco; in voi, voce mani e anima tutto
è di Augustulo; imperciocchè la debolezza si accoppii ottimamente
con la crudeltà. Giuda senza rimorso, Claudii senza impero - uscite
dalla mia mente per sempre.
Però mi contrista un
pensiero, ed è: che dal mal seme presto o tardi nasce un frutto pessimo.
O Creatore, tu che hai insegnato come il bene non sorga dai sepolcri, -
disperdi, io ti scongiuro, il giorno delle vendette.
Verrà un dì, e
verrà sento, in cui i miei conterranei daranno sepoltura onorata a
questo corpo stanco accanto alle ossa paterne. Colà in quel monte, a
capo della Terra ov'ebbi nascimento, la mia tomba vi appaia quasi una mano
distesa per benedirvi. A me giovi la pietà vostra dopo la mia morte; io
vi ho amato dal giorno che apersi gli occhi alla vita; - e quando condurrete i
vostri figli al Santuario della Vergine, mostrando la mia lapide dite loro:
«Qui dentro riposa un uomo,
che ebbe la fortuna nemica fino dall'ora che gli versarono sul capo l'acqua del
battesimo; tutta la sua vita fu una lunga lotta con lei: ma le lotte con la
fortuna assomigliano a quella di Giacobbe con l'Angiolo. Superato, non vinto,
amò, soffrì e si travagliò del continuo pel decoro della
Patria. Non provò amici popoli, nè principi; - -lo saettarono
tutti. Dall'alto e dal basso gli lanciarono strali crudeli. Parte di vita gli
logorarono le carceri, parte l'esilio. Prigioniero meditò e scrisse;
libero si affaticò per la salvezza comune, e principalmente per quella
de' suoi nemici od emuli. Invano la ingratitudine tentò riempirgli
l'anima d'odio. Le acque dello affanno lasciavano ogni amarezza nel passargli
sul cuore. Offeso gli piacque la potenza, e la ebbe per dimostrare col fatto,
che tenne la vendetta passione di menti plebee; nè perdonava soltanto,
ma (più ardua cosa assai) egli obliò([1]). La spada della legge,
confidata nelle sue mani, non convertì in pugnale di assassino. Quando
altro non potè fare, col proprio seno tutelò la vita di uomini
che sapeva essergli stati, e che avrebbero durato ad essergli nemici. Il popolo
un giorno lo ruppe come un giuoco da fanciullo; i potenti lo gittarono alle
moltitudini insanite come uno schiavo nel circo delle fiere. Consumato nelle
viscere, egli cadde sopra un mucchio di rovine e di speranze; e non pertanto,
morendo, lasciava alle genti il desiderio di costumi migliori, e di tempi meno
infelici. Le sue dita, con ultimo moto, segnarono per testamento sopra questa
terra desolata le parole: virtù, libertà.»
CAPITOLO I.
FRANCESCO CÈNCI
Per tutti i
cerchi dello Inferno oscuri
Spirto non vidi
in Dio tanto superbo.
dante.
Non so se più soave, ma
certamente simile alla Madonna della Seggiola di Raffaello avrebbe dipinto un
quadro colui, che avesse tolto a imitare per via di colori il gruppo, che stava
aspettando Francesco Cènci nella sala del suo palazzo. Una sposa di
forse venti anni, seduta sopra i gradini di un finestrone, teneva al petto il
suo pargolo; e dietro alla sposa un giovane di egregie sembianze, col volto
basso, contemplava cotesto spettacolo di amore: egli solleva le mani giunte e
alquanto piegate verso la spalla sinistra, per ringraziare Dio di tanta
prosperità che gli manda. La sembianza e lo atteggiamento dimostrano
come in quel punto lo commuovano tre affetti, che fanno l'uomo divino. Le mani
erano a Dio, lo sguardo al figlio, il sorriso alla sposa. - Però la
donna non vedeva cotesto sorriso, chè lei assorbivano intera i doveri e
la dignità di madre. Il fanciullo sembrava un angiolo, il quale avesse
smarrita la via per tornarsene in cielo.
Ma dall'altra parie della sala
stava disteso sopra un pancone un uomo, che sembrava avesse fornito a
Michelangiolo il modello di taluno de' suoi famosi crepuscoli. Appena mostrava
il volto, celato sotto il cappello di larghe falde e conico di forma. La barba
avea lunga, rabbuffata e grigia; la pelle, simile a quella che Geremia deplora
nei figliuoli di Sion, tinta di cenere come il pavimento del forno([2]). Si avviluppava dentro un
ampio tabarro: le gambe e i piedi, l'uno soprammesso all'altro, aveva calzati
di sandali, giusta il costume degli uomini del contado di Roma. Forse egli era
armato, ma teneva le armi nascoste; però che la Corte Romana, dopo papa
Sisto V, procedesse molto rigidamente in simile faccenda.
Chiunque, in mezzo della sala,
avesse posto mente prima al gruppo dell'amorosa famiglia e poi a quell'uomo,
avrebbe ricordato il detto della Scrittura: divise le tenebre dalla luce([3]).
Due giovani gentiluomini
passeggiavano per la sala, taluni con veloci e talora con tardi passi,
ricambiando parole a voce alta, o sommessa. Il primo aveva la pelle chiazzata
di vermiglio come macchie di erpete; dalle pupille nere, luccicanti traverso i
cigli infiammati, traluceva la ferocia, mescolata ad un certo smarrimento
mentale: rari ed irti i capelli: sozzi i denti: il naso camuso e le guance
flosce lo arieggiavano col cane da presa. Le vesti, comecchè
nobilissime, erano scomposte: la parola usciva impetuosa e roca dai labbri
riarsi: accenti impuri, cui forse natura per rendere più laidi volle
accompagnati con fetido fiato: rotti e continui i moti delle spalle, dei bracci
e del capo. Il delitto stava là dentro come un vulcano prossimo a
prorompere.
L'altro poi era pallido, e di
aspetto gentile: copiosa e ben composta la chioma bionda, tardo e mesto a
guardare e a parlare: sovente distratto: qualche volta sospiroso: si fermava,
trasaliva, la commozione interna svelava col tremito del labbro superiore, e
coll'agitarsi degli estremi peli dei baffi. Le vesti, i nastri, le trine del
colletto e delle maniche elegantissime. Chiunque lo avesse veduto avrebbe
esclamato a prima giunta: costui sospira.
In tonacella senza ferraiolo,
simile ad una gazza che inquieta ed obliqua saltella per casa, ecco un prete
guizzare qua e là, dandosi la maggior pena del mondo per trarre a se
l'attenzione degli astanti, o almeno di taluno fra loro. Egli favellava della
state e del verno, del caldo e del freddo, della sementa e della raccolta, ma
nessuno gli attendeva: talora domandava se in quel giorno avrebbe potuto avere
la degnazione di parlare con sua Eccellenza il clarissimo signor Conte; tal
altra a quale ora egli soleva levarsi, e a quale asciolvere; se costumava
spendere molto tempo attorno alle mondizie della persona, e se tutti i giorni
desse udienza; - era fiato gettato: nessuno gli rispondeva, però che gli
sposi rimanessero estatici nella loro letizia; il villano paresse una statua di
bronzo; il gentiluomo dal volto vermiglio lo avesse squadrato così di
traverso, da mettergli i brividi addosso; il gentiluomo dal volto pallido lo
fissasse come uomo piovuto dalle nuvole. Il povero prete stava per dare del
capo nei muri: proprio per disperazione, di tanto in tanto apriva il breviario
e leggeva; ma col sembiante di chi trangugia medicine amare: gli occhi gli
sdrucciolavano giù per le pagine: avresti detto che avesse recato seco
cotesto libro, come colui che va ad annegarsi si porta il sasso per legarselo
al collo.
Il volto dello sciagurato prete,
per ordinario tinto del giallo pallido dei mozziconi di cera avanzati al
servizio dell'altare, quasi per impazienza si era fatto acceso: non poteva
darsi pace che nessuno gli porgesse ascolto; e sì ch'ei meritava essere
avvertito, non fosse altro per indovinare se avesse più logora la
tonacella veste del suo corpo, o il corpo veste della sua anima: logori
entrambi, amici vecchi fra loro, e, con rammarico grande del loro padrone,
testimoni che nulla ha da durare eterno nel mondo. -
Il curato (dacchè il
prete fosse proprio un curato) dopo aver fatto esperimento come non si
verifichi sempre la sentenza della Scrittura «picchiate, e vi sarà
aperto,» si era indirizzato per la terza o quarta volta a certo staffiere
di sala, il quale sembrava finalmente disposto a dargli retta, quando il
gentiluomo dalla trista figura chiamò con voce arrogante:
- Cammillo!
La natura dei servi è,
che quando non hanno motivo peggiore per incurvarsi, obbediscono a cui comanda
più superbo; e Cammillo staffiere, comecchè tra la famiglia
ampissima dei servi non fosse dei più tristi davvero, tuttavolta,
girando quasi per iscatto di molla su i talloni, mutò la faccia per le
spalle davanti al prete; e, fatto arco della persona verso il gentiluomo, con
voce ossequiosissima rispose:
- Eccellenza!
- Avrebbe il nobil Conte per
avventura mal dormito stanotte?
- Non lo so - ma non credo.
Gli furono portate parecchie lettere sul fare del giorno, massime di Spagna e
del Regno: - potrebbe darsi, ma non lo so, che adesso stesse attorno a riscontrarle.
In questo punto un latrato
infernale intronò le orecchie degli astanti: poco dopo si aprono con
impeto furiosissimo le imposte della stanza del Conte, e ne prorompe fuori un
mastino di enorme grandezza tra spaventato e inferocito.
Il villano, giacente accanto
la porta, in meno che si dice amen è balzato su ritto; e,
sviluppatosi dal tabarro, dà di mano a un pugnale largo, e lungo bene
due palmi, atteggiandosi a difesa. La giovane madre si strinse il figlio al
seno, cuoprendolo con ambe le braccia. Il padre si parò dinanzi al
figlio e alla sposa schermendoli col proprio corpo. I gentiluomini si
scansarono con fretta decente, come chi non vuole a un punto incontrare il
pericolo, e non mostrar paura. Il curato poi si mise a fuggire.
Il cane, seguendo suo istinto,
si avventa contro il fuggitivo, lo azzanna per gli svolazzi della tonaca, e
gliene strappa un lembo; e gli faceva peggio, se due staffieri correndo non lo
avessero trattenuto a gran pena afferrandolo pel collare. Il breviario era
rotolato per terra. Il povero prete traeva dolorosi guai; e, stretto dalla
medesima smania che spingeva lo ebreo Sylock a gridare «la mia figlia! i
miei danari!», esclamava:
- La mia tonaca! il mio
breviario! -
Il cane infellonito abbaiava
più forte che mai.
Sopra la soglia apparve un
vecchio. Questo vecchio era Francesco Cènci.
Francesco Cènci, sangue
latino dell'antichissima famiglia Cincia, annoverava fra i suoi antenati il
pontefice Giovanni X, quel sì famoso drudo della bella Teodora, la quale
per virtù di amore lo condusse vescovo prima a Bologna, poi a Ravenna, e
finalmente lo fece papa. E come nel tempo, così era cotesta famiglia nel
delitto vetusta; imperocchè, se la storia porge il vero, Marozia sorella
a Teodora, intendendo torre a lei e al Papa amante il dominio di Roma, occupa
proditoriamente la mole Adriana: invaso con molta torma di ribaldi il Laterano,
uccide di ferro Piero fratello di Giovanni, e Giovanni stesso chiude in
carcere; dove, o per veleno o altramente, rimase morto. Corre fama eziandio,
che lo rinvenissero cadavere nel letto di Teodora; e la superstizione
immaginò lo avesse strangolato il diavolo, in pena dei suoi delitti.
Morte obbrobriosa a vita di vituperio!
Francesco Cènci
possedè copiosissimi beni di fortuna, chè la sua entrata si
stimò meglio di centomila scudi; la quale per quei tempi era infinito,
ed anche ai nostri sarebbe non ordinario tesoro. Glielo lasciava il padre, che,
tenendo il camarlingato della Chiesa sotto Pio V, mentre questi vigilava a
rinettare il mondo dalle eresie, il vecchio Cènci attendeva a
rinettargli dagli scudi l'erario: egregi entrambi nel diverso mestiere. Intorno
al conte Francesco, male sapevasi che cosa si avesse a pensare: forse sopra
alcun uomo mai corse così diverso il grido come sopra di lui. Chi lo
predicava pio, liberale, mansueto e cortese: altri, all'opposto, lo dicevano
avaro, villano e crudele. Fatto sta, che in conferma così dell'una come
dell'altra fama potevansi addurre riscontri. Aveva sostenuto parecchi processi,
ma n'era uscito sempre assoluto ex capite innocentiæ: molti
però non si acquietavano punto a siffatti giudicati, e andavano
sussurrando dintorno, che fino allora non avevano veduto mai la Ruota Romana
condannare uomini ricchi per centomila scudi di rendita. Ma se la vita sua compariva
al pubblico misteriosa, troppo palesemente ebbe a provarla senza fine spietata
la sua misera famiglia, la quale per pudore, e molto più per paura, non
ardiva profferire parola. La sua famiglia troppo bene sapeva com'egli si
compiacesse immaginare trovati terribili, e quanto più paurosi, ed alla
opinione dello universale contrarii, tanto a lui maggiormente graditi; e appena
immaginati dovevano mandarsi ad esecuzione, e ad ogni costo; avesse a spendersi
un tesoro, o commettere incendio, od omicidii. Il suo volere, era il lampo; il
fare, tuono. Costumava (a tanto egli giunse di audacia!) tenere conto
esattissimo dello speso in delitti; ed in certo suo libro di Ricordi si
trovarono registrate le seguenti partite: - Per le avventure, e peripezie di
Toscanella 3500 zecchini, e non fu caro. Per la impresa dei sicarii di Terni
zecchini 2000, e furono rubati. - Viaggiava a cavallo e solo: quando
sentiva il cavallo stanco scendeva, e comperavane un altro: se ricusavano
venderglielo ei se lo toglieva, dando qualche pugnalata per giunta. Paura di
banditi nol tratteneva da passare soletto le foreste di san Germano e della
Faiola; e spesso ancora, senza punto posare, fu visto condursi a cavallo da
Roma a Napoli. Quando appariva in un luogo, egli era certo che o ratto, o
incendio, o assassinamento, od altro funestissimo caso stava per succedere.
Forte fu della persona, e destro in ogni maniera di esercizii maneschi,
così che provocava sovente i suoi nemici con soprusi e dileggi: ma di
questi, palesi ne aveva pochi; chè lo temevano assai, e a cimentarsi con
lui ci pensavano due volte. Conduceva in ogni tempo al suo soldo una masnada di
bravi; il cortile del suo palazzo offriva infame asilo ad ogni maniera di
banditi. Tra i feroci baroni romani ferocissimo.
Sisto V, che fu pontefice (ed
avrebbe potuto anche essere carnefice) di Roma, certa volta invitati al
Vaticano gli Orsini, i Colonna, i Savelli, i Conti Cènci, ed altri fra i
più potenti dei nobili romani, dopo averli trattenuti alquanto in
piacevoli ragionamenti si accostava agli aperti balconi, donde, volgendo gli
occhi alla sottoposta città, disse ai circostanti: «O la mia vista,
siccome suole per vecchiezza, è diventata fosca, o di qualche strano
apparecchio vanno ornati stamattina i merli dei palazzi delle Signorie vostre
eccellentissime: andate a riscontrare, e in cortesia fatemi assapere quello
ch'è.»
Erano i cadaveri penzoloni dei
banditi, che nei palazzi di cotesti signori riparavano. Il Papa aveva ordinato
si prendessero, e tutti, senza misericordia, ai merli del palazzo
s'impiccassero.
Francesco Cènci, per
questo e per altri successi avendo ottimamente conosciuta la natura del Papa,
reputò opportuno di tirarsi al largo; e finchè ei visse stette a
Rocca Petrella, chiamata ancora Rocca Ribalda. Il serpe aveva trovato a mordere
la lima.
Di persona, aiutante era
molto; e, comunque in là con gli anni, pure bene di salute disposto; se
non che, offeso nella diritta gamba, zoppicava. Copioso d'idee e facondo di
eloquio, avrebbe acquistato fama di oratore egregio se glielo avessero
conceduto i tempi e la lingua, che, ad ogni più leggiera alterazione
inciampandogli fra i denti, lasciava adito alla voce come acqua rotta fra i
sassi. Di laide sembianze non poteva estimarsi per certo; e non pertanto
sinistre così, che giammai seppero ispirare amore, talvolta reverenza,
troppo spesso paura. Se togli il colore dei capelli e dei peli, di neri mutati
in bianchi; se alcuna ruga di più; se una magrezza maggiore, e una tinta
più gialla e biliosa, il suo volto presentava la medesima aria della sua
giovanezza. La fronte, mentr'ei posava, appariva segnata appena di una ruga non
profonda quale o il rimorso o la cura sogliono imprimere; ma sì sfumata,
leggiera, come l'amore descrive, esitando, con la punta estrema dell'ale sopra
la fronte della bellezza che declina. Gli occhi, mesti per ordinario, colore
del piombo simili a quelli del pesce morto, privi affatto di splendore,
contornati da cerchi cenerini, e reticolati di vene violette e sanguigne -
pareano cadaveri dentro casse di piombo. La bocca sottile perdevasi fra le
rughe delle guance. Cotesto volto sarebbesi adattato ugualmente bene a un santo
e ad un bandito: cupo, inesplicabile come quello della sfinge, o come la fama
dello stesso Conte Cènci.
Della persona e dei costumi di
lui parmi aver detto abbastanza: più tardi m'ingegnerò esporre
uno studio psicologico intorno a questo prodigioso personaggio.
Il Conte la sera precedente
erasi ritirato di buon'ora nelle sue stanze, insalutati moglie e figliuoli. A
Marzio, che gli profferiva i consueti uffici, aveva risposto:
- Va' via: mi basta Nerone.
Nerone era un cane enorme di
mole e di ferocia. - Così lo nominò il Cènci, meno in
memoria del truce imperatore, che per significare, nel vetusto linguaggio de'
Sanniti, forte, o gagliardo.
Coricato appena, prese a dare
di volta pel letto: incominciò a gemere d'impazienza: a mano a mano la
impazienza diventò furore, e si pose a ruggire. Nerone gli rispondeva
ruggendo. Indi a breve il Conte, balzando dalle odiate piume, esclamò:
- Abbiano avvelenato le
lenzuola! - Questo si è pur dato altra volta, ed io l'ho letto in
qualche libro. Olimpia! Ah! mi sei fuggita, ma io ti arriverò: - nessuno
ha da scapparmi di mano - nessuno. - Quale silenzio è questo accanto a
me! Che pace qui in casa mia! Riposano:... - dunque non gli atterrisco io? -
Marzio.
Il cameriere chiamato
accorreva prontissimo.
- Marzio, riprese il Conte, la
famiglia che fa?
- Dorme.
- Tutti?
- Tutti; almeno sembra,
poichè ogni cosa sia tranquilla in casa.
- E quando io non posso
dormire ardiscono riposare in casa mia? - Va', guarda se veramente dormono;
oreglia alle stanze, in ispecie quella di Virgilio; sprangale pianamente per di
fuori, e torna.
Marzio andò.
- Costui, continuava il Conte,
sopra gli altri aborrisco; sotto quella superficie di ghiacciata mansuetudine
non iscorrono meno veloci le acque della ribellione: aspide senza lingua, non
però senza veleno. Quanto mi tarda, che tu muoia! -
Marzio, tornando, confermava:
- Dormono tutti, anche don
Virgilio; ma di sonno travagliato, per quanto può giudicarsi
dall'anelito febbrile.
- L'hai sprangata fuori?
Marzio col capo accennò
affermativamente.
- Bene; prendi questo
archibugio, sparalo traverso l'uscio della stanza di Virgilio, e poi urla con
quanto hai di fiato nella gola: - al fuoco! al fuoco! - Così
insegnerò a costoro dormire mentre io veglio.
- Eccellenza....
- Che hai?
- Io non le dirò:
pietà del ragazzo, che pare ridotto in extremis....
- Continua....
- Ma la è cosa da
mettere sottosopra il vicinato.
Il Conte, senza punto
turbarsi, pose chetamente la mano sotto al capezzale; e, trattane fuori una
pistola, la spiana improvviso contro il cameriere, che tramutò in volto
per terrore, e con voce soave gli disse:
- Marzio, se un'altra volta
invece di obbedire attenterai contradirmi, io ti ammazzerò come un cane:
- -va'.
Marzio andò più
che di passo ad eseguire il comando.
È impossibile
descrivere con quanto terrore fossero destati le donne e il fanciullo. Balzano
da letto, si avventano contro gli usci; ma non li potendo aprire urlano,
pregano si dica loro lo accaduto, per amore di Dio aprano, dalla tremenda
ansietà gli liberino. Nessuna risposta: spossati tornano a gittarsi sul
letto, travagliandosi per un sonno affannoso.
Dopo forse due ore il Conte
chiama di nuovo il cameriere, e lo interroga:
- Fa giorno?....
- Eccellenza no.
- Perchè non fa
giorno?...
Marzio si strinse nelle
spalle. Il Conte tentennando il capo, quasi per irridere se stesso della
domanda strana, riprese:
- E quanto tarderà
ancora a spuntare l'alba?
- Un'ora. -
- Un'ora! - Ma un'ora è
un secolo, è una eternità per chi non può dormire, o
mio... sta a vedere, che per poco non aggiungeva - Dio. - Dicono il sonno amico
dei santi: se questo fosse, io avrei a dormire quanto i sette dormienti insieme!
Che fare adesso? Ah! spendiamo questo avanzo di notte in qualche opera
meritoria; - educhiamo Nerone. -
E ordinava a Marzio prendesse
certo uomo di paglia, e lo portasse in sala dove mettevano capo le camere delle
donne e del fanciullo: egli poi trasse Nerone in altra stanza, lo aizzò,
lo inasprì, e poi, spalancato allo improvviso l'uscio, lo avventò
contro l'uomo di paglia. Il cane, cieco di rabbia, si lancia a balzi contro il
simulacro, e lo strazia latrando disperatamente. Il Conte traeva maraviglioso
sollazzo a contemplare le prove di cotesta belva, e a Marzio, che gli si era
accostato, così favellò:
- Questo è il figlio
della mia predilezione, come disse la voce sul Giordano; e lo educo, a Dio
piacendo, a difendermi dai nemici, ed anche dagli amici; in ispecial modo dai
miei figli dilettissimi; dalla consorte più diletta ancora, ed anche un
po' da te - e toccava la spalla al cameriere - mio lealissimo Marzio.
Così empita di spavento
e di terrore la casa tornò alla stanza, dove la natura, vinta dalla spossatezza,
lo costrinse a breve sonno e interrotto. Quando si alzò era torbido in
vista.
- Ho fatto mal sonno,
Marzio.... mi son sognato che stava a mangiare co' miei defunti. Questo denota
morte vicina. Prima però ch'io vada a mangiare costà, bene altri,
Marzio, bene altri mi avranno preceduto ad apparecchiarmi la tavola.
- Eccellenza, sono giunte
lettere dal Regno per cavallari apposta....
Il Conte sporse la mano per
riceverle. Marzio continuava:
- E di Spagna col corriere
ordinario; le ho messe tutte sul banco dello studio.
- Bene: andiamo....
E sorretto da Marzio,
accompagnato da Nerone, si avviava allo studio.
Sorgeva appena un magnifico
sole di agosto, il quale tingeva in oro co' giovanetti raggi l'azzurro
emisfero. Unica gloria, dacchè la viltà nostra ci ha tolto
perfino quello, che sembrava a perdersi impossibile - il sentimento della
nostra abiezione. Dio! Oh come grandi hanno da essere le nostre colpe e la tua
ira, se nè pianto, nè sangue, nè nulla vale a fecondare
sopra questa terra un fiore di virtù!
Il Conte si appressò al
balcone, e, fissato il maestoso luminare, mormorò detti segreti. Marzio,
letiziato a tanta bellezza di cielo e di luce, non potè trattenersi da
esclamare:
- Sole divino!
A queste parole gli occhi del
Conte, per ordinario spenti, corruscarono a modo di baleno dentro una nuvola, e
gli avventò contro al cielo. Se è vero che Giuliano l'apostata
lanciasse contro il cielo il sangue, che gli scorreva dalla ferita mortale,
deve averlo gittato come quel guardo, e con quella intenzione.
- Marzio, se il sole fosse una
candela, che soffiandovi sopra potesse spegnersi, la spegneresti tu?
- Io? Le pare, Eccellenza! -
lo lascerei acceso.
- Io lo spegnerei.
Caligola aveva desiderato al
popolo romano una testa sola, per recidergliela con un colpo; il Conte
Cènci avrebbe voluto stritolare il sole. Povera creta! Se il sole si
accostasse, la cenere della terra non occuperebbe spazio nell'universo.
Si assise al banco;
aprì, e lesse una, due e tre lettere, pacato in prima, poi
precipitosamente; al fine, scorsele tutte, proruppe con orribile bestemmia:
- Felici tutti! Ah Dio! tu me
lo fai proprio per dispetto.
E chiuso il pugno,
abbassò il braccio con quanto aveva di forza: caso volle che colpisse in
mezzo alla fronte Nerone, il quale col muso levato e gli occhi pronti seguitava
i moti del suo signore. Il cane diè un balzo di furore, poi irruppe
contro la porta, ne spalancò le imposte, e fuggì via sbuffando.
Il Conte gli mosse dietro richiamandolo, non senza aver prima con un suo riso
amaro osservato:
- Vedi, Marzio, s'ei fosse
stato un figliuolo mi avrebbe morso! -
CAPITOLO II.
IL PARRICIDIO.
........tutta
la Caina
Potrai cercare,
e non troverai ombra
Degna
più di esser messa in gelatina.
Dante.
Marzio invitò il
gentiluomo dal volto chiazzato di sangue a passare nello studio del Conte.
Questi attendevalo in piedi; e tostochè lo vide, con bella leggiadria di
maniere lo salutò dicendo:
- Benvenuto, Principe; in che
cosa noi possiamo avvantaggiare le comodità vostre?
- Conte, ho da parlarvi; ma
qui dentro vi è uno di troppo.
- Marzio ritirati.
Marzio, inclinata la persona,
usciva. Il Principe, andatogli dietro, si assicura se avesse chiusa
diligentemente la porta; tira la tenda, e poi si accosta al Conte, che,
maravigliando non poco di coteste cautele, lo invita a sedere, e senza far
motto attende ad ascoltarlo.
- Conte! sarà Catilina
adesso, che incomincerà la sua orazione ex abrupto. Però
io vi dico ad un tratto, che estimando meritamente voi uomo di cuore e di
consiglio, di mente e di braccio, a voi mi rivolgo per l'una e per l'altro, e
spero mi sarete cortese di ambedue.
- Parlate, Principe.
- La svergognata mia
genitrice, incominciò costui con voce velata, vitupera con sozze opere
la casa mia ed anche un poco la vostra, pel vincolo di parentela che passa fra
le nostre due famiglie. La età, invece di spegnere, riarde le sue aride
ossa di libidine infame. Lo usufrutto ampissimo che gode, per disposizione
dello stolido mio padre, sperpera fra turpi drudi: - per tutta Roma ne corrono
le pasquinate: - vedo lo scherno dipinto sopra i volti della gente: - dovunque
passi mi feriscono detti oltraggiosi.... il mio sangue ribolle nelle vene... il
male è a tal ridotto, che non patisce rimedio, tranne.... Or via,
ditemi, Conte, che cosa io mi debba fare.
- La clarissima donna Costanza
di Santa Croce! Ma lo pensate voi? Orsù; se voi fate per giuoco, io vi
consiglio a torre per lo scherzo argomenti meglio dicevoli; se poi favellate da
senno, allora, figliuolo mio, vi ammonisco a non lasciarvi andare alle
tentazioni del demonio, il quale, come padre di menzogna, conturba le menti con
immagini false....
- Conte, lasciamo il diavolo a
casa sua. Io posso mostrarvi qui le prove manifeste, ed obbrobriose pur troppo.
- Vediamo.
- Udite. Essa mi abbandona,
per così dire, annegato nella miseria, mentre con l'entrate di casa tira
su fanti e staffieri, e uno stormo dei loro figliuoli, che si sono annidati nel
palazzo peggio che rondini; - me dal suo cospetto bandisce; - di me non vuol
sentire favellare; - di me, Conte, intendete, di me che non mi sarei dato un
pensiero al mondo dei fatti suoi, se si fosse comportata come madre benemerita
verso figlio benemerente. E, per palesarvi ogni cosa di un tratto, ieri sera
giunse a cacciarmi via di casa - dal mio palazzo - dalla magione dei miei
illustri antenati.
- Avanti, ecci egli altro?
- E parvi poco?
- Mi pare anche troppo: e
veramente, a confessarvelo in secretis, corre buon tempo che io mi sono
accorto come la Principessa Costanza nutra per voi, Dio la perdoni, naturale
avversione. Adesso fanno appunto otto giorni ch'ella mi tenne lungo proposito
di voi....
- Sì? - E che cosa mai
vi disse cotesta sciagurata di me?
- Metter legna sul fuoco non
è da cristiano; però taccio.
- A quest'ora, Conte, lo
incendio acceso dalle vostre parole è tanto, che poco più vi
potete aggiungere; - e questo comprenderete di leggieri coll'ottimo vostro
giudizio.
- Pur troppo! E poi il silenzio
mi grava, imperciocchè le mie parole vi serviranno di governo, e
v'impediranno di farvi capitare male. La signora Costanza dichiarò
espressamente, alla presenza di parecchi insigni prelati e baroni romani, che
voi sareste il vituperio della famiglia; voi ladro, - voi omicida - voi,
soprattutto, bugiardo....
- Ella disse? - E al Santa
Croce, diventato per rabbia come tizzo acceso, tremava la voce.
- E disse ancora, voi
scialacquatore sciaguratissimo di ogni vostra sostanza; voi aver tolto a usura
danari dai giudei sodandoli sul palazzo dei vostri illustri antenati, per cui
ella ha dovuto riscattarlo del suo per fuggire la vergogna di andare ad
albergare altrove; - disse avervi pagato più volte debiti, e voi
commetterne quotidianamente dei nuovi, e più grossi, e più brutti
che mai: voi giuocatore disperato; non darsi laidezza nella quale non vi siate
ingolfato fino alla gola; di Dio spregiatore, e di ogni umano rispetto... Per
ultimo, onde mettere il colmo alla brutalità vostra, aver preso a imbestialirvi
col vino e con acqua arzente per modo, che spesse volte vi riportarono su di
una scala malconcio della persona.
- Disse?...
- E a tanto essere arrivata la
inverecondia della vostra vita, da non trattenervi la reverenza materna o il
rispetto del luogo, di condurre nel palazzo dei vostri illustri antenati
femmine di partito; con altre più infamie, che a rammentarle soltanto mi
sento salire il rossore sopra la fronte....
- Mia madre?...
- Ed aggiunse ancora,
reputarvi di ogni correzione incapace; e, per quanto al suo materno cuore
riuscisse dolorosissimo, essere ormai decisa di ricorrere a Sua Santità
perchè vi chiudesse in castello... a far visita allo Imperatore Adriano.
In fè di gentiluomo cotesto si chiama starsi in prigione con ottima compagnia...
- Così ella disse?...
Proseguiva a interrogare il Principe con suono strozzato, mentre il Conte
rispondeva con la medesima voce acre ed irritante:
- O a Civita Castellana... a
perpetuità.
- A perpetuità! -
Propriamente ella disse a perpetuità?
- E presto; - e ciò dovere
alla memoria onorata dell'inclito consorte, alla reputazione della prosapia
clarissima, ai nobili parenti, alla sua coscienza, a Dio...
- Egregia madre! Non ho una
buona madre io? esclamava il Principe con voce, che tentava rendere beffarda,
quantunque male potesse celare lo insolito terrore. - E i prelati che cosa
rispondevano eglino?
- Eh! voi sapete il precetto
dello Evangelo? L'albero che non fa buon frutto va reciso... ed essi lo
ripetono con tale una voce amorosa, che pare proprio v'invitino a bere la
cioccolata.
- Or dunque, il tempo stringe
più che io non credeva. Conte, suggeritemi voi qualche consiglio... io
mi sento povero di partiti.... sono disperato....
Il Conte, crollando il capo,
con voce grave rispose:
- Qui, dove scorre la fontana
di tutte grazie, voi potrete attingerne a secchi pieni. Ricorrete a monsignor
Taverna governatore di Roma, od anche, se avete danari molti e senno poco, al
clarissimo avvocato signor Prospero Farinaccio, che farebbe a mangiar con
l'interesse.
- Ahimè! non ho
danari....
- Veramente senza danari vi
potreste volgere ai colossi di Monte Cavallo con maggior profitto....
- E poi la faccenda
riuscirebbe contenziosa, ed io ho bisogno di rimedii che non muovano rumore....
e soprattutto spediti....
- E allora umiliatevi ai piedi
beatissimi: - perchè avvertite bene, che nel corpo del Santo Padre ogni
membro è beatissimo, e però anche i piedi et reliqua del
Pontefice: lo predicano insignis pietatis vir, come Virgilio canta di
Enea.
- Domine fallo tristo! Papa
Aldobrandino nacque a un parto con la lupa dell'Alighieri, che dopo il pasto
ha più fame di pria. Vecchio, spigolistro, e testardo peggio di un
mulo delle Marche; cupido di far roba per arricchire i suoi consorti, da
provarsi a scorticare il Colosseo. Anzichè ricorrere a costui mi
getterei nel Tevere a capofitto.
- Sì, cessato il tenue
sorriso ironico, riprese a dire turbato il Conte; sì, ora che penso, voi
gettereste il tempo e i passi. Dopo il solenne fallo di aver dato favore alla
mia ribelle figliuola contro me, sarà diventato più difficile ad
ascoltare i lamenti dei figli contro i genitori. Chiunque voglia custodire
illesa l'autorità, o spirituale o regia, bisogna che studiosamente
conservi la patria potestà: tutte le autorità derivano da
principio comune, nè puoi offendere l'una, senza che se ne risenta anche
l'altra. Il padre e il re non hanno mai torto; i figli e i sudditi mai ragione.
Donde viene in essi il diritto di lagnarsi, donde l'audacia di sollevare la
fronte? Vivono perchè il padre li generò, vivono perchè il
re gli lascia vivere. Guardate Ifigenia e Isacco; cotesti sono esempii della
vera subiezione dei figli, come Agamennone, Abramo, Jefet della purezza della
patria potestà. Roma si mantenne gagliarda finchè il padre ebbe diritto
di vita e di morte sopra la sua famiglia. Quelle leggi delle dodici Tavole
furono pure il benedetto trovato! Per esse, che cosa mai rappresentava la
famiglia? La comunanza della moglie, dei figli e degli schiavi sottoposta al
dominio assoluto del padre. Secoli di oro, e mi smentisca chi può,
volsero per Roma quando poterono vendersi i figli sanguinolenti.
- Dunque?.. domandò il
Santa Croce, sbalordito da cotesto impensato rabbuffo, lasciandosi cadere come
disperato le braccia.
Il Conte Cènci, pentito
per non aver potuto reprimere quello sfogo impetuoso dell'animo suo, si
affrettò a rispondere:
- Oh! ma per voi è
diversa la cosa.
Il Santa Croce, confortato da
quelle parole, e più dallo sguardo paterno che gli volse il Conte,
accosta la sedia; e, sporgendo in avanti la testa, gli sussurra dentro le
orecchia:
- Aveva sentito dire... e si
trattenne; ma il Conte, con maniera beffarda imitando i modi dei confessori, lo
animava:
- Via, figliuolo, dite su!
- Mi avevano supposto che voi,
Conte, come uomo discreto e prudente molto, eravate riuscito sempre... quando
taluno v'infastidiva, torvi cotesto pruno dagli occhi con garbo maraviglioso.
Versato nelle scienze naturali, voi non dovete ignorare la virtù di
certe erbe, le quali mandano al paese dei morti senza mutare cavalli; e, quello
che importa massimamente, senza lasciar vestigio di carreggiata sopra la strada
maestra.
- Certamente è mirifica
la virtù dell'erbe; ma come vi possano giovare io non comprendo davvero.
- In quanto a questo giova che
voi sappiate, come la clarissima Principessa Costanza costumi prendere
seralmente certo lattovaro per conciliarsi il sonno...
- Bene...
- Voi potete comprendere che
tutta la quistione sta in un sonno breve, o in un sonno lungo; - un dattilo, o
uno spondeo; una cosa da nulla, in verità - semplice prosodìa: -
e lo scellerato si sforzava di ridere.
- Misericordia Domini super
nos! Un parricidio, così per cominciare. Elle sarebbono buone mosse
per dio! Sciagurato uomo! e lo pensate voi? Honora patrem tuum et matrem tuam. E qui non vi ha cavillo, che valga, imperciocchè abbia
detto così chi lo poteva dire lassù sul Sinai.
Il principe, ostentando
fermezza, riprese:
- In quanto a pensarvi andate
franco, chè io vi ho pensato delle volte più di mille: rispetto
poi alle prime mosse, io vo' che sappiate non essere mica questo il primo palio
che corro.
- Lo credo senza giuramento: e
allora fatevi qua, e ragioniamo di proposito. L'arte di manipolare i veleni non
si trova più in fiore come una volta: della più parte dei tossici
stupendi, noti ai nostri virtuosissimi padri, noi abbiamo perduto la scienza. I
principi Medici di Firenze si sono molto lodevolmente affaticati intorno a
questo ramo importantissimo dello scibile umano; ma, se consideriamo la spesa,
con poco buon frutto. Qui, come altrove, corre lo invitatorio del Diavolo: de
malo in peius venite adoremus. Ecci l'acqua tofana; buona a nulla
per un lavoro a garbo: cadono i capelli, si staccano le unghie, i denti si
cariano, la pelle vien via a stracci, e tutta la persona si empie di luride
ulcere - sicchè, come voi vedete, ella lascia dietro a se tracce troppo
manifeste e diuturne. L'adoperò sovente la buona memoria di Alessandro
VI; ma a lui poco importava si lasciasse dietro le tracce. Per me faccio di
berretta ad Alessandro Magno; col ferro si taglia netto ogni nodo gordiano, e
ad un tratto...
- Ohimè, il ferro! O
che non lascia dietro a se traccia il ferro?
- Una volta ci era un re, e si
chiamava Eduardo II, il quale avendo di se, o di altri un figliuolo, amoroso a
un dipresso come voi, ebbe le viscere forate ed arse per suo comandamento,
senza che ne rimanesse vestigio. Curioso trovato in fè di Dio!([4]) Ma chi vi consiglia di
tenere nascosta la morte di donna Costanza? Anzi la dovete palesare, e voi
dirvene apertamente autore.
- Conte, voi burlate....
- Non burlo io; anzi parlo del
miglior senno che io mi abbia. Non avete voi mai letto le storie, almeno le
romane? - Sì, le avete lette. Or bene; e a che pro leggete libri, se non
ne fate vostro vantaggio per ben condurvi nel mondo? Rammentatevi la minaccia
di Tarquinio a Lucrezia: egli, dove non gli assentisse la moglie di Collatino,
le dichiarò l'avrebbe uccisa, e poi messo al fianco uno schiavo
trucidato, pubblicando averla sorpresa nel turpe adulterio, e morta per giusto
dolore della offesa fatta al parente, per vendetta della sacra maestà
delle leggi; con altre più parole assai, che si costumano dagli uomini
sinceri. Così voi, nè più nè meno, vi avete a
ingegnare di cogliere in fallo la Principessa con qualche suo drudo, e
ammazzateli entrambi. La gravità della ingiuria scusa la strage: nel
Codice (non mi rammento la pagina, ma cercate e troverete) hanno ad essere
leggi, che scolpano in questo caso il misfatto...
- Ma io, rispose il Principe
visibilmente imbarazzato, non so bene s'ella si rechi in camera i suoi drudi.
- O dove volete, ch'ella li
conduca?
- E poi, coglierli per
l'appunto su l'atto reputo impossibile.
- O come mai! Le volpi si
prendono sempre alla tagliola.
- No... a cotesto rischio di
far le cose alla scoperta non voglio, anche potendo, avventurarmi io...
- Dite piuttosto, interruppe
il Conte con maligno sorriso, dite piuttosto che i drudi di femmina
sessagenaria voi gli avete nella immaginativa vostra pescati pel bisogno di
trovare in altri le colpe, che scusino le vostre; dite, che la cagione che vi
muove sta nel desiderio, che l'usufrutto di vostra madre cessi; nè in
questo so darvi torto, imperciocchè conosca come i padri eterni facciano
i figli crocifissi se non co' chiodi, almeno coi debiti; - il torto, che io vi
do, è aver voluto prendervi beffe di un povero vecchio - e giucare meco
dello astuto...
- Signor Conte, in
verità io vi giuro...
- Silenzio co' giuramenti; io
credo, o non credo; e i giuramenti mi danno aria di puntelli alle fabbriche,
segno certo che le minacciano rovina: però a voi senza giuramenti non
credo, e co' giuramenti anche meno.
- Deh! via non mi abbandonate.
- E questo disse costui tanto avvilito, che parendo al Cènci avere ormai
scosso a sazietà cotesto sacco di farina ria, e volendo dar fine al
conversare, irridendo rispose:
O dignitosa coscïenza e
netta,
Come ti è picciol fallo
amaro morso!
Andiamo, riprendete animo: Minor
vergogna, maggior colpa lava. Però, a confessarvi il vero, non posso
darvi consiglio che valga. - Ricordo aver letto come in altri tempi, in certo
caso affatto simile al vostro, fosse veduto adoperare con ottimo successo
questo argomento. Notte tempo appoggiarono al muro del palazzo una scala, che
arrivava per l'appunto alle finestre della camera da letto della persona, o
delle persone che si volevano ammazzare: s'involarono poi e si distrussero diligentemente
alcuni arnesi di oro, e di argento, o altre masserizie minute per colorire la
cosa, e dare ad intendere, che l'omicidio fosse commesso in grazia del furto:
finalmente si lasciò la finestra aperta fingendo, che quinci i ladri
avessero preso la fuga. In tal guisa si allontanarono i sospetti dalla persona
a cui cotesta morte tornò utile; e lo erede ebbe fama di pio, ordinando
funerali magnifici e copia di messe. Tuttavolta egli non si rimase qui, e volle
acquistarsi eziandio nome di rigido vendicatore del suo sangue: e allora
assediò la giustizia onde si facessero ricerche sottilissime; non
rifinì mai di lagnarsi della oscitanza della Corte, e giunse perfino a
promettere una taglia di ventimila ducati al denunziatore secreto, o palese del
colpevole. - Così i nostri virtuosi padri ebbero in sorte di godersi in
tempo utile il bene dei morti in santissima pace.
- Ah!, dandosi del palmo della
mano su la fronte, esclamò il Santa Croce, voi siete pure il degno
valentuomo, signor Conte! Io mi vi professo schiavo a catena. Questo appunto
è il partito che mi sta proprio a taglio. Ma qui non è tutto; voi
porreste il colmo alla beneficenza vostra e all'obbligo mio, se vi degnaste
chiamare da Rocca Petrella qualcheduna di quelle brave persone, che incaricate
di simili lavori...
- Di che lavori, - di che
persone andate farneticando voi? La matassa è vostra; a voi sta trovare
il bandolo per dipanarla; badate che il filo non vi tagli le dita. Noi non ci
siamo visti, e non ci dobbiamo più rivedere. Da qui innanzi io me ne
lavo le mani come Pilato. Addio, don Paolo. Quello che posso fare per voi, e
farò, sarà pregare il cielo nelle mie orazioni ond'egli vi
assista.
Il Conte si alzò per
accomiatare il Principe; e mentre con modi cortesi lo accompagnava alla porta,
andava ruminando fra se questi pensieri: - e poi vi ha taluno che sostiene, che
io non avvantaggio il prossimo! Calunniatori! Maldicenti! Più di quello
che mi faccia io è impossibile. Contiamo un po' quanti stanno adesso per
guadagnare in grazia mia. Il becchino in primis; poi vengono i
sacerdoti, che sono il mio amore; succedono i poeti per la elegia, e i
predicatori per l'orazione funebre; seguita mastro Alessandro il giustiziere, e
finalmente il diavolo, se diavolo vi ha. - Frattanto arrivati alla porta il Conte
aperse l'uscio, e, licenziando il Principe col solito garbo pieno di
urbanità, aggiunse con voce paterna.
- Andate, don Paolo, e Dio vi
tenga nella sua santissima guardia.
Il Curato, udendo coteste
parole, mormorò sommesso:
- Che degno gentiluomo! Si
vede proprio che gli partono dal cuore.
CAPITOLO III
Il Ratto
Ma tutto
è indarno: chè fermata e certa
Piuttosto era a
morir, ch'a satisfarli.
Poichè
ogni priego, ogni lusinga esperta
Ebbe e minacce,
e non potean giovarli,
Si ridusse alla
forza a faccia aperta.
Ariosto, Orlando Furioso.
Il Conte, dato uno sguardo
nell'anticamera, accennando all'altro gentiluomo favellò:
- Signor Duca, favorite...
Il giovane dal pallido
sembiante entrò nella stanza a guisa di smemorato: alla cortese proposta
di sedersi o non intese, o non volle tenere lo invito. Solo, come se lo avesse
colto la vertigine, con una mano si appoggiò al banco, e dalla parte
più lontana del petto disciolse un sospiro lunghissimo.
- Che sospiri, quali affanni
sono eglino questi? domandò il Conte con voce lusinghiera. - O come mai,
alla età vostra, può avanzarvi tempo per farvi infelice?
E il Duca, con un suono che
parve lene sussurre di acque, rispose:
- Io amo.
E il Conte, per dargli
spirito, giocondamente soggiunse:
- È la vostra stagione,
figliuolo mio; e fate ottimamente ad amare con tutta l'anima, ed anche con
tutto il corpo: e se non amate voi, giovane e bello, o chi dovrebbe amare?
Forse io? Vedete, gli anni mi piovono neve sopra i capelli, e mi stringono il cuore
di ghiaccio. A voi parlano di amore e cielo e terra; a voi da tutta la Natura
sorge una voce, che vi consiglia ad amare:
Le acque parlan d'amore, e
l'ôra, e i rami,
E gli augelletti, e i pesci, e
i fiori, e l'erba
Tutti insieme pregando ch'io
sempre ami;
cantava quel dolcissimo labbro
di messer Francesco Petrarca. Su, via, giovanetto, ella è cosa da
vergognarsi questa? Predicatela dai pulpiti, banditela di sopra i tetti;
chè buona novella è amore. Non si vergognava già confessare
il Petrarca, che pure fu uomo grave e canonico, come amore lo avesse tenuto
anni ventuno ardendo per madonna Laura mentre era in vita, e più dieci
dopo che la si volava al cielo([5]). Misericordia! Amori
erano quelli da disgradarne le querce. Nè per avere insegnato l'amore
suo in mille rime si chiamava sazio, chè sul declinare degli anni
desiderò averle fatte dal sospirar suo prima:
In numero più spesse,
in stil più rare([6]).
A santa Teresa, vedete, fu
perdonato molto perchè aveva molto amato; e vi ha chi dice anche troppo.
La stessa santa chiamava infelicissimo il diavolo; e sapete perchè?
perchè non poteva amare. Amate dunque totis viribus; chè
altramente operando offendereste la Natura, la quale è, come sapete,
figliuola primogenita di Dio.
Il giovanetto, turandosi il
volto con ambe le mani, e tratto un altro lungo sospiro, esclamò:
- Ah! disperato è
l'amor mio...
- Non dite questo, che senza
speranza non sono neppure le porte dello inferno. Ragioniamo. Vi sareste per
avventura invaghito della donna altrui? Avvertite, che allora incontreremmo uno
inciampo; anzi due; il marito prima, e poi il Decalogo. E' pare che quando Dio
promulgò la sua legge sul Sinai, si sentisse forte corrucciato contro la
sua figliuola Natura; però che, a dirla fra noi, nè più
nè peggio potevano contrariarsi gli appetiti di lei. Non pertanto
confortatevi di questo: che quanto il Decalogo proibisce il cuore permette.
- Oh! no, signor Conte, il mio
è diritto amore.
- E allora sposatela in facie
Ecclesiæ, per filo e per segno, secondo il sacrosanctum Concilium
Tridentinum, e non mi venite...
- Dio sa se io lo farei; ma,
ahimè! un tanto bene mi è tolto.
- E allora non la sposate.
- La donna, che amo, trasse
troppo più che io non vorrei umilissimi i natali; ma se si consideri il
portento delle forme leggiadre, o piuttosto l'altezza dell'animo, ella è
in tutto meritevole d'impero...
- Alma real degnissima
d'impero, lo ha detto anche messer Francesco Petrarca; e se così
è, e voi sposatela.
- Freddo cenere ed ombra,
durerà in me questo amore eternamente.
- Di quanto tempo comporrete
voi questa eternità? Nelle donne, secondo i computi più accurati,
la eternità di amore dura una settimana intera: in alcune, ma rare, si prolunga
anche un poco al secondo lunedì, e basta.
Il giovane, tanto era
sprofondato in cotesto suo amore, che accorgendosi allora del modo beffardo col
quale gli favellava don Francesco, diventato in volto vermiglio per vergogna e
per dispetto, rispose:
- Signore, voi mi fate torto;
sperava trovar consiglio; - mi sono ingannato - scusate; - e fece atto di
andarsene. Ma il Conte ritenendolo, dolcemente favellò:
- Piacciavi rimanere, Duca; io
vi ho parlato così per provarvi: ora troppo bene mi accorgo, che vi
accende passione veemente davvero, e per avventura fatale. Versate il vostro
animo nel mio; saprò compassionarvi, e, potendo, ancora sovvenirvi. Io
ho sepolto i miei amori; sessanta e più anni gli associarono alla fossa,
e cantarono loro il miserere: per me amore è memoria, per voi
speranza; per me cenere, per voi rosa che sboccia; ma non pertanto ravviso nel
mio cuore i segni della fiamma antica, e ragionando meco, bene potete ripetere
i versi del Petrarca:
Ove sia chi per prova intenda
amore,
Spero trovar pietà, non
che perdono:
Non ignara mali miseris
succurrere disco; come disse Didone ad Enea,
venuto da Troia a fondare Roma per la maggior gloria dei papi in generale, e di
Clemente VIII in particolare.
Il Conte Cènci,
malgrado la protesta, dileggiava; ma sarebbe stato difficile indovinare s'ei
favellasse da senno o da burla, imperciocchè apparisse composto a
gravità: solo stringeva gli occhi, e la pelle reticolata gli si
aggrinzava dintorno come una nassa da pescare: le palpebre lungamente tremolavano:
egli rideva con le pupille il riso della vipera.
- La fanciulla, che io amo,
dimora in casa Falconieri. Quale per lo appunto sia il suo lignaggio io non
saprei; ma comecchè la tengano in parte di congiunta dilettissima, pure
appartiene a condizione servile. - Ahimè! Quando prima la vidi al
Gesù, ornata di onestà e di leggiadria, io ne persi il sonno:
ogni altra donna mi parve sozza e vile.
- Deh! parlate basso, Duca;
guai a voi se le nostre superbe dame romane vi ascoltassero. Farebbero di voi
una seconda edizione di Orfeo messo in pezzi dalle Baccanti, con note e
appendici.
- Reputandolo facile amore,
continuava il giovane infervorato, (e Dio sa se me ne prende rimorso) non
trascurai veruno dei partiti che soglionsi usare per venire a capo degli amorosi
desiderii. Me misero! Che queste male pratiche le devono di certo avere
persuaso fastidio, e forse aborrimento di me. - Ella, chi sa, adesso mi odia; -
e si fermava per timore di singhiozzare; poi con voce sommessa proseguiva: come
mai devono aver suonato le vituperose proposte all'orecchio della castissima
donzella?
E il Conte, riguardandolo
attonito, pensava: più nuovo pesce di costui non vidi al mondo.
- I Falconieri, proseguiva il
Duca, mi hanno fatto ammonire che io smetta dalla usanza di passare sotto il
palazzo, però che la fanciulla non sia tale che io la debba condurre in
moglie, nè quale ella possa consentire a diventarmi amica.
- E voi allora?
- Io scelsi il partito di
chiederla in isposa...
- Non ci è rimedio: io
avrei fatto come voi.
- Il mio parentado, appena
venne avvertito del mio proponimento infuriò contro me, quasi fossi per
commettere qualche gran sacrilegio; e chi mi chiamò a considerare la
ingiuria del sangue, e chi la nobiltà della casa offuscata; taluno lo
sdegno dei congiunti, tale altro la rabbia dei colleghi; sicchè con
mille diavolerie mi hanno sconvolto il cervello in modo, che poco mancò
che io non mi sia dato per perduto.
- Eh! la è faccenda
seria; ed io avrei detto come loro....
- Ma quando Adamo zappava ed
Eva filava dov'erano i gentiluomini?([7])
- Veramente; dov'erano? Io per
me non lo so.
- Io vorrei che mi chiarissero
in che cosa, noi gentiluomini, differiamo dai popolani. Forse noi non bagna la
pioggia, o non riscalda il sole? Forse non ci toccano i dolori; la nostra culla
non è circondata di pianto; il nostro letto di morte non è
assediato dai singulti? Possiamo dire alla morte, come al creditore importuno,
tornate domani? Dormiamo meglio l'ultimo sonno dentro un sepolcro di marmo, che
il popolo sotto la terra? Io vorrei che mi chiarissero un po' se i vermi, prima
di accostarsi a rodere il cadavere di un papa o di un imperatore, gli fanno di
berretta dicendogli: si contenta, santità? si contenta, maestà?
Il mio ducato semina, e raccoglie contentezze? Amore non toglie via ogni
differenza fra gli amanti?
- Cosi è: Ogni
disuguaglianza amor fa pari, dice il poeta. Qualche cosa di simile
cantò con la solita eleganza il signor Torquato Tasso, nella sua favola
boschereccia: ricordatevene Duca?
- Oh Dio! e che cosa volete
che io mi ricordi? Io non ho più memoria, nè mente, nè
nulla. Per pietà, umanissimo. Conte, voi che avete senno ed esperienza
di mondo, siatemi cortese a indicare un rimedio a tanta molestia!
- Mio caro, riprese il Conte
ponendo la mano familiarmente sopra la spalla del Duca, porgetemi ascolto. Voi
avete ragione...
- Sì?...
- E i vostri parenti non hanno
torto. Voi avete ragione, però che fumo di nobiltà non valga
fumo di pipa([8]).
I vostri parenti non hanno torto perchè essi vedranno, come io vedo, qui
dentro l'artifizio di femmina, per disposizione naturale o per suggestione
altrui, sparvierata. Non vi stizzite, Duca voi veniste a consultare l'oracolo,
e i responsi si hanno ad ascoltare quantunque non garbino. Quella che sembra a
voi ingenua ritrosia, a me pare repulsa studiata sul fondamento, che gli
ostacoli irritano le passioni. Poichè le cose vietate tanto più
si appetiscono, così conta per avventura la donna sopra l'ardore
dell'animo vostro, onde precipitarvi colà dove ella vi aspetta. Insomma,
qui apparisce la rete tesa per trarre guadagno dalla fiamma che vi accende.
Umana cosa è amare; lasciarne vincere dai ciechi moti dell'animo
appartiene ai bruti. Quando io era giovane, ed attendeva a siffatte novelle, non
si badava così al minuto. Un gentiluomo come voi, quando lo prendeva
capriccio di qualche bellezza plebea, la persuadeva con danari ai suoi piaceri.
Se repugnava, e questo so dirvi che accadeva di rado, almeno ai tempi miei,
rapivala. Se il parentado latrava gli si gettava un pugno di moneta in gola, e
taceva; imperciocchè il volgo abbai, come Cerbero, per avere l'offa.
Quando la donna diventava fastidiosa, e questo avveniva spesso, con alquanto di
dote si allogava; nè di partiti si pativa penuria, sì
perchè coteste creature compiacendo alle voglie di un gentiluomo non
saprei vedere in che cosa disgradino, e sì perchè bocca baciata
non perde ventura, ma si rinnuova come fa la luna....
Il Duca fece un gesto di
orrore. Il Conte, imperturbato, sempre più insisteva:
- No, figliuolo mio, non
disprezzate il consiglio dei vecchi: io delle cose del mondo ne ho viste assai
più di voi, e so come le vanno ordinariamente a finire. Badatemi, in
grazia: io vi propongo un partito di oro. Voi vi mettete, per così dire,
a cavallo al fosso. In primis voi riducete in potestà vostra la
ragazza; e qui sta il tutto, o almeno la massima parte, e voi avete a
convenirne; e poi, caso che la vi riuscisse o Clelia, o Virginia, o la
Pantasilea, e allora sposatevela in santa pace, e buona notte, e buona guardia.
Se potete schivare cotesto scoglio del matrimonio, fatelo per quanto le forze
vi bastino; avvegnachè, sacramento a parte, il matrimonio sia proprio la
fossa dello amore; l'acqua benedetta lo spenge: quel sì che egli
pronunzia, ed è come il vagito dello imeneo, è anche a un punto
l'ultimo sospiro dello amore in agonia: il matrimonio nasce dallo amore come
l'aceto dal vino([9]);
oltrechè fuggirete la indignazione dei parenti, e le dicerie del mondo,
che non è poco guadagno. Voi mi direte che e' sono morsi di zanzare, ed
io ve la do vinta; ma quando le zanzare si avventano a migliaia vi conciano il
viso, che Dio ve lo dica per me; e non possiamo trarre guai delle ferite
ridicole e non pertanto moleste: i quali tutti fastidii un uomo discreto
cercherà sempre, potendo, evitare.
- No, Conte, no; io vorrei
darmi piuttosto di un coltello nel cuore...
- Adagio ai ma' passi; a
gittarci via siamo sempre in tempo. Prima di prendere il male per medicina,
considerate prudentemente il negozio. Voi vedete come la mia proposta vi
presenti due casi, e al tempo stesso due modi di risolverli. Voi, con quel sano
giudizio che vi trovate, governatevi a seconda delle circostanze.
- Ma e se la fanciulla mi
prendesse in odio?..
- Vi rammentate l'asta di
Achille? Ella sanava le ferite che faceva: così amore sana la piaga di
amore; e la bellezza ha la manica larga per assolvere i peccati, che per
virtù sua si commettono. Perdonerà, non vi affannate,
perdonerà; o che ha da cominciare adesso il mondo a procedere per
ritroso? Non vogliate cascare sul vergone come uccello di passo. Le donne,
più che non credete, sovente vi mostrano il viso dell'uomo d'arme per
provare il valore dello amante. A Sparta se il marito volea trovarsi con la
moglie l'aveva a rapire; nè ho rinvenuto storici che raccontino, che le
mogli se lo avessero a male. Ersilia forse non amò Romolo? Dobbiamo
spaventarci di un ratto noi altri romani, che nasciamo dalle rapite Sabine?
Confuso il giovane, e aggirato
da cotesti ragionamenti, si trovò come strascinato giù per un
terreno sdrucciolevole. La cupidità cammina sempre con le tasche piene
di cotone, per cacciarlo nelle orecchie alla coscienza onde non senta i suoi
spasimi. Nel delirio della passione, il giovane, senza pure pensarvi, rispose:
- E come avrei a fare io? Io
non sono uomo da questo. Da qual parte incominciare? Dove trovare uomini i
quali volessero mettersi per me a cotesto sbaraglio?
Il Conte pensò, che il
dabben giovane senz'altri conforti si sarebbe rimasto in mezzo alla via; e poi
gli venne adesso alla mente cosa, che non aveva avvertito avanti; onde si
affrettò di soggiungere:
- E gli amici che stanno a
fare nel mondo? In questo bisogno posso molto bene accomodarvi io. se non
m'ingannava la vista. Così favellando si accosta alla porta della sala,
e, apertala, chiamò:
- Olimpio!
Il villano, come bracco che
all'appello del cacciatore leva il muso, drizzatosi in piedi, rispose con
disonesta famigliarità:
- Ah! vi siete accorto
finalmente che ci sono in esto mondo, Eccellenza; - e brontolando soggiunse
sommesso: - senza fallo vuol mandare qualcheduno in paradiso.
- Vien qua.
E Olimpio andò. Quando
fu entrato nella stanza, per quella soggezione che anche i più impudenti
plebei risentono dalla vista di arnesi e di stanze signorili, si trasse il
cappello, e giù per le spalle gli cadde copia di chiome nere le quali,
mescolandosi co' peli della barba, gli davano sembianza di un fiume coronato di
canne, come sogliono effigiarlo gli scultori. Volto duro come intagliato in
pietra serena: occhi sanguigni infossati sotto sopracciglia irsute, più
che ad altro somiglianti a lupi dentro la lana; voce cupa e arrotata.
- Siamo sempre vivi, nè
gli domandò il Conte sorridendo.
- Eh! proprio per miracolo di
san Niccola. Dopo l'ultimo ammazzamento, che commisi per vostra Eccellenza...
- Che vai tu farneticando,
Olimpio? Che ammazzamenti, o non ammazzamenti ti sogni?
- Trasecolo io? Per Cristo
santissimo! di conto, ordine e commissione vostra; - e battendo con la larga
mano il banco. aggiungeva: qui mi contaste i trecento ducati di oro, che non
furono troppi; - ma tanto è; io me ne contentai, e non ci è a
ridire sopra. Se presi poco, mio danno. Qui...
E siccome il Conte con le mani
e con gli occhi ammiccava, che si rimanesse da mettere più parole
intorno a cotesto fastidioso argomento,
- Oh! allora egli è un
altro paro di maniche, proseguì imperturbabilmente costui; potevate
avvertirmi a tempo. Io credeva che stessimo in famiglia, don Francesco;
scusate. Per tornare ai miei montoni, il Bargello mi si era fasciato intorno
alla vita più stretto della mia cintura; la corda ha rasentato
più volte il mio collo, che la mia bocca la foglietta: vedete, tutti gli
alberi mi parevano cresciuti in forma di forca. Adesso, in questo arnese, io
quasi non ravviso più me stesso; epperò mi sono avventurato a
ritornare, perchè l'ozio, vedete, egli è propriamente padre de'
vizii: ed io, non avendo a fare più nulla, mi era perfino ridotto a
lavorare. Se in questo mezzo tempo a qualche vostro nemico fosse cresciuta
qualche gola di più, che non vi piaccia ch'egli abbia, siamo qua agli
ordini di vostra Eccellenza.
E con la destra fece un atto
orizzontale al collo.
- Tu arrivi, si può
dire, come le nespole in ottobre; e vedrò così adoperarti a
trarre un fuscello, dacchè travi per mano a quest'ora non ne abbiamo; -
ma, te lo ripeto, egli è quasi un nonnulla, una eleganza del tuo mestiero,
- tanto per rimetterti in filo.
- Udiamo, via. - E il
masnadiero usando della terribile domestichezza che il delitto suol porre fra i
complici, si mise a sedere. La gamba destra accavallò alla sinistra, e
il braccio sinistro puntò sul ginocchio alzato; sopra la mano aperta
appoggia la faccia, e quivi, con gli occhi chiusi, il labbro inferiore
sporgente in fuori, parve atteggiato a profondo raccoglimento.
- Questo giovane gentiluomo,
ch'è il clarissimo signor Duca di Altemps..., incominciò a
favellare don Francesco,
- Bè! - E senza schiudere
gli occhi, appena fece il masnadiero un lievissimo cenno col capo.
- Ha concepito un furioso
amore per certa fanciulla...
- Delle nostre, o delle
vostre?
- E che so io? Una
camerista...
- Nè nostra, nè
vostra; notò Olimpio, alzando le spalle in atto di disprezzo.
- Ricercata di amore, si
avvisa a starsi sul sodo. La proteggono i Falconieri, che se stessero a
patrimonio come a superbia, a noi converrebbe far la sementa in mare. Ella
ripara in casa loro, e questo le cresce baldanza; forse, e senza forse, vi
sarà di mezzo qualche lussuria di prelato, la quale non ho voglia,
nè tempo verificare adesso: comunque sia, ciò fa impaccio al
signor Duca...
- Chi mi chiama?..
interrogò il Duca riscuotendosi a un tratto.
- Povero giovane, ve' come lo
ha concio la passione! Giuoco, che voi non avete inteso parola di quanto
abbiamo favellato fin qui Olimpio ed io?
Il Duca abbassava la faccia, e
arrossiva.
- Per concludere, Olimpio,
bisogna che tu la levi, e la porti colà ove ti verrà indicato.
- Comandate altro, Eccellenza?...
- Per ora no. Tu farai
d'introdurti nel palazzo; e, non potendo altramente, scasserai qualche porta, o
ferrata terrena. Se anche questo non ti riuscisse, ti aiuterai con una scala di
corda...
- Azzittatevi; voi portate la
febbre a Terracina. Il calzolaio, salvo vostro onore, non ha a passare la
scarpa. Queste cose io so bene da me, con qualcheduna altra ancora che non
sapete voi. Lasciatemi contare... Uno... due... tre... mi vi abbisognano
quattro compagni.
- E tu li troverai...
- Bisognerà procurarci
pistole e cavalli. - Quanto avete disegnato spendere intorno a questa impresa?
- Ma! - Non ti parrebbe
abbastanza un cinquecento ducati?
- No, signore, non bastano.
Fatta la parte ai compagni, levate le spese dei cavalli e delle armi, mi
riviene una miseria.
- Orsù; non ci abbiamo
a guastare fra noi. Vadano ottocento ducati, oltre le grazie e i favori grandi,
che puoi sperare da me...
- Farò ammannire le
carra per portarmeli a casa. Fatta la festa si leva l'alloro. Don Francesco,
diamo un taglio a queste novelle; aspettate a pascermi di rugiada quando vi
apparirò davanti in sembianza di cicala. - Dove ho da portare la
ragazza?
- Nel palazzo del signor Duca,
o in qualcheduna delle sue vigne, che t'indicherà...
- Ecco un granciporro,
Eccellenza. Se la Corte prende fiato della cosa, i primi luoghi che
verrà a perquisire saranno le dimore del signor Duca. Procurate dunque
prendere a fitto, o farvi imprestare da persona segreta qualche vigna remota in
città; ma meglio sarà torla a fitto, impiegandovi persona che non
sia punto dei vostri...
Il Conte aveva guardato in
faccia Olimpio, e sorriso in modo strano, quasi schernendolo di non essere
stato compreso: poi erasi accomodato al banco, e posto a scrivere. Il
masnadiero mosse al giovane Duca alcune interrogazioni brevi ed aspre. Questi
rispondevagli a modo di smemorato: sentivasi travolto come foglia dal turbine:
era caduto sotto la potenza del fascino, che alcuni serpenti pur troppo gittano
sopra gli animali vicini: voleva protestare, si provava a fuggire, e non
poteva. Quando gli sembrava esser prossimo a rompere lo incantesimo con lo
aiuto di Dio, ecco affacciarglisi al pensiero la immagine dell'amata donna,
ch'ebbra anch'essa di amore gli gittava le braccia al collo... Allora un
diluvio di fuoco gli scorreva le vene; le arterie gli battevano così,
che per poco non gli si spezzavano; e se il ratto fosse avvenuto subito, non
gli sarebbe parso presto abbastanza. La gioventù, il desiderio e la
speranza ordiscono tale una catena, dentro la quale l'anima onesta e appassionata
spesso si dibatte, ma di rado la spezza; se poi vi si aggiungano eccitamenti,
non è cosa umana potere resistere. Il cattivo genio aveva vinto, e il
buono si allontanava cuoprendosi il volto con le ali. Il Conte, quantunque
attendesse a scrivere, pure sentiva la vittoria del vizio su la virtù
dello ingenuo giovane; sicchè soffermatosi ad un tratto, domandò
sbadatamente:
- A quando la impresa?
- Facendo i miei conti, ormai
vedo che fino a domani notte non ci posso entrare, - rispose Olimpio.
- Domani notte, eh! Ma tu non
sai, che l'orologio a polvere, col quale la passione misura il tempo dello
aspettare, è la sua fiaccola, di cui gitta le gocciole accese sul cuore
del povero amante? Tu invecchi. Olimpio, nè sei più quel desso.
Prima potevano stamparti sul viso: cito ac fidelis, ch'è la
impresa delle Decisioni della sacra Ruota Romana, la quale impresa però
non impedisce che le liti non durino quanto lo assedio di Troia, e sieno
traditrici da disgradarne Sinone. Dunque dopo il trotto contentiamoci del
passo: a domani. Brevi istanti appresso, piegando il volto verso il Duca,
domandava di nuovo:
- Quantunque per natura io
rifugga da ogni maniera di indiscreta curiosità, pure non posso
resistere alla voglia di conoscere il nome della vostra innamorata. Vorreste
essermi cortese di compiacermi, signor Duca?
- Lucrezia...
- Oh! Lucrezia. È par
fatale, che queste Lucrezie abbiano a mandar sempre sottosopra i nostri
cervelli romani. Questa volta però non farà cacciare i re da
Roma: vi stanno i papi, e con bene altre radici, che Dio li prosperi, e con
bene altre virtù, che non erano quelle di Tarquinio; e Rodrigo Lenzuoli
basti per tutti. - La Italia può fare a meno piuttosto del sole, che del
Papa; senza quelle benedizioni urbi et orbi non crescerebbero i
baccelli. - E riprendendo a scrivere, quasi per eccesso di brio mormorava: -
Crezia, Creziuccia, Crezina, - ardo per voi la sera e la mattina... - Terminato
lo scritto, si levò in piedi dicendo:
- Olimpio, io mi figuro che tu
abbia a recitare i tuoi rosarii; sicchè sarà bene che tu te ne
vada. Avverti che non ti veggano uscire di casa mia; perocchè,
quantunque tu sii meglio del pane, e onesto a prova di maglio, tu capisci bene
che si possono avere amicizie migliori delle tue. - Marzio!
E Marzio comparve.
- Marzio, accompagna questo
evangelista, per le scale di ritirata, all'uscio del giardino che sta sul
chiasso. Addio; mi raccomando alle tue sante orazioni.
*
* *
- Come va, compare? - mentre
Olimpio andava, così, battendo sopra la spalla di Marzio, lo
interrogò.
- Come piace a Dio, - rispose
Marzio un po' duramente. E l'altro:
- Oe, che non mi ravvisate,
Marzio?
- Io no...
- Guardatemi meglio, e vedrete
che parrà a voi quello che pare a me.
- E che par egli a voi?
- Pare che noi saremmo un
magnifico paio di gioie attaccati alle orecchie di donna forca.
- Olimpio, siete voi?
- Lo spirito della forca ci fa
come lo aceto nel naso; rischiara lo intelletto, e richiama la memoria...
*
* *
- Conte, prese a dire il
giovane Duca esitando; io temo mostrarmi ingrato al consiglio ed aiuto
vostri... e non pertanto sento non vi poter ringraziare. Dio... (ma io faccio
male a invocare il suo santo nome in questa trista faccenda, - sarebbe meglio
ch'ei non ne sapesse nulla). La fortuna dunque operi, che non vada a finire in
pianto.
- E la fortuna è per
voi; perocchè, come femmina, ella ama i giovani, e gli audaci. Se Cesare
non passava il Rubicone, sarebbe diventato Dittatore di Roma?
- Sì; ma neppure gl'idi
di marzo lo avrebbero veduto trucidato sotto la statua di Pompeo.
- Ogni uomo porta, nascendo,
l'ascendente della sua stella. Avanti dunque. Voi non potete fallire, che vi
sovviene copia di autori volgari, greci e latini. D'altronde perchè
repugnate commettervi alla fortuna? Ella governa il mondo. Vedete Silla, che
più di ogni altro seppe accomodare le differenze con la scure, le
dedicò il bel tempio di Preneste.
E così confortando
accomiatava il male arrivato giovane, il quale uscendo andava a balzelloni;
tanto scompiglio gli avevano messo nella mente le parole del Conte, e le cose
alle quali egli aveva assistito. Sentiva il male, presagiva peggio; ma ormai
spinto sul pendio del misfatto, non sapeva ritrarsene. La passione, il boa
feroce dell'anima, lo stringeva sempre più veemente, e soffocava in lui
l'ultimo alito di virtù.
Il Conte, appena partito il
Duca, recatosi in mano il foglio vergato poc'anzi leggeva, soffermandosi di
tratto in tratto per ridere clamorosamente:
«Reverendissimo, et
illustrissimo Monsignore. - La maggiore empietà, che abbia mai inquinato
questa sede augustissima et felicissima della vera nostra religione, sta per
succedere. Il duca Serafino D'Altemps, per compiacere a sfrenatissime voglie,
trama rapire domani notte, armata mano, dal palazzo dei Falconieri la onesta
fanciulla Lucrezia, camerista in casa dei prelodati clarissimi signori.
Accompagnano il Duca, complici del delitto, tre o quattro dei più
solenni banditi capitanati dal famoso Olimpio, cercato da due anni dalla Corte
per ladronecci e assassinamenti, con la taglia di trecento ducati di oro. State
su l'avvisato, che si tratta di gente usa a mettersi ad ogni sbaraglio, e il
pericolo aumenta la fierezza. - Di tanto vi avvisa un osservatore del buon
governo, e zelante dell'ordine, e della esaltazione di santa Madre Chiesa. Roma
li 6 agosto 1598.»
- Va bene: la scrittura non
può conoscersi per mia: questa fra un'ora sarà nelle pietose mani
di monsignor Taverna. - La piegò, e la suggellò improntandovi
sopra una croce, e scrivendovi: A Monsignore Ferdinando Taverna governatore di
Roma.
- A tutto signore tutto onore:
egli è Duca, e va proprio trattato da pari suo. A cotesta perla del
Principe Paolo penseremo più tardi. E poi ci liberiamo da Olimpio, se
pure non giunge anche per questa volta a scamparla. La rete è tesa nelle
regole dell'arte; ma
Rade volte addivien, che alle
alte imprese
Fortuna ingiuriosa non
contrasti.
CAPITOLO IV
LA TENTAZIONE.
O male, o
persuasore
Orribile di
mali,
Bisogno......
Parini, Il Bisogno.
Entrarono i giovani sposi.
L'uomo baciò affettuoso la mano al Conte: la donna volle fare lo stesso;
ma il fantolino, che teneva in collo, gittando uno strido glielo impedì.
Fu caso quello, o piuttosto presentimento? L'uomo non conosce le arcane
virtù della natura. Il Conte guardò fisso la donna; e vedendola
maravigliosamente bella i suoi occhi si aggrinzirono, e le pupille mandarono un
baleno.
- Chi siete voi, buona gente,
e in che cosa posso accomodare ai bisogni vostri?
- Eccellenza,
incominciò il giovane, o non mi ravvisa ella più? Io sono il figliuolo
di quel povero falegname... si ricorda?.. rovinato, or fanno appunto quaranta
mesi,... e se non era la sua carità egli si sarebbe gettato nell'acqua.
- Ah! ora me ne sovviene. Voi
vi siete fatto uomo, garzone mio; ed il buon vecchio del padre vostro come si
porta egli?
- Il Signore lo ha chiamato a
se. Creda, Eccellenza, che il suo ultimo sospiro fu per Dio, e il penultimo per
la sua famiglia e per lei: - non rifiniva mai di mandarle benedizioni, ed
augurarle dal cielo tutte le prosperità, che da uomini possano
desiderarsi maggiori.
- Dio lo abbia nella sua santa
pace. E queste sono la moglie, e creaturina vostre?
- Per l'appunto, Eccellenza.
Appena mia moglie è rientrata in santo, mi è parso bene di fare
il mio dovere conducendola a renderle reverenza e offrirle grazie col cuore,
perchè, dopo Dio, noi ripetiamo da lei la nostra felicità.
- Voi siete felici?
- Felicissimi, Eccellenza, se
la memoria del perduto genitore non venisse di tratto in tratto a turbarmi; -
ma i suoi anni erano molti, e morì come un fanciullo che si
addormenti... Egli non aveva rimorsi su l'anima.... e le sue notti io le so
dire ch'ei le dormiva tranquille... povero padre! - E sì dicendo si
asciugava le lacrime.
- E voi, donna, vi sentite
felice?
- Sì, prima la Vergine
benedetta, e più che non si può immaginare col pensiero, o
riferire con parole. Michele vuol bene a me; io lo voglio a lui; tutti e due ne
vogliamo tanto e poi tanto a questo bello angiolo nostro. Michele guadagna da
camparci, e ce ne avanza; - sicchè, Eccellenza, ella vede che non
chiamandoci soddisfatti sarebbe proprio un mormorare contro la provvidenza di
Dio. - Queste cose dicendo la donna appariva sfavillante.
- Voi siete dunque felici? -
domandò il Conte per la terza volta con voce cupa.
- E si può dire in
grazia sua, Eccellenza. Entrando in casa di Michele io ho appreso a venerare il
suo nome. La prima parola che insegnerò al mio bello angiolo,
sarà benedire il nome del caritatevole barone Francesco Cènci.
- Voi mi riempite il cuore di
dolcezza, disse il Conte dissimulando la rabbia che lo soffocava; e per
infingersi meglio baciava in fronte, e vezzeggiava il fanciullo: - buona gente!
anime degne! Però quel poco, che io feci, non merita tante grazie; e a
fine di conto, a noi altri favoriti con copia di beni corre obbligo grande
sovvenire ai poverelli di Cristo. A che buono il danaro, se non per riparare
qualche sventura? Havvene forse del meglio speso di questo? Non lo mettiamo a
usura su le banche del paradiso, dove ci vien reso a mille contanti il doppio?
Sono io dunque, carissimi, che devo ringraziarvi per avermi offerta occasione
di fare del bene. - Qui tratta fuori una cassetta del banco, prese un pugno di
ducati d'oro e gli offerse alla donna; la quale, fattasi in volto tutta
vermiglia, andava schermendosi; ma il Conte insistendo, diceva:
- Prendete, figliuola mia,
prendete. Voi mi avete fatto torto quando non mi avvisaste della nascita di
questo bel putto; che toccava a me essergli compare. Compratevi una collana, e
portatela al collo in espiazione del peccato commesso: guardate di farvi
riuscire ancora un guarnelletto sfoggiato al fanciullino, perchè
quantunque per bello ci passi il segno, pure sapete come dice il poeta?
Sovente accresce alla
beltà un bel manto.
Io vo' che la gente, in
vedendolo, esclami: oh avventurosa colei ch'ebbe così bel portato; - e
il vostro cuore di madre esulterà.
La giovane madre dapprima
sorrise; poi da quelle soavi parole, che le fioccavano sul cuore, si
sentì conquisa, e pianse, senza però cessare il sorriso; come
quando, in primavera, piove a un punto e risplende il sole, mentre le gocce
cadenti disegnano in cielo l'arco maraviglioso, che noi reputiamo testimonianza
del patto di pace fermato da Dio con gli uomini... E fosse pur troppo così!
- Continuate ad amarvi -
prosegue il Conte con la voce solenne di un padre; - la gelosia non turbi il
sereno dei vostri giorni; nè mai altra casa possa piacervi più
della vostra: vivete tranquilli e nel santo timore di Dio. Qualche volta rammentatevi
nelle vostre orazioni di me, povero vecchio, che non sono... oh! credetemelo,
non sono quale vi appaio per avventura felice; ( - e qui il Cènci di
pallido, come ordinariamente egli era, diventò livido - ) e se in alcun
bisogno vostro penserete a me, siate persuasi che voi troverete viscere
paterne.
I giovani sposi si chinarono
per abbracciargli le ginocchia; ma egli nol volle consentire affatto, e con
voce ed atti benigni gli rimandò con Dio. Passando per la sala essi non
rifinivano mai di esclamare:
- Oh il pietoso signore! Il
caritatevole gentiluomo!
Gli staffieri udendo simili
parole sogguardavano l'uno l'altro facendo spallucce; ed uno fra loro, il
più audace, sussurrò fra i denti:
- Che il diavolo si sia fatto
cappuccino?
- Felici! felici! -
ruggì Francesco Cènci dando libero sfogo alla collera male
repressa; - e vengono a dirmelo proprio in faccia! Lo hanno fatto a posta per
tormentarmi con la vista della loro contentezza! Questo giudico il più
atroce insulto, che io mi abbia sofferto da un pezzo a questa parte! - Marzio!
Va, corri tosto, e raggiungi Olimpio; riconducilo qui; affrettati, dico; se
torni, prima che suoni l'Angelus, insieme con lui, ti do dieci ducati. -
Io vi farò vedere se, senza piangere lacrime di sangue, uom possa venire
a dichiarare in faccia al conte Francesco Cènci, ch'egli è
felice.
In questo punto, e certo non
gli fu ventura, ecco entrare pian piano il degno sacerdote: Omnes sitientes
venite ad aquas, giubbilava dentro il cuor suo, comecchè stringesse
in fascio i lembi della toga stracciata; ma da cotesta beatitudine lo trasse
fuori il cupo brontolìo di Nerone. Il prete (tanto scordevole egli era
delle ingiurie più triste!) si risovvenne allora del cane nemico, e
parve la moglie di Lot quando si volse indietro a guardare lo incendio di
Sodoma.
- Silenzio, Nerone! -
Reverendo, accostatevi senza sospetto.
Il Prete, ripreso alquanto di
coraggio, mosse qualche altro passo a sghembo come costumano i granchi; e,
invitato a sedersi, si pose sopra l'angolo estremo della sedia, rannicchiato a
modo di civetta sul canto del tetto.
- Parlate, Reverendo; sono ai
vostri comodi.
- Ed io punto ai miei, -
pensò il prete, ma non lo disse; e invece favellò:
- La fama...
Nerone udendo la voce del
prete torna a brontolare, e il prete subito si drizza impaurito; sgridato il
cane si riacqueta, e il prete si attenta da capo ad aprire la bocca. Badando
sempre con occhio obliquo la bestia, che malediceva in cuor suo, egli riprese:
- La fama, che suona delle
magnanime vostre imprese per tutto il mondo....
- E per Roma....
- Questo s'intende da se, caro
lei, perchè Roma fa parte del mondo...
- E per questo appunto io lo
diceva...
- E vi pareggia a Cesare...
- A quale dei due, Reverendo,
a Giulio o ad Ottaviano?
- Questo non ispiega bene la
fama; ma io mi figuro a quello che fece tanti regali al popolo romano in vita e
in morte.
- E sapete voi perchè
egli poteva donare tanto?
- Eh! mi figuro perchè
ne aveva...
- Certo, ne aveva
perchè gli rubò da tutto il mondo; e questo debito è
cascato addosso a noi altri nipoti, e ci tocca a pagarlo con le usure, vi dico
io...
- Ah! tocca a lei pagare i
debiti di Giulio Cesare?
- E voi siete venuto qui in
mia presenza a paragonarmi con cotesto insigne ladrone di provincie e di
regni?...
Il Prete confuso malediceva
l'ora, che gli venne in mente recitare una orazione di lunga mano composta: era
meglio che avesse favellato, secondo il solito, così alla buona. Ah! -
pensava - potessero farsi le cose due volte! - Poi tutto umiliato sussurrava...
- Perdoni, per lo amore di
Dio... io non credeva... avendo tolto a imitare la orazione di monsignor
Giovanni della Casa a Carlo V... che...
- Ascoltatemi, favellò
il Cènci, deposto a un tratto il suono scherzevole, e assunto un
cipiglio severo. Io sono vecchio, e voi più di me: però del tempo
non ne avanza a me nè a voi: parlate dunque netto, e spedito. Tutte le
cose lunghe mi vengono a fastidio, - anche la Eternità.
Il Prete, preso alla
sprovvista, non sapeva da qual parte rifarsi; quel subito trapasso dal dolce
all'agro lo aveva sbalordito: in oltre la ultima proposizione del Conte gli
pareva mal sonante, ed eretica. Finalmente, come uomo a cui un buffo di vento
sopraggiunga impetuoso a portar via le carte accomodate sul banco, parlò
con tronchi accenti:
- Eccellenza... lei vede in me
un prete... e per di più curato di campagna... La mia Chiesa rassembra
proprio un crivello... l'acqua piovana scende giù dal tetto, e si
mescola col vino delle ampolle... Un melogranato cotto in forno, a paragone
della mia Canonica sdrucita, può figurarsi una pina verde... talora,
quando piove, mi trovo costretto a starmi in letto coll'ombrello aperto, e non
basta. Sa ella con che cosa mi tocca ad asciugarmi il viso?.. lo sa?
- No certo.
- Con Rodomonte.
- E ch'è egli questo
Rodomonte?
- Il gatto della canonica; ma egli
alla peggio la rimedia pei tetti; a me e a Marco, che non possiamo andare a
procacciarcelo sul tetto, spesso manca il desinare e la cena; ed io sospiro, e
Marco raglia. - Ho una tonaca sola... o piuttosto, come dice Cremete negli Autontimerumeni,
ignaro se il suo figlio tuttora viva, - non saprei più dire se io
l'abbia, o se io non l'abbia: - veramente ella era lustra da potermivi guardare
dentro; ma alla fine con qualche rammendo poteva tirar su fino a dicembre... ed
ora il cane di vostra Eccellenza miri come me l'ha concia!.. E sporgendo il
lembo, la sua voce prendeva la intonazione dello stabat Mater dolorosa.
- Non pronunziaste voi il voto
di povertà? Perchè vi lagnate di uno stato, che tanto si accosta
alla perfezione? Ah! questa perfezione non vi piace; amereste meglio essere
imperfetto con qualche migliaio di scudi di entrata, che perfetto, e più
che perfetto in povertà? Prendetevela con l'Autore di questa grammatica,
che voi altri preti non volete capire. Gesù Cristo vi ha predicato non
essere i vostri beni sopra questa terra: guardate il cielo, e sceglietevi
là il vostro campo; lo spazio, grazie a Dio, non manca. Ma voi fate
orecchie di mercante, e dite in cuor vostro: la doppia è il Padre, la
mezza doppia il Figlio, il terzo di doppia lo Spiritossanto, e credo fermamente
che una discenda dall'altra.
Godete, Preti, poichè
il vostro Cristo
Dai Turchi e dai Concilii vi
difende([10]).
Vergogna, Reverendo; vergogna
questo darsi continuo pensiero di cose mondane! Quando la Chiesa costumava
calici di legno possedeva sacerdoti di oro; e questo dice san Clemente di
Alessandria. Ora ch'ella ha calici di oro, i preti son diventati di legno: - e
sapete voi, Reverendo, di quale legno? Del legno, che il santo Evangelo
dichiara doversi recidere perchè infecondo, e gittare sul fuoco...
Il povero Curato sostenne
cotesta bufera di male parole come un veterano la scarica delle palle nemiche;
poi con un sospiro esclamò:
- Ah! san Clemente
Alessandrino era un santo dottissimo; ma non credo che gli bisognasse stare a
letto con l'ombrello aperto quando pioveva...
- Sia; patite difetto di cose
necessarie alla vita? Ebbene, ricorrete agli opulenti prelati. Forse non ebbero
assai? Ma che volete da noi, l'ultima stilla di sangue? Andate, picchiate ai
palagi dei Vescovi; bussate alle porte degli Abbati... bussate, vi dico, e vi
sarà aperto; chiedete, e vi sarà dato: pulsate et aperietur
vobis, è stato detto da cui non può fallare.
- E' pare che cotesti
dignitarii spesso si trovino per faccende fuori di casa, perchè io mi
son provato a battere alle porte loro; ma vedendo che potevo rompermici le
noccola prima che da qualcheduno mi venisse aperto, me ne sono rimasto.
- Voi, clero minuto, siete
proprio gregge; e così sogliono chiamarvi i grassi prelati,
perchè verso di voi si comportano da veri pastori. Infatti qual è
la parte di pastore, per cui diritto vede, che seco voi non adoperino? Forse
non vi mungono? non vi tosano? non vi arrostiscono scorticati, e vi mangiano? -
Orsù, ardite ribellarvi contro la iniqua gerarchia: pubblicate al mondo
in qual modo sopra un solo capo, o per simonia, o per patto di lussuria, o in
modo altro più turpe, si cumulino benefizii, prebende e abbadie, le
quali da un lato fanno preti oziosi, superbi, viziosi, e ribaldi; dall'altro
poveri, vili, abietti, e ribaldi: palesate che le riforme dei Concilii non
hanno riformato nulla: manifestate come questo tristo collegio d'ipocriti
farisei ad altro non attende, che a impastar pane con la farina del diavolo.
Costringete i parasiti a tenervi a parte della mensa, che lautissima da lungo
tempo imbandiscono, e per lungo tempo ancora imbandiranno loro la ignoranza e
la follia degli uomini.
Il Curato, atterrito da quel
turbine di eresie, volse attorno gli occhi con riguardo, e poi sotto voce
osservò:
- Eccellenza, per lo amore di
Dio voglia rammentarsi che qui in Roma vi è una qualche cosa, come
sarebbe il Santo Uffizio, e il castello Sant'Angiolo.
- Avete paura? Bene; ma se
imparaste a tremare, apprendete ancora a soffrire. La pecora lecca la mano che
le taglia la gola. Esempio sublime, e lodato meritamente, della perfetta
obbedienza. O piuttosto, perchè disertaste voi la bandiera della natura?
Perchè abbandonaste la vanga paterna per comandare dalla polvere? Quando
voi preti vi allontanate dalla campagna vi piangono dietro le viti, e gemono i
solchi. Tornate a lavorare l'altrui podere, servi fuggitivi. La terra vince di
amore qualsivoglia tenerissima madre; ella vi nutre, ella vi veste, ella vi
seppellisce: che cosa volete di più, indiscreti? Vi lagnate che la
natura vi abbia diseredato: bugiardi! vi è mai forse mancata la terra?
Dove stanno sepolte le migliaia di generazioni, che vi precederono? Sotto
terra. A cui di voi, nascendo, madre natura non destina tre braccia di terra, e
a taluno anche più? - A voi questa storia non garba. Il breviario pesa
meno della zappa. Voi volete godere qui il paradiso, che agli altri promettete
di là. Scalabroni, vi piace gustare senza fatica il mele raccolto dalle
api? Ma le api adoprano l'aculeo per cacciar via i ladri; l'uomo non sa valersi
del suo giudizio per liberarsi da voi altri. Ditemi un po', Reverendo, non vi
pare che l'aculeo dell'ape, tutto bene considerato, meriti più pregio
assai della ragione umana? - Orsù; vivete come vi aggrada, morite come
vi piace, ma levatevi dintorno a me. Da me voi non avrete uno scudo. Da
camparvi vi fu dato. Io non ho danaro per sopperire alle morbidezze vostre; -
io non posso fare le spese ai vizii vostri; e voi ne avete più, che
figli Giacobbe, quantunque un vizio costi più di tre figliuoli.
Credete voi però,
Sardanapali, Potervi fare hor femine,
hor mariti, E la Chiesa hor spelonca, et
hor taverna; E far tanti altri, ch'io non vo dir, mali, E saziar tanti, e sì strani appetiti, E non far ira alla lenta superna?([11])
Il povero Prete era come
colui, che, essendo lontano da casa, sorpreso da un rovescio di acqua
nell'aperta campagna, piega le spalle, e sta a pararne quanta Dio ne manda.
Però, percosso dall'abbominazione dell'ultimo rimprovero, levò
gli occhi al cielo, e non potè trattenersi da dire:
- In quanto a Verdiana,
Eccellenza, ch'è la fantesca la quale io tengo in casa, le giuro per
Quello, che non vuol che giuriamo, ella è si antica, da potere aver
portato sassi quando fabbricavano il Colosseo. Ma pare a lei, che un uomo della
mia età e del mio carattere possa attendere a siffatte scostumatezze?
Poh!
- Perchè no? Ossa
vecchie e legna secche avvampano più presto.
.........i' sarei preso ed
arso Tanto più, quanto son men verde legno,
diceva messer Francesco
Petrarca; e delle cose di amore il canonico Petrarca intendeva assai addentro,
e più disonestamente, che non ci vuol dare ad intendere il vecchio
peccatore - perocchè ei fosse dei vostri...
E il Prete, levando in alto le
mani e il viso, esclamò pietosamente:
- Gesù! che cosa mi
tocca a udire!
Il Conte Cènci con
l'indice della mano destra all'improvviso descrisse un segno orizzontale sopra
la fronte, quasi disegnasse mutare registro allo strumento, e con voce
più mansueta riprese:
- Oh! non lo diceva mica per
voi, povero sacerdote, che siete così attrito dallo stento, da
assomigliarvi a san Basilio. Quando mi capitasse la voglia di palesare i fatti
miei a qualcheduno, fate conto che non vorrei confessarmi ad altro sacerdote
che a voi. Or via, tregua alle parole, Curato mio dolce. Quanto danaro vi abbisogna
per restaurare chiesa o canonica, comperarvi una tonaca nuova per riparare la
fellonia di Nerone, ed una mezza dozzina di asciugamani per lasciare in riposo
la pelle di Rodomonte?
- Dirò... Verdiana ed
io abbiamo fatto le mille volte il conto; ella su le fodere del lunario, io
sopra i margini del breviario, e non ci siamo messi mai d'accordo; ch'ella dice
più, ed io meno: ma io crederei che con un dugento di ducati ci si
potrebbe incastrare.
- Dugento ducati!
Misericordia! ma che sono eglino diventati prugnòli?
- E con meno non ci è
propriamente a rimediarla, - riprese il Prete incrociando le dita delle mani e
appoggiandosele alla pancia; - e noti, che ci aggiunterei una quarantina di
ducati che conservo nello inginocchiatoio accanto al letto, e che mi costano da
quarantamila digiuni non comandati.
- Uditemi, Reverendo; io non
sono ricco abbastanza da accogliere la presunzione di restaurare la casa di
Dio. Egli è padrone del buon tempo e del cattivo; e se lascia piovere in
casa sua, segno è certo che l'acqua piovana gli piace. Io vi darò
cento ducati, ma ad una condizione.
- E quale, Eccellenza?
- Che voi, insieme ai quaranta
vostri, gli adoperiate unicamente a restaurare la canonica, corredarvi di
masserizie necessarie, di asciugamani, di una tonaca per voi, ed anche di una
veste per Verdiana...
- Mai no, Eccellenza, mai no;
piacemi la casa risarcita, piaccionmi le masserizie, e la vesta per Verdiana mi
piace assai più della tonaca mia; ma le cose del Signore hanno da andare
innanzi ad ogni privata comodità. Su questo punto Verdiana ed io siamo
di un medesimo cuore, e non ci patirebbe l'animo di fare nostro prò
neppure di un bagattino, se non avessimo provveduto prima alla casa di Dio....
- Che cosa andate voi
bestemmiando di casa di Dio? Ha egli mestieri di casa per ricovrarsi dalla
pioggia, o dalla bruma della notte come noi altri? Casa di Dio è
l'universo; sono le stelle, il sole, la luna, e tutto quanto vive, vegeta e
cresce quaggiù. Tutto è Dio. In tutto penetra, da tutto emana la
Divinità. Dio vuolsi adorare nelle magnificenze della natura, nelle
opere dello intelletto, nella innocenza e nella sensibilità dell'uomo.
- Signor Conte, rispose il
Curato mettendosi la destra sul cuore, e con dignitosa semplicità, io
sono un uomo povero d'intelletto: credo quello che i miei padri credevano, e
non cerco più oltre. Io so eziandio che lo spirito umano spesso si
spinge temerariamente a tal punto, dove non comprende più nulla; e
allora, fra il dubbio che tormenta e la fede che consola, parmi cosa savia
attenermi alla fede. -
Queste schiette parole punsero
sul vivo il Conte Cènci, il quale studiando dissimulare la ferita con la
moltiplicità degli empii discorsi, si affrettò a replicare:
- Voi già, secondo
l'usanza dei sofisti, ve la svignate fuori del seminato. Io non vi contrasto la
credenza, ma il modo del credere. O come volete voi che a Dio incresca l'acqua
piovana dentro la vostra parrocchia, poichè s'egli ve l'avesse a uggia
sarebbe padrone di non la mandare? Egli ha creato l'acqua, e il fuoco altresì:
ora, se quando è bagnato vuole asciugarsi, non ha a far altro che
prendere con le molle uno degl'infiniti soli del cielo, e metterselo nel
cammino. Può temere l'acqua Colui, che vi cammina sopra come se fosse un
selciato? Egli che apre e chiude le cateratte dei cieli come fo io di questa
cassetta? - Via, via, Curato mio, almeno confessatemi questo, che a lui nulla
importa di nuvoloso, nè di sereno. - Ecco qua; questi sono ducati, e
sfolgoranti... ( - e qui preso un pugno di scudi d'oro, gli distendeva dinanzi agli
occhi del prete - ) io voglio che sieno vostri; a patto però, che gli
spendiate solamente per voi e per Verdiana. Dio è ricco abbastanza per
farsi le spese da se.
E sì favellando
protendeva il viso tentatore come il Diavolo a santo Antonio. Il Prete covava
la moneta con gli occhi, e da tutti i pori del corpo gli trasudava la cupidigia
della miseria. Una molto terribile battaglia si combatteva in quella povera
anima. Il Conte però, notando come il Prete girava nel manico, insisteva
alacremente:
- E questa ultima ragione
sopra le altre vi muova, che se voi non accettate il patto io gli ripongo in
cassetta...
- Eccellenza!...
- Ma via, mettiamo da parte le
ragioni che vi ho esposto: a voi non garbano, ed io non vi voglio chiudere il
Limbo che vi aspetta. Non è egli vero, che voi dovete provvedere a due
cose: alla chiesa ed alla canonica? Poniamo dunque che la chiesa sia santa; la
canonica voi non impugnerete già che sia religiosa! Ora chiaritemi un
po' come possiate commettere questo grossissimo peccato, incominciando dalla
seconda piuttostochè dalla prima? - Voi troverete tanto cammino fatto
nello adempimento dei vostri doveri. Non vi ostinate; ricordatevi che vi ha tal
giusto, che per la sua giustizia perisce; e questo ha detto re Salomone...
- Eccellenza... veramente...
in questa maniera... mi parrebbe... e nondimeno...
- Su, via, dunque; accettate,
e promettete adoperarli unicamente per voi. Considerate, in grazia,
quest'altro: se Dio è, come voi ed io crediamo, eterno, non gli
dorrà aspettare quattro o sei anni, e potrei dire secoli. Se voi foste
diverso da quello che siete, vi direi: facciamo un poco come lui, che non pensa
mai a noi... - Sicchè; li volete, o non li volete?
- Ah signore! la tentazione
è grande; ma io temo commettere un grossissimo peccato...
- Li volete, o non li volete?
- Ma mi lasci riflettere. Non
è mica cosa da niente uno scrupolo di peccare, per un parroco che ha la
cura delle anime...
- Ebbene; ponete tutto a
debito dell'anima mia. Tanto io ho conto lungo col paradiso... - Ah! li prenderò...
L'angiolo dell'Accusa
portò questo peccato alla cancelleria del cielo e lo registrò nel
libro maestro delle colpe umane, senza che l'angiolo della Misericordia vi
lasciasse cader sopra una lacrima, e ve lo cancellasse per sempre come sul pietoso
giuramento dello zio Tobia.
- Ecco il danaro; promettete
dunque?
- Prometterò.
- Ora avvertite di non
mancare; manderò, o verrò io stesso a vedere se avrete attenuto
il patto: se troverò altrimenti, guai! Mi chiamo Francesco Cènci,
e basta.
Il Curato fra lieto e tristo
intascò la moneta; e, profferte umilissime grazie, con copia di
riverenze si allontanò dal male visitato barone.
*
* *
Marzio tornava in compagnia di
Olimpio. Ebbe Marzio la promessa mercede, ed ordinandolo il Conte si
ritirò nell'anticamera.
- Che c'è egli di
nuovo, Eccellenza?
- Ci sono altri centoquaranta
ducati da metterti nella cintura...
- Voi mi volete far morire
d'indigestione...
- Mi era parso, poc'anzi, tu
ti partissi pessimamente soddisfatto, ed io ho voluto richiamarti perchè
tu abbi la miglior giunta alla buona derrata.
- Questo è proprio un
diluvio di tenerezza per me!
- Tristo cavaliere è
colui, che non ha cura del suo cavallo; e non vi ha favore ch'io non mi
mostrassi parato a farti, per torre via dal tuo cuore quella po' di ruggine che
potresti avere concepito contro di me.
- Ruggine, io? Ma che vi pare,
don Francesco; io vi ho voluto sempre più bene che al pane.
- Che si fa a morsi, eh? Vien
qua, piacevolone, ch'ella è appunto una burla quella che ti propongo. I
ducati, di che io ti diceva, già sono tuoi...
- Dove son eglino?
- Non manca altro, che tu le
li vada a pigliare. Non torcere il muso. Hai tu veduto quel corvo di prete?
Ebbene; io glieli ho donati secondo la tua intenzione. Ora hai da sapere come
costui sia curato a santa Sabina, piccola chiesa lontana dall'abitato. In casa
tiene una vecchia, un gatto, e, a quanto pare, un asino: faccenda agevole, e da
compirsi stanotte. Troverai i danari dentro allo inginocchiatoio accanto al
letto del prete.
- O perchè glieli
donaste voi, se avevate in mente di ritorgli sì presto a quel
poveraccio?
- Quando io pretesi insegnarti
la maniera di entrare nel palazzo Falconieri, tu mi avvertivi non ispettare a
me mescolarmi in simili bisogne.... te ne ricordi? Adopera dunque verso me la
discretezza, che volesti io usassi teco.
- Avete ragione: non fa
neanche una grinza. Volete, altro, don Francesco?
- Ah! sì; un altro
servizietto da poco. Conosci il falegname, che abita presso Ripetta? Quel
desso, che rifece la casa co' miei danari?([12])
- Quel giovane, che stava
dianzi in sala ad aspettare? Sicuro che lo conosco, e so dove sta di casa;
perchè quando la faceste rifabbricare di nuovo andai a vederla, per
ingegnarmi a spiegare su la faccia del luogo lo indovinello della vostra
beneficenza.
- E non sono uso a fare del
bene io? Ed anche adesso non ti benefico? Non aggiungere la ingratitudine agli
altri tuoi peccati, perchè egli è quello che più
dispiaccia all'angiolo custode. - Domani notte...
- Non posso servirvi: sono
impegnato col signor Duca... non rammentate?
- Farò le tue scuse...
- Abbiate pazienza; l'onore
del mestiere non permette che io manchi...
- Procurerò che egli ti
dia licenza di propria bocca...
- Oh! allora va bene.
- Domani notte, dunque,
t'introdurrai come potrai nella bottega del falegname. Prendi gli arnesi e i
legni che troverai là dentro, ed alzane una catasta: poi mettivi sotto i
fuochi lavorati, ch'io ti apparecchierò; e verrai per essi domani dopo
l'Ave Maria, presentandoti alla porta del chiasso: accendili, e vientene
via dopo aver chiuso di nuovo la porta della bottega. Avrai per questa opera
pia cento ducati. Servi fedelmente, che in breve intendo farti ricco. In vero,
dove potrei impiegare il mio danaro meglio che con te? - E tu devi convenirne
meco. Allontanati per la via del giardino, e procura che nessuno ti veda
all'andare, nè al tornare.
Olimpio obbediva.
*
* *
Francesco Cènci rimasto
solo, forte si stropicciava le mani in segno di profonda soddisfazione, e con
parole rotte favellava:
- Stamane fu pasqua. Questo si
chiama vivere davvero! Un parricidio tramato, un ratto ammannito, un furto ed
uno incendio apparecchiati; poi i traditori traditi, e per giunta fatto cascare
un santo. Finchè io sto in questo mondo il diavolo può andarsene
in villeggiatura. Io sono il rovescio di Tito: costui gemeva se passava il
giorno senza fare qualche bene: io arrovello se non ho commesso una ventina di
mali. Tito! - Cerretano di umanità, gesuita del paganesimo! Giudea lo
dica, e lo incendio spento dall'onda del sangue umano; e la moltitudine dei
crocifissi, per cui mancava il terreno alle croci, o le croci ai corpi; e gli
undicimila prigioni morti di fame; e le migliaia dei gettati alle belve in odio
di avere difesa divinamente la patria([13]). Va, va, natura di
stoppa, che non sapevi odiare, nè amare; piangendo lasciasti uccidere un
milione e mezzo di uomini, e piangendo ti lasciasti strappare dal fianco la
bella Berenice. Domiziano, tuo fratello, era fuso con bene altro metallo: cuore
di acciaio; fronte di bronzo: immagine augusta di re. Il fulmine non sa
distruggere cotesti semidei; se li tocca, li consacra. L'Apostata ti chiama
belva d'imperatore([14]):
belva tu, che andasti a farti scannare in Persia, mentre potevi condurre vita
beatissima a Roma o a Bisanzio. A cui buona la vita se, dopo morte, i posteri
non tremassero al nostro nome, e temessero vederci ricomparire, sbucati fuori
della tomba, ad ogni tratto? Tutti rammentano il diluvio. La credenza di Dio si
fonda sopra la paura, e quindi egli ebbe vittime di sangue. I tiranni si sono
detti immagini del Dio di Mosè, che soffia con la sua propria bocca nel
fuoco dello inferno; epperò furono temuti, ed ebbero anch'essi vittime
di sangue, e tuttavia ne avranno. Se il Papa si fosse mantenuto ministro del
Dio Agnello, a quest'ora lo avrebbero arrostito: le paterne viscere di Sua
Santità si struggono di emulazione, perchè la piazza del Vaticano
sia superata in meriti da quella di Vagliadolid. Il bene e il male tengono le
mani dentro ai capelli della umanità; ma il bene glieli arriccia, il
male glieli strappa. Io adoro la forza. Tutto è menzogna, tranne la
forza: ella arroventa il suo marchio, ne segna alla gota le generazioni, e a furia
di flagelli le disperde pel mondo:
Tremate, maledite, e obbedite:
Così quaggiù si
vive,
E la porta del ciel si trova
aperta!([15])
Se mi fossi trovato alla
battaglia, che gli Angioli ribelli combatterono contro Dio! - Dio! Dio! -
Questa parola mi torna addosso come un tafano importuno, invano cacciato. Ma
chi ha veduto questo Dio? chi gli ha mai favellato? Corrono oggimai cinquanta e
più anni che io con ogni maniera di offese l'oltraggio, e la sua
maledizione m'ingrassa i campi. Perchè mi creava egli così? Egli
metteva le forbici sopra la pezza intera, e poteva tagliarmi a modo suo. E s'ei
non mi creava, o perchè egli, Creatore, sofferse in pace che altri gli
rubasse, e guastasse il mestiere? Anima mala: sono elleno anime malvagie
le nostre? Sia; io per certo non ho ragionevole fondamento per impugnarle: ma
non istava in facoltà sua farla buona, o cattiva? Poenituit!
Sì? Se ei si pentiva, segno è certo ch'egli aveva sbagliato; e se
sbagliò, perchè mai portiamo il peso dei suoi errori? E dove
è allora la sua ogniscienza, dove la onnipotenza sua, dove lo infinito
suo amore? Che penseremmo noi di cotesta femmina, la quale si avvisasse
percuotere il suo figliuolo perchè lo ha partorito gobbo? E posto che
egli abbia errato, come questo libro del mondo ci mostra palesemente ad ogni
facciata; ma fosse poi buono davvero, secondochè ci danno ad intendere
quelli che lo conoscono; o non poteva tirar di frego su l'uomo e la natura
intera, e incominciare da capo? Meglio così, che impacciarsi in quel
laberinto del riscatto, che a fin di conto non ha riscattato nulla. Egli fu
nebbia: ha lasciato il tempo come lo trovò: - e se gli uomini prima
andavano allo inferno di passo, ora ci vanno di corsa. Inferno! E sia; ed io vi
andrò, per la ragione che la sentenza verrà profferita da chi
è giudice e parte, e per di più senza appello. Tutti i giudici
iniqui condannano senza appello. Deus autem fecit nos, non ipsi nos. Non importa: se l'anima è morta col corpo, mi piace; se
sopravvive, anche di questo mi contento; a patto che non mi venga tolta la
facoltà, da me fino a questo punto esercitata, di maledire per omnia
saecula saeculorum; amen.
CAPITOLO V.
ANCORA DI FRANCESCO CÈNCI.
«A cagione del
tuo cuore di ghiaccio, e del tuo
ghigno di
vipera; a cagione delle perfide tue
iniquità,
e per la ipocrisia della tua anima...
pel piacere che
trovi nel dolore altrui; per la
tua fratellanza
con Caino, io ti condanno ad
essere il tuo
proprio inferno».
Byron, Manfredo.
Di Francesco Cènci non
dissi abbastanza. Così strano, complesso, ed anche mostruoso comparisce
il suo ingegno da quanto fu esposto, e da quanto verrò esponendo nel
corso della storia, che merita fermare il pensiero sopra di questo personaggio.
Non so se adesso; ma
respiravasi un giorno per l'aere di Roma tale una ebbrezza, che toglieva l'uomo
dalle consuete abitudini della indole umana. I fati ordinarono, che per un
tempo tutto si presentasse costà fuori della consueta misura delle cose,
e piuttosto immane, che grande. Chi più valoroso di Cesare? Chi più
virtuoso di Catone? Chi o più politico di Augusto, o dissimulatore di
Tiberio, o truce di Nerone, o stupido di Claudio? E, per non rammentare di
soverchio nomi, chi più magnanimo degli Antonini? Le donne stesse
toccano la cima della libidine e della castità, della perfidia e della
fede. Lucrezia, Cornelia, Porzia, Arria, Eponina([16]) ebbero nascimento nella
medesima città che produsse Livia, Poppea e Messalina. Gli edifizi
stessi, invece di essere dominati, pare che dominino il tempo: stanno; e
malgrado le ingiurie dei secoli, e quelle più nocive assai degli uomini,
non furono potuti disfare. Per la Europa, per l'Asia e per l'Affrica occorrono
reliquie di questo popolo portentoso, come ossa di cadavere che abbia avuto il
mondo intero per sepoltura. L'Aquila romana, logorando le ale nello immenso
volo di conquista, ne sparse le penne per tutto l'universo. Roma gittò dalla
cima del Campidoglio una rete di ferro sopra i viventi; più tardi
tentò gittarne un'altra di credenze e di paura, e conquistarli di nuovo.
I Papi all'ombra del Colosseo soltanto poterono concepire il pensiero di farsi
re dell'anima. Quando consentirono a ridursi in Avignone diventarono davvero servi
dei servi([17]).
Il Papato nello schiaffo di Bonifazio VIII patì un oltraggio, dal quale
sarebbesi rilevato difficilmente: pure anche Gesù l'ebbe, e non di manco
vive e regna; ma il processo, che per paura sostenne si facesse alla memoria di
Bonifazio il codardo Clemente V, fu ferita insanabile all'autorità
pontificia.
Roma guerriera si avventa a
modo di leone, e sbrana, o perdona la jena nemica: Roma sacerdotale seguita,
come la fiera, i barbari alla lontana; ma il giorno della battaglia ella stende
la mano sul bottino di guerra. - Roma galeata invia Proconsoli, che costringono
i Re dentro un cerchio tracciato sul terreno; Roma mitrata invia frati con la
testa scoperta e i piedi nudi a mettersi fra il taglio della scure del barbaro
e i popoli oppressi. Perchè furono spediti cotesti frati? Forse per
riparare i percossi sotto la veste di Cristo, o piuttosto per andare d'accordo,
prima che la scure calasse, intorno alla parte delle spoglie e della carne? Lo
dica la storia. Roma cade o come gladiatore combattente, o come rettile
pestato: in ambedue i casi ella manifesta tremendo lo spirito di vita;
imperciocchè, per quanto sia dato antivedere ad intelletto umano, essa
non deva spegnersi, bensì trasformarsi. Il gladiatore cadde,
allagò di sangue la terra, si rialzò, combattè ancora, e
giacque quando le ultime gocce gli stillarono dalla ferita lente, pese, e rare
come le prime della procella([18]). Il serpe tronco su le
vertebre dura ad agitare le membra lacerate: gli basta vivere, quand'anche la
sua vita non dovesse manifestarsi che con l'estreme convulsioni dell'agonia. La
fiaccola romana, due volte accesa dalla destra dei fati, finchè le
bastò la resina mandò di tratto in tratto vampa capace
d'incenerire, o illuminare una generazione. Adesso Roma compie i suoi secondi
destini: non avendo saputo, nè voluto gittare via la soma, che la
incurva alla terra, ad ogni passo vacilla, ed accenna cadere. Chi fu una volta,
e pretese sempre essere signore, deve sporgere limosinando la mano agli antichi
suoi servi? - Temi i doni del nemico; esso si prostra, ma ridendo, ai tuoi
piedi: egli venera l'autorità religiosa per tesserne un filo, e, attorto
all'altro della autorità violenta, rinforzare le catene del mondo. Non
trovando diritto sopra la terra, egli s'ingegna, mercè del Sacerdote,
derivarne uno dal cielo. Napoleone rialzò il Pontefice perchè lo
ungesse Imperatore e sparisse. Una macchina religiosa messa fuori in un giorno
di festa e poi riposta, o distrutta. Quando Bonaparte prese in fastidio la sua
vera, la sua gloriosa origine - quella del Popolo - evocò il Papato,
come Saulle l'ombra di Samuele, onde gli fingesse origine divina. Se i diacci
del settentrione non erano, adesso si troverebbero le chiavi della Chiesa in
qualche museo con le altre spoglie fatte in guerra([19]). E così sempre
avvenne dalla parte di Francia; talora si presentò come alleata,
tal'altra come figlia devota: ella ha mentito sempre. Il suo grido è
stato quello di Diogene esposto al mercato per esservi venduto schiavo: «chi
vuol comprare un padrone?»
Ma così non può
durare, nè durerà. Tutte le cose nostre hanno lor morte. Il
dubbio aveva roso il tronco dell'albero, ora ha prodotto un frutto di odio; le
genti lo hanno raccolto, e se ne sono saziate: staremo a vedere se i vassalli
di Filippo il Bello, educati alla scuola di Voltaire, faranno rigermogliare
all'antico albero frutti di vita. Errore fatale! Cesare che fu spento alla
sprovvista, e Dionisio a cui consentirono prolungasse la vita con pane di
obbrobrio, non morirono finalmente di pari morte entrambi? - Morirà Roma
sacerdotale, non però la Chiesa di Cristo. Come il nostro Redentore,
gittato lontano da se il coperchio del sepolcro proruppe fuori luminoso dei
raggi della eternità, così la Chiesa lanciati nel fiume gli
ornamenti terreni, che la fanno scambiare con la donna dell'Apocalisse([20]), inebriata del sangue
dei santi si porrà dinanzi alle generazioni avviandole su pel cammino
del cielo.
Dal ribollimento portentoso
della barbarie, che tenne dietro al naufragio della civiltà romana, non
dovevano galleggiare due teste coronate, nè nuovi tormenti e nuovi
tormentati: sibbene la Croce vincolo comune di popoli fratelli, benedizione a
tutte le genti che vivono in pace nella terra dei loro maggiori. Se ad ogni
modo il Padre dei fedeli voleva presentarsi incoronato, Cristo aveva insegnato
di che cosa dovesse comporsi la sua corona; tutte le gemme del mondo non
valgono una spina della corona di Cristo! -
Queste verità furono
predicate ab antiquo dal senno italiano; ma comunque ripetute a
sazietà, non riescono meno pericolose a cui le dice, nè meno
odiate a cui le dovrebbe ascoltare, e non le ascolta. Molti dei nostri grandi,
che le professarono, riposano adesso in Santa Croce sotto monumenti fastosi; se
vivessero sarebbero travagliati in carcere; dove ora io mi trovo vicino a
cotesto Tempio, sperando a mia posta nel sepolcro, se non fama, riposo.
Giudici e Sacerdoti affermano
essere gravi errori cotesti; e non solo lo affermano, ma lo provano con le
prigioni e gli esilii: a lasciarli fare brucerebbero ancora. Lo ammonimento: Amate
la giustizia, o voi che avete a giudicare la terra, non trovò eco
nei loro orecchi. Aghi calamitati vòlti sempre al polo della tirannide e
dello errore, un giorno saranno a posta loro giudicati. - Beati quelli di cui
il peso sarà trovato giusto in quel giorno!
Francesco Cènci fu
alito corrotto di antico genio romano; alito latino uscito fuori da un sepolcro
scoperchiato, ma pur sempre alito latino; ebbe indole indomata, talento
schernitore, anima implacabile, e cupidità dello immane, del mostruoso,
e del grottesco. Se fosse vissuto ai tempi di Giunio Bruto non solo avrebbe
condannato i suoi figliuoli, ma, spingendo la violenza contro la natura oltre
il possibile, gli avrebbe decapitati di propria mano. Fu vaghissimo di scienza,
che poi, come Salomone, dileggiò, chiamandola vanità e travaglio
di spirito; ovvero se ne giovò nella guisa, che i Sibariti adoperavano
le rose come istrumento di morte. Ebbe ricchezze, e le profuse senza poterle
distruggere. Con immensa potenza di sentire, pensare ed operare egli vide
pararglisi innanzi le due vie del bene e del male. Breve, a cagione dei tempi,
il cerchio del bene: qualche affetto domestico, facoltà di fondare
chiese o monasteri, sollevare la povertà con la elemosina, che la
perpetua; vita placida; morte oscura; memoria durevole quanto l'eco della voce
del monaco, che ti canta il miserere per le navate della parrocchia.
Nè il secolo in cui
viveva consentiva estendere le forze portentose dell'anima sua a prove
maggiori: cotesti erano giorni di agonia per lo intelletto italiano; il cielo
nostro vestiva la cappa di piombo degl'ipocriti di Dante, la quale permetteva a
quelli che vegetavano sotto di andare in cento anni appena un'oncia. Nonostante
si provò a operare grandemente; uomini e cose gli si strinsero intorno
come la camicia di Agamennone, sicchè presto il bene gli venne in fastidio,
poi gli parve abbietto, finalmente l'odiò. Si volse al male, e gli
disse, come il Demonio, - sii il mio bene! - Gli piacque la parte di
Titano, e gli parve magnifica audacia levare la fronte ribelle contro il cielo,
e sfidarlo. Riposto nel male ogni suo desiderio, siccome ogni mezzo per salire
in fama, lo amò col delirio dello ebbro e con l'ostinazione del
calcolatore: oltrepassare le nequizie fino a lui conosciute immaginò che
fosse trasportare altrove le colonne di Ercole, e scuoprire nuovi mondi:
strinse vincoli di famiglia per la voluttà di lacerarli scelleratamente:
coltivò affezioni più care per ispegnerle o sotto il soffio di un
crudele scherno, o meno dolorosamente col pugnale: a Dio non credeva, ma lo
sentiva come un chiodo in mezzo al cuore; e allora lo bestemmiava brutale a
modo dell'orso, che morde lo spiedo che lo ha trafitto pensando sanare la
piaga; empio miscuglio, insomma, d'Ajace, di Nerone e di bandito volgare, don
Giovanni Tenorio è un frammento del suo carattere([21]). Visse tormento a se e
ad altrui: odiò, e fu odiato; si nudrì di male, e il male lo
uccise. Morì come forse avrebbe scelto morire; imperciocchè tanto
erano giunte le sue scellerate passioni a soffocare la natura, ch'è
lecito supporre, che sentendosi ormai grave di anni, e di forze più poco
adattato a nuocere, almeno per lungo tempo, il suo truce spirito esultasse
della strage del corpo nel pensiero, che varrebbe a precipitare nel sepolcro
per via di sangue la sua intera famiglia. Io immagino vedere cotest'anima
trista soffiare nei carboni che arroventarono le tanaglie, le quali straziarono
le carni del suo figliuolo Giacomo; abbrivare la mazzola che gli ruppe le
tempia; e a piene mani raccogliere il sangue grondante dalla scure che recise
la testa dei suoi, per bagnarsene il petto come rugiada rinfrescante. E
fermamente credo che sarebbe stata opera meritoria non pure disperderne la
cenere pei quattro venti dalla terra, ma condannarne la ricordanza a perpetuo
oblio, se il Consiglio divino non avesse posto la innocenza accanto al delitto,
il vizio accanto alla virtù, il dolore al piacere, la luce alle
tenebre;... e però le immanità sue non servissero a dimostrare
quale e quanto bello angiolo di amore fosse Beatrice sua figlia, la più
semplice, la più fiera, e la più infelice delle donzelle
italiane.
Poichè giustizia mi
muove a penetrare in cotesta antica sepoltura, io la scoperchio; sicuro di
trovarvi la vergine sepolta, come già fu rinvenuto nelle catacombe
romane il corpo di santa Cecilia([22]) intatto, vestito di una
veste bianca simbolo di purità; atteggiata a dolce riposo, con un nastro
vermiglio intorno al suo collo di cigno: - cotesto nastro vermiglio è la
traccia della scure, che recise un capo divino da un corpo divino!
CAPITOLO VI.
NERONE.
Fanciulla del
dolore, o tu che sai
Piacere anco
sepolta, e ricoperta
Dal silenzio di
trecento anni, bella
Sai tornare
alla idea come nel giorno
Che te lo Amor
rapiva, o tu delizia
Dei racconti di
queste itale care
Fanciulle, che
spirar sai dalle stesse
Dipinte tele,
onde l'occhio fatato
Dal tuo
sguardo, in imago ancor ti cerca
Rediviva per
Roma, abbi il mio pianto.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Era bella come il pensiero di
Dio, quando mosse innamorato a creare la madre dei viventi: - era cara quanto i
suoi ricordi. L'Amore con le mani di rosa delineò le curve soavissime
del suo volto dilicato; ed appoggiandole il dito sul mento per contemplare la
sua gentile fattura, vi lasciò la fossetta; - segno veramente di amore.
La sua bocca rassomiglia un fiore testè colto in paradiso, tutto fragrante
di divinità; la quale diffondendosi intorno alla persona fa reputarla
non terrena creatura: così gli antichi cantarono, un senso di ambrosia
rivelasse ai mortali la presenza di un Dio. I suoi occhi spesso cercavano il
cielo, e lunga pezza ve li teneva fissi con immenso desiderio, sia per
contemplare la patria, della quale ben presto tornerebbe cittadina; sia per
iscorgervi spettacoli misteriosi rivelati a lei sola; sia, finalmente, che
l'amata immagine materna quinci con la voce la chiamasse e co' cenni. Certo fra
gli occhi della inclita fanciulla e lo emisfero nostro quando esulta sereno
traluceva, dirò quasi, una parentela, imperciocchè entrambi
apparissero formati col medesimo azzurro: - entrambi annunziassero la gloria
del Creatore. Quando, declinandoli alla terra, ella considerava cosa o persona,
gli apriva splendidi ed acuti per modo, che paresse dilatare l'anima e la
intelligenza con quelli: allora chiunque le stava davanti, se non si sentiva
innocentissimo di cuore portava frettoloso la mano sul petto, dubitando che lo
involucro della carne non bastasse a celarle i pensieri riposti della colpa;
altri poi per tenerezza lacrimava: per ogni dove li girasse l'aria diventava
più chiara, il cielo più lieto. Se interveniva a balli notturni,
ecco la luce delle fiaccole per virtù dei suoi occhi raddoppiava; le
note armoniche sfavillavano più melodiose, e il piacere si versava a
onde sopra i giovani capi. In qualunque punto del festino ella fosse scomparsa,
la noia soffiava un alito ghiacciato sulla universale esultanza. La sventura
certo aveva battuto le ale intorno cotesta fronte bianca di giglio; ma l'era
venuto meno lo ardimento per lasciarvi sopra una traccia inamabile, e
passò oltre. La preghiera dei mortali avrebbe potuto riposare su quella
fronte, per librarsi quinci più pura verso il trono di Dio. Nei giorni
giocondi, ahi rari!, della sua vita ella si compiacque talora sciogliere con
giovanile baldanza il volume delle chiome bionde, e apporle al sole; quasi
volesse instituire gara co' raggi di lui: ma il sole le circondava amoroso di
tale uno splendore, che la gente tremava di reverenza e di piacere a
riguardarla, reputandola una santa scesa dal cielo circonfusa dal nimbo radiato([23]).
O Bellezza! Io dai primi anni
ti ho alzato un altare nell'anima, dove ti sacrifico i più dolci dei
miei pensieri; - pensieri che, me levando da questa creta mortale, mi
avvicinano al Creatore di tutta bellezza; ma nè io ho parole, nè
credo che veruno umano eloquio le possieda, capaci di significarti degnamente:
se potessi appormi la carta sul cuore, e improntarla dei suoi palpiti, forse
aprirei alle genti concetti non mai più uditi: però questo
nè a me, nè ad altri fu concesso, e le mie immagini è
forza che si rivelino incomplete, vaghe, e confuse; onde se la fantasia di chi
legge non supplisce al difetto, io dispero farmi comprendere. Oh da quante
catene è stretta quaggiù l'anima immortale!
Bellezza, Amore, voi eravate
ai fianchi di Dio nel giorno della creazione; egli vi lasciò suoi primi
vicarii sopra la terra. La bruttezza e l'odio vennero più tardi, faville
scoppiate insieme dal primo fulmine che Dio avventò contro l'uomo,
quando lo condannava allo affanno e alla morte. Il culto della Bellezza e dello
Amore riconduce la nostra schiatta diseredata alla sua origine divina.
O Francesco Petrarca, tu che
per prova intendesti amore; dopo tanti dolci concetti, con quale amaro liquore
ti bagnò il labbro Calliope quando dettasti questi versi ingiocondi:
Ei nacque d'ozio, e di
lascivia umana,
Nudrito
di pensier dolci e soavi,
Fatto
signore e dio da gente vana?([24])
E senza amore dove sarebbe
adesso il tuo nome? L'Africa certo, e il dotto favellìo delle tue
epistole non farebbero cercare il tuo volume. Tu saresti, come tanti altri
scrittori, posto a modo di medaglia antica dentro lo scaffale, per informare
chi avesse voglia di saperlo, che tu vivesti un dì. Se amore nasce da
lascivia, o come avviene che nel muovere degli occhi onesti e tardi
della tua donna tu vedevi il dolce lume, che ti mostrava la via che al ciel
conduce? Se in cuore umano fuoco di amore poco dura dove occhio e tatto
spesso nol raccenda, o come, dopo la morte, ti compariva Laura tutta accesa
nei raggi di sua stella, e tu le muovevi pietose parole, ed ella or sì,
or no pareva rispondesse; finchè, risensando dal mesto vaneggiare,
dicevi alla tua mente:
..... tu se' ingannata;
Sai che in mille
trecentoquarantotto
Il dì sesto d'aprile,
in l'ora prima,
Del corpo uscìo
quell'anima beata?([25])
Ah! se la terra avesse sepolto
a un punto la bella vesta delle membra di Laura e la memoria del suo
amore, i tuoi canti suonerebbero esercitazioni di gaia scienza, eco delle
canzoni dei Trovatori, gemiti mentiti di cuore bugiardo; e se così
fosse, io ti compiangerei perchè avresti tradito i posteri, e te.
Beatrice stava seduta sopra un
verone del palazzo Cènci, che guardava il giardino: in grembo ella
teneva un fanciullo, che dagli occhi, dai capelli, da tutte le sembianze
appariva esserle fratello: ella gli accarezzava amorosa i capelli, e di tratto
in tratto gli baciava la fronte. Il fanciullo riposa il suo capo sul seno della
sorella, e affissa in lei le pupille immote, ma senza intenzione, a guisa di
persona assorta nel pensiero di qualche cosa fuori di questo mondo. La
infermità aveva appassito il fiore della giovanezza: la sua pelle era
tenue, e candida di un bianco pallido e dilicato così, che i raggi del
sole cadente gli tralucevano in vermiglio traverso le orecchia e le dita:
talora sospirava, più spesso schiudeva la bocca con isbadiglio convulso:
pareva un angiolo in pena. Beatrice sconsolata gli disse:
- A che pensi, mio diletto
Virgilio?
- Penso, che sarebbe pure
stata la grande carità non farci mai venire al mondo!
- Ah! Virgilio...
- E poichè a questo non
trovo più rimedio, il meglio sarà uscirne presto.
- Uscirne! E perchè?
- E perchè restarci? Il
mio cuore qui dentro è morto da tempo; e quando il cuore è morto,
oh come pesa che gli sopravviva il corpo!
- Tu, si può dire, ti
affacci appena, fratello, alla vita, e già favelli parole disperate;
ciò non istà bene: vivi e rallegrati, perchè non sai quali
rose educhi per te la fortuna.
- Rose! fortuna! Adesso la
morte coglie i fiori per la ghirlanda della mia bara. La fortuna mi
abbandonò quel giorno che perdemmo la madre...
- Ma noi non ci possiamo
considerare orfani affatto: forse l'ottima signora Lucrezia non ci mostra
viscere di madre?
- Sì, ma non è
nostra madre.
- E poi non hai anche me, che
ti amo tanto?
- Sì, sì, buona
sorella, rispose il fanciullo gittandole le braccia al collo e piangendo
dirotto; - ma nè anche tu sei la mamma mia.
- Ed oltre a me, ti mancano
forse fratelli? Non hai tu padre?
- Chi padre?
Beatrice, atterrita dallo
improvviso rimescolarsi del fanciullo a cotesta parola, si tacque. Solo, dopo
lungo silenzio, con voce esitante soggiunse:
- Francesco Cènci non
è per avventura tuo padre... e mio?
Il fanciullo abbassò il
capo, chiuse gli occhi, fece delle braccia al petto croce, e con suono velato
rispose:
- Sorella, guardami su la fronte
alla radice dei capelli; vedi la cicatrice che vi porto? - La vedi? - Sai tu
chi mi ha ferito? - Io non tel dissi fin qui; ma ora, che mi sento vicino a
morire, io te lo posso confessare. Ripensando fra me come Francesco
Cènci mi tenesse in dispregio, e sovente mi guardasse di traverso,
nè a me parendo di meritarlo, un giorno, fattomi cuore, gli caddi
davanti, e tentai prendergli la mano per recarmela alla bocca. Egli
gridò: «va via, bastardo!» e mi diè così forte un pugno
nel petto, che mi spinse giù a precipizio a percuotere col capo nello
angolo dello armario, ch'ei tiene nel suo studio. - Francesco Cènci mi
vide svenuto, e tutto intriso di sangue; - mi vide, e non mi rilevò. -
Di qui la ferita; di qui la infermità, che mi consuma le viscere...
Beatrice rabbrividì,
nè potè formare parola. Il fanciullo con passione crescente
scuoprendo dalla manica un braccio scarno, e sporgendolo verso la sorella:
- Guarda, aggiunse, la traccia
di questo morso. Sai tu chi me lo ha fatto? Nerone; e senti come. Un giorno io
colsi in giardino una bella pesca, e dissi: andiamo ad offrirla al signor
padre, che forse la gradirà. In questo pensiero mi avvio alla sua
stanza, apro l'uscio, e vedo ch'ei legge. Timoroso di disturbarlo, mi accosto
pian piano; quando Nerone mi si avventa addosso e mi morde il braccio: - io
spasimava per dolore... mio padre rideva.
Il seno di Beatrice palpitava
così, che parea volesse spezzarsi.
- E se Marzio non era, egli mi
lasciava sbranare. Mira anche qui - e il fanciullo si spartiva i capelli al
sommo del capo - vedi questa piazzetta? Manca una ciocca di capelli. Sai tu chi
me gli ha strappati? Il padre mio. Poco dopo il colpo percosso dentro
l'armario, col capo tuttora fasciato, preso dalla passione che mi affogava, mi
presentai risoluto dal padre, e gli dissi: «Padre mio, in che cosa vi offesi?
perchè mi odiate voi? Beneditemi in nome di Dio, benedite il figliuolo
vostro, che vi ama». Egli, avvoltasi prima una ciocca dei miei capelli alle
dita, mi rispose così; - senti bene, proprio così: «Se tu avessi
il capo di zolfo, e le mie parole fossero di fuoco, io ti benedirei per
bruciarti: va, vipera, perchè io ti odio tu devi odiarmi; io non so che
cosa farmi del tuo amore, bastardo!» E tirò tanto forte, che mi parve
tutta la pelle del cranio si distaccasse con immenso dolore: la ciocca dei
capelli gli rimase in mano; ed infuriando, lo spietato, nella ira, come se egli
soffrisse, non io, il dolore, soggiunse: «Io maledico te e i tuoi figliuoli, se
mai arrivi a procrearne; possiate tutti vivere di miseria, nudrirvi di delitto,
e morire di patibolo». - Ora, Beatrice, fammi grazia di dirmi un po' come posso
desiderare di vivere io? Mia madre mi ha lasciato; mio padre mi ha maledetto:
non è egli dunque meglio, che io muoia? Non dico il vero, sorella? - E
qui il fanciullo singhiozzava convulso.
Cotesti dolori non potevano
consolarsi. Beatrice lo sentì, e si tacque; la sua fronte si coperse di
sudore, e le gocce succedendosi cadevano spesse come le lacrime dagli occhi
dolenti. Poichè fu trascorso spazio lungo di tempo in silenzio
affannoso, Beatrice, comprimendo la passione che le traboccava dall'anima, si
provò a confortarlo con voce mansueta:
- Quietati, Virgilio, tu avrai
colto il mal tempo...
- No, egli era tranquillo...
- Forse turbato da qualche
cura segreta...
- No, egli era lieto; - dopo
che il cane mi ebbe morso egli si pose a scherzare con lui... col cane, che
stette per isbranargli il figliuolo! - Adesso anch'io non lo amo più...
sai? Quando lo vedo m'entra il tremito nelle vene, e la sua voce mi dà
il dolore di capo. Spesso con gli occhi della mente io vedo non lontano un
luogo oscuro, dond'esce rumore di bestemmie e d'imprecazioni scellerate; e una
voce irrequieta mi tintinna nelle orecchie: «Cotesta è la contrada
dell'odio, tu sei aspettato colà». Io non vi voglio andare; io non
voglio odiare persona... molto meno mio padre... piuttosto voglio morire.
Beatrice, tramutata nella
faccia, si sentiva venir meno; ma con la forte volontà domando la
natura, si vinse: levò gli occhi al cielo, si sforzò favellare, e
non potè; - invece di parola, dalla gola attenuata mise un singulto.
Soprastette alquanto, e poi con voce, che studiò rendere soave, disse:
- Virgilio mio, non
disperiamo; ma supplichiamo l'Eterno onde voglia ispirare sensi più
mansueti per noi nella mente del nostro genitore.
- O Beatrice! E pensi tu, che
io non lo abbia supplicato? Oh quante volte l'ho fatto! La notte precedente al
giorno in cui Francesco Cènci respingendomi da se mi ruppe la testa, io
mi levai cheto da letto in camicia, scalzo, e me ne andai giù in
cappella; dove, inginocchiato davanti la reliquia di santo Felice protettore
della nostra famiglia, supplicai con tutto il fervore perchè l'anima del
padre ammollisse, e lo persuadesse a ricambiare con un poco di amore lo
svisceratissimo bene che gli portavamo noi. Vedi eh! come mi esaudirono i
santi!
E trattenendosi alquanto sopra
di se, poco dopo riprese:
- Ma un'altra preghiera
conosco avermi esaudito Dio, e fu quando mi rilevai da letto, e per la seconda
volta andai a prostrarmi davanti al Crocifisso miracoloso, e: Abbi
misericordia, dissi, o divino Redentore, di me, e tu o mi dona lo
affetto del padre, o richiamami alla tua pace. A queste parole Gesù
piegò il capo, come per rispondermi: Sarai esaudito...
- Ci esaudirà tutti,
inspirando benignità nel cuore del padre...
- Io so di certo che fu
esaudita la seconda parte della preghiera, e non la prima; imperciocchè,
quando mi ricondussi a giacere, una voce distinta mi chiamò: «Virgilio!
Virgilio!» Mi alzai, apersi la porta, e non vidi persona; tornai a coricarmi, e
la voce di nuovo gridò: «Virgilio! Virgilio!» Per questa volta io non mi
era ingannato di certo, e risposi: «chi mi chiama?» E la voce: «Io ti chiamo
dal paradiso». Eccomi pronto, mio Dio»; ma la voce: «No, la tua ora non
è venuta ancora, ma si avvicina».
- Coteste sono immaginazioni
che dà la febbre; su, via, non lasciarti rodere dalla tristezza; io ti
voglio veder lieto...
- Perchè le chiami
immaginazioni? Forse non si legge nella santa scrittura, che il Signore fece
sentire la sua voce a Samuele? Anche ieri notte, tenendo gli occhi aperti, vidi
a un tratto empirsi la stanza di luce, ed entrare una bellissima gentildonna
vestita di celeste, tutta ingemmata, la quale essendosi fatta accosto al letto
si curvò, pose il suo volto accanto al mio, mi baciò in fronte, e
sparve: le sue labbra erano ghiacciate, e il freddo mi strinse il cervello.
Vuoi sapere, Beatrice, a cui rassomigliava la gentildonna? - Rassomigliava al
ritratto della signora Madre, che sta appeso in sala grande. Tutto mi parla di
morte. Forse non sento che io manco a poco a poco, come candela giunta al
verde? La vita mi fugge da tutti i pori. Guarda queste mani scarne, e bianche
al pari del marmo; guarda queste unghie colore di viola; guardami qui in mezzo
della fronte, e vedi il segno espresso ove ha deposto il suo bacio la morte.
E più non potè
dire.
Un uccello in questo momento
venne a riposare le stanche ale sopra il parapetto della terrazza: volgeva il
capo in qua e in là, come sospettoso d'incontrare molestia; ma presto
assicurato, si pose a saltellare - a beccare; finalmente parve fissasse il
fanciullo; poi sciolse un dolcissimo canto, aperse le penne, e fuggi via.
- Oh, esclamava Virgilio,
potess'io seguitarlo! Forse, chi sa!, egli conosce suo padre, e sua madre
dall'aperta frasca tende lo sguardo ansiosa del suo ritorno. O madre mia!
Beatrice, dimmi, dov'è nostra madre adesso?...
- Nostra madre? - È
lassù in paradiso.
- Lo so, la sua anima alberga
nella patria dei giusti; ma io vorrei conoscere in qual parte riposino le sue
ossa. Sapresti tu indicarmelo, Beatrice? Il Conte Cènci non volle
permettere mai, che mi conducessero a visitare il sepolcro di nostra madre...
Beatrice, studiando deviare il
doloroso colloquio in obbietti alquanto meno tristi, si levò pronta per
appagare il desiderio del fanciullo; e, postolo a sedere sul parapetto della
terrazza, si prostese fuori col busto.
Il pianeta del giorno stava
per tramontare, e mandava i mesti raggi dello addio a questa terra, che,
sebbene infelice, gli è sì cara. Ogni digradare della luce
presentava una nuova maraviglia: colori soavemente più languidi, come lo
spirare dei suoni per la superficie delle acque. Le vette dei campanili, le
cime dei monti, le nuvole lontane pareva si affaticassero a ritenere un palpito
di raggio, in quella guisa stessa che i cari parenti, da balcone da loggia o da
colle, sventolano al pellegrino che si allontana un panno bianco, finchè
la sua forma non si confonda con la bruma della sera... Oh Dio! Egli è
presso a sparire; gli occhi della madre, offuscati dalle lacrime, non lo
distinguono più; ella se gli asciuga col velo per rimirarlo ancora: -
adesso ella li tende più alacri che mai... ahimè! il suo
figliuolo è sparito: - quando lo rivedrà? Voci misteriose
mormoravano pel cielo e per la terra: dalle piante e dalle acque uscivano
sussurri di gemiti segreti, eco di quelli che si diffusero lungo le marine alla
morte di Cristo, e piangevano: Il gran Pane è morto!([26])
Questa terra, anticamente
mesta e vocale più di ogni altra, rivela il dolore del mondo al
dileguarsi del sole. Nati gemelli nel giorno della creazione, essi spireranno
insieme. Comecchè la terra sappia che il sole tornerà domane a
portarle luce e calore, pure ella conosce ugualmente, che i giorni dalla mano
del tempo cadono irrevocabili nello abisso della Eternità. Molto
certamente hanno vissuto insieme prima che l'uomo nascesse, e molto vivranno
ancora dopo che la nostra razza sarà scomparsa; passeranno secoli e
secoli, avanti che si rompano sfasciati a rovinare in corsa disordinata per le
miriadi dei mondi superstiti; ma ogni secolo come ogni minuto si avvicinano al
punto, dove il Creatore per ogni cosa creata ha scritto: basta. Se
l'uomo pensasse che questi eccelsi luminari, che queste belle luci di amore,
portento delle notti serene, hanno a chiudere le palpebre nella morte; che
tutto, anche le rocce di granito, ossatura della terra, ha da sformarsi... Se
l'uomo, dico, a queste cose pensasse... atomo infelice balestrato dall'utero
della donna nel seno della morte, tormenterebbe egli per essere tormentato? - O
grano di sabbia maligno! tu ardisci perfino avventarti dentro gli occhi di Dio,
e farli lacrimare di spasimo... -
Ma intanto questa bella e
magnifica natura non può rimanere lungamente desolata; ed ecco non per
anche il sole è scomparso da una parte dello emisfero, che dall'altra si
affaccia la luna. - Benvenuta, amica delle anime afflitte; benvenuta, compagna
dei nostri trionfi: anche vestiti della tua luce si mostrano maestosi alle
genti il Campidoglio e il Colosseo; anche al lume dei tuoi raggi negli archi di
Tito, di Costantino, di Severo, e nella colonna Trajana si vedono le immagini
dei popoli vinti. Ahimè! Luna, che percorri frettolosa il cielo di Roma,
tu non vedrai più nemici vinti, se non iscolpiti sopra i monumenti degli
antichissimi capitani.
Nella notte, al chiarore di
questa luna, quando Roma dorme più profondo il sonno dal quale sarebbe misericordia
che non si destasse mai più, le larve dei famosi capitani scoperchiano
le vetuste sepolture, e vengono silenziose a visitare la terra donde dettarono
leggi ai re del mondo; la rupe, che seppero difendere; il luogo dove Cammillo
vide la spada di Brenno gittata su la bilancia per aggravare il peso della
nostra vergogna...: la vide, ma nessuno dei barbari passò i monti a
raccontarlo alla sua moglie. All'alba si dileguano perchè odiano la
vista dei viventi, e aborrono esser vedute piangere! - È fama che sul
fare del giorno, quando i morti rientrano nelle antiche sepolture, si spanda
lungo pei campi un gemito, che lamenta così: «Grande fu la gloria, ma
l'abiezione è senza misura maggiore; e tu, o Re del mondo, e fino a
quando?..»
La miseria di Roma vince la
desolazione dei sepolcri. Beati i morti! Perchè ti chiami Città
eterna? - Oh! rammenta, che ai tempi della tua antica religione tu credevi
eterno anche il marito dell'Aurora. - Eterno, ma caduco, Titone venne in tanto
odio di se, che reputò grazia somma dei Numi essere convertito nello
stridulo animale, fastidio dei giorni di estate: fu un lieto giorno per lui
quando potè scambiare la sua miserabile eternità con la vita di
una cicala. Perchè ti chiamano Città eterna? - La religione, a
cui tu credi adesso, t'insegna come vestirono Cristo con le insegne reali per
vituperarlo più crudelmente. Dio nel suo furore sembra ti abbia
condannato, pur troppo, ad una eternità... ma è quella del
pianto.
Beatrice prostese il busto
fuori del parapetto dicendo:
- Là, là oltre
cotesti colli avvi una terra feconda, che la Madre nostra portò in dote
a Francesco Cènci: ivi è una chiesa dedicata ai santi apostoli
Pietro e Paolo. In cotesta chiesa, dentro un sepolcro di marmo - a mano diritta
di coloro che entrano - lungo la parete giacciono le ossa della nostra madre
benedetta.
E mentre, levato il braccio,
additava il luogo acconsentendo con tutta la persona all'atto, fortuna volle
che dal seno le uscisse una lettera e un medaglione, e cadessero giù nel
giardino.
- Oh Dio, il mio segreto!
urlò la giovane con grido straziante, divampando in volto per la
vergogna.
Francesco Cènci,
appiattato dietro un bosco di lauri, da gran tempo stavasi a contemplare
coteste due creature fisso così, che pareva volesse avvelenarle col
guardo. Appena egli ebbe visto cadere il foglio e il medaglione, si mosse
frettoloso per prenderli; non tanto presto però quanto lo spronava il
desiderio, che la gamba offesa gli arrecava impedimento. Beatrice lo
scòrse costernata, e con suprema smania ripetè due volte:
- Il mio segreto! il mio
segreto! La mia vita a chi mi salva il segreto!
Il fanciullo guardò
lei, fattasi in volto del colore della morte, - e guardò il vecchio; -
quindi risoluto, e pieno di ardimento, con disperato sforzo attaccandosi alle
bozze sporgenti della terrazza, discese nel giardino, e pronto come il baleno
ebbe ricuperato il foglio ed il ritratto.
- Vieni qua, urlava il vecchio
rabbioso... vieni qua... portami cotesta roba...
E poichè Virgilio,
fingendo non lo sentire, prendeva la via per tornarsene difilato a casa, il
Conte imbestiando nel suo furore muggiva:
- Vipera maladetta! Portami il
foglio... e tosto... Se ti raggiungo, ti strappo il cuore con le mie proprie
mani.
Il fanciullo più, e
più sempre affrettava il passo. Francesco, cieco d'ira,
- Nerone! - grida - Qua,
Nerone... su... addosso... - e con ambedue le mani aizza il cane contro il
figliuolo - addosso... addosso...
Il cane si slancia
furiosamente, invano però; chè Virgilio quantunque avesse
già percorso buon tratto di via, pure, sembrandogli sentirsi le zanne
del mastino nelle vive carni, aveva messo le ali alle piante: - non fuggiva,
volava. Salì i gradini a due a due; e con terribile anelito, estenuato
di forze, giacque sul pavimento, depositando ai piedi di Beatrice la lettera e
il ritratto. La fanciulla l'una e l'altro ripose precipitosa nel seno.
Poco dopo ecco il cane
irrompere sopra la terrazza latrando: aveva gli occhi di brace: esalava il
fiato fumoso. Beatrice, improvvida a qual partito appigliarsi, volge attorno lo
sguardo, e scorge dentro una nicchia un trofeo di armi antiche posto ad
ornamento della loggia: afferra una spada, e si pianta dinanzi al giacente
fratello. Il mastino feroce a testa bassa si caccia oltre per isbranarlo: la
fanciulla animosa, colto il destro, gli mena un colpo così potente, che
penetrandogli il petto gli fende il cuore. Il cane si rotola nel proprio
sangue, e traendo doloroso guaito spirò.
Sovrasta nuovo pericolo, e più grave.
Francesco Cènci sopraggiunge tempestando, con lo stile alla mano:
balbuziente per furore, egli grida:
- Dov'è la mala vipera?
Morte di Dio! Chi mi ha ammazzato Nerone?... Chi?
- Io. -
- Ebbene; anche tu... ma no,
prima la vipera. -
E si china sul figliuolo per
iscannarlo. Beatrice solleva la spada insanguinata, e, puntatala contro il
petto di Francesco Cènci, con espressione impossibile a riferirsi dice:
- Padre... non ti accostare...
- Scellerata! Da parte; dico,
- e si provava di arrivare il giacente.
Beatrice con voce
tremendamente pacata ripetè:
- Padre, non ti accostare!
A cotesto suono, che conteneva
a un punto una suprema preghiera ed una suprema minaccia, Francesco
Cènci si ristette a contemplarla.
Dov'è la vergine dal
dolce sembiante? Gli occhi di Beatrice, dilatati in guisa strana, pare che
avventino fiamme: le narici aperte sussultano: le labbra compresse, il seno
palpitante, i capelli sciolti le fremono dietro le spalle: la gamba sinistra
ferma, e tesa in avanti; diritto il corpo; il pugno manco chiuso, e la destra
accosto al fianco armata di spada con la punta in alto, in atto di ferire.
Nè pittore mai nè scultore varrebbero ad effigiare cotesto
portentoso simulacro, nè la parola lo può. La fanciulla appariva
tale, da non sostenerne la vista: paragonarla al cherubino branditore di spada,
che difendeva la porta dell'Eden dopo il peccato di Adamo, sarebbe dir niente;
perchè come fosse quel cherubino noi non sappiamo: ella era quale si
mostra anche oggi la vergine romana, quando rammenta che nasce del sangue di
Clelia. Francesco Cènci ne rimase percosso; si pose estatico a
contemplarla, lasciò calare la mano armata, gittò via lo stile;
sentì per un momento placarsi l'anima. Beatrice anch'essa gittò
lontano da se la spada. Il vecchio sporse verso di lei le braccia aperte,
esclamando teneramente:
- Sei pur bella fanciulla!...
Oh! perchè non mi ami?...
- Io? - Vi amerò... e
gli si avventò al collo.
Il padre e la figlia si
strinsero in religioso abbracciamento.
Ma il bene durava nell'empio
vecchio quanto un baleno. Egli provava per un sentimento di umanità la
paura stessa, che altri proverebbe per un rimorso. A un tratto ecco apparire i
segni del parossismo del delitto: gli si corrugano gli occhi, le palpebre
tremano di quel riso sinistro che faceva abbrividire; le palpa i capelli, il
collo le stazzona e le spalle; baciolla e ribaciolla, e nello accostare la
bocca al suo orecchio vi sussurrò dentro una parola...
Beatrice declina la faccia
livida; si scioglie dallo amplesso del padre, si reca in collo il fratello
giacente, e nel partirsi manda contro Francesco Cènci uno sguardo lungo
- un fulmine di disprezzo - ch'ebbe potenza d'impietrire il sangue nelle vene a
colui, che non temeva uomini, nè Dio.
Egli rimase lungamente immobile,
chiuso dentro un profondo pensiero: colà nel suo spirito prese a
imperversare una tremenda procella. Ma la voce del male vinceva il muggito
dell'uragano; la voce del bene disperata era, e fuggitiva come quella del
naufrago. Quali pensieri gli si avvolsero nella mente? Di che cosa
dubitò? Che cosa statuì? Chi lo sa! Forse lo stesso Demonio, se
si fosse affacciato a vedere lo inferno dell'anima di Francesco Cènci,
avrebbe volto altrove impaurito la faccia. Però è da credersi,
che in cotesta vertigine di maligni partiti egli si appigliasse al peggiore;
conciosiachè battendosi forte della palma destra la fronte, digrignasse
fra i denti:
«Or come va? Io, che
presumerei comandare al giorno quando si affaccia all'orizzonte: «addietro!
splenderai quando te ne darò licenza...» ecco io mi sento arrestare in
mezzo del mio cammino da meno, che da un filo di paglia, dalla volontà
di una fanciulla. Ahi sciagurata! Il vetro potrà egli resistere, sotto
al martello del fabbro? Tutto ha piegato fin qui nella stretta della mia mano
di ferro; e tu pure piegherai - o ti stritolerò ad un punto anima ed
ossa.
CAPITOLO VII.
LA CHIESA DI SAN TOMMASO.
.....E Belzebub
in mezzo.
Petrarca, Sonetti.
«Tanto egli
odiava questi suoi figliuoli, che aveva
fatto nel
cortile del suo palazzo una chiesa dedicata
a san Tommaso,
col solo pensiero di seppellirveli
tutti».
Novaes, Storia.
La chiesa di san Tommaso dei
Cènci, comecchè in parte mutata da quello che era, sta tuttavia.
Lo dicono monumento vetustissimo, e già ebbe nome: De Fraternitate,
ed anche in Capite Molae, o Molarum. Questa notizia ricavasi dal
diploma di papa Urbano III ai Canonici di san Lorenzo in Damaso. La chiamarono
poi in Capite Molarum come quella che sorgeva prossima al molino della
Regola, là dove il Tevere rimase interrato fino dal 1775; e De
Fraternitate, ed anche Romanae fraternitatis caput, forse
perchè quivi fondarono la prima confraternita donde trassero in successo
di tempo esempio e titolo le altre confraternite di Roma. Narra la fama, che il
Cincio, vescovo di Sabina, nel 1113 ne consacrasse l'altare. Giulio III la
concedeva in giuspatronato a Rocco Cènci nel 1554, con obbligo di
restaurarla; cosa che, per essere soprappreso dalla morte, egli non potè
adempire; laonde Pio IV nel 1565 spedì nuovamente la Bolla d'investitura
a favore di Francesco Cènci figlio di Cristofano, imponendogli il
medesimo carico; al quale egli soddisfece, secondo che attesta la seguente
iscrizione poeta sopra i muri esterni della chiesa:
Franciscus Cincius Christophori filìus
Et Ecclesiae patronus, Templam hoc
Rebus ad divinum cultum et ornatum
Necessariis ad perpetuam
Rei
memoriam exornari ac perfici
Curavit. Anno Jubilei 1575([27]).
Quel marmo attestava a
chiunque passasse quale, e quanta fosse la pietà di Francesco Conte dei
Cènci! - Cosi quasi sempre riscontriamo sinceri gli epitaffi, le
iscrizioni, le gazzette officiali, e le orazioni funebri dei cappellani di
Corte.
La chiesa ha forma, a un
dipresso, quadrata. Condotta di un miscuglio di ordine dorico, presenta cotesta
sconcia depravazione dell'arte, che gli artisti costumano significare col nome
di barocco. Contiene cinque cappelle; ha soffitto a crociere, dove anche
nei giorni che corrono possiamo osservare l'arme dei Cènci, che fa per
impresa campo squartato di bianco e di rosso, con tre lune rosse in campo
bianco, e tre lune bianche in campo rosso.
All'altare maggiore si vede un
quadro dipinto a olio della maniera del secolo sesto, o di poco anteriore:
è di buona scuola, e rappresenta san Tommaso che tocca la piaga a
Gesù. A sinistra dello altare stesso venerano un Crocifisso dipinto,
opera del secolo decimo secondo, e a questo alludeva Virgilio nel suo colloquio
con Beatrice.
Intorno a lui raccontami
mirabilissime cose. Certo manoscritto antico conservato una volta, e forse
anche adesso, nel Campidoglio (non però commesso alla custodia delle
oche che salvarono la rupe Tarpeia), firmato da Giacomo Cènci, dichiara
come il padre Guardiano in Araceli donasse la prefata devota immagine al
medesimo Giacomo, e con giuramento gli affermasse avere davanti a quella
più e più volte fatta orazione san Gregorio Magno: nè il
buon padre Guardiano si fermava qui; che, proseguendo nella narrazione,
attestavagli, cotesto Cristo avere usanza tratto tratto operare miracoli. Se
anche di presente la immagine ritenga siffatta virtù, o se l'abbia
trasferita in altre, come sarebbe la immagine di Nostra Donna di Rimini, che
apre e chiude gli occhi, o l'altra di Tredozio, che piange a un punto e ride([28]), io non saprei accertare
per ora; ma quando prima sarò, se piace a Dio, liberato dal carcere, mi
propongo raccogliere più ampie notizie, e ragguagliarne i miei devoti
lettori. Quello però che conosco di certo si è, che il Cristo di
san Gregorio Magno per tutto il tempo che durò la vita di Giacomo
Cènci si ostinò a non fare miracoli; ed ecco come andò la
faccenda.
Fra Brancazio, (tale era il
nome del Guardiano di Araceli) senza che faccia nemmeno mestieri dichiararlo,
non donava mica il Cristo per nulla; all'opposto egli imponeva al donatario: primo,
che restaurasse a sue spese la facciata della chiesa dei reverendi Padri
Francescani in Araceli, il che fu adempito; secondo a rifornire la
sacrestia di pianete, piviali, dalmatiche, ammitti, roccetti e simili altri
arredi, ed anche questo fu fatto; terzo a fondare una messa quotidiana
perpetua all'altare di san Francesco con la elemosina di un ducato, ed anche la
messa quotidiana fu fondata: e così i dabbene Padri, avendo trovato il
terreno morvido, presero ad avviarsi alla casa di Giacomo spessi ed oscuri,
simili in tutto alla schiera delle formiche quando s'imbattono in un mucchio di
grano lasciato su l'aia, e non rifinivano mai di cavargli di sotto ora questo,
ed ora quell'altro benefizio: dandogli ad intendere, che per quanto ei donasse,
già non presumesse risarcire il Convento per la perdita inestimabile del
Crocifisso, davanti al quale aveva pregato san Gregorio Magno;
imperciocchè, senza contare il pregio del dipinto, ch'era pure
d'illustre magistero, gl'infiniti miracoli che soleva operare procacciavano
elemosine abbondantissime, e reputazione di santità al luogo e a chi
l'abitava non meno proficua. Messere Giacomo Cènci, con tutto che
santissimo uomo si fosse, preso nonostante da stizza per la pretesa
improntitudine, certo giorno gli disse: «Padre Brancazio, che il Crocifisso di
san Gregorio Magno alle sue mani abbia operato miracoli, sarà: lo dice lei,
e non ho motivo per dubitarne; però dopo ch'è entrato nella mia
cappella le posso giurare da gentiluomo di onore, che non ne ha fatti
più». E il Frate, voltandogli bruscamente le spalle, gli rispose: «Mi
rincresce dirglielo, spettabile signor Conte; ma questo è segno, che
nè lei nè la sua casa sono degni di ricevere queste
grazie.» E così messer Giacomo rimase saldato da fra Brancazio.
Di reliquie poi cotesta chiesa
non pativa difetto, e tutti questi tesori ecclesiastici si conservavano dentro
un'urna di marmo posta sotto l'altare maggiore. Lascio dei Santi di seconda
qualità, chè troppo ci vorrebbe a favellare di tutti, e
ricorderò soltanto la piegatura del collo di san Felice dove venne
trafitto da un colpo di lancia in Calamina, ora detta Madapor, ed anche
Città di san Tommaso, nella India: de pandone circa collum eius in
percussione ipsius, come ne fa fede la iscrizione posta sopra la porta
minore della medesima chiesa. Ma vedete dove quel benedetto Santo girava per
cercare la morte, mentre questa è sicuro che sarebbe andata a trovarlo
anche standosene quieto e tranquillo a casa sua!([29])
Chiedo licenza ai miei lettori
(i quali so che non me la negheranno) di passare sotto silenzio le altre
cappelle; molto più che, gli assicuro io, non meritano speciale
menzione. Non pertanto piacemi ricordare come la chiesa e le case dei
Cènci fossero erette sopra le rovine del Teatro Balbo...
Una chiesa sopra un teatro! I
secoli trapassano come i vetri dipinti della lanterna magica; il mondo è
la parete dove si riflettono le immagini loro, e nel continuo passaggio le cose
più strane si succedono senza dar tempo a compire un pianto, o un riso.
Noi fabbrichiamo sopra i sepolcri dei nostri padri; le generazioni future
s'impazientano di fabbricare su quelli di noi. Cenere sopra cenere; e
l'universo si allarga e si feconda per queste incessanti alluvioni della morte.
Dove gli umani sollazzavansi un giorno, oggi pregano; forse vi decapiteranno
domani, domani l'altro danzeranno. La Fortuna, gittata via la benda, all'antica
follia aggiunse la ebbrezza nuova; e, fatta Menade, percuote orribilmente un
suo crotalo infernale, eccitando al ballo tondo Grazie, Furie, Satiri e Muse.
Marte balla anch'egli; Nemesi co' flagelli di vipere batte la misura. E l'uomo
presume mettere il chiodo a questa ruota, che affatica il cielo e la terra? Ah!
ella è pretensione cotesta da far morire di riso lo stesso dio del Riso,
il vecchio Momo.
Assicurano taluni, che quando
la fede rimane vedova convoli facilmente a seconde nozze; e dicono ancora, che
abbia dato il medesimo anello a parecchi mariti. Io per me mi astengo da simili
argomenti, che putono di abbrustolito... per fuoco infernale di certissimo, e
per fiamme di Santo Offizio non lo sappiamo per ora di certo, ma in breve lo
sperano. Intanto i reverendi Padri Gesuiti s'insinuano piamente fra i Popoli ad
apparecchiare i fornelli. - Quello, che a me pare poter dire, senza pericolo
della salvazione dell'anima nell'altra vita e del Regio Procuratore in questa
(però che si tratti di pretta storia) si è, che parecchi dei
nuovi Numi s'introdussero nel tempio degli antichi; nè più nè
meno come gli Austriaci, col biglietto di alloggio, in casa dei buoni borghesi
toscani. Veteres migrate coloni! Molti altri inquilini dell'Olimpo di
Giove migrarono con armi e bagaglio nel Paradiso di Santa Madre Chiesa; e,
offrendo esempio da imitarsi agli uomini politici dei nostri tempi, voltato
mantello continuarono a deliziarsi nel profumo delle adorazioni([30]). Anche su i riti
accaddero, più che non si crede, transazioni, e per opera degli stessi
Pontefici. Nè in ciò sembra che meritino punto biasimo,
perchè, i più astuti scrittori affermano pericoloso stravincere,
e doversi accettare qualunque accomodamento: basta che si assicuri un guadagno
(pei Numi, bene inteso); però che, in quanto ai Sacerdoti, se ne stieno
contenti a quello che loro invia la Provvidenza: e questo sanno tutti,
insegnandolo il Vangelo di Cristo... Svergognati! Quando mai fu fatta penuria
di moneta spirituale per acquistare beni temporali? Lo spirito, predicato
più nobile della materia, in diritto le ha sempre ceduto nel fatto. La
Chiesa, donna e madonna del Paradiso celeste, si accinse a cercare anche il
terrestre. La investigazione non sembrava difficile. solo che avesse badato e
perlustrare il paese che giace tra i fiumi Pisone, Ghilone, Hiddechel, e
l'Eufrate([31]);
ma non le venne fatto, o non potè trovarlo. Allora si mise con maggior
profitto a cercarlo fra le spoglie di guerra dei Franchi e dei Normanni, o
nelle transazioni tra l'Inferno (di cui è procuratrice del pari, o per
lo meno ne tratta i negozii senza mandato) e il rimorso e la paura dei
peccatori, perchè coll'oro si fanno anche arrivare l'anime in
paradiso, come affermava Cristofano Colombo scrivendo a Ferdinando e ad
Isabella cattolicissimi regnanti([32]); e così dicendo
non iscuopriva l'America. Affermano eziandio, che la Chiesa per mettersi in
possesso del Paradiso terrestre si avvantaggiasse a fabbricare carte false; ma
queste sono cose che non si devono credere: almeno io non le credo. Nel mille
predicavano i Chierici la fine del mondo, e nonostante ciò facevansi
instituire eredi. I beni terreni di cui dovevano astenersi, tanto, all'opposto,
piacquero loro, che pretesero ritenerli anche dopo la fine del mondo! Considerata
a dovere questa clericale improntitudine, farà meno maraviglia l'avaro
Ermocrate, che instituì erede se stesso.
Qui dentro, e mi si può
credere, non vi sono biblioteche per comporre dotti discorsi; ed anche libri vi
fossero, io non ho avuto tempo per leggerli: pure ricordo che in Roma, il
tempio che fu di Vesta la Dea del fuoco, oggi è consacrato alla
Madonna del sole; quello di Remo e Romolo gemelli, ai santi
Cosimo e Damiano gemelli; l'altro della Salute, a Santo Vitale:
su l'orlo del lago Numicio, dov'è fama che si precipitasse la sorella di
Didone Anna Perenna, adesso si venera la cappella di santa Anna
Petronilla: ed oggi ancora, a Messina nel giorno dell'Assunzione, come la
Cerere sicula andava in traccia della sua figlia Proserpina rapita da Pluto, la
Madonna, tratta in processione, va per le strade cercando il suo divino
figliuolo: quando poi, dopo un lungo errare, le mostrano la immagine del
Salvatore, ella trema, storna, e dodici uccelletti proromponle dal seno
spandendo pel cielo la esultanza del suo cuore materno. Nel foro Boario, presso
l'ara massima dove i Romani pronunziavano il giuramento solenne, ora sorge la
chiesa di santa Maria Rocca della verità. Il Panteon è
diventato Santa Maria della Minerva. Qui fra noi, San Giovanni era
il tempio di Marte: la Cattedrale di Pisa, il palazzo di Adriano
fabbricato di ruderi di case e di tempii. Uno dei pilastri della parete esterna
da mezzogiorno notai composto in parte d'un architrave di granito col nome di Cerere
Eleusina. Del monte Soracte hanno fatto il monte Santo Oreste,
e a canto la cassa di Santo Ranieri ho veduto una statua di Marte
convertita in San Potito (il quale, insieme a Santo Efeso, fu
solennissimo operatore di miracoli) con la lieve variante di torle dalla destra
la spada, e sostituirvi un libro. I Gesuiti nell'Indie consentivano
l'adorazione degl'Idoli si continuasse; solo a piè dei mostri ponessero
o crocellina, o cuore di Gesù, o altro segno della religione nostra;
anzi nella China giunsero perfino a velare la immagine di Cristo confitto in
croce, per paura che i popoli si scandalizzassero di un Dio morto coll'ultimo
supplizio: e Gregorio VII manda lettera a Santo Agostino apostolo della
Brittania, con la quale lo conforta a sopportare i sagrificii di vittime co'
riti pagani per acquistare a mano a mano terreno([33]). Gesù Cristo
predicò non potersi servire a Dio ed a Mammone, e cacciò via
risoluto i profanatori dal tempio. I suoi vicarii hanno proceduto più
blandamente; bene o male abbiano fatto, ne renderanno conto al Mandante. A me
basta aver detto la verità quando affermai, che i Chierici andarono
corrivi anche troppo per acquistare impero... Ahi tristo aere del carcere! non
mancherebbe altro, ch'ei mi facesse diventare teologo. Io mi affretto a tornare
più che di passo alla storia, lasciando molte cose per via che furono
dette, e che sono state dimenticate con iscandalo di tutti i professori del
progresso umano.
La cappella di san Tommaso dei
Cènci nel giorno dieci di agosto compariva parata a lutto: lungo le
pareti pendevano lugubri gramaglie: da per tutto si vedevano ghirlande di fiori
intrecciate con rami di cipresso: sette sepolcri di marmo nero scoperchiati
aspettavano i morti, a guisa di bocche co' labbri aperti ansiose di bevanda:
avevano tutti una iscrizione medesima, ed era questa:
Mors parata, vita contempta([34]).
E più oltre un ottavo
sepolcro sopra gli altri cospicuo, di marmo bianco finissimo, con quest'altra
iscrizione:
Si
charitem, caritatemque quaeris
Hinc
intus jacent
Non ingratus haerus
Neroni cani benemerentissimo
Franciscus
de Cinciis hoc titulum
Ponere
curavit.....([35]).
In mezzo alla chiesa stava
collocata una bara coperta di velluto chermisino ricamato di oro, cosparsa
anch'essa di freschi fiori. Intorno alla bara ardevano sei ceri sopra
candelabri d'argento lavorati con artifizio mirabile.
Un coro di preti, parati di
pianete e di dalmatiche di damasco nero, aspettavano un morto per recitargli le
ricche esequie. Nè stette guari, che si fecero sentire passi misurati; e
poco dopo, alzata la tenda della porta laterale, comparve una barella portata
da due uomini e da due donne.
Giacomo e Bernardino
Cènci tenevano le stanghe davanti, le posteriori Lucrezia Petroni e
Beatrice.
Il morto era Virgilio. Dio
aveva accolto la seconda parte della preghiera dello sventurato fanciullo: egli
dormiva nella sua pace.
Seguivano alcuni servi di casa
vestiti magnificamente a lutto, con torcie accese. Non senza dolore misto a
maraviglia poteva osservarsi, come le vesti dei famigli fossero troppo meglio
in punto, che quelle di Giacomo e di Bernardino: segnatamente di Giacomo,
squallido così, da disgradarne il più povero gentiluomo di Roma.
Scarmigliati aveva i capelli, lunga la barba, le maniche e il colletto
luridissimi: portava bassa la faccia umiliata, la fronte aveva rugosa, le
guance pallide e macilenti: dagli occhi accesi versava lacrime amare, e gli si
vedeva il palpito del cuore di sopra il farsetto. Dal suo volto tralucevano due
passioni contrarie: pietà, e rabbia male repressa. Bernardino anch'egli
piangeva. ma così per imitazione, piuttosto che per impulso spontaneo;
imperciocchè se non era diventato affatto stupido di cuore, la sua mente
era ottenebrata dalla paura del padre, e dalla ignoranza di tutte le cose,
nella quale costui compiacevasi conservarlo. Lucrezia, quantunque matrigna si
fosse, lasciava l'adito al pianto: - però, essendo piuttosto pinzochera
che devota, si rassegnava facilmente e presto; togliendosi le sciagure in
pazienza, e attribuendo al santo volere di Dio ogni evento così buono
come tristo della vita. Io per me lodo la costanza, ch'è quasi zavorra,
la quale fa stare in equilibrio la nave nelle procelle della vita; credo ancora
io, che delle cose che avvengono in giornata molte dovessero per
necessità succedere: ma quando le idee religiose si adoprano a
insugherire il cuore, allora cotesta insensibilità non è
virtù; si rassomiglia troppo al vestibolo della morte: l'uomo,
finchè vivo, ha da vivere con le sue passioni. Io so che alcuni chiamano
le passioni venti contrarii alla vita serena, e jene e lioni e simili altri
animali ruggenti, e cercanti cui si abbiano a divorare. Marco Antonio per le
vie d'Alessandria fu visto seduto su di un carro tratto da lioni. Se le
similitudini addotte sieno acconce, o no, poco importa conoscere; di questo si
persuada la gente, che se l'uomo può domare le belve, e governare la
procella, molto più potrà le passioni; egli ha da reggere, non
lasciarsi impietrire.
Francesco Cènci
condusse in moglie cotesta femmina appunto perchè gliela dissero
tenerissima della religione, e perchè certa volta, avendo ella udito
favellare della empietà di lui, aveva esclamato: «Signore! io terrei piuttosto
maritarmi col diavolo, che col Conte Cènci([36]). - Egli allora le si
pose dintorno; finse costumi esemplari; frequentò chiese, imparò
a piegare il collo, e a levare in molto commuovente maniera gli occhi e le mani
al cielo: sopra tutto si mostrò largo donatore ai preti, degni
guardaportoni del paradiso. Sapeva raccontare leggende dei Santi, discuteva
della gratia gratis data, e della forma e della sostanza dei
sacramenti meglio del Definitore sinodale dei Padri Francescani. La donna
incominciò a credere lo avessero calunniato. In ogni caso, o non poteva
essersi convertito? Non poteva avere la Beata Vergine impartito a lei la
virtù di strappare cotesta anima dagli artigli del demonio? Oh! è
così dolce, così altera cosa per donna devota guadagnare un'anima
in contrasto col demonio, che, parlando generalmente, le femmine pie davvero
non si contentano della prima conversione, che con lodevole zelo si affaticano
per la seconda, e questa diventa impulso alla terza; e se durasse in loro la
potenza come la volontà, non è da dubitarsi che sagrificherebbero
la vita intera in opera tanto meritoria([37]). Tra per queste ragioni
e i conforti dei parenti, le ricchezze grandi e la nobiltà di casa
Cènci, la donna condiscese ad accettare il Conte Francesco per suo
secondo marito.
Appena il Conte ebbe menato a
casa Lucrezia, come per ischerzo, le disse: «Voi volevate maritarvi col demonio
piuttosto che con me: io vi ho presa per provarvi che avevate ragione»; - e le
tenne parola.
Ogni giorno le si poneva
accanto su lo inginocchiatoio; e mentre ella recitava responsorii e rosarii,
egli cantava versi osceni, od empii: ella sfogliava un libro di orazioni, ed
egli le incisioni turpissime di Marcantonio Raimondi commentate da Pietro
Aretino: si studiò sovvertire in lei ogni idea di religione e di morale,
a empirle l'anima di dubbio e di paure; ma Lucrezia di coteste diavolerie non
intendeva niente, e spesso non vi attendeva nemmeno. Talora, quando il tristo
marito stanco di favellare taceva, incominciava ella, o riprendeva a recitare
il rosario: per la qual cosa avvenne che Francesco Cènci, invece di
aspreggiare altrui, se medesimo tormentasse; invece di spingerla alla
disperazione mordesse le sue labbra di rabbia, e stesse per impazzare di
furore. Riuscito invano questo partito, scelse altro disegno. Prese a
costringerla di ascoltare i suoi quotidiani adulterii: nè ciò valendo
punto a irritarla, empì la casa di cortigiane; non si astenne da parole
e da atti capaci di offendere la sua dignità di donna e di sposa; ma
ella con inalterabile dolcezza gli diceva: «Dio vi ravveda, e vi perdoni come
io vi ho perdonato». Francesco non trovava maniera di commuovere cotesta
fredda, ed ineccitabile natura. Spesso, acciecato dalla ira, ei la
umiliò al cospetto dei servi; la bistrattò, la percosse; le fece
patire penuria di vesti e di cibo; le fece portare in volto i segni di furore,
peggio che bestiale. Tempo perduto: tutto ella soffriva con rassegnazione,
tutto ella presentava al sacro cuore di Gesù in isconto dei suoi
peccati. Francesco, per non darsi della testa nel muro, cessò di
perseguitarla, essendosi (cosa a dirsi incredibile) più presto stancato
il talento di tormentare in lui, che in lei la pazienza: ond'è che
reputandola stupida, la lasciò da parte come natura morta, che non
merita essere straziata nè blandita.
Beatrice sola non lacrimava;
teneva gli occhi fitti sul morticino, e immemore seguiva i passi altrui con
moto macchinale.
Quando giunsero al catafalco
Beatrice si recò lo estinto fanciullo nelle braccia, ed ella fu che con
le proprie mani ve lo acconciò sopra, gli assestò i capelli, gli
pose sul petto il crocifisso, e il mazzetto delle viole; poi, remosso alquanto
uno dei candelabri, con la faccia declinata nel palmo della destra
appoggiò il gomito sul canto della bara, tenendo sempre fisso lo sguardo
sul morto.
Un famiglio puntava Beatrice
con gli occhi come due lingue di fiamma, e talora trasaliva: il famiglio era
Marzio.
Oltre i quattro rammentati,
nacquero a Francesco Cènci tre altri figli; Cristofano e Felice, ch'egli
mandò a studio in Salamanca, e Olimpia. Questa fanciulla, che destra era
molto ed animosa, non potendo più reggere alle paterne persecuzioni
scrisse un memoriale, dove espose molto accomodatamente i carichi del padre
suo; e poi, nonostante il carcere domestico nel quale si trovava ristretta,
seppe così bene industriarsi, che lo fece pervenire nelle mani di Sua
Santità, supplicandola che si degnasse collocarla in convento
finchè non l'avesse provveduta di onesto matrimonio. L'accorta fanciulla
delle infamie paterne rivelò le più credibili, e facili a
verificarsi; delle altre tacque, avvisandosi che l'enormezze quanto più
superano l'ordinario tanto meno si conciliano fede: sicchè le
inverosimili, quantunque vere, screditano le verosimili; e pensò inoltre
che un figlio, ricorrendo contro il padre per propria salvezza, non deve
oltrepassare i termini del bisogno; imperciocchè, in questo caso, la
difesa troppo ardente degenerando in offesa manifesta, faccia nascere il
sospetto che l'accusatore sia condotto da odio snaturato contro il suo sangue.
Il Papa pertanto, ammirando la moderazione della giovane, deliberò
venire in soccorso di lei; e, fattala trarre dalla casa paterna e mettere in
convento, non andò guari che la maritò col Conte Carlo Gabbrielli
gentiluomo onoratissimo di Gubbio, a cui il Papa costrinse don Francesco
Cènci sborsare conveniente dote. I ricordi dei tempi narrano come il
Cènci, furibondo per questo successo, giunse perfino a promettere
centomila scudi a chiunque, viva o morta, la odiata figliuola nelle sue mani
riportasse: ma il Pontefice poteva troppo più di lui; ed anche per
questa volta egli ebbe a mordere il freno. Non si potendo sfogare contro la
fuggitiva, moltiplicò la rabbia della persecuzione contro ai figliuoli
rimasti in casa; e tanto cotesto cordoglio gli cuoceva il riposto animo, che
sovente, come Augusto quando ebbe perduto le legioni di Varo([38]), fu visto aggirarsi per
le camere del suo palazzo; e battendo palma a palma, od appoggiando la fronte febbricitante
a qualche stipite, esclamava:
- Ahi! Papa, Papa, rendimi
Olimpia. Principi, Preti, e Padri hanno a sostenersi ad ogni costo, e sempre,
se vogliono mantenere l'autorità nel mondo reverita e temuta...
I Sacerdoti celebrarono gli
ufficii divini con la esattezza dei nostri soldati quando fanno la carica in
dodici tempi, e presso a poco col medesimo entusiasmo. Beatrice a nulla
badò, nulla intese: solo quando il sacerdote asperse la bara di acqua
benedetta, uno spruzzo dalla fronte del morticino le rimbalzò sopra la
faccia. Rabbrividì, diventò più cupa, poi sospirò
queste parole:
- Accetto lo augurio!
- Morire... non tocca a voi...
Tali accenti percossero
improvvisi le orecchie di Beatrice, come se si fossero dipartiti dalla bara del
morto: volse subito il capo, ma non vide alcuno prossimo a lei. La calca dei
famigli e degli incappucciati si allontanò dalla chiesa seguitando i
sacerdoti; poi a mano a mano quella dei cristiani accorsi dal vicinato. I
Cènci rimasero soli col morto. Il popolo di buone viscere piange
facilmente alle sventure altrui; ma dura poco, perchè le proprie gli
consumano tutto il suo pianto, e qualche volta non basta.
Stavano tutti genuflessi,
riposando il corpo sopra le calcagna, col capo dimesso, e le braccia, con le
mani incrocicchiate, pendenti giù lungo le cosce. Beatrice sola, che non
aveva lasciata un momento la pristina sua positura, scuote ad un tratto la
testa, guarda con occhi torvi quei miseri, e con gesto imperioso esclama:
- A che piangete voi?
Alzatevi! Sapete voi chi ci ha ucciso questo fratello? Lo sapete voi? Voi lo
sapete, sì; ma tremate di pensarne perfino il nome dentro il vostro
cervello. Quello, che non ardite pensare nel vostro segreto voi, io lo
rivelerò a voce alta: lo ha ucciso suo padre... il padre nostro...
Francesco Cènci.
I prostrati non si mossero, ma
raddoppiarono i singhiozzi.
- Levatevi su, vi comando; qui
ci vuole altro, che pianto! Bisogna provvedere alla nostra salute, e subito, se
non vogliamo che nostro padre ci ammazzi tutti.
- Pace, figliuola mia, pace;
che è peccato lasciarsi vincere dalla collera, rispose Lucrezia: vieni,
inginocchiati anche tu, e sottomettiti al santo volere di Dio.
- Che dite voi, signora
Lucrezia? Credete servire Dio, e lo bestemmiate. A sentirvi, Dio avrebbe creato
l'acqua per annegarci, il fuoco per arderci, il ferro per tagliarci? Dove avete
letto che il dovere dei padri sta nel tormentare i figliuoli, quello dei
figliuoli nel lasciarsi tormentare? - Dunque non vi è limite, oltre il
quale venga concesso di opporci? Qualunque ribellione è illegittima? La
natura ha segnato le generazioni degli uomini col marchio in fronte: soffri,
e taci? Vi ha qualche cosa peggio del parricidio? Ditemelo, perchè
io conosco molte, ma per avventura non tutte le iniquità, che si
commettono sotto il sole. Tre cose io comprendo che non si possono annoverare:
le stelle nel firmamento, i pensieri maligni nel cuore dell'uomo, e le angosce
dei disperati...; forse sono più... ditemelo. Signora Lucrezia, come
amavate poco il povero Virgilio!...
- Come! non l'amava io? Questo
caro figliuolo mi era diletto come se fosse nato di me.
- Davvero? Queste parole
presto sono pronunziate, ma in fatto non è così. Amore di madre
non s'immagina. Se voi lo aveste portato nelle viscere, se partorito con
dolore, non piangereste, ruggireste adesso. Ma qual maraviglia se la voce del
sangue non è più ascoltata dagli uomini, mentre non la intende
neanche il cielo? Il grido di Abele oggi non arriverebbe più al cospetto
del Vendicatore: perchè questo? Forse l'Eterno infastidito si tura le
orecchie, o il grido del sangue si fece più fioco? - Ma se il cielo
è diventato di bronzo, il mio cuore si mantiene di carne, e geme e freme
e palpita come il cuore vergine di uno dei primi viventi... E voi, Giacomo, che
pure siete uomo, o non sentite voi nulla qui dentro? - E la donzella si
percosse il seno dal lato manco.
- O Beatrice, rispose una voce
dal pavimento, e la profferiva Giacomo Cènci, io non sono più
quello di prima: la parte migliore di me periva: io paio appena un'ombra, una
memoria di me medesimo. Guardami... ti pare egli questo il sembiante d'uomo di
venticinque anni? Che cosa posso io contro il destino? Mi sono dibattuto,
più che non pensi, dentro la catena della necessità; l'ho morsa
finchè non mi ha stritolato i denti; tu la vedessi! Ella è
affatto nera pel mio sangue rappreso...
- Ma la mano trova un legno,
ed ecco una leva capace a rovesciare una torre; - trova anche un ferro, ed ecco
un martello per rompere, una spada per isgombrarci il cammino davanti; e poi
l'amicizia moltiplica i capi e le mani...
- La sventura, sorella mia,
è come una notte di dicembre; t'investe delle sue tenebre in guisa, che
tu non vedi più alcuno, nè alcuno vede più te.
- Alza la voce nel buio; la
conosceranno almeno i parenti: ho inteso dire che il peggior parente vale
l'amico migliore.
- Vi sono sventure, come vi
sono infermi a cui non vale virtù di senno, nè virtù di
farmaco. Io non nego la pietà, la parentela, l'amore... io nulla nego;
ma tutto in mano al potente diventa arme atta a percuotere, e in mano del
debole diventa vetro per ferirlo. Contempla, sorella, quale e quanta sia
l'abiezione a cui mi trovo condotto. Io non ho vesti per cuoprirmi; mi mancano
perfino camicie: io non ho modo per curare la mondizie del corpo, di cui il
difetto tanto umilia il gentiluomo. Ma questo sarebbe poco dolore se
affliggesse me solo; ho quattro figli, e spesso mi manca tanto da sostentarli,
non che d'altro, di pane. Dei due mila scudi annui, che il padre dovrebbe
pagarmi per decreto del Papa, appena, ed a stento, mi dà la ottava
parte; i frutti della dote di Luisa mi nega([39]); onde io sovente,
tornando a casa, trovo i miei figliuoli nudi, la madre piangente, e tutti
domandare del pane... Ah! che cosa posso darvi? Prendete, mangiate le mie
carni. Sì, per Dio, le mie carni! egregio cibo, in verità, le mie
carni estenuate dal digiuno, e riarse dalla febbre! Fuggo da casa mia per
sottrarmi a cotesti gridi; ma la disperazione viene meco, e mi ricinge a mille
doppi la vita con le sue spire orribili di serpe, mentre i suoi denti
avvelenati mi mordono il cuore.
- Ma perchè non
ricorriamo al Papa? Vi ricorse pure Olimpia, e con ottimo successo?
- E non vi ricorsi io? Mi
prostrai ai suoi piedi; bagnai il pavimento di lacrime; pregai pei figli miei,
per voi, ed anche per me: gli esposi a parte a parte le paterne enormezze; non
gli nascosi nè anche le più riposte, e più infami; lo
supplicai, per quel Dio che presume rappresentare in terra, a volerci prendere
sollecito ed efficace riparo. L'austero vecchio non si commosse, non
battè ciglio; mi pareva raccomandarmi alla statua di bronzo di san
Pietro, di cui i piedi sono logori dai baci; e sempre freddi. Mi ascoltò
con faccia di pietra; tenne ognor fitti nei miei gli occhi suoi grigi, e pesi
come di piombo; poi pronunziò lento queste parole, che mi caddero su
l'anima a modo di fiocchi di neve: «Guai ai figli, che manifestano le vergogne
paterne! Cam per questo fu maledetto. Sem ed Jafet, che usarono reverenza al
padre loro, furono all'opposto dilatati, e le loro generazioni abitarono nei
tabernacoli di Canaan. Leggesti mai che Isacco mormorasse contro Abramo? La
figlia di Jefet si ritirò forse su i monti per maledire suo padre? I
padri rappresentano Dio in questo mondo. Se tu avessi tenuto reverente la
faccia inclinata per adorare, non avresti veduto le colpe del tuo genitore, e
non lo accuseresti: va in pace». E così favellando mi dimise dal suo
cospetto. Ora tu lo vedi a prova: Olimpia adoperando gli argomenti medesimi
potè trovare la via della grazia nel cospetto del Papa: io, invece,
trovai quella della indifferenza, o dello sdegno: qui dentro vi ha un destino,
che vuole così. Che cosa può l'uomo contro il destino?
- Può morire.
- Sì, eh! Ma tu non hai
figli, Beatrice; tu non hai sposo, come ho io sposa amante, ed amata. Se non
fossi padre, chi sa da quanto tempo avrebbero ripescato il mio cadavere ad
Ostia; ma un giorno o l'altro, pur troppo! vedo che cotesta sarà la
maniera di liberarmi da questa quotidiana, ed insopportabile disperazione.
Davvero mi sembra nuotare a ritroso alla corrente di un fiume, e a mano a mano
sento venirmi meno la lena alle braccia, e i piedi farmisi ogni ora più
pesi. - Oh! tu sapessi, quando passo vicino al Tevere, come il fiotto
dell'acqua, che si rompe per le pigne del ponte, mi pare che dica: - quanto
tardi! - Ma certo in questo modo ha da finire... anche Beatrice me ne
conforta... un sepolcro di acqua!
Beatrice alle parole di
Giacomo aveva mutato colore più volte: una forza interna visibilmente la
spingeva a parlare; pure si trattenne finchè, riassunta una mesta
tranquillità, abbassò il capo, stese la mano verso Giacomo, e
favellò pacata:
- La empietà allaga la
terra come il diluvio universale! - Fratello, io ho profferito stolte parole...
perdona, ed oblia.
- Ora sorgi... Chi troppo si
curva alla terra, i suoi consigli si risentono di fango... Vieni, e sii uomo.
Io nell'impeto del mio dolore diffidai della misericordia di Dio; egli mi ha
perdonato, perchè sento scendermi su l'anima la serenità, foriera
del buon consiglio...
- Tra l'altare e i sepolcri si
congiura qui...?
Un brivido ricercò le
ossa dei Cènci: volsero la faccia spaventata, e videro il vecchio Conte,
come se fosse uscito fuori del pavimento, livido in volto, tutto abbigliato di
nero, col tòcco vermiglio in capo secondo che allora costumavano i
patrizii romani. La sembianza del fiero vecchio era quieta di paurosa
tranquillità; impenetrabile e sinistra come quella della sfinge. Si
restrinsero insieme, tacquero; non osarono levare gli occhi, nella guisa che
gli uccelli, tacendo acquattati sotto le foglie, allo accostarsi del falco
s'immaginano non essere veduti. Sola Beatrice gli stette ferma, e risoluta
davanti.
- Testimoni i santi, egregi
figli congiurano la morte del padre scellerato. - Fatevi oltre... chi vi
trattiene, via? Di che temete? Quale può opporvi resistenza un vecchio
inerme, e solo? Acconcio è il luogo... presente il Dio... preparato
l'altare... pronta la vittima... dove avete, sciagurati!, il coltello?
E poichè tutti, presi
da stupore, stavano muti, Francesco con voce pacata continuò:
- Ah! voi non osate... i miei
occhi vi spaventano?... a veruno di voi basta il cuore per guardarmi in volto?
Poveri figliuoli! Or via, se nol sapete, v'insegnerò io il modo per
consumare il vostro disegno con sicurezza piena... con tutta la viltà di
cui siete capaci. Quando la notte è cheta, e vostro padre... Francesco
Cènci... insomma, io dormo... allora i miei occhi non vi metteranno
spavento... cacciatemi presto presto un ferro ben tagliente - un pugnale bene
appuntato da voi tra un rosario e un altro - qui - sotto la mammella manca...
vedrete come penetra agevolmente. È un filo la vita del vecchio: anche
la mano di un fanciullo... anche la zampa di questo ragnatelo ( - e così
favellando sollevò la destra del morticino, che poi rilasciò
cadere con infinito disprezzo sopra la bara - -) potrebbe tagliarlo.
E siccome alcuni, come
inorriditi, si nascondevano la faccia, il Conte colla stessa orribile ironia
riprese:
- Capisco... anche tacendo vi
fate intendere. A voi la morte non basta... volete godere il frutto del vostro
delitto. Sta bene, e a me pure importa l'onore della famiglia; nè per
cosa al mondo sosterrei, che la mia stirpe rimanesse infamata con la pena... il
delitto è nulla. Uditemi dunque... noi siamo fra parenti... non vedo
alcuno, che ci possa tradire: - porgetemi una bevanda medicata... che faccia
dormire... il regno della natura va copioso di piante che hanno siffatta
virtù! O natura, alma parens, tu fino dai primi giorni della
creazione producendo tante erbe venefiche presentisti i bisogni futuri, e i
desiderii dei figli... come questi, che uscirono dal mio fianco amorosi, e
dabbene... Provvidissima madre! Vedete... precipitarmi giù dai balconi,
a meno che non fossero altissimi, io non vi consiglierei; avvegnadio il caduto
di rado rimanga morto sul colpo, e la forza del dolore potrebbe allora
strapparmi dalla bocca un segreto, che il cuore invano si affaticherebbe a
nascondere. - Potreste ancora... sì, per san Felice patrono della nostra
famiglia... questo parmi un partito veramente imperiale e reale; - potreste
imitare il re Manfredi, il quale se non può celebrarsi affatto come un
santo, nemmeno si può dire demonio, poichè Dante lo pone nel
Purgatorio; e il fatto seguente ve lo chiarirà. Tardava a Manfredi
eredare il regno della Sicilia, e allo imperatore Federigo suo padre non
tardava punto morire: come si fa? La vita degli autori sta in contradizione con
quella degli eredi. Vi ha chi fa professione di aiutare il parto: qual danno
trovereste dunque ad aiutare la morte? Tutto sommato, chi sa se ringraziereste
più la balia del primo, o la balia della seconda; e se la viltà
non tenesse la bocca del sacco alla vita, la ragione non lascerebbe vincersi dalla
disperazione per gittarla al diavolo: - ma via, mettiamo questo da parte...
compatisco la vostra impazienza... e voi perdonatemi la mia prolissità;
non fosse altro in grazia della lezione per liberarvene perpetuamente. Manfredi
leggeva accanto al letto del padre; gli occhi del vecchio erano diventati
gravi... si addormentò profondamente così, che un lieve alito ne
svelava la vita... un alito capace appena di appannare un cristallo, di muovere
una piuma... lembo estremo di ruscello, che si perde fra la sabbia... Il padre
aveva torto a conservarlo; al figlio non correva obbligo di rispettarlo...
insomma, un fiato come il mio... Manfredi prese un piumino di sotto al capo del
padre, e glielo pose sopra... cosa, come vedete, di nessun momento... un moto a
quo, come insegnano i grammatici; e poi saltò sul letto, e con
ambedue le ginocchia gli compresse il seno, con ambedue le mani il piumaccio
contro le narici e la bocca... e così stette finchè non ebbe
perduto un padre che non gli premeva nulla, ed acquistato una corona che gl'importava
moltissimo...
- Orribile! orribile!
esclamò Beatrice.
- Orribile! ripeterono gli
altri atterriti.
- E che vi spaventate voi? Voi
temete scottarvi le dita co' tizzi dello inferno, e presumete sostenere le
parti di demonii nel mondo? E non sapete, che per essere demonii bisogna
nuotare scherzando sopra un mare di fuoco, e ridere fra i tormenti? Allora
l'uomo si conosce valoroso di forbirsi le mani dal sangue come le labbra dal
vino, e dire, anche al cospetto di Dio: «Non ho peccato». Farfalle!...
presumete commettere il delitto a colpi di ale? Lasciate a me la rigida parte
di Satana, perocchè io mi senta scellerato nella pienezza delle mie
facoltà. Guardate questi sette sepolcri... io gli ho preparati per voi,
per Olimpia, per Cristofano e per Felice... non vi trovate il mio perchè
io voglio morire dopo di voi. - O Dio cui non conosco, e che non so se tu sia;
dove ti piaccia avere uno adoratore di più, che ti confessi, quale ti
vide Moisè, prepotente e geloso persecutore della quarta, e della quinta
generazione di quelli che ti odiano - concedimi la grazia di potere assistere
all'agonìa di tutti i miei figliuoli; chiudere loro gli occhi, e
comporli in pace dentro questi sepolcri; e poi giuro da gentiluomo onorato di
bruciare il palazzo, e farne un fuoco di gioia: e se questo tu non mi puoi
concedere, ecco io consento morire prima di costoro, a patto che mi sia dato di
sporgere la mano fuori dalla mia fossa, e strascinarveli dentro per morte
sanguinosa. Ma tu non ascolti, e dormi su le piume celesti un sonno d'oro. -
Provvederò da me stesso, e fie meglio così; perchè l'uomo,
finchè il fiato gli dura, non deve commettere il pensiero delle sue
vendette a nessuno - neanche a Dio. - Andate; liberatemi dalla vostra presenza.
- Andate.
E con la mano fece segno
respingerli da se: ma ad un tratto, mutato pensiero, accorse dietro Giacomo, e,
afferratolo pel braccio manco, lo costrinse a tornare indietro; poi guardandolo
fisso, accostato il suo al volto di lui, gli favellò:
- Tu ti sei lamentato, che non
hai camicie:... infingardo! Va al sepolcro di colei che ti fu madre;
scoperchialo, levane il lenzuolo dentro il quale venne avvolta, e portalo a tua
moglie onde ne faccia camicie ai tuoi figliuoli: così potessero, come
quella di Nesso, incenerirli tutti! - Tu le dirai che ne faccia avanzare due
pezzi: uno per cuoprirti il viso quando morirai di mala morte, e l'altro per
asciugarsi le lacrime, - se sarà così stolida di spargerne per
tanto vile - tanto abietto - tanto schifoso uomo come sei tu...
- Per Dio! lasciatemi,
Conte... urlava Giacomo tremando e fremendo, mentre adoperava gli estremi
sforzi per isvincolarsi dalle mani del truce vecchio.
- No, io non ti lascerò
finchè non ti abbia insegnato a procacciare quanto fa d'uopo al tuo
bisogno. Vuoi pane pei tuoi figli? Portati a casa un pugno di cenere di tua
madre, ed empine loro la bocca... i serpenti si nutriscono di terra. O
piuttosto va, e porta la mia maledizione, di cui faccio loro dono irrevocabile inter
vivos... tu la spargerai sopra i loro capi infantili... sta di buono animo,
essa non cadrà su pietre, nè sopra spine... non torcere il
viso... io ti dico la verità: è costume della nostra famiglia,
che i figliuoli odiino il padre; dal diavolo nasciamo, al diavolo ritorneremo([40]); la maledizione, che
avrai sparsa alla sementa, ti sarà resa moltiplicata a raccolta. Fra la
tua moglie e te d'ora in avanti non corrano altre parole, che di obbrobrio e di
rissa: ti respinga da letto, te lo contamini; ti diventi la vita un supplizio,
la morte un sollievo...
E più diceva se
Giacomo, con una violenta strappata liberando il braccio, non fuggiva turandosi
con le mani le orecchie.
- Va... va - continuava il
fiero vecchio; - invano ti chiudi le orecchie; le mie parole sono della natura
delle stimate del mio serafico patrono San Francesco: bruciano le carni, forano
le ossa..... dopo morte ancora se ne distingue il segno....
Lucrezia e Bernardino tutti
tremanti si erano cacciati a corsa dietro a Giacomo; Beatrice rimase sola,
immobile, a capo della bara.
- E tu non tremi? - le
domandò il padre.
Beatrice senza rispondergli,
volgendosi con pietosissimo atto a mani giunte verso l'altare, disse:
- Santissimo Crocifisso usate
misericordia a quella povera anima...
- Stolta! Che parli tu di
Crocifissi? Qui non vi è Cristo, nè Dio...
- Silenzio, vecchio; pensate
che da un punto all'altro potreste comparire davanti il suo tribunale; ed egli
solo... egli solo può perdonarvi, e salvarvi...
Il vecchio ridendo, come lo
consiglia il suo fiero talento, digrigna:
- Vuoi tu avere una prova che
non vi è Cristo, nè Dio? Eccola. -
E saliti i gradini
dell'altare, forte percuotendo col pugno chiuso la tavola di marmo, proseguiva:
- Cristo, se sei sopra questo
altare, consacrato da un vescovo che dicono, e che io non credo, santo, dinanzi
al tuo ciborio, alla presenza della ostia dentro la quale ti confina la
stupidità dei credenti([41]), io ti rinnego dieci
volte e cento: confesso il mio peccato di non averti offeso abbastanza fin qui,
e mi propongo fermamente, d'ora in poi, offenderti in pensieri, in opere e in
omissioni con tutti i sentimenti del corpo, tutta la forza della
volontà, tutte le potenze dell'anima... Se sai, e se puoi,
inceneriscimi:... io ti sfido a fulminarmi... - E qui piegava il collo
sull'altare; e, trattenutosi alquanto, per bene tre volte gridò: non
odi? - In fine levò audacemente il capo maledetto: le membra gli
tremavano, non l'anima. Guardò la figlia: gli occhi grinzosi a mano a
mano gli si stringevano, e ridevano il riso della vipera; si mosse minaccioso
contro a lei, che lo aspettò senza battere ciglio, e con parole
forsennate volubilmente favellò:
- Che cosa è Dio? Deus
erat verbum: Dio è una parola - niente altro che una parola; e san
Giovanni lo ha detto. - Questo morto non è morto (e con la mano
percuoteva forte la fronte del morto figliuolo). Gli enti mutano forma, non si
disperdono mai. La materia fu prima della creazione, e sarà dopo lo
scioglimento del mondo. Da questo cadavere nasceranno migliaia di viventi, e, morti
anch'essi, ne diverranno altri vivi: perpetua vicenda di vita e di morte, ecco
tutto. La vera sapienza, o figlia del mio cuore, la vera sapienza, intendimi
bene, consiste nel ricavare la somma maggiore di piaceri dalla forma che la
natura ci destina attualmente. - Vieni, Beatrice, te sola amo... tu sei lo
splendore della mia vita».... te...
E più, e più
sempre, invaso da diabolica insania, si accosta lo iniquo vecchio a Beatrice; e
già la tocca, e già fa prova di gittarle smanioso le braccia al
collo; quando la donzella dà indietro un passo inorridita, e forte
spingendo la bara, esclama:
- Tra me e voi io pongo il
vostro parricidio. -
La bara urlata si rovescia
portando seco le ghirlande dei fiori, il morticino, e parecchi candelieri co'
ceri accesi: i quali cadendo a rifascio addosso a Franceseo Cènci,
ebbero virtù di stramazzarlo per terra. Il capo del cadavere percosse
sul capo dei vecchio; la bocca fredda di quello si allacciò ai labbri di
questo; i capelli biondi del giovanetto trapassato, e i capelli canuti del
vecchio vivo, si confusero insieme; - la fiammella di un cero appiccò
fuoco in cotesta chioma mescolata di vita e di morte; la vampa dilatandosi arde
ad un punto la guancia e la tempia di Virgilio, e la guancia e la tempia del
Conte: da entrambi usciva un leppo nauseabondo di carne abbrustolita; uno solo
sentì lo spasimo. Il vecchio, scuotendosi come serpente calpestato,
trafitto da angoscia ineffabile ruggiva:
- Il morto mi brucia!...
Con disperato sforzo il
vecchio si liberò dal cadavere; giunse a mettersi a sedere; poi a stento
in piedi. Oh quanto era orribile a vedersi Francesco Cènci! Le chiome
arse, e tuttora fumanti; la guancia e la tempia gonfiate per la scottatura; le
pupille rientrate tutte nel ciglio, sicchè degli occhi non si vedeva
altro che il bianco chiazzato di sangue, e giallo in parte di colore bilioso:
le membra tutte tremendamente convulse.
- Ah Francesco Cènci! -
battendo i denti sussurrava costui; - voi avete avuto paura! Codardo! tu hai
avuto paura. Una fanciulla e un morto mi hanno messo paura... adesso io vedo,
che tu sei vecchio davvero!
Beatrice era scomparsa. Il
vecchio brancolando si ridusse alle sue stanze, chiuso in pensieri di spavento
e di sangue.
CAPITOLO VIII.
DISPERAZIONE.
Che fai? Che
pensi? A che pur dietro guardi
Nel tempo, che
tornar non puote omai,
Anima
sconsolata!....
Cerchiamo il
ciel, se qui nulla ne piace.
Petrarca.
Il vento di scilocco umido e
grave soffia dalla marina, spingendo contro Roma nuvole sopra nuvole, che si
succedono paurose e sinistre come i cavalli dell'Apocalisse. Coteste nuvole
sono pregne d'ira di Dio, però che portino in grembo la gragnuola, la
malaria, e forse il fulmine per qualche testa consacrata. Intanto a quel soffio
molesto i corpi s'indeboliscono, e s'irritano; le pareti e le masserizie
grondano umidità; i capelli si attaccano giù alle guance; intorno
al collo ti reca fastidio un senso di freddo sudore: le anime facilmente
trascorrono alla ira, le parole suonano amare, le voci più dolci ci
rabbrividiscono come il raschiare dei marmi, o il disanellare dei chiavacci: -
invenzioni infernali! Stando chiusi ti opprime l'affanno; aprendo le finestre
fogli, panni ed oggetti altri siffatti si aggirano a rifascio per tutta la
casa; oltre la polvere fine che penetra nei capelli, nelle pieghe della
camicia, e logora gli occhi. Durante simile notte, entro povera stanza si
trattenevano ragionando moglie e marito: in mezzo a loro era posta una tavola
rozza di legno bianco senza tingere, e su la tavola si consumava tristamente, a
modo di tisico, una candela di sego, scarsa a rischiarare il luogo, e non per
tanto bastevole a palesare scambievolmente le loro sembianze. Quelle dell'uomo
erano abbattute; aveva il braccio steso su la tavola, e la mano giù
penzoloni, come persona scorata; la donna attrita dai patimenti, ma con un tal
quale piglio di fierezza romana, che in quel punto si faceva più
manifesto, imperciocchè sembrasse aver udito o sofferto cose che
l'accendessero tutta. Infatti con gesti e voce impetuosi ella diceva:
- No, voi non mi darete ad
intendere queste scelleratezze mai... Ma che vi pare egli? fermerebbero il
sole...
L'uomo era Giacomo
Cènci, la donna Luisa Vellia. Giacomo, come avvertimmo, toccava appena
gli anni ventisei; di persona era piuttosto grosso e corto, che no; ma adesso
dimagrato fuori di modo. Crebbe alla scuola dei crucci paterni; e, male
istruito nelle discipline gentili le quali hanno virtù di mansuefare il
cuore, sarebbe per avventura, in forza del tristo esempio, riuscito poco dissimile
dal padre, se lo amore non avesse inspirato tempestivamente nell'anima sua
dolcissimo affetto. S'invaghì di Luisa leggiadra e valorosa fanciulla,
ma di piccolo, quantunque agiato, lignaggio; ed ella gli corrispose non
perchè appartenesse a potente famiglia, ma perchè lo sapeva fuori
di misura infelice.
Così è, bisogna
pur dirlo; non vi ha creatura che tanto si esalti pel sagrificio quanto la
donna. Ente dilicato, di leggieri s'infiamma per tutto quello le apparisce
generoso: per lei è gloria consolare i pianti altrui, e curare lo
infermo di malattia disperata: - quando il medico e il prete lasciano il
giacente, chi rimane intorno al suo guanciale? la donna. Ella fu sua gioia,
forse anche dolore, in vita; ma nella sventura l'ebbe divina compagna; e dopo
la sua morte, genuflessa accanto al letto, gli recita le orazioni dei defunti.
La donna si allontana dal fianco dell'uomo ultima - anche dopo la speranza. -
Il servo di rado sente affetto, che oltrepassi il giro della moneta del suo
salario. Gli antichi finsero il dio del Commercio con le ali al capo e ai
piedi: fecero male; perchè si sbaglia, almeno pei tempi che corrono, col
dio dell'Amicizia: - questo alcione della sventura, appena vede sul confine
dell'orizzonte il segno precursore della procella apre l'ale, e fugge via.
Quante donne contemplate a piè della croce di Cristo, e quanti uomini?
Per tre Marie contate un san Giovanni, solo. Che Dio mi perdoni, ma io sono
forte tentato di riprendere d'ingratitudine il primo uomo che dipinse gli angioli
adolescenti. Chiunque ricordi l'affetto religioso della madre, le cure
amorevolissime della sorella, e i sospiri della fanciulla desiderata, e le
ardenti consolazioni della sposa, di leggieri converrà meco che gli
angioli hanno ad essere giovanette; e se mai ciò non fossero,
bisognerebbe farle ad ogni modo. Non mica di bellezza procace, col riso
lascivo, e l'occhio umido e sfavillante come le Uris di Maometto: cessi Dio
questo turpe pensiero di continuazione di voluttà terrestre; ma semplici
e schiette quale dipinse il Beato Angelico, con occhi bassi, con la tinta del
pudore su le gote; sollecite a volare per soccorso colà dove un'anima,
pure ora uscita dal suo carcere mortale, pende incerta a qual parte
indirizzarsi per trovare la via del paradiso.
Se la causa della
libertà e della religione vanta più uomini per combattere, ella
ebbe troppe più donne per predicare, e per soffrire. Vergini, e liete di
giovanezza, esultando tinsero le bianche rose delle loro ghirlande in vermiglio
col proprio sangue. Sarebbe per avventura peccato, credere che uno sguardo di
vergine cristiana, diffuso sopra le turbe mentre la scure vibrata per reciderle
il collo fendeva l'aria, abbia convertito più gente alla fede di Cristo,
che le prediche di san Giovanni Crisostomo? Se mai fosse peccato, io me ne
confesserò.
Povere donne! Invano fra voi
scelse lo Eterno il tempio del suo figlio Gesù; invano lo accompagnaste
nella sua via di dolore; nulla vi giovò versargli sul capo il prezioso
unguento; nulla il coraggio di asciugargli la fronte mentre lo traevano al
supplizio. Senza pro vi fermaste sotto la croce a consolarne l'agonìa;
lo riceveste nelle vostre braccia deposto, lo componeste nel sepolcro, e vi
sedeste di contro a quello. Chi, se non voi, cercò di Cristo poichè
fu morto? Chi, prima di voi, apprese la sua resurrezione per la bocca
dell'Angiolo? Chi reputò degno Cristo di essere, dopo la sua morte,
visitato da lui, se non voi altre donne?([42]) Le migliaia di eroine
martiri; la copia infinita delle pie monache; santa Orsola stessa con le sue
undicimila vergini non valsero a procacciarvi rispetto, o almeno dimenticanza,
davanti al consiglio spietatamente cupido e duramente ingrato dei nostri
sacerdoti, quando Gregorio VII, aspirando allo impero del pensiero del mondo,
intese a comporre una rigida armata di uomini, i quali ogni potenza dell'anima
concentrassero a promuovere il concetto di Roma. Allora voi foste perseguitate
senza pietà; nessuna bestia, o sozza o feroce, venne dai santi stessi
vilipesa quanto voi create da Dio, perchè conobbe «non esser bene che
l'uomo fosse solo([43])».
San Piero Damiano correva forsennato le terre d'Italia chiamandovi: «esca di
Satana, schiuma del paradiso, veleno delle anime, barbagianni,
lupe, civette, mignatte, sirene, streghe, capezzali
di spiriti maligni» con altre più cose, che si lasciano per lo
migliore. È vero che il Santo non si curò risparmiarle; ma egli
era santo, e le poteva dire: io, che non sono santo, per pudore devo tacerle([44]). Nè si rimasero
agli obbrobrii; ma con ogni maniera di tormenti s'ingegnarono disertarvi. Chi
non conosce la miseranda storia di Elgiva, sfregiata in volto da Odone
arcivescovo di Cantorbery con ferro rovente, e poi uccisa col taglio doloroso
dei garetti perchè amata troppo dal regio consorte, ed ella amante di
lui così, che nè per minaccia, nè per prego sofferse di
vivergli lontana([45])?
I Preti potranno ordinare: vade retro, Satane, e saranno ancora ubbiditi;
su ciò io non contrasto; ma alla Natura non si dice: addietro,
perchè ella manda a gambe levate chiunque avverso le si para davanti.
L'uomo trovò nella
colpa di Eva circostanze attenuanti; ad ogni modo gli piacque piuttosto
esporsi perpetuamente alla tentazione, che rimanere privo della sua amabile
tentatrice. La fiamma di amore, secondo la ragione del fuoco, divampò
più gloriosa quanto più compressa. La donna di compagna
diventò signora, e regina. Sedè giudice dei Tornei,
presiedè le sfide di poesia, e le Corti di Amore. Un nastro della donna
fu preferito a un capello di san Pietro([46]). Gl'illustri baroni di
guerra, dopo il piacere di scavalcare emuli famosi, e mandarli vinti a rendere
omaggio alla Dama dei loro pensieri, non n'ebbero altro più grato che
ricevere buoni colpi di lancia o di spada, per sentirsi medicare dalle mani
della donna diletta: questo pei laici. Se i chierici poi, impediti nei
legittimi connubii, cercassero mescolarsi in amore alla spartita empiendo le famiglie
di vergogna, e il mondo di scandalo, potrete domandarlo agli stessi scrittori
di cose ecclesiastiche([47]).
Le figlie della terra, che
furono una volta cagione di peccato per gli Angioli([48]), scalarono il cielo; e,
più felici dei Titani, se non balzarono di seggio il sommo Giove,
n'equilibrarono il culto. Maria fu salutata deipara, madre di Dio: a lei
si volsero i cuori di tutti, appellandola con dolcissimi nomi; i buoni
l'amarono per la sua bontà, i tristi per la sua misericordia: orgoglio
delle vergini, esempio delle madri; a lei si volgono i marinari pericolanti
invocandola stella del mare; a lei i cuori dolenti perchè consolatrice
degli afflitti; a lei i colpevoli perchè avvocata dei peccatori. Non
bastò sostenerla immacolata dopo il parto, ma la vollero immacolata da
macchia originale unica tra i viventi; e il mondo, malgrado la opposizione di
san Bernardo e dei Domenicani, volle credere così, e così sia([49]). Quante chiese occorrono
consacrate al Padre Eterno, e quante a Maria? Davvero ella non volse mai in
cuore pensieri, che non fossero tutti umiltà; pure è forza
confessare, che poche preci s'innalzano a Dio se non per mezzo della
consolatrice degli afflitti. Conoscete voi titolo di umana grandezza, che possa
paragonarsi a questo? Il Sommo Sacerdote, geloso degli affetti del sacerdote, e
tutto intento a impedire che si disperdessero in famiglia, mentre su questa
terra vitupera, perseguita e calpesta la donna, consente poi che sia venerata
regina dei cieli. Insano consiglio! In cielo e in terra la donna impera regina
del cuore degli uomini.
Altre volte, (io lo rammento
gemendo) agitato da cattive passioni, scrissi male parole contro le donne: me
ne confesso colpevole, e me ne pento; cancellatele via: si abbiano per non
iscritte; io le ritratto, e intendo farne, come ne faccio, ammenda onorevole. Se
ad emendare il fallo abbisognasse presentarsi con la croce in mano e la corda
al collo, mi chiamo parato a tutto; non mi tratterrebbe neppure replicare la
penitenza dello imperatore Enrico III, quando Gregorio VII, prima di togliergli
la scomunica, lo fece stare tre giorni a piedi nudi sopra la neve fuori dei
muri di Canosa, mentr'egli si tratteneva dentro davanti al fuoco a ragionare
con la Contessa Matilde. O secoli di oro pel Pontificato, deh! dove siete or
voi? - Io intanto, per non menomare la grazia vostra, che spero avere
recuperata intera, tacerò come il bene che ho detto delle donne non si
trovi mica in tutte; anzi talvolta neppure nella medesima donna sempre: anche
il cuore ha le sue tavole meteorologiche; ed ora fa sereno, ora nuvoloso, ed
ora piove a dirotta. Altri dica, non io, come quando le donne furono giudici
nelle Corti di Amore pronunziassero sentenze poco edificanti; a modo di esempio
quella di Ermengarda contessa di Narbona, la quale dichiara che il marito
divorziato può benissimo essere accolto Amante dalla sua moglie maritata
ad un altro; e quella di Eleonora di Guienna, che decide non poter durare amore
tra sposi, e doversi scegliere un secondo amante per provare la costanza del
primo. - Molto meno riferirò il celebre parallelo fra la donna e Diana;
con la sola differenza, in ultimo, che Diana porta la mezza luna sopra la
fronte, e la donna la fa portare. Queste, ed altre simili novelle vanno
cacciate via come tentazioni del demonio; la fede non ammette dubbio; e in
fatto di femmine, ora che mi sento vecchio, io mi son reso credente. Sembrami
tempo di tornare alla storia. E le amabili leggitrici mi perdonino la
digressione: io ho peccato per colpa loro.
Dal matrimonio di Luisa Vellia
con Giacomo Cènci nacquero a breve intervallo di tempo quattro figli, i
quali dalle carte di famiglia ricavo avere avuto nome Francesco, Felice,
Cristofano ed Angiolo. Vivevano nella via di san Lorenzo Panisperna dentro
casa, lontana certo dallo splendore che desiderava l'alto lignaggio di Giacomo;
pure una volta secondo i bisogni della famiglia con discreta convenienza
fornita: ma Francesco Cènci, passata che gli fu la paura incussagli da
papa Clemente VIII quando lo costrinse a somministrare al suo figlio 2000 scudi
annui di pensione, e conoscendo come (quantunque egli stesse su l'austero) bene
altra fosse la sua dalla mente di Sisto V, incominciò prima a
stentargliela, poi a ridurgliela, e infine non gli dava quasi più
niente; onde la famiglia vivevasi in angustia grande, stretta da ogni necessità.
Luisa comecchè molto
soffrisse, e meno per se (come di leggieri può credersi) che per la
famiglia, tuttavolta si aiutava come meglio le riusciva; mostrava ilare il
volto al marito, e lo confortava a starsi di buona voglia, chè le cose
si sarebbero mutate in bene. Dopo le nuvole apparisce il sole, ella gli diceva,
e ogni giorno passa il peggio; nè a un modo solo può durare; con
altri simili luoghi comuni che il labbro profferisce, e il cuore non crede:
imperciocchè, pur troppo! la fortuna ghermisca l'uomo a' capelli, e lo
strascini dentro la tomba, e non lo lasci se prima non lo abbia calcato bene
nella fossa, e calpestato la terra sopra che lo copre. Le tribolazioni della
animosa donna stavano tra Dio e lei: e sì che si sentiva scoppiare il
cuore quantunque volte contemplava il suo nobile consorte tanto non pure
dimesso, ma abietto di abbigliamenti; i figli quasi nudi, e talora affamati.
Alle frequenti scosse la sua anima però si era non poco mutata; un senso
di dubbio serpeggiava là dentro; soffocava non senza sforzo una voce di
rimprovero, che suo malgrado vi sorgeva di tanto in tanto a riprenderla della
sua troppa pazienza. Incominciava a pentirsi del sagrifizio sofferto: chi
l'avesse osservata sottilmente poteva comprenderlo di leggieri dal volto, e
dalla voce con la quale profferì le ultime parole.
Ma Giacomo, oppresso dalla
tristezza, non aveva comodo a instituire coteste osservazioni, e:
- Luisa mia, soggiungeva in
suono di mistero, bene altre... bene altre ne ha commesse costui... Senti...
accostati, affinchè i bambini non odano. -
- E siccome ella repugnando
non si accostava, Giacomo avvicinò la sua alla sedia della consorte.
- Tu hai da sapere, che la
madre mia fu onesta quanto bella... angiolo mio, come te... Però se
mantenne purissimo sempre alla fedeltà coniugale il suo cuore, tu
capisci ch'ella non potè impedire che altri s'innamorasse di lei. Il
signor Gasparo Lanci, nostro gentiluomo, ne concepì altissimo affetto; e
procedendo meno discretamente che a bene avvisato cavaliere non convenga, pubblicò
la sua passione stampando un funesto sonetto, che mi rammento benissimo, e
diceva così:
Posciachè amor per voi
mi accese il core
Forse
di troppo a me onrata fiamma,
Così
di fuoco ho la sinistra mamma,
Che
non ho refrigerio al fiero ardore.
Mi nutrisco di pianto, e di
dolore;
E
bench'io mi consumi dramma a dramma,
Mi
restaura il calor, che sol m'infiamma;
Così
mi ancide, e mi ravviva amore.
Virginia il guardo onde tanto
arso fui
Ei
tanto fisso nella mente siede,
Che
non posso pensar se non a lui.
Se da voi non impetro hormai
mercede
Cenere
mi farà, chè non di altrui
Si
può smorzar l'ardor che ogni altro eccede([50]).
Questo sonetto, che può
considerarsi come un crimenlese di poesia, forse fu assoluto dallo
amore, non da mia madre. Il giorno dopo, che il signor Gasparo glielo ebbe
mandato in dono impresso sopra mantino rosso, egli venne, secondo la usanza, a
visitarla, assente Francesco Cènci. La signora madre tostochè lo
vide si levò in piedi; e, fattagli reverenza, con voce alquanto alterata
prese a favellargli così: «Carissimo signor Gasparo; dopo la
pubblicità del suo sonetto, speravo che vossignoria comprendesse come
una gentildonna onorata non potesse riceverla più oltre; e poichè
il suo buon giudizio qui le ha fatto fallo, non posso risparmiarmi
d'insegnarglielo di mia propria bocca». Poi, mossa a pietà del pallore
del gentiluomo, con suono più dolce aggiungeva: «Che sia benedetto,
signor Gasparo; ma perchè vossignoria offre a me uno amore che, sposa
altrui, non potrei partecipare senza colpa; mentre presentato ad una fanciulla
da par suo sarebbe prezioso, e la colmerebbe di giubbilo? Giri, di grazia,
l'occhio intorno, e veda come Roma sia copiosa di fanciulle per bellezze e per
costumi rarissime; dirizzi a qualcheduna fra loro le sue fiamme pregiate, e
viva pure tranquillo che saranno accolte, come meritano, più che
volentieri».
Il signor Lanci interdetto si
sprofondava in inchini; la voce gli negava l'ufficio consueto, ma le lacrime
gli sgorgavano dagli occhi. Però, siccome amore si pasce di sospiri, di
pianto e di speranza, non per questo smetteva il costume di farsi vedere sotto
il palazzo, pago di contemplare almeno la dimora della donna amata. Certo
giorno, poco innanzi l'alba, udii sotto le finestre di camera mia parecchie
voci, che gridavano: «Misericordia, Gesù!» Scesi subito per la via con
la spada in una mano ed un torchietto nell'altra, e vidi presso l'arco di casa
il corpo del signor Gasparo trapassato da un coltello che dalla spalla destra
gli riusciva sotto la mamma sinistra, dove aveva cantato di sentirsi il fuoco.
Ma questo è nulla. Mia madre, già logora dai sofferti dolori,
diventò più trista pel caso avvenuto al signor Gasparo buona
anima; parendole, come pur troppo era chiaro, che per cagione sua egli avesse
incontrata la mala morte. Già anche prima di cotesta strage poco ella
usciva di casa; adesso poi non si lasciò più veder fuori, vivendo
ritiratissima tutta chiusa nelle sue afflizioni. Così travagliata da
nuovi e vecchi dispiaceri decadde per modo, che a quanti conversarono con esso
lei parve che ormai pochi giorni le rimanessero a dimorare sopra la terra:
inoltre la voce della sua prossima morte veniva sparsa a sommo studio da
Francesco Cènci, novellamente accesosi, piuttostochè d'amore, di
furore per la Lucrezia Petroni nostra matrigna. Certo dì, quando
reputò il tempo opportuno, Francesco Cènci, colto il destro che
mia madre, seduta a mensa al suo fianco, volse il capo per chiamare uno
staffiere, egli, pronto come la lingua dell'aspide, gittò una presa di
polvere nel suo bicchiere. La madre bevve; e, provato un gusto amaro, ne
rimproverò il credenziere. Il Conte premuroso si fece recar la boccia,
saggiò il vino con accuratezza, e accertò parergli lo squisito
alicante che sempre aveva trovato. Io già era per aprir bocca e dire
della polvere, quando il Conte, troncatami la voce in gola con una occhiata
tagliente, così prese a favellare soave: «Signora Virginia, non ve ne
fate caso; allorchè ci sentiamo male disposti, la prima cosa che ci
venga a fastidio è sempre il vino.» Quindi, senz'altro aggiungere, si
levò da tavola. Tre giorni dopo alla medesima ora mia madre, che Dio
abbia in pace, moriva; e senza imbalsamarla, per motivo della subita
corruzione, ben chiusa dentro tre casse la trasportavano in fretta a lontana
sepoltura.
Luisa aveva ascoltato questo
racconto con viso arcigno, e a modo d'incredula. Finito ch'egli ebbe,
così alla trista riprese:
- Io non vo' dire, che il
Conte sia un santo. Dio me ne guardi! Ma questo perpetuo vituperare che voi
fate vostro padre, non vi ha recato altro che danno...
- E come lo vitupero io?
- E' non fu per simili
obbrobrii che Sua Santità, tenendovi figlio senza cuore e desideroso
della morte del padre, vi dimise dal suo cospetto sconsolato?
- La buona fortuna di cotesto
demonio è pari alla sua perversità.
- Vergogna!... Rammentate che
discorrete di vostro padre, e i vostri figliuoli vi potrebbero sentire.
- E se sentissero, che mal
sarebbe? È bene, anzi, che sappiano quanto lo avo loro sia diverso dal
padre.
- Voi? - Ah! se fosse vero
quanto raccontate del Conte, voi avreste comune con lui l'odio dei figli...
- L'odio dei miei figli!
Luisa, sei folle stasera? - E Giacomo sollevò la testa come trasognato...
- Sì, sì -
gittate finalmente l'argine prorompeva Luisa con traboccante passione - l'odio
del vostro sangue: ecco le vostre creature che hanno fame, e voi non le sapete
cibare di pane; eccole ignude, e voi non procacciate vestirle: di me non parlo.
La casa, che già vi fu cara, adesso v'incresce; rado venite, torbido
state, presto partite, e non vi prende pensiero alcuno di noi, che fra le
angosce vi aspettammo intere notti invano...
- Luisa! l'anima, che potrebbe
forse sostenere le vostre strida, non regge allo spettacolo del muto dolore
della mia famiglia: - io non posso sopportare la vista di tanta miseria. Sposa
mia, vuoi attribuirmi a colpa la soverchia tenerezza?
- Dite, Giacomo, la vostra
lontananza profitta meglio ai figliuoli? Quando non vi veggono, piangono essi
meno? La vostra assenza gli alimenta, li cuopre, li consola? Perchè
lasciar me, povera donna, desolata, senza consiglio e senza soccorso? Non ci
siamo congiunti per sollevarci scambievolmente? Perchè dunque voi fate
portare la croce a me sola?
- Luisa hai ragione; ma non
troverà perdono presso di te la mia tenerezza, e, se vuoi ancora, la mia
pusillanimità?
- Uomo finto, e crudele... la
tua tenerezza!... la tua pusillanimità! E dove consumi la pensione di
tuo padre?
- Ch'è questa furia?
Non ti diss'io le mille volte, ch'ei me l'ha cessata, ed ora mi getta tre
scudi, ora quattro come la elemosina al mendico importuno?
- Sì, eh!... la
pensione ti ha tolta? Ti getta la elemosina di tre scudi o quattro! E le tue
cortigiane, di', con che le mantieni? E i tuoi bastardi con che cosa gli
nudrisci?
- Luisa tu deliri...
- Oh! di me nulla m'importa,
vedi, perchè io tornerò a casa dei miei parenti; e quantunque
abbiano provato la fortuna contraria, pure so che mi accoglieranno di cuore; e
poi a me non duole guadagnarmi, lavorando, da sostentare la vita. Non ti
rimprovero la mia bellezza sfiorata, la mia gioventù logora teco: -
certo esco da casa tua troppo diversa da quello che io vi entrai... ma che
importa? Siamo fiori, noi altre donne, troncati per gusto passeggiero; odorati,
e gittati via. Io non ti auguro male, me ne guardi Dio!; che lo augurerei al
padre dei miei figli...
- Luisa mia... deh! che nuova
passione ella è questa? Ma parlami pacata... ascoltami...
Inutile; - tanto era possibile
impedire con le mani che il Tevere straripasse quando è pieno, che
reprimere cotesta fiumana di passione...
- Va in braccio di altra donna...
va... tanto non troverai creatura che ti ami quanto ti ho amato io... Ma queste
sono parole di donna, e tu non le hai a badare... attendi, ti scongiuro, a
quelle altre, che sono di madre: Ti prenda pietà di questi sciagurati
fanciulli...guardali in volto... guardami in volto,... e il cuore ti
dirà che sono tuoi figli... sangue del tuo sangue... amali almeno quanto
i figli che avrai avuto da altra donna: non li condannare a morire di fame. Il
bimbo Angiolino, finchè ho potuto ho nudrito col mio latte... adesso,
vedi, incomincia a mancarmi... O Vergine del pianto benedetta! Anche il latte
mi si è inaridito nel seno... misericordia di una misera madre...
Giacomo girava gli occhi
stralunati dintorno, e con quel suo profondo sbigottimento, anzichè
dissipare, confermava i sospetti della moglie. Alla fine, come avvilito
esclamò:
- Ah! chi mi avvelena il cuore
della mia donna? chi divide la carne dalla mia carne? Quello che unì il
volere di Dio discioglie la malignità di Francesco Cènci.
Francesco Cènci, io ti sento qui dentro! Il tuo alito m'investe sottile,
irreparabile, e mortale come il contagio... Luisa di', chi fu colui che mi
calunniò al tuo cuore? -
- Calunnie! Quanti sono i
colpevoli che si battono il petto dicendo: peccavi? E la collana
comprata alla tua druda è calunnia? Calunnia ancora il guarnello di
broccato d'argento al tuo bastardo? La casa rifabbricata al marito compiacente
è ella calunnia?
- Se la passione non mi
stringesse il cuore, in verità di Dio le tue parole mi farebbero ridere.
- Basta via, Luisa; sono menzogne coteste...
- Menzogne, dici? Or via,
leggi.
E trattasi un foglio dal seno,
glielo gettò sopra la tavola. Giacomo lo spiegò, e lo lesse. Era
una lettera anonima scritta di pessimo carattere in istile plebeo, con la quale
si dava contezza a Luisa della infedeltà di suo marito con la moglie del
falegname di Ripetta, e del gran profondere di moneta ch'ei faceva con cotesta
femmina, acciecato nello amore di lei: la informava ancora averle il signor
Cènci rifabbricato la casa, e provveduto il marito di danaro pei suoi
interessi; non taceva dei gioielli preziosi e delle vesti sfoggiate donate alla
donna; e di più ancora, e questa era stata la trafitta maggiore per
l'anima della povera madre, da questo illecito commercio essere nato un figliuolo
bellissimo, a cui Giacomo voleva il più gran bene del mondo. Sul dono
del guarnello di broccato d'argento trattenevasi con maligna compiacenza. -
Giacomo rese con atto languido
e lento il foglio alla consorte, e scuotendo mestamente la testa disse:
- E come mai Luisa, consorte
mia, con quel buon giudizio che ti trovi, hai potuto prestar fede a così
infame e stupido scritto?
- Perchè è vero
- rispose la donna petulante con singhiozzo convulso.
- Luisa, e vorrai tu credere
piuttosto al calunniatore a cui manca perfino il coraggio di manifestare il suo
nome, - che può avere, ed ha certo mille fini ingiustissimi operando
così proditoriamente; come alienarmi il tuo cuore, turbarmi la pace
domestica, rapirmi l'unico bene che mi resta, l'amor tuo, - e non a me.....che
ti amo come la pupilla degli occhi miei, che ti onoro come madre dei miei
figli... e che questo ti affermo, e ti giuro su l'anima mia?
- Io credo più al
foglio che a te, perchè il foglio dice la verità, e tu sei un
bugiardo.
- Luisa, in miglior punto io
vi ricordo lo insegnamento che presumeste testè darmi: avvertite che i
vostri figliuoli non già possono ascoltarvi, bensì vi ascoltano,
e che io sono il loro padre.
- Io te lo dico a posta in
loro presenza affinchè imparino a conoscerti per tempo.
- Silenzio! - Donna -
silenzio! Quanto andate fantasticando è falso; io ve lo giuro su la fede
di gentiluomo onorato, e basta.
- Davvero, voi siete un
gentiluomo senza macchia; vi avanza ad essere senza paura per rassomigliare al
Cavaliere Bajardo! E quando a me e alla mia famiglia voi deste ad intendere
come il consenso di vostro padre concorresse alle nostre nozze, non giuraste
del pari su la fede di gentiluomo onorato?
Giacomo arrossì fino
alla radice dei capelli, poi ridivenne pallido; all'ultimo disse con parole di
amarezza:
- Veramente, colei per amore
della quale commisi un fallo... non dovrebbe così severa
rimproverarmelo;... allora la passione per voi mi tolse il senno...
- E adesso, che cosa vi toglie
essa? - Insisteva sempre e più sempre la donna, improvvida a frenare
l'animo acceso. - Giacomo inasprito duramente ordinava:
- Tacete...
- E se io non volessi
tacere?...
- Troverei modo a chiudervi la
bocca - io - .
- Tu troverai... oh! tu hai
già trovato questo... Quando poniamo i nostri capi sul medesimo
guanciale, chi sa quante volte hai pensato di farvi scomparire il mio!...
- Luisa! -
- Ora la serpe ha cacciato
fuori il suo veleno. Uomo crudele! Non ti basta la vittima? Tu vuoi ch'essa
taccia; non mandi un sospiro, che turbi la voluttà che senti della sua
morte. Abbi almeno la cortesia degli antichi sagrificatori... incorona la tua
vittima di fiori, e cuoprila di porpora...
- Ma taci una volta, per amore
del tuo Dio...
- No... non voglio tacere
io... no; io voglio parlare... voglio accusarti della tua empietà agli
uomini e a Dio - traditore - mentitore... marrano.
Lo sdegno fece ribollire la
passione nel petto di Giacomo già inacerbito dalla sventura così,
che, come acqua per soverchio calore ribocca impetuosa dagli orli del vaso,
egli proruppe cieco e tremendo. Cacciò la mano convulsa sotto il
farsetto; ma, come piacque alla fortuna, aveva perduto il pugnale: aggirandosi
per la stanza frenetico gli capitò uno di quei stocchi lunghissimi,
taglienti da quattro lati, che si chiamavano verduchi([51]),
e impugnatolo si gittò cieco di furore contro la moglie.
Luisa presi in fretta i figli,
si pose intorno i maggiori; il pargolo si recò al collo, e, caduta in
ginocchio dinanzi al marito che le veniva incontro, senza battere palpebra
disse:
- Nudriscilo del mio sangue,
dopo che il latte mi è venuto meno... carnefice! -
Giacomo stette; come persona
percossa sul capo traballò, gittò via lo stocco, e tese smanioso
le braccia alla moglie; la quale volgendo altrove il volto esclamò:
- No... mai...
Allora Giacomo ricorse ai
figli tutto smarrito, e con senso di tenerezza ineffabile scongiurava:
- Deh! figli miei, persuadete
voi vostra madre che s'inganna; ditele che l'ho amata sempre, e l'amo. Voi
almeno corrispondete al mio amplesso - venite al mio seno... consolatemi voi...
che il mio cuore è inebriato d'infinita amarezza.
- No - tu hai fatto piangere
mamma.
- Volevi tirare a mamma -
va...
- Noi non ti vogliamo
più bene, cattivo...
- Va via: - va via...
gridarono a coro i tre fanciulli.
- Va via? Sta bene. I miei
figli mi scacciano dal seno loro... mi bandiscono dalla mia casa -
andrò. - Ma tu almeno, - soggiunse Giacomo volgendosi al fantolino che
Luisa aveva riposto nella culla, - innocente creatura, che gli uomini non hanno
ancora potuto avvelenare... tu che sentirai vergine il grido della natura,
ricevi il mio amplesso, e tienlo come la unica eredità che possa
lasciarti il tuo padre infelice.
Il bimbo, spaventato dal
sembiante sconvolto e dagli atti concitati di lui, sollevò ambedue le
manine facendosene schermo al viso, e mandando fuori strilli di paura. Giacomo
si fermò - lo contemplò - piegò le braccia in croce sul
petto, e con accento concentrato profferì queste parole:
- Ecco; il padre mi perseguita
a morte - la moglie mi rinnega - i figli, mi scacciano - la stessa natura
rovescia le sue leggi per me, e il fantolino mi abborrisce come cosa, che lo
istinto gli addita malefica. A questi fati non dovrebbe mai condursi l'uomo...
ed io soffersi valicarne il termine estremo! A modo di tronco in mezzo alla
via, io mi attraverso alla vita dei miei, ingombro odiato e insidioso. - A che
più stai, anima sconsolata? Ora la tua partita giova a me e ai figli
miei: - un giorno gli educai sotto le mie fronde, adesso la mia ombra toglie
loro il sole:... velenose sono le rugiade, che cascano da me: - andiamo; - devo
benedirli, o no? Vorrei... e non ardisco... No... chè le mie parole
potrebbero, prima di scendere sul capo loro, convenirsi in maladizione. - Vita
acerba, morte miserabile, memoria aborrita. - Tu, Dio, queste cose vedi? Le
vedi, e le consenti? - Tu hai rotto la canna inclinata... ed io mi chiamo
vinto... oh! oh!
E così mormorando, con
la morte nell'anima e le mani nei capelli, traendo dolorosi guai abbandona la
casa. Chiunque lo avesse visto, e gli fosse pure stato nemico, avrebbe detto: «il
Signore abbia misericordia di questo sciagurato!»
La moglie, sebbene la procella
continuasse a scompigliare il suo spirito, sentiva levarsi in cuore un'aura
mite foriera di pianto appassionato, mercè la spontaneità dello
amore mostratole dai suoi cari figliuoli; e se per questo le venissero mille
volte più cari non è da dire.
Vive nei genitori, io non
dirò senza accorgersene, ma senza che lo confessino a se stessi, una
emulazione nello affetto dei figli, la quale suole procedere ordinariamente
così. Alle madri riesce farsi amare in preferenza del padre dalle
femmine, ed anche dai maschi fino a tanto che si sentono deboli ed infermi; ma
quando la vita rifiorisce in loro vigorosa, vaghi dei campi aperti o del
fragore delle città, dalle madri mano a mano si scostano, e si
avvicinano al padre. Ora i figli di Giacomo si trovavano nella età in
che il bisogno gl'inclina meglio alle carezze, ed agli aiuti materni: quindi
natural cosa era, che tutti per la madre parteggiassero.
Luisa non avvertì la
partenza del marito, o, se pure l'aveva avvertita, poco le calse; sazia, per
così dire, di amore filiale. I baci ardenti e le focose carezze che in
quel punto riceveva, e più partecipava, le fecero obliare che il vincolo
più forte di famiglia giaceva infranto. Ahimè! Quanto le
costerà amaro il mal momento in cui ella, incauta, commise la sua anima
in balìa di cieca passione!
CAPITOLO IX.
IL SUOCERO.
............il
maligno
Che in lei
strada sì larga aprir si vede,
Tacito in sen
le serpe, ed al governo
Dei suoi pensieri
lusingando siede:
E qui
più sempre l'ira, e l'odio interno
Inacerbisce......
Tasso, Gerusalemme Liberata.
- Io mi vo' chiarire da me
stessa, esclamò Luisa con gesto risoluto. Poi si acconciava alla meglio
le vesti dimesse: trasse fuori della cassa una mantiglia di seta nera per
avvilupparvisi dentro; e, raccomandati i fanciulli alla unica fantesca che
teneva in casa, ammonendola più e più volte che non li perdesse
di vista, se ne andò difilato al palazzo del suocero.
Giunta nell'anticamera
notò come gli staffieri la sbirciassero sott'occhio, reputandola femmina
di piccolo affare; e forse già stavano per straziarla con motteggi
plebei, quando la gentildonna troncò a mezzo cotesti sguardi, e favellii
villani; imperciocchè andando loro incontro, con signorile atteggiamento
comandasse:
- Avvertite il Conte don
Francesco, che donna Luisa Cènci sua nuora si è recata al suo
palazzo per visitarlo... e che adesso sta aspettando in anticamera...
Ora sì che parve ai
servi essere usciti dalla padella e saltati su la brace. Non sapevano se
dovessero annunziarla, o no: l'un partito e l'altro pieno di pericolo. Tanto
era arabico il carattere del padrone, che, se non la indovinavano, il meno che
potesse andarne loro stava nel perdere il pane.
Il pane! Ago magnetico,
che conduce più bestialmente delle stesse bestie l'armento dei figli di
Adamo.
Il pane! Nutrimento
quotidiano, che gli uomini o più infelici o più bassi dei bruti,
troppo spesso non sanno procacciarsi senza delitto, o senza viltà.
Il pane! Sasso, che la
necessità lega al collo ad ogni nobile sentimento per affogarlo nello
inferno del male. - Certo fu grande la sapienza, che insinuò nella
preghiera domenicale la domanda a Dio di somministrarci il nostro pane
quotidiano; ma poichè la troviamo sovente inesaudita, gioverebbe
grandemente aggiungervi queste altre parole: e se non puoi, o non vuoi darmi
pane, dammi almeno la costanza per morire di fame senza viltà.
Intanto l'uomo non vuol morire
di fame, e stende la viltà sul pane come burro; nè pare che gli
turbi lo appetito, o gli guasti la digestione.
I servi più vecchi,
ormai per tre quarti diventati carne di volpe, si restrinsero insieme per
avvisare il da farsi, e fu il consiglio corto; imperciocchè uno di loro,
ch'era stato cantiniere al Convento del Gesù in Roma, ammiccando degli
occhi certo giovane staffiere preso da pochi giorni agli stipendii del Conte,
di natura vanitoso anzichè no, profferisse la sentenza: «loda il folle,
e fallo correre». A questo fine gli dissero:
- Ciriaco... da bello... tocca
a voi: - vi lasciamo il campo di affiatarvi col padrone; - e poi voi siete
giovane, e garbato - noi siamo vecchi, e dei modi che costumano oggi con le
Signore non sappiamo niente... sicchè la presentazione della gentildonna
vi spetta proprio de jure.
I vecchi servi tesero la
insidia per malignanza, il giovane v'incappò dentro per vanità; -
forse col concetto segreto di supplantarli un giorno nel favore del padrone. Tristi
tutti, come per ordinario avviene della famiglia dei servi guidata sempre dallo
iniquo istinto del pane.
- Eccellenza, inchinata la
persona come il primo quarto di luna, parlò Ciriaco pervenuto al
cospetto del Conte; - sta qui fuori certa gentildonna, la quale si annunzia per
nuora della Eccellenza vostra, e desidera udienza.
- Chi, dite voi? -
Gridò il Conte dando un
balzo sopra la sedia. Egli procedeva verso i servi con sembianze sempre severe:
oggi poi comparivano paurose; molto più che teneva il volto avviluppato
dentro fasce di tela, e nella guancia tumefatta sentisse acerbissimo il dolore
della scottatura.
- La nuora di vostra
Eccellenza...
Il Conte squadrava il servo
con occhi così truci, ch'egli sentì venirsi addosso il freddo
della quartana: pure, sostenuto dalla virtù del pane, e vie
più curvandosi verso terra, soggiungeva Ciriaco:
- Quantunque non mi sia
sfuggito d'occhio che la sua gente, per cento motivi uno più plausibile
dell'altro, non va a genio di vostra Eccellenza...
- Voi avete osservato questo?
- Questo ed altro,
perchè egli è proprio il mio gusto non lasciare nulla inosservato
nelle voglie dei miei padroni per antivenire i desiderii loro; ciò
nonostante mi parve villania rimandarla, attesa la riverenza della clarissima
casa di cui la gentildonna afferma portare lo illustrissimo nome.
Don Francesco sorrise un tal
suo riso di sdegno considerando come quel gaglioffo, a prova di lusinghe,
s'ingegnasse insinuarglisi nel cuore; e poichè quegli ebbe posto fine al
parlare, egli tenendogli gli occhi fitti nel volto così prese a dire:
- E qual cosa vi ha dato
motivo di supporre che i parenti miei, ed in ispecial modo donna Luisa mia
signora nuora, potessero riuscirmi molesti? Voi spiate gli andamenti dei vostri
padroni, ed è gran male; voi interpretate alla rovescia le loro
intenzioni, e questo è peggio. Andate dal mio maestro di casa; fatevi
pagare l'annata intera, e spogliate la mia livrea; - stasera non avete a
dormire in palazzo([52]).
Il servo rimase come colui,
che cercando sotto un albero rifugio dalla pioggia, sente cascarsi sul capo un
ramo rotto dal fulmine; volle prostrarsi, s'ingegnò parlare, e
così con voce e con cenni domandare mercede; se non che il Conte, mal
sofferendo che il servo si trattenesse dopo il suo comando, con suono al quale
era impossibile resistere aggiunse:
- Uscite...
- Ah! clarissima ed
illustrissima donna Luisa, - diceva il servo con parole ardenti - vede... per
aver fatto entrare vostra signoria tocca adesso uscire a me. Lascio considerare
a lei se sia giusta. Io mi trovo proprio per le strade: - non dirò per
colpa sua, Dio me ne guardi!; ma finalmente per renderle servizio mi capita
addosso questo male: - veda un po' di ripararlo: mi raccomando a lei, gliene va
di coscienza...
L'anima del servo, mezzo
supplicando e mezzo rinfacciando, stretta dalla agonia del pane, si
attaccava a donna Luisa (disprezzata poco anzi) come ultima àncora di
speranza.
Luisa per vero dire
sentì stringersi al cuore pel duro caso, e più per quel meschino;
e stette in forse se dovesse andare oltre, o ritornarsene a casa; come quella a
cui pareva avere avuto schiarimento abbastanza, ed essercene di avanzo:
tuttavolta prevalse in lei il consiglio peggiore, ed entrò.
I vecchi servi furono attorno
al compagno disgraziato, e sottilmente deridendolo gli medicavano la ferita con
l'olio di vetriolo.
Luisa, con atto nè
umile nè superbo, si fece accosto al banco dove il suocero l'aspettava
in piedi; e poichè, ella per onorarlo come padre, voleva prostrarglisi
davanti, egli non lo permise; ma rilevandola prontamente, con voce benigna
favellò:
- No, figlia mia, io non ho le
orecchie nei piedi. Non sia per rimprovero; ma la creatura umana non deve
prostrarsi ad altri, che a Dio.
- Signor padre, poichè
voi così benigno mi concedete il diritto di adoperare questo nome,
permettete che innanzi tratto vi domandi perdono di non essermi mai presentata
al vostro cospetto. Mi avevano assicurato che voi mi avreste bandita da casa
vostra... questa onta, voi intendete, è insopportabile per una
gentildonna romana...
- Certo, farvi moglie del mio
figliuolo primogenito sul quale aveva riposto ogni mia tenerezza come ogni mio
orgoglio, - senza pure impetrare il mio consenso, - anzi senza domandarmi la
benedizione paterna: - ma che parlo di benedizione e di consenso? senza pur
farmene un semplice motto, - parmi tale oblìo di ogni autorità, -
tale un disprezzo di qualunque reverenza, che il cuore di un padre non
può astenersi di gemerne profondamente. In quanto poi al cacciarvi dalla
mia presenza, perdonate, - ma la mia nuora, come colei che sente essere
gentildonna romana, dovrebbe sapere, che un barone romano non può mai
mancare di cortesia verso una donna, anche quando potesse riuscirgli per
avventura molesta...
E siccome Luisa, punta dalla
sottile allusione al suo umile lignaggio, stava per rispondere con vivezza,
l'astuto vecchio, che bene se ne accorse dal colore vermiglio che le si diffuse
su per le guance, si affrettava soggiungere con voce soavissima:
- Molto più che avendo
voi sortito onesti natali, e predicandovi la fama valorosa donna, io non avrei
trovato ragionevole causa per oppormi a queste nozze. Neppure avrebbero fatto
ostacolo le mediocri sostanze della vostra famiglia sia perchè la mia
casa non ne abbisogni, sia perchè la fortuna faccia delle ricchezze come
il mare delle acque, che ne cuopre e ne discuopre i lidi senza posa; e a me
talentò sempre piuttosto virtù senza danaro, che dovizie con
superbia, con malignità, o con istolidezza...
- Don Francesco, duolmi per
iscolpare me dovere appuntare altrui; ma importa che sappiate come Giacomo,
vinto dalla sua passione, m'ingannasse affermandomi, sotto parola di gentiluomo
onorato, voi sciente e consenziente le nostre nozze: solo per certi particolari
riguardi desiderare, che i nostri sponsali rimanessero per alcun tempo
celati...
- Ed ecco come -
esclamò il Conte percuotendo di forza con un piede il pavimento - il
disprezzo del primo dovere di gentiluomo, ch'è la lealtà, conduce
sempre in miserabili rovine. Voi pertanto foste ingannata; io tradito. Forse
potrei riprendervi di soverchia facilità a credere; - forse potrei
chiamare incauti i vostri parenti, e voi; - ma, in qualunque caso, qual colpa
mai avrebbero i vostri figliuoli?
- Ed è appunto per
questi, che pure sono sangue vostro, e devono continuare la vostra
discendenza...
- E ne avete?...
- Quattro, e leggiadrissimi
tutti - angioli d'innocenza e di beltà - rispose vivacemente Luisa
mentre le pupille le sfolgoravano traverso due grosse lacrime, figlie
dell'orgoglio materno...
- Com'è feconda la
razza delle vipere! - pensò nel suo segreto il Conte Cènci; - poi
con labbra sorridenti riprese:
- Dio ve gli salvi...
- Padre mio le vostre parole
mi ridonano gli spiriti. Ascoltatemi dunque, perocchè io sia venuta
appunto per favellarvi dei vostri nepoti. Voi vedete in me una madre desolata,
una vera madre del Pianto. Di me non parlo. Non badate a questo abbigliamento
vilissimo, per cui divenni favola poco anzi dei vostri medesimi
staffieri.....ma sappiate che i figliuoli miei, i nepoti vostri, non hanno
vesti che bastino a cuoprire la loro nudità; - mancano spesso di pane
per saziare la fame. -
E le lacrime d'orgoglio, che
versava poco anzi liete e rare, si convertirono nella povera madre in pianto
dirotto, e pieno di dolore.
- Come può essere
questo? Certo io non vorrò negare di essermi mostrato sempre a Giacomo
piuttosto scarso, che no; però che la esperienza mi avesse ammaestrato,
com'egli crescesse nei costumi poco lodevoli in proporzione della
facoltà ch'ei possedeva per alimentarli. La botte delle Danaidi fu
favola, ma la prodigalità di mio figlio è vizio pur troppo
irreparabile. A me repugnò sempre contribuire a renderlo peggiore di
quello ch'ei sia. Mi ha ognora trattenuto dal mostrarmi largo soverchiamente
con lui una sorte di rimorso, e il timore di doverne rendere un giorno conto a
Dio. Se i nostri antenati non avessero fondato i fidecommissi, ed io non
attendessi a imitarli in questa lodevolissima pratica, ma sapete mia cara
Signora, e spettabile nuora mia, che io andrei pensoso - ma pensoso davvero
intorno alla sorte dei vostri figli, e miei nepoti? - Nonostante ciò, mi
sembra che con duemila ducati annui si possa provvedere alle necessità,
ed anche alle comodità della vostra famiglia.
- Ma Giacomo afferma che voi
gliela trattenete, e che gli gettate pochi scudi, così di tanto in
tanto, piuttosto in segno di oltraggio, che in sollievo della sua miseria...
- Egli lo afferma? E forse
anche lo giura con la stessa parola di gentiluomo onorato con la quale vi
accertava me sciente, e consenziente del vostro matrimonio? - Io non vi giuro,
perchè mi è stato insegnato che il parlare del Cristiano ha da
essere: sì, sì; no, no...Ma ecco, chiaritevi di per voi stessa
sopra i libri di casa (e preso un libro di ricordi lo aperse, glielo pose
sott'occhio segnandole col dito diverse partite, che la nuora si astenne di
leggere) se gli sia stata pagata, o no, la pensione pattuita. Poichè
questo sciagurato riduce il suo genitore alla umiliazione di giustificarsi, le
pietre stesse insorgeranno per fare testimonianza contro di lui. - Calunnia - e
sempre calunnia ingiustissima; eppure non è la più trista delle
colpe, che deva rimproverare a Giacomo il mio cuore paterno! Ma i miei dolori
devono rimanere sepolti qua dentro. Ahimè! Francesco Cènci,
quanto sei misero padre, ed infelice vecchio...Ahimè! - E si cuopriva
con ambedue le mani la faccia.
Luisa alla venerabile
sembianza, allo accento di uno affanno così profondo si sentiva
commossa. Il perverso, sempre con voce di lamento, proseguiva dicendo:
- Potessi almeno trovare un
cuore col quale sfogare la immensa amarezza dell'anima mia!...
- Padre mio! - Signor
Conte...ed io pure sono madre e sposa infelicissima, - sfogatevi...noi
piangeremo segretamente insieme...
- Egregia donna! Mia buona
figliuola! No - no - la religione della moglie consiste nello stare attaccata
come osso a osso all'uomo, che scelse a suo compagno nella vita: - però
io devo astenermi dalle parole, e forse ne ho favellate troppe, chè
potrebbero farvelo amare meno... O Giacomo! quanta notte di angoscia tu versi
sopra gli estremi anni del tuo povero padre! Ecco mi è ignota la faccia
dei miei nepoti - gentile orgoglio degli avi. - Noi potremmo vivere tutti sotto
il medesimo tetto, uniti nella benedizione di Dio! Questo palazzo è
troppo vasto per me; io lo percorro solitario, e assiderato; io, che dovrei
specchiare le mie sembianze rinnuovate nelle sembianze dei miei nepoti - io,
che dovrei riscaldarmi nelle loro carezze; tra i cuori nostri, che anelerebbero
accostarsi, e le nostre persone sorge un muro di bronzo; e tu, sciagurato
Giacomo, ne sei stato l'artefice!
Luisa, considerando la
sembianza del vecchio tinta nella cenere dell'odio, temè avere aggravata
soverchiamente la sorte del marito. Onde cauta si ritrasse domandando pacata:
- E tanto vi offendono, Padre
mio, le colpe del vostro figlio, che la speranza di un meritato perdono non
possa scendere mai dentro il vostro cuore paterno?
- Io lascio giudicarlo a voi.
Vi rammenterò cosa, la quale per essere conosciuta universalmente mi
dispensa da rinnuovarne l'acerbo racconto. E chi fu quegli che condusse Olimpia
a dettare lo scellerato memoriale al Papa, per cui mi svelsero dalle braccia
cotesta figlia traviata con tanta ferita al mio cuore, e danno della mia
reputazione? - Giacomo. - Chi procurò che cotesto libello infamatorio
pervenisse nelle mani di Sua Santità? - Giacomo. - Chi fu che, prosteso
ai piedi del Vicario di Cristo, lo scongiurò con sospiri e con lacrime
della mia morte? - Chi? - Un nemico, forse? L'erede di uno, a cui io avessi
dato la morte? - No - Giacomo - l'uomo, che mi deve la vita...
- O Padre mio, deh! via,
placatevi: forse vi riportarono di Giacomo più, e peggio di quello ch'ei
dicesse o facesse. Il vostro antico senno conosce l'usanza pessima dei servi di
mettere male del caduto in disgrazia presso il padrone, ingegnandosi di
venirgli in grado coll'aggiungere legna al fuoco. - E se anche i falli del
vostro figliuolo fossero gravi come voi dite, risovvengavi ch'egli è
vostro sangue; - risovvengavi che il nostro Signore Gesù Cristo
perdonò a coloro che lo avevano crocifisso, perchè non sapevano
quello che facevano...
- Ma Giacomo sa troppo bene
quello che si faccia. Ogni giorno egli cresce nella sua empietà: - ogni
ora egli si affatica a togliermi la fama, e questo avanzo infelice di vita ...
- Ferocemente impaziente il figliuolo meraviglia della lentezza della mia
morte, a cui crebbe le ali con tanti desiderii. - Senti, figlia mia; e se lo
impeto gitta l'argine e trabocca, tu vogli perdonarmelo. Però questi
orrori, io ti raccomando stieno fra Dio, me e te: soprattutto i miei nepoti
gl'ignorino sempre, onde non imparino ad aborrire il padre loro. - Ora sono
pochi giorni egli venne qui a pervertirmi Beatrice e Bernardino, persuadendoli
perfidamente avere io procurato la morte di Virgilio; come se cotesto infelice
fanciullo, per somma sventura sua e di me, non fosse colto dal male insanabile
del tisico. Nè questo è tutto: giù nella Chiesa di san
Tommaso, eretta dalla pietà dei nostri avi, e da me restaurata, mentre
si celebravano esequie solenni all'anima del defunto figliuolo, convertita la
bara in cattedra di abominazione, senza rispetto alla santità del luogo,
ai sacri altari, alla religione del rito, al Dio presente, congiurava con gli
altri traviati figliuoli e la consorte - la morte mia... - Tu fremi, buona
Luisa? - Sospendi il tuo orrore, chè avrai a fremere di bene altre cose
poi. Quando io, misero padre! mi faccio a piangere sul cadavere dell'angelica
creatura, avanti tempo chiamata a vita migliore, io non so quale o nuova
insania, o inaudita rabbia gli strascinasse... ecco mi rovesciano addosso il
morticino... mi percuotono... mi feriscono... Guarda, figlia, di per te stessa,
esamina... io porto impressi nel volto i segni del sacrilego attentato...
Qui si fermò come
rifinito dall'atroce memoria; quindi, in suono di pianto, riprese a favellare:
- D'ora in avanti, quando mi
verranno incontro i miei figliuoli... Giacomo sopra tutti... sai tu, che cosa
mi toccherà a fare? Tentare se mi abbiano bene affibbiato il giaco...
frugare se mi sia dimenticato il pugnale. Tra lui e me porre un cane fedele,
che dal suo furore mi preservi la vita... Sì, un cane; poichè il
mio sangue mi procede siffattamente nemico. Sfiduciato della razza umana, bene
è forza che io cerchi la mia difesa fra le bestie: - anzi questo cane io
aveva, e fedelissimo a prova... ed essi me lo hanno ammazzato di un colpo di
spada nel cuore... truce presagio di ciò che riserbano al padre loro. -
Già da qualche tempo m'invade un pensiero... che, nato sul mio doloroso
guanciale, ha preso a impadronirsi di me come idea fissa... ed è se io
debba permettere ch'essi consumino il parricidio, o piuttosto, troncando con le
mie proprie mani questa misera vita, risparmiare in un punto a loro la infamia
e la pena del delitto, a me il supplizio incomportabile di vivere. Ah! Signore,
quanto è dura necessità questa di perdere l'anima loro, o la mia!
Qui piegata alquanto la faccia
fissava certa lettera di Spagna, la quale gli porgeva notizia della morte che
si presagiva imminente di Filippo II, da lui sopra ogni altro re ammirato, e
nel suo segreto pensava: - lui avventuroso che prima di morire potè fare
strangolare il figliuolo, e ne fu benedetto da Santa Madre Chiesa!([53]) -
Intanto fu bussato pian piano
all'uscio della stanza. Il Conte, rialzato il capo, con voce ferma ordinava:
- Avanti...
Comparve Marzio, il quale dopo
qualche esitanza, veduta ch'ebbe la donna, favellò:
- Eccellenza... il
tabellione...
- Aspetti. Fatelo passare
nella stanza verde onde possa assettarsi a bell'agio...
- Eccellenza, egli mi ha
commesso annunziarle, che faccende urgentissime lo chiamano altrove...
- Per dio! Chi è costui,
che ardisce avere una volontà diversa dalla mia - e per di più in
mia casa? - Quasi, quasi io sarei tentato fargli come a Conte Ugolino, e
gittare le chiavi nel Tevere. Andate, e non gli permettete uscire senza il mio
consenso...
La rabbia appena repressa con
la quale il Conte fremeva queste parole, avrebbe fatto avvertito agevolmente
chiunque vi avesse posto mediocre attenzione, della ipocrisia da lui adoperata
nei suoi colloquii fin qui; ma Luisa teneva la mente rivolta altrove, e lunga
ora stette col capo dimesso al pavimento come persona affatto avvilita,
incapace a formare un concetto, o profferire una parola. Il Conte la
sogguardò sospettoso, e poi riassicurato riprese:
- Però non mi diparto
dal mio proponimento, che i figli non hanno a portare il peso delle
iniquità paterne. Questa legge, severa troppo, venne mitigata dalla
dottrina di Cristo... ed io sono cristiano. Voi mi cogliete nel punto in cui
vado a ridurre ad effetto questa mia convinzione. Ho disposto instituire eredi
delle mie facoltà libere i vostri figliuoli: pei fidecommissi sto sicuro
perchè non possono essere ipotecati, molto meno alienati; dalle rendite
dei fidecommissi in fuori altro non può sprecare Giacomo vostro, e
dovrà suo malgrado rendere un giorno i fondi inalterati al maggiorasco.
Voi nominerò amministratrice dei beni liberi; e spero, che dopo aver
provveduto onoratamente alla famiglia, potrete avanzare tanto che valga a
crescere il patrimonio. Io desiderava consultarvi in proposito; ma non poteva
rivolvermi a mandarvi a chiamare, dubbioso se voi avreste tenuto lo invito. Ora
poi che siete venuta spontanea, confesso che Dio vi ha proprio ispirata. Anche
i ciechi dovrebbero vedere qui dentro il dito della Provvidenza.
Quantunque Luisa, come tutte
le madri, sentisse maravigliosa compiacenza delle ottime disposizioni dell'avo
a favore dei suoi figliuoli, pure, come donna virtuosa, non potè
trattenersi da osservare:
- E la signora Beatrice, e don
Bernardino?...
- Beatrice ha già
stanziata la dote, sufficientissima a qualsivoglia gran dama. Bernardino ha da
tirarsi innanzi per la prelatura, e Casa Cènci possiede in copia
giuspatronati fra i più cospicui di Roma.
- E gli altri figli?
- Chi figli?...
- Don Cristofano e don
Felice...
- Essi? Oh! essi, la Dio
mercede, sono già provveduti, e non hanno bisogno di niente - rispose il
Conte; e i suoi occhi si raggrinzarono, e la pupilla costretta mandò
fuori un lampo di riso maligno...
- Don Francesco non mi muove
curiosità, ma voglia di non comparire alla mia coscienza cupida del bene
altrui, nello insistere a sapere come venne provveduto ai miei signori
Cognati...
- Essi hanno sposato una
potentissima dama che fa loro le spese, e come a loro le può fare, e le
fa ad altri ben molti... - Di ciò, se vi piace, parleremo altra volta,
donna Luisa, e con agio maggiore...
- Signor Conte, prima di
lasciarvi - e donna Luisa esitò uno istante; poi amore di madre vincendo
la donnesca alterezza, fattasi coraggio riprese: - io vorrei esporvi la causa,
che mi persuase di venire a inchinarvi...
- Ditela...
- Se i miei voti saranno
ascoltati in cielo voi vivrete anche cento anni; e i miei figli, intanto,
stremi di tutto...
- Ah sono pure il solenne
smemorato! - incominciò a dire don Francesco toccandosi lieve lieve il
capo, e come se favellasse seco medesimo. - Povera donna! ha ragione. - Sopra
il piatto di cotesto sciagurato ella non può fare assegnamento,
dacchè ei lo spende fuori di casa con altra femmina che ama; con altri
figli, che più dei legittimi formano la sua tenerezza...
- Come! come! - proruppe Luisa
afferrando con ambedue le mani il braccio destro al suocero. - Dunque, don
Francesco, lo sapete anche voi?
- Signora nuora -
replicò il Conte con volto austero - io vo' che sappiate, il cuore d'un
padre non essere meno geloso della fama dei figli, di quello che il cuore delle
mogli nol sia per lo affetto dei loro mariti; ma nel naufragio di ogni onesto
sentimento di Giacomo tutti dovevamo perdere... voi uno sposo... io un figlio.
- Luisa mandò un profondo
sospiro.
- Ora uditemi, donna Luisa. Io
vi somministrerò volentieri il danaro necessario ai bisogni della vostra
famiglia; se non che intendo che voi vi leghiate con giuramento ad osservare
certa condizione, che vi dirò. Io poi non esigo che voi v'impegniate a
chiusi occhi; mai no: io vi dichiarerò la condizione, e la causa della
medesima; onde se voi troverete, come non dubito, quella discreta, e questa
tendente al bene dei vostri figliuoli, voi la giuriate con libertà e
coscienza.
- Don Francesco vi ascolto.
- Voi altre buone femmine,
comprese interamente da un solo amore, presto ponete giù l'ira che
v'infiamma contro l'oggetto delle vostre legittime affezioni: - voi siete vele,
che vi sgonfiate ad ogni lieve calare del vento... Oh! so bene io quanta virtù
abbiano due lagrimette e un bacio a placare le più fiere procelle
matrimoniali. Giacomo già parmi vederlo assoluto, e a mille doppii
più amato da voi amantissima sposa: allora voi gli confiderete il
danaro, e il modo col quale lo avete ottenuto da me; ed egli (lasciate fare a
lui!) troverà bene la via di carpirvi la moneta; - ed io, invece che
serva ad alimentare i miei nepoti, vedrò con dolore averla data ad
alimentare i suoi laidi costumi. D'altronde io presagisco, che anche da questo
atto trarrà argomento di calunnia contro di me: ed io non vorrei che un
benefizio mi fruttasse nuove amarezze. Non paionvi sufficienti quelle che
patisco? Sono indiscreto forse, se io procuro non crescerne il carico? Ora io
desidero, che per cosa al mondo voi non gli riveliate possedere moneta; e molto
meno poi la parte dalla quale vi viene. Sembravi questa condizione tale, che
possa rifiutarsi da voi?
- No certo; voi mi consigliate
perbene, ed anche senza condizione io mi sarei comportata nel modo che vi
piacque indicarmi.
- Tanto meglio. Ecco qua una
santa reliquia. - Così dicendo il Conte si trasse dal seno una
crocellina di oro, e, presentatala alla nuora, aggiunse: - giurate per questa
croce benedetta sul sepolcro del nostro Signore, per la salute dell'anima vostra,
per la vita dei vostri figliuoli, che voi osserverete la promessa...
- Non fa mestiero di riti
tanto solenni, rispose Luisa sorridendo a fiore di labbri: - ecco, io ve lo
giuro...
- Sta bene: adesso togliete
quanto vi aggrada; e sì dicendo aperse uno scrigno pieno di monete d'oro
di varia ragione; - e siccome la gentildonna vergognando si peritava, il Conte
insisteva: - ma prendete - prendete... sarebbe strana davvero, che tra padre e
figlia si facessero tanti rispetti. Orsù, via, farò da me; - e
riempita una borsa gliela consegnò. La gentildonna diventata vermiglia,
lo ringraziava con un cenno affettuosissimo del capo.
- Prima però che
prendiate commiato, mia cara signora nuora, udite un'altra parola... -
perchè voi comprendete ottimamente come malgrado le ingiurie atroci con
le quali Giacomo mi ha offeso - e continuerà pur troppo ad offendermi -
egli sia sempre mio sangue. - Non vi stancate di tentare ogni mezzo per
ricondurre cotesto traviato al mio seno... chiudete l'occhio alle sue infedeltà...
soffrite gl'insulti... obliate ch'egli ha procreato altri figli, che non sono
vostri;... che mentre ai legittimissimi vostri fa mancare le cose al vivere
necessarie, prodiga ai figli naturali altrui - anzi adulterini - moneta, onde
compaiano vestiti di broccatello di argento, e di oro... Perdonatelo,
convertitelo, riconducetemelo insomma; le mie braccia stanno sempre aperte per
lui.... il mio cuore sempre pronto a dimenticare ogni cosa in un amplesso
sincero: - affaticandovi a ridonarmi un figlio voi ricupererete in un punto il
padre ai figli vostri, lo sposo a voi. Oh se questo potesse accadere prima che
i miei occhi si chiudessero!... Certo la mia vita non è stata altro che
affanno, e già sta presso a cessare.... ma qualche volta accade che i
giorni procellosi si rasserenino verso sera, e un raggio di sole languido, ma
benedetto, - tardo, ma desiderato, - venga a salutare con uno addio di amico
colui che sta per partire....
- Don Francesco, voi mi avete
riempito così di maraviglia, di tenerezza e di gratitudine, che io non
so in qual modo significarvelo con parole. Valga in difetto questo bacio, che
io imprimo con tenerezza di figlia sopra la vostra mano paterna. Ma quantunque
io senta che dei tanti benefizii, di cui mi avete colma, non sarò per
potermene sdebitare giammai, pure vi supplico a degnarvi d'aggiungerne un altro
- ed è: di compiacervi a raffermare quel famiglio, che voi avete
licenziato per colpa mia...
- Egregia donna! - Non io,
Luisa, ma voi gli rimettete il fallo; avvegnachè io lo avessi congedato
a cagione della mancanza di rispetto con la quale mi aveva favellato di voi.
Qui agitava il campanello, e
apparve uno staffiere di sala.
- Ciriaco.
Ciriaco veniva, umiliando il
capo fino a terra.
- Ringraziate donna Luisa dei
Cènci mia clarissima nuora, che vi permette rimanere graziandovi il
fallo commesso. D'ora innanzi emendatevi, e siate più riverente co'
vostri superiori.
- Mia buona padrona e signora,
disse Ciriaco gittandosele giù di rifascio in ginocchioni davanti, Dio
le ne renda merito per me e per la mia povera famiglia, che senza la sua
carità si sarebbe ridotta ad accattare.... e non avrebbe pane...
Luisa gli sorrise. Don
Francesco accompagnò lei, invano supplicante a rimanersi seduto, con
onesta cortesia fino alla porta; e quindi tornando addietro con presti passi,
pose una mano su la spalla di Ciriaco; e squadratolo con biechi sguardi gli
favellò così:
- Non solo adesso tu te ne
andrai di casa mia; - ma di Roma altresì, - ma da tutti gli stati
Pontificii ancora, - e subito; - se domani io ti sapessi qui, penserò da
me stesso al tuo viaggio. Va senza guardare indietro: io non ho la potenza di
convertirti in istatua di sale; possiedo semplicemente quella di convertirti in
morto. Mettiti un sigillo su la bocca, la paura di me nell'anima; se i piedi ti
venissero meno, continua il tuo cammino con le ginocchia carponi. Tu, che hai
avuto la pericolosa curiosità di esaminare i costumi del tuo padrone,
avrai notato com'egli non manchi mai a quello che promette. Esci, e ricorda che
Dio non si osserva, ma si adora; ed ogni padrone, pei suoi servi o sudditi, ha
da essere un Dio.
Coteste minacce e cotesto
piglio gettarono tanto avvilimento nel cuore al servo, che si partì
ratto da Roma insalutata la propria famiglia. Ad ogni muovere di foglia gli
pareva avere alle costole qualche bravo del Conte Cènci; nè si
quietò il suo affanno finchè ei non fu di molte miglia lontano da
Roma.
*
* *
- Ai comandi di vostra
Eccellenza, disse il Notaro (con la familiarità servile consueta alla
gente di toga) entrando nella stanza...
Il Conte, con superbia
magnatizia rispose:
- Vi ho chiamato, Sere, per
consegnarvi il mio testamento olografo: stendete l'atto di recezione, intanto
che mando per testimoni idonei: fate bene, e spedito.
I testimoni vennero, e
s'inchinarono; l'atto fu celebrato, e i testimoni partirono, e s'inchinarono
senza parole; impassibili, piuttostochè ad uomini somiglievoli ad ombre.
Il tabellione mentre ripiegava i suoi scartafacci si sentiva proprio morire non
isciogliendo il freno alla garrulità, vizio che aveva comune a tutti i
suoi confratelli in protocollo.
- Per bacco!, proruppe il
Notaro, io so che vostra Eccellenza non ama osservazioni, epperò mi sono
affrettato a servirla di coppa e di coltello: tutta volta però mi
pareva, che vostra Eccellenza non fosse in termini dirimpetto alla
età per devenire a questo atto, et voluntas hominis
ambulatoria est usque ad mortem; sicchè in tanto si raggiunge
meglio lo scopo della testamentifazione, in quanto più si aspetta a
farlo. Simili disposizioni patiscono della natura dei meloni, che stando molto
colti senza mangiarli infracidano.
- L'uomo è egli padrone
del domani? E gli uomini alla età mia si assomigliano agli ebrei nel
giorno di Pasqua, col bastone in mano e i calzari in piedi pronti a partire. A
me pareva non avere mai pace, finchè non avessi assicurato in modo fermo
il destino dei miei figli e nepoti.
Il tabellione, che aveva un
muso appuntato a modo di volpe, e il cervello eziandio, gli ficcò
addosso due occhini lustri che parevano fatti col succhiello; e stringendo le
labbra rise un tal sorriso di sorba acerba, che voleva dire: che con lui
coteste lustre non valevano un lupino, e che quando al diavolo del Conte
legavano il bellico, il suo andava ritto da se senza bisogno di ciuffolo.
- In quanto a questo poi,
Eccellenza, osservò l'astuto notaro, non faceva mestiero che il suo
cuore paterno si mettesse in ambasce, imperciocchè la legge
provvidissima ripari a tutto. Sa ella, signor Conte, come noi altri, che ce ne
intendiamo, si costuma definire il testamento? Atto illegittimo, col quale il
padre di famiglia leva la roba a chi va.
Il Conte gli lanciò
un'occhiata da tagliargli la faccia; ma il Notaro aveva mutato sembiante:
adesso compariva semplice, come se egli avesse mosso coteste osservazioni
più per dabbenaggine, che per malizia. Don Francesco non trovò a
fare meglio, che imitarlo; sicchè con volto beato rispose:
- O guardate!... che mi
troverò ad avere fatto un atto inutile? Ma utile per inutile non
vitiatur, come mi pare che insegnate voi altri curiali; e poi, quando non
avesse servito ad altro, avrà procurato a me il piacere di essermi
trattenuto con voi, a voi il piacere di avere guadagnato qualche ducato...
E largheggiando, come suoleva,
nella mercede, don Francesco si levò prontamente dintorno cotesto
importuno scrutatore delle cose sue, che si allontanò strisciando come
una serpe, e ripetendo col pugno pieno di moneta:
- Troppo generoso! sempre
magnifico! Dio la mantenga sano, e verde.
Rimasto solo, il Conte
così andava mulinando da se:
- Ora i Cènci non
godranno più della mia eredità libera: ho diseredato tutti i miei
figli, nel caso che qualcheduno sopravviva([54]); - peraltro io
farò in guisa, per quanto sta in me, che questo non avvenga. La causa
della diseredazione è la principale delle quattordici indicate da
Giustiniano. Le mie volontà saranno rispettate. Per dio! Se i miei
nepoti non si conducessero a divorarsi le mani per fame, io risusciterei per
istrozzare i giudici che sentenziassero a loro vantaggio... E poi ho istituito
eredi luoghi pii, corporazioni religiose, e simili mani morte. Mani morte! - Chiedea
mattoni, e gli portavan rena... che torre di Babele è mai questa?
Ormai bisogna riformare la lingua. Mani morte! Ne furono mai vedute in questo
mondo più vive a prendere, e più dure a ritenere? Avanzano i
fidecommessi! Immenso tesoro! Ora come adopererò io per svincolarli, e
disperderli? Bisognerà che io me la intenda col Cardinale Aldobrandino:
costui prenderebbe anche lo inferno per raccattarvi cenere. Quale avarizia
feroce! Trama di prete romano, e orditura di mercante fiorentino! Io credo
fermamente, ch'egli abbia provato a trarre sangue dai sassi del Colosseo. Ma
per levare ai lupi mi è d'uopo gettare alle jene... fiere contro
fiere... dura necessità! ma sia; - purchè rimangano ignudi i miei
figliuoli, venga anche il diavolo, e si vesta del mio mantello. - La onorevole
figura che farebbe il diavolo, col mio mantello scarlatto trinato di oro!
Nessuno presuma accusarmi di non aver lasciato sostanza ai miei figliuoli e
nepoti, chè avrebbe torto. Come Timone lasciava agli Ateniesi il fico
del suo campo onde vi si potessero impiccare a loro bell'agio, io lascio in
retaggio ai miei discendenti il Tevere perchè vi si affoghino dentro([55]).
CAPITOLO X.
IL CONVITO.
Cènci.
«Benvenuti, amici e gentiluomini; benvenuti,
principi e
cardinali, colonne della Chiesa, che
onorate il
nostro festino con la vostra presenza ... quando
avremo
ricambiato insieme
un brindisi o
due, voi vorrete reputarmi
carne e sangue
come siete voi, peccatore invero;
da Adamo in poi
siamo tutti così; ma
compassionevole,
mansueto e pietoso».
Shelley, Beatrica Cènci.
È bello vedere il
tremolio azzurro e di oro delle acque marine, però che esse abbiano
senso d'amore, e voce fatidica. - Al raggio della luna, che di loro s'innamora,
palpitano di piacere. - Parlano, quando si succedono come lacrime lungo le
sponde, una lingua di pianto, composta dei gridi dei naufraghi raccolti per
tutta l'ampiezza della sua superficie: pei liti del mare Egèo ripetono
un lene lamento di lira, poichè Saffo immergendosi in coteste acque vi
lasciasse la sua vita ed il suo amore.
È bello vedere il Sole
prorompere nella magnificenza dei suoi raggi dai patrii colli, e accendere con
uno sguardo la vita per la terra e pel cielo; ed è pur bello, affacciati
da una balza, mirarlo quando tramonta, e lascia dietro a se una nebbia dorata,
come un monile che donava alla donna dei suoi pensieri il cavaliere in procinto
di partire per terre lontane; o nuvole tinte in porpora, quasi mantello reale
consegnato alle ore sue ancelle prima di andare a giacere, per ripigliarlo al
suo svegliarsi domani. Allora gli uccelli traversano rapidi i cieli chiamando
la famiglia a raccolta, e raddoppiano il canto o per amore della luce che si
spenge, o per paura delle tenebre che nascono: pei campi il tintinno dei
campanelli raduna gli armenti alle stalle: dall'alto dei campanili la squilla
con tocchi dolenti annunzia essere giunta l'ora delle gioie domestiche e delle
memorie. Invano! Non tutti gli uomini amano il focolare di famiglia, e la
preghiera pei morti; molti, all'opposto, spiano dallo spiraglio della finestra
quando il giorno cessa, e respirano più liberi al calare della notte,
però che i pensieri e le opere loro sieno di tenebre. Ed io, che pure
non amo le tenebre, non rispondo alla chiamata. Qual è la stanza che mi
attende? La cella del prigione solitaria, nuda, gelida, dove non odo altro che
il gemito di qualche infermo, o l'agonia di un morente perchè fa parte
d'un ospedale di condannati([56]).
Sopra lo spalto dell'antica
fortezza di Volterra contemplo i colli lontani di azzurri e lieti farsi neri e
minacciosi, simili ad amici che ti abbiano tradito, o di beneficati che, giusta
il costume, ti paghino il debito in moneta d'ingratitudine. Le nuvole, poco fa
sfavillanti dei colori della madre perla, diventano fosche come i ricordi della
passata felicità; si affacciano oscuri al travagliato dalla presente
sciagura. Alcune vele bianche passano, e si perdono per la caligine del mare
Tirreno a modo dei pensieri, che si sprofondano nel buio della meditazione. Il
fiume antico della Cecina avvolgendosi con infinite curve per la campagna, par
che fugga di perdersi nel mare, come la vita tenta ogni sforzo per sottrarsi
alla morte irreparabile. Scorri, o fiume, più rapido dove ti spinge
necessità di natura, e non trattenere con inani conati le tue acque, -
perchè tutto incalza un fato supremo. Come rami di albero, o manipoli di
paglia, sopra la tua corrente reami e popoli galleggiano sul fiume del tempo
per traboccare nella Eternità.
Poichè tutto muore,
deh! possa sovvenire a noi miseri il conforto di poter volgere nella fossa alla
cenere, che ci sta accanto, queste parole: «Tu sei formata di ossa felici, non
innocenti; godesti assai - fatti in là - e non usurparmi le lacrime di
cui mi consolano i superstiti come me miseri - e come me pietosi. A Dio
piaccia, almeno nei sepolcri, separare le ossa innocenti dalle ossa malvagie!»
Molte sono le cose che
appaiono belle nel creato: o perchè veramente tali sieno per se stesse,
o pei pensieri che suscitano; ma nessuna riesce più stupenda all'occhio
del padre quanto la faccia dei suoi figliuoli. Gli occhi dell'uomo furono
inebbriati, quando prima contemplarono le care sembianze della donna che adesso
è madre dei suoi figli, e se ne rallegrano ancora; ma o lo splendore
della bellezza si offuscò, o la virtù degli occhi decrebbe,
avvegnadio egli possa di presente guardarla senza che l'anima dentro gli tremi;
- ma la gioia, che nasce dalla vista dei figli, non viene mai meno. Come la
sostanza odorosa che si ricava dal muschio per emanare di effluvii non
diminuisce di volume o di peso, così lo affetto paterno non menoma la
sua intensità. I figli sono la corona della vita dei padri; essi ci
sopravvivono a modo del profumo che avanza dallo incenso consumato dal fuoco;
essi vanno ai posteri messaggeri e testimonianza dello ingegno e delle
virtù degli avi. - Amati, se non leggiadri (perchè la luce
dell'anima rende gioconda qualsivoglia sembianza); - doppiamente amati se
belli; - dilettissimi sempre se la Sapienza toccò con le ali infiammate
le loro teste, o se ebbero, nascendo, meno benigno il raggio delle stelle,
purchè virtuosi di cuore, e d'anima intemerata; - imperciocchè il
grande intelletto sia grazia di Dio; ma la rettitudine è retaggio, che
ogni creatura può, e deve comporre con le forze dell'anima propria».
*
* *
Don Francesco Cènci
aveva imbandito un sontuoso banchetto un festino reale in verità. Dentro
vastissima sala, di cui la volta appariva dipinta stupendamente dai migliori
maestri di cotesta età non ancora interamente corrotta, stavano
dirizzate le mense. Intorno alla sala ricorreva un cornicione bianco e dorato,
sostenuto a uguali intervalli da pilastri parimente bianchi frastagliati
d'arabeschi di oro. Gli spazii da un pilastro all'altro erano coperti di
specchi alti meglio che otto braccia; ma perchè l'arte, che allora fioriva
a Venezia, non sapeva anche fabbricarli di un pezzo solo, erano connessi
insieme in più frammenti; e per cuoprire le giunture con leggiadro
trovato vi avevano dipinto amorini, e fronde, e frutti, e fiori, e uccellini di
varia ragione, oltre ogni credere vaghissimi: otto porte andavano guarnite di
portiere di broccato, di cui il fondo bianco di raso, gli orli in rilievo a
fiorami di oro, in mezzo lo scudo gentilizio co' suoi colori bianco e
vermiglio.
Tutto, insomma, appariva
magnifico; stoffe, specchi e dipinti; se non che la pittura, di scuola
bolognese, ostentava dovizia, non potendo oggimai più comparire bella
nella sua semplicità.
La Pittura, toccato ch'ebbe
con Raffaello il grado supremo della perfezione, decadde secondo il fato
naturale di tutte le cose quaggiù. Però in talune la decadenza
avviene inevitabilmente, imperciocchè abbiano perfettibilità
definitiva; in tali altre, all'opposto, la decadenza è accidentale,
essendo di perfettibilità indefinita. La poesia deve annoverarsi fra le
seconde, la pittura fra le prime. La ragione poi della differenza parmi questa,
che scopo della pittura essendo riprodurre in immagine gli oggetti, tanto
più apparisce pregievole quanto meglio esattamente gli ritrae:
Morti gli morti, i vivi parean
vivi; Non vide me' di me chi vide il vero([57]).
Ma la poesia si feconda non
solo dalla percezione fisica degli obietti, sibbene ancora da argomenti del
pensiero, e dagl'impeti della passione. Irradiando gli occhi, il cuore e lo
intelletto con iride perpetuamente screziata di moltiplici colori, fa sì
che sempre varii e sempre inesausti si diffondano i suoni della lira immortale.
Raffaello sta come Signore della Pittura, nè per ora alcuno seppe
superarlo, e forse nol supererà giammai, essendo singolare la via che
conduce a cotesta eccellenza. Molti poi scintillano astri maggiori del canto,
però che i pellegrini intelletti nello sterminato firmamento della
poesia possano percorrere il volo che il genio loro consiglia, e le ali
sopportano.
Io non mi tratterrò a
descrivere lo incanto, che nasceva dal profumo dei fiori e dallo sfolgorare dei
torchi di cera bianca fitti su candelabri di argento ripercosso le miriadi di
volte per gli specchi, pei vassoi, bacili, boccali, urne, vasi, statuette, grotteschi,
e argenterie d'infinite ragioni ammirande per dovizia, e per lavoro stupende. I
tempi di questo racconto non distano tanto da noi, che di simili masserizie
chiunque ne avesse vaghezza non possa farne esame nei pubblici musei. Nelle
case dei nostri patrizii adesso non se ne vedono più, o rare;
però che le abbiano vendute allo straniero. Che cosa non venderebbero
essi, i nostri patrizii, se trovassero il compratore? Presso a questo turpe
mercato, benedetto... io sto per dire... sì, benedetto il saccheggio dello
aborrito nemico! Il soldato ladro non ti porta via la speranza di ricuperare il
mal tolto, nè il desiderio di adoperartivi con tutti i nervi; ma lo
straniero che ti compra a patto le reliquie paterne ti compra a un punto un
brano del tuo cuore, e tu gli vendi un pezzo di patria! La rapina dispone gli
animi a libertà ed a vendetta; la vendita volontaria a servitù.
Così gli Spartani punivano meno la violenza fatta alla vergine, che la
seduzione([58]);
e rettamente: imperciocchè con la violenza si contamini il corpo, con la
seduzione il corpo a un punto e l'anima. Oggi nelle leggi è alla
rovescia; prova fra mille, che la materia ha vinto lo spirito, e da per
tutto se ne vedono segni manifesti. -
Ma io torno allo argomento;
chè la mia tragedia desidera discorso non di suppellettili, sibbene di
anime e di passioni.
*
* *
Don Francesco, con la
gentilezza che si addiceva al suo nobile lignaggio, e con la grazia che gli
veniva dal suo spirito, accolse i convitati. Eranvi diversi di casa Colonna;
eranvi i due Santa Croce, Onofrio principe Dell'Oriolo, e don Paolo di cui fu
parlato sul principio di questa storia; eravi monsignore Tesoriere; e poco dopo
vennero i cardinali Sforza e Barberini amici, o consorti di casa Cènci,
con parecchie altre persone che non rammenta la storia; finalmente, dietro
l'ordine del Conte, assisterono donna Lucrezia, Bernardino e Beatrice.
Beatrice vestiva a scorruccio.
S'ella non avesse indossato cotesto abito a modo di protesta contra la gioia
paurosa del convito paterno, sariasi sospettato che lo avesse fatto con
accorgimento donnesco; tanto egli giovava a dare risalto al candore
maraviglioso della sua pelle. Per tutto ornamento ella portava intrecciata
nelle chiome bionde una rosa appassita, simbolo pur troppo degl'imminenti suoi
fati.
- Benvenuti nobili parenti, ed
amici: benvenuti eminentissimi Cardinali, colonne di santa madre chiesa, e
splendore urbis et orbis. Se il cielo mi desse cento lingue di bronzo e
cento petti di ferro, come invocava Omero, non li crederei bastanti a rendervi
grazie per l'onore, che vi degnate compartire con la vostra presenza alla mia
famiglia.
- Conte Cènci, la
vostra inclita casa si trova così in alto locata, che davvero non
abbisogna di altri raggi per isplendere lucidissima stella in questo cielo
romano - rispondeva, giusta il costume dei tempi, concettosamente il signor
Curzio Colonna.
- Voi, nel tesoro della vostra
benevolenza, mi procedete parziale oltre il dovere, onorandissimo don Curzio:
comunque sia, gran mercè dello amor vostro. Io, Signori miei, vi era
quasi diventato straniero: temeva che il mio apparirvi dinanzi vi spaventasse,
come di uomo tornato dall'antro di Trofonio; ma che volete? Me rodeva una
immensa tristezza... l'iniquo male! Ed io, che provo com'egli trapani le
viscere, l'ho portato sempre studiosamente chiuso nel petto, per tema che mi
avvenisse come a Pandora quando aperse incautamente il vaso, e versò,
senza volerlo, sul mondo la famiglia infinita dei malanni. La tristezza
è la polvere sottile che solleva il vento di levante; da per tutto
s'insinua, a tutto si attacca, e opprime di sgomento anime e corpi. Il
malinconico, per causa più forte del lebbroso, ha da cacciarsi fuori dei
tabernacoli d'Israele, e dai festini degli eredi di Anacreonte - io parlo per
voi, chierici, a cui mi piace professare venerazione e rispetto: in quanto a
voi altri laici, forse avrei proceduto senza cerimonie... ma no... ho pensato
che se io aveva causa sufficiente a gittarmi via, alberi e fiumi per appendermi,
od affogarmi mercè di Dio non ne mancavano; e non doveva pormi
indiscretamente tra il sole e voi per abbuiarvi la vita. - Io poi non mi sono
impiccato perchè, bene considerata la cosa, la morte è un brutto
quarto di ora - e di più, su le cose che si fanno una volta sola, ho
inteso sempre dire ch'è savio pensarci sopra due; - ma neppure volli
contristarvi con la mia presenza. Adesso, che un filo di luce viene a
rischiarare obliquamente il buio della mia anima, scoto la chioma da questa
cenere; colgo anche una fiata - forse l'ultima - una rosa, e ve la intreccio
dentro. - Certo durante il verno non si vorrebbe nudrire vaghezza di rose,
nè il gentil fiore si educa in mezzo alla neve... pure in questa alma
Italia, e ve ne fa prova Beatrice mia, in ogni stagione crescono le rose; e se
non ne trovi nel tuo giardino, va in quello altrui, e coglile o strappale.
Sì, strappale a forza; perchè, qual legge condannerà il
vecchio che prima di morire ha involato una rosa in ricordo della gioventù
spenta, e in conforto della vita che si spegne? Tanto varrebbe, che Sua
Santità scomunicasse un moribondo perchè manda lo sguardo estremo
alla luce che fugge. E tu, Beatrice, quale strana fantasia ti prese di mettere
una rosa appassita nei tuoi capelli? Temi per avventura il paragone delle tue
guance con le foglie della rosa fresca? - Cessa dalla paura, donzella; - tu
puoi provocare siffatto genere di confronti, perchè sei nata a vincerli
tutti. -
La fanciulla gli
dardeggiò uno sguardo a guisa di saetta; egli lo ricevè stringendo
gli occhi, e facendo sfavillare le pupille. Don Onofrio Santa Croce rispose:
- Noi siamo venuti, Conte,
come parenti ed amici a prendere parte delle contentezze vostre; e bene mi
auguro, che le abbiano ad essere grandissime; imperciocchè io non vi conobbi
mai di umore sì gaio, da pretendere di emulare il buon vecchio di Teo. -
- Ed io ebbi torto a non
procurarmi cotesto umore, Principe; e quello ch'è peggio, io me ne sono
accorto tardi. La Parca, - voi lo sapete - o piuttosto non lo sapete -
perchè voi altri eminentissimi Cardinali tenete queste storie in conto
di eresie. Eminentissimi, rispettate i vinti; gli esuli ritornano, e la fortuna
non ha inchiodato l'asse della ruota: anche Giove fu Dio, e conosce la via che
conduce in paradiso. In trono o fuori, Dii e Principi sono cosa sacra; e non
appartiene a Dii e a Principi insegnarne il disprezzo alle moltitudini. Assai
queste lo imparano da se! E poi non v'incollerite mai contro chi crede
troppo... prendetevela con chi crede poco; - perseguitate chi crede punto: -
anzi io non arrivo a capire come mai vi siate legate le mani, restringendo a
tre le persone delle quali va composto il vostro Dio - e mio; - dovevate
instituire un palio fra chi credeva di più, e premio un milione di anni
d'indulgenze per colui che giungeva primo. -
- Ma dove era io rimasto? -
Attendete... alla Parca. Ora dunque la Parca ci fila giorni di lana nera,
mescolati con altri pochi di colore di oro; il senno umano sta nel separarli:
piangiamo nei tristi, esultiamo nei lieti, altrimenti convertiremo la vita in
uno eterno ufficio da morti. Omnia tempus habent... e sebbene io non
ammetta, col sapientissimo re Salomone, che possa esservi anche il tempo di
uccidere, mi unisco al suo avviso quando dichiara tutte cose vanitas
vanitatum, se togliete forse un bicchiere d'acqua pura quando siete
assetati... a patto però che non sia della tofana, che fabbricano
a Perugia, o dell'altra di cui sapeva il segreto il sommo pontefice Alessandro
VI di santissima memoria.
Monsignor Tesoriere
osservò maligno:
- Questa vostra
giocondità - forse soverchia - è solita a manifestarsi
così intemperantemente dalle persone che ella visita di rado: essa
ritiene del febbrile; e in ciò tanto più mi confermo quando
penso, che la morte contristava non ha guari la vostra casa.
- Ah! Monsignore, che cosa mi
rammentate voi? Noi non ci possiamo lasciar cadere qualche memoria per terra,
senza che un amico, importunamente pietoso, ve la raccolga e ve la restituisca
dicendo: «Badate, v'è caduta un'amara rimembranza dal cuore; rimettetela
al suo posto». E poi a veruno è lecito maravigliarsi di ciò, meno
che a Monsignore, il quale nelle cose divine è quella cima di uomo che
noi tutti sappiamo. Infatti non ho io imitato re David? Voi vedete, che io
tolgo i miei esempi da buona famiglia; come lui, morto il figliuolo, ho
esclamato «Digiunai, e piansi finchè visse» pensando: forse chi sa non
me lo renda il Signore! Ora poichè è morto, perchè
digiunerei io? Forse potrò revocarlo indietro? Io andrò sempre
più verso di lui; ma egli non verrà più verso di me....([59])
La pelle di Beatrice a cotesta
tremenda ipocrisia fremè di un brivido doloroso.
- Ma dunque, via, gridarono a
coro tutti i convitati: toglieteci dall'ansietà. Ci tarda entrare a
parte della vostra allegrezza con conoscenza intera.
- Nobili amici! Se voi aveste
detto ci tarda soddisfare questa nostra curiosità, che ci arrovella, voi
avreste favellato certamente più credibile, forse più sincero. -
Comunque sia, voi vi affaticate invano; chè io non intendo guastare la
mia buona notizia sopra corpi digiuni. Mai no; Iddio manda le rugiade a mattino
e a sera sopra i calici dei fiori disposti a raccoglierle, non già a
mezzogiorno sopra pietre riarse. Preparatevi prima co' doni di Cerere e di Bacco,
come direbbe un poeta laureato, e poi udirete il mio annunzio, l'evangelo
secundum Comitem Franciscum Cincium. A mensa, dunque; nobili amici, a
mensa.
- Signora Lucrezia,
sussurrò Beatrice nell'orecchio alla matrigna, - oh qualche terribile
infortunio ci pende sopra la testa! - I suoi sguardi non ischizzarono mai tanta
malignità quanto oggi. Egli rideva come la faina, quando ha cacciato i
denti nella gola del coniglio per succhiargli il sangue.
- Dio mi perdoni; non so
neppure io da che cosa provenga, ma le gambe tremano anche a me.
- Chi vi ha detto, signora
madre, che mi tremino le gambe? A me le gambe non tremano, nè l'anima. -
E sedettero a mensa: il Conte
Cènci a capo della tavola, secondo il costume, che allora correva, di
dare al padrone di casa il posto più onorevole; a canto, distribuita a
destra e a mancina, teneva la propria famiglia; succedevano poi i convitati
come il maggiordomo li distribuiva, osservato il grado di dignità
d'ognuno di loro. Squisite e moltiplici furono le vivande, tutte apprestate
sotto fogge diverse; imperciocchè taluna presentasse l'aspetto del
Colosseo, tale altra una galera: qua vedevi uno scoglio di carne di vitello
combattuto da flutti di gelatina: una fortezza di marzapane tagliata aperse il
varco a uccelli vivi, che spandendosi per la sala la riempirono di giulivi
gorgheggi: da un pasticcio enorme uscì fuori il nano di casa vestito da
papa, che dette gravemente ai convitati la benedizione apostolica, e
fuggì via. Strani concetti insomma, o empii, secondo suggeriva al Conte
la sua schernitrice natura: e ond'io non mi dilunghi soverchiamente,
terminerò (per somministrare saggio di quanto osasse costui) narrando
come non aborrisse rappresentare davanti Cardinali della Chiesa il simbolo
della Eucarestia mercè una grossissima anatra lessa che teneva disposti
intorno a se certi pavoncelli arrostiti, in modo da figurare il mistico
Pellicano, che si apre il petto per alimentare i suoi figli col proprio sangue([60]).
I bicchieri andarono in volta
spessi, e veloci come la spola in mano del tessitore: bebbero di più
maniere vini così nostrali come stranieri, cipro, greco, e soprattutto
keres, alicante, ed altri vini di Spagna; perocchè i nostri padri, bene
o male facessero, i vini spagnuoli educati sotto gli ardenti soli anteponevano
ai francesi e ai renani, nati piuttosto dai sospiri, che dagli sguardi del
pianeta della vita.
Poichè - per adoperare
una espressione classica, la quale come sempre vale a dimostrare acconciamente
il soggetto - ebbero sazio il naturale talento di cibo e di bevanda, i
convitati, punti dalla curiosità, ad una voce esclamarono:
- Parvi egli tempo adesso di
far cessare la nostra ansietà? Su, via, Conte Francesco, manifestateci
il motivo della vostra allegrezza!
- Venne il tempo - disse il
Conte con voce solenne; poi, composto il volto ad austero atteggiamento,
proseguì: - Però, miei nobili amici, vi supplico a rispondere
innanzi a questa mia domanda: - Se Dio, scongiurato tutte le sere prima di
adagiare le mie membra sopra le piume, e tutte le mattine aperti appena gli
occhi alla luce - ardentemente, - lungamente per un voto, che sul capezzale
lasciava, e sul capezzale io rinveniva: - se Dio, che udiva la mia preghiera
raccomandata dai Sacerdoti in mezzo al santo sagrifizio della messa, dai canti
delle vergini sacrate, dalle orazioni dei suoi poverelli: - se Dio, dopo avermi
disperato di concedermi ascolto, allo improvviso, per un tratto della sua
misericordia infinita, i miei desiderii oltre la speranza adempisse, non avrei,
dite, ragione di esultarne io? - Se così fosse, com'è certamente,
esultate, rallegratevi meco - perchè io sono uomo in tutta la pienezza
della parola - felice!...
- Beatrice - figlia mia -
sorreggetemi... ho paura....
- Aiutatevi, rispose Beatrice
a Lucrezia, come potete... perchè io non posso... la testa mi va in
giro, e tutti i convitati mi pare che nuotino nel sangue!
- O Dio! o Dio!, soggiunse la
Lucrezia, mi prende il freddo nelle ossa come al venire della febbre quartana.
-
- Immagino, nobili amici e
parenti, che voi tutti sappiate, e se taluno lo ignora lo apprenda, prosegue il
Conte, - nella chiesa di san Tommaso essersi fatti da me costruire sette
sepolcri nuovi di marmo prezioso, per lavoro pregiati, - e poi pregai il
Signore, che prima di morire mi concedesse la grazia di seppellirvi dentro
tutti i miei sette figliuoli; e finalmente votai, che avrei abbruciato palazzo,
chiesa, masserizie e arredi sacri come un fuoco di gioia. - Se fossi Nerone,
avrei giurato incendiare Roma una seconda volta.
I convitati guardavano l'un
l'altro piuttosto attoniti, che atterriti; poi miravano il Conte, vergognando
per lui che si fosse lasciato prendere dal bere soverchio. - Beatrice teneva
declinato su la spalla destra il volto, pallido come la rosa appassita che le
pendea dai capelli. Il Conte infernale con maggior lena gridava:
- Uno già ve ne ho
sepolto: due altri a un tratto, la Dio mercè, mi è dato
seppellirveli adesso: due stanno in mia mano, ch'è quasi giacere nel
sepolcro: ci avviciniamo al termine. Dio, che mi compartisce segni così
manifesti del suo favore, vorrà certo, prima che io muoia, adempire al
mio voto.
- O Conte! avreste bene dovuto
scegliere argomento di scherzo meno lugubre di questo.
- Egli è pure il tristo
vezzo ridere mettendo spavento!
- Rido io? Leggete....
E cavatesi dal seno alcune
lettere, le gittò sopra la mensa.
- Leggetele.... esaminatele a
bello agio; - chiaritevi di tutto; io ve le ho date apposta. Voi apprenderete
come due altri dei detestati figli sieno morti a Salamanca([61]). Come sono eglino morti?
- Questo a me non importa niente; - quello che mi preme moltissimo si è,
che sieno morti, chiusi, e confitti dentro due casse di quercia come ho
ordinato di fare. - Adesso pochi più scudi mi avanza a spendere per
essi, - e questi spendo volentieri.... due ceri.... due messe.... se fossero
carrette di calce viva, e le anime loro potessero restarne scottate.... io ne
farei gettare sopra la fossa loro anche due mila. O Papa Clemente, che mi
condannasti a pagare loro quattromila ducati di pensione annua, mi costringerai
a pagargliela tuttavia? I vermini non ti porgeranno memoriale, no; - a suo
tempo divoreranno anche te. - O pietoso Aldobrandino, vuoi tu farti vincere dal
nepotismo anche pei vermi? - Onnipotente Dio! ricevi la espressione della mia
profonda riconoscenza; tu esaltasti la mia anima non secondo i miei meriti, ma
secondo i tesori della tua misericordia infinita. -
Monsignore Tesoriere, tremante
di emozione, favellò:
- Deh! nobili Signori, non gli
badate perchè la sua ragione si è sommersa nel vino, o maggiore
sventura lo ha colto. Segno manifesto che egli mentisce, voi uomini cristiani
abbiatevi in questo, che Dio non sopporterebbe ricevere simili ringraziamenti
contro natura; e se fosse vero quello che trabocca fuori dai labbri di questo
forsennato, Dio avrebbe fatto crollargli le volte sopra la testa.
- Ei non lo ha fatto per amore
della pittura, che andrebbe perduta; e poi perchè ci siete voi,
eminentissimi Cardinali, colonne di Santa Chiesa, che per sopportare cose gravi
disgradereste Milone crotoniate. Sapete che Dio non sempre tira diritto; e
talora mandando giù fulmini alla impazzata uccise il prete che celebrava
messa, e risparmiò il ladro che rubava. Tesoriere, tesoriere! tu hai da
esser lieto, che Dio guardi tanto alle mie parole quanto alle tue mani.
Borsaiolo di santa Madre Chiesa, se per me giova ch'ei sia sordo, a te importa
che sia cieco.... Ma quando ancora egli mi udisse, io l'ho avvezzato ad
ascoltarne bene altre!
I convitati guardando il Conte
pareva avessero provato gli effetti della vista di Medusa. L'odioso ospite,
compiacendosi del terrore che inspirava, continuò esultante in faccia:
- A me importa soltanto, che i
miei figliuoli sieno morti; forse a voi potrebbe premere eziandio conoscere il
modo col quale furono morti. Favete aures. Felice, ch'era giovane
religioso, stava certa sera a recitare molto devotamente il rosario nella
chiesa della Madonna del Pilastro. La Mater misericordiae, per fargli
capire che le sue preghiere erano esaudite da lei, gli lasciò cascare
sopra la testa il trave maestro del soffitto, e gli troncò dolcemente il
nodo del collo. Nella medesima sera, anzi pure, secondo che me ne scrivono,
nella medesima ora, Cristofano fu ammazzato di coltello da certo marito geloso
il quale lo tolse in cambio dello adultero, che in quel punto si teneva a
sollazzo nelle braccia sua moglie. Per le quali cose, considerando il tempo,
l'ora e il modo della morte uguali, io dichiaro eretico insanabile, e incorso
nella scomunica maggiore chiunque fra voi presumesse temerariamente negare, che
ciò sia avvenuto senza espresso consiglio della Provvidenza....
Beatrice, come se tutta
l'anima avesse trasfusa negli occhi, con le pupille dilatate orribilmente lo
guardava fisso: e il Cènci di tratto in tratto gittava uno sguardo
obliquo sopra di lei, e cotesti raggi s'incontravano, si percuotevano, e
corruscavano come ferri nemici cozzanti tra loro. Bernardino come assonnato
nascondeva il capo nel grembo a donna Lucrezia, la quale con le gote lacrimose
e le braccia aperte presentava la sembianza della Madonna dei sette dolori.
Dei convitati alcuno, teso il pugno chiuso sopra la tavola, minacciava con
fiero cipiglio; altri sporgeva il braccio e il dito accusatori contro il Conte:
chi si mostrava incredulo; chi si turava gli orecchi; chi guardava pauroso
verso il cielo, sospettando che qualche fulmine non iscendesse. Insomma
nè tanti, nè tanto varii sono gli atteggiamenti effigiati da
Leonardo da Vinci nella stupenda composizione del Cenacolo, quando il Signore
profetizza: Amen dico vobis, quia unum vestri me traditurum est([62]).
Primi furono i Cardinali e il
Tesoriere, che si levarono, e dissero:
- Andiamcene! andiamcene!
Salvatevi tutti, perchè l'ira di Dio non può tardare a
rovesciarsi sopra questa casa di empietà.
Un sussurro inquieto -
crescente come di vento foriero della tempesta, - un fremito mal represso
ingombrarono dapprima la sala; - poi ad un tratto scoppiarono gridi d'obbrobrio
e di rampogna, gemiti e pianti: finalmente, sopraffatti tutti da una medesima
passione, gittavano da lungi con le mani contro lo iniquo Conte le maladizioni
come si lanciano sassi per lapidare i sacrileghi.
- Fermatevi, - grida
trucemente beffardo Francesco Cènci. - Che fate voi? Qui non vi ha
scena, qui non vi sono spettatori; sicchè se pretendete recitare la
tragedia, voi vi affaticate invano. Sta a voi, eminentissimi Cardinali,
ostentare ribrezzo pel sangue? E perchè dunque, ditemi, voi vestite di
rosso? Non forse perchè la macchia del sangue umano non si distingua
sopra la vostra porpora? Via cerretani, che vendete Cristo come orvietano in
fiera. Via Farisei, che se Cristo tornasse al mondo lo costringereste rifuggire
per orrore nella Mecca a farsi turco. E voi, Principe Colonna, non vi
affannate: io vi consiglio a calmarvi, perchè mi sono trattenuto quanto
basta alla Rocca Petrella per conoscere i vostri detti e gesti; e se voi non lo
sapete, io vi dirò che conosco più che non desiderereste di
negromanzia, per avere potenza di far parlare certe sepolture e certi morti....
Voi m'intendete, Principe; e quel che mi hanno appreso sul conto vostro, ve lo
bisbiglierò dentro l'orecchio. - Ora mi rivolto a voi, egregio amico
monsignore Tesoriere:... io vi conforto a non dimenticarvi giammai, che io sono
figlio di mio padre; e che mio padre, Dio lo abbia in pace, fu tesoriere; e in
fatto di conti mi basta l'animo di tener fronte al primo computista della
Camera apostolica. Avventuroso voi, Tesoriere, se altre faccende mi tengono
distratto - non importa quali! Avventuroso voi se non mi avanza tempo, o mi
prende vaghezza di condurre il nostro comune amico Cardinale Aldobrandino col
filo di Arianna in mezzo al laberinto del tesoro. Tesoriere rammentati la
donnola di Esopo, e trema di dover ripassare dal buco. - Coprite per altri il
padule di erbe insidiose ond'egli, incauto, vi ponga il piede sopra, e sparisca
quietamente. - ecclesiasticamente. - Io sono il cavallone fragoroso e spumante:
bene posso spezzarmi dentro gli scogli della sponda; ma prima travolgo, e
annego tutto quanto mi si para dinanzi. Rispettate il vostro signore; cadetemi
ai piedi, e adoratemi.
I convitati con segni espressi
di disgusto si avvicinano alle porte per abbandonare cotesta casa scellerata;
ma il Conte Cènci gridava di nuovo:
- Nobili parenti ed amici,
senza che io vi accomiati di casa mia non potete uscire. Deh! siatemi anche un
momento cortesi della vostra compagnia.
Qui presa una tazza faccettata
di tersissimo cristallo la empì fino al colmo di vino di cipro; e
alzandola dicontro alla vivida fiammella delle torcie, sicchè parve
l'avesse riempita di fuoco, in questa maniera favellò ad alta voce:
- O sangue della vite, che
cresciuto ai raggi del sole scintilli e gorgogli alle fiammelle della luce come
l'anima mia scintillò - esultò alla nuova della morte dei miei
figli - oh! fossi tu il sangue loro maturato al fuoco della mia maledizione, e
sparso in olocausto alla mia vendetta, io vorrei bevervi devotamente quanto il
vino della Eucarestia; e propinando a Satana, dirgli: «Angiolo del male,
prorompi fuori dello inferno; avventati dietro le anime di Felice e di
Cristofano miei figliuoli prima che si avvicinino alle porte del paradiso, e
rovinale giù nel pianto eterno, e tormentale con i tormenti più
atroci, che mai abbia saputo inventare la tua diabolica immaginazione. Che se
tu non sapessi trovarne di più, consultami: io confido suggerirti nuovi
supplizii, ai quali la tua fantasia non arriva. - O Satana! alla tua salute
m'inebrio in questo abisso di gioia. Nel mio trionfo trionfa! - Adesso, nobili
amici e parenti, non ho più bisogno della vostra compagnia; se volete
torre commiato da me, siavi concesso; e lascio in potestà vostra andare
o restare, senza però donarvi resta, nè pallafreno([63]).
- Costui, pei santi Apostoli,
diventò pazzo furioso.
- Ah! che io lo reputai sempre
perverso da far piangere gli Angioli....
- Dite piuttosto da far
digrignare i denti ai demonii...
- Ad ogni modo è una
belva feroce, e bisognerebbe legarlo....
- Sì, bene....
legarlo.... leghiamolo....
Francesco Cènci,
compita ch'ebbe la sua diabolica invocazione, si era posto a sedere
placidamente, e con mollette di argento si recava alla bocca alcuni pezzi di
treggèa masticandoli a suo grandissimo agio. Quando alcuni dei convitati
con gesti minaccevoli gli si strinsero attorno, egli, senza neanche sollevare
il capo, chiamò:
- Olimpio!
A quella chiamata uscì
fuori il masnadiero, che lo astuto vecchio per ogni buon riguardo aveva tenuto
celato, e seco lui apparvero bene altri venti compagni di sinistra sembianza,
vestiti ed armati da bravi. Questi circondarono i convitati coi pugnali ignudi,
aspettando il cenno del fiero Conte per far sangue.
Il Cènci si rimase
alquanto continuando a mangiare treggèa, e compiacendosi a vedere la
paura, che impallidiva tutti cotesti volti: poi si alzò da mensa, e
recatosi in mezzo ai gentiluomini con lenti passi, si pose a guardarli
stringendo gli occhi malignamente, e non senza riso favellando:
- Voi altri, che siete dotti,
dovreste rammentarvi del festino apprestato da Domiziano ai Senatori([64]). Però, non
dubitate, io vi prometto di non ordinare: fuori le frutta([65]). Incauti! E non sapete
voi, che se il Cènci non è più come in sua gioventù
ferro rosso, pure si mantiene rovente quanto basta da bruciare? - anzi
più spesso l'uomo si scotta al ferro mezzo arroventato, che al ferro
rosso: - notatelo bene. La mia vendetta si assomiglia alla lettera suggellata dei
re. Una morte essa contiene di certo; quando, dove, e su cui scoppierà
s'ignora. Lasciatemi in pace, e passato che abbiate cotesto limitare obliate
tutto. Siavi l'accaduto come un sogno, che l'uomo aborre ricordarsi desto.
Avvertite, la parola è alata: simile al corvo dell'Arca, non torna
più addietro; ma si trattiene fuori spesso a pascersi di cadaveri, e
qualche volta ne fa. Se poi vi dilettaste di sentirvi la gola mutata in canna
da flauto - allora parlerete. -
I convitati a viso basso,
quale fatto stupido per orrore, quale con la rabbia nell'anima, ma spaventati
tutti, si dipartivano. Beatrice scossa la testa, e, come costumava, dalla
fronte rigettatesi con impeto dietro le spalle le chiome, gli rampognava
gridando:
- Codardi! Sangue latino voi!
Voi figli degli antichi Romani? Sì, come i lombrichi sono figli del
cavallo spento in battaglia! Un vecchio vi atterrisce? Pochi masnadieri vi
agghiacciano il sangue? Voi partite... partite, e lasciate due deboli donne e
un misero fanciullo in mano a costui... tre cuori palpitanti sotto gli artigli
dello avvoltoio. Udiste? Ei non lo dissimula... - ci farà morire - e
nonostante ciò - deh! gentiluomini, ponete mente alle mie parole, e
intendete più che esse non possono... non devono dirvi - e nonostante ciò,
egli è questo il minor male che io pavento da lui. Di voi altri
Sacerdoti non parlo; ma voi, Cavalieri, quando cingeste la spada o non giuraste
voi difendere la vedova e l'orfano?.. Noi siamo peggio che orfani... essi non
hanno padre, noi abbiamo per padre un carnefice... rammentate le vostre figlie,
nobili Cavalieri... rammentate le vostre figlie, Padri cristiani... ed abbiate
pietà di noi... conduceteci a casa vostra.
- Giovanetta, il tuo dolore mi
rende tristo, ma io nulla posso per te... rispose un convitato; e un altro:
- Aspetta, e spera. La
speranza farà sbocciare anche per te le rose della contentezza. - Un
Cardinale riprese:
- Se preghiere e voti, cara
figliuola, potranno giovarti, noi non cesseremo di raccomandarti nelle nostre
orazioni.
E gli altri via via profferivano
di siffatte parole... gelide e lugubri come spruzzi di acqua benedetta gittati
sopra la bara. I convitati si partirono, e parve loro di respirare liberamente
sol quando uscirono all'aria aperta fuori del palazzo. Alcuno, allontanandosi,
di tratto in tratto si voltava con lo affetto del marinaro,
Che uscito fuor del pelago
alla riva
Si volge all'acqua perigliosa,
e guata.
Tutti sgombrarono la sala:
rimasero don Francesco e Beatrice, e, non avvertito, anche Marzio; chè
prossimo ad una credenza, faceva sembiante di attendere a raccogliere i
vasellami di argento.
- Ora ti sei di per te stessa
chiarita? - interroga Francesco Cènci Beatrice con labbra riarse. - Hai
tu conosciuto l'aita di Dio quale sapore si abbia? L'aita degli uomini ti
sembra da farne maggior capitale? Non importa, no, che tu bendi gli occhi a la
giustizia affinchè non si commuova; lasciaglieli pure aperti... fa che
ci vegga... non per questo essa si commuoverà. La forza è il
diritto; il diritto e la forza nacquero gemelli ad un parto, ed abbracciati
insieme. Io lo so; l'ho provato, e tutto giorno, e sempre io lo vedo e lo
sento: il diritto è la forza. - Guarda per tutto, fanciulla, e tu vedrai
come in cielo e in terra altro non ti rimanga rifugio, che nel mio seno:
ricovrati qua dentro, e troverai l'asilo che Dio e gli uomini, sordi del pari e
spietati, ti ricusano. - Se io ti ami immensamente, tu pensalo - da te in
fuori, io odio tutto in cielo e sopra la terra. Abbandonati pure in
balìa di me: tu cercheresti invano un altr'uomo che mi valga: io ho
ereditato i doni di tutte le età. La gagliardìa della
gioventù non mi abbandona ancora: in me il consiglio della età
matura: in me la tenacità della vecchiezza... Amami dunque, Beatrice;...
bella... e terribile fanciulla... amami. -
- Padre! se vi affermassi che
vi odii, io non vi affermerei il vero; che io vi tema, neppure. Io vedo che il
Signore ha creato in voi un flagello come la fame, la peste e la guerra, e
questo flagello egli ha rovesciato sopra di me. Io piego, senza mormorare, la
testa ai suoi misteriosi decreti; onde sfiduciata di ogni soccorso umano vie
più mi accosto a Dio, e confido le mie sorti nella sua misericordia. -
Padre, per carità uccidetemi!
Qui la desolata si
prostrò davanti al Conte a braccia aperte, quasi aspettando il colpo.
Perchè Beatrice balza
in piedi allo improvviso, e si avviticchia intorno alla vita del padre suo?
Perchè con ambe le mani gli cuopre la testa? Perchè ha spinto
fuori un grido di terrore, - ella che non teme niente, - il quale risuona di
eco in eco nelle stanze più remote dello ampio palazzo?
Marzio, che inosservato era
rimasto nella sala, udendo le parole che svelavano più apertamente il
disegno infernale di Francesco Cènci, si era accostato pian piano
tenendo nelle mani un vaso pesantissimo di argento; e, levate le braccia con
quanto aveva di forze, accennò spezzargli il cranio; - e lo facea,
perchè il Conte, improvvido, stava come tratto fuori di se a contemplare
la divina fanciulla.
Don Francesco, commosso al
grido e agli atti di Beatrice, levò involontariamente la faccia al
cielo, e gli parve vedere, e vide certo, uno sfolgorìo balenargli su gli
occhi.... Ah! fosse il fulmine tanto tardato di Dio? Cotesta idea durò
quanto un lampo, ma comprese una eternità di tormento per quell'anima
scellerata. Non per questo il fiero vecchio si scosse; e assicurato in breve,
volse le torbide pupille dintorno a se e vide Marzio, che impassibile ordinava
i vasi sopra la credenza.
- Marzio..... tu qui?
- Eccellenza!
- Tu qui?
- Agli ordini di vostra
Eccellenza.
- Vattene.
Il servo inchinavasi; e
partendo faceva un segno a Beatrice, quasi volesse significare: «Ah!
perchè mai mi avete impedito?»
Ma Beatrice, durando in lei lo
impeto di amore, stringe con forza sovrumana il braccio di don Francesco come
per istrascinarlo, ed esclama:
- Vieni, sciagurato vecchio -
tu non hai un momento da perdere: la morte ti cuopre con le sue ali. Vieni, la
bilancia delle tue colpe precipita giù nello inferno. - Vesti il cilizio
- vecchio! - Cuopriti i capelli di cenere..... tu hai peccato abbastanza. La
penitenza è un battesimo ardente; ma il fuoco purifica più, e
meglio dell'acqua. Se la tua prece non giungesse ad inalzarsi fino al trono di
Dio, e minacciasse ricaderti sul capo in grandine di maledizione; io ti
starò al fianco, e aggiungerò la mia, e saranno ascoltate
insieme; ambedue accolte, o ambedue rejette. Che se ad ogni modo la giustizia
vuole vittime di espiazione..... ecco, io volentieri offro la mia vita in
riscatto dell'anima tua: - ma affrettati, vecchio... l'orlo della fossa è
sdrucciolevole.... vecchio, pensa che te ne va della tua eterna salute....
Don Francesco stavasi ad
ascoltarla sorridendo. Quando ella ebbe finito, con voce beffarda le rispose:
- Bene sta, mia diletta
Beatrice; - tu sola puoi educarmi alle gioie celesti del paradiso...
Verrò a trovarti stanotte.... e pregheremo insieme....
Beatrice lasciò cadere
il braccio paterno. Coteste parole, e gli atti pieni d'infamia ebbero la
maligna virtù di assiderarle ogni gentile entusiasmo, e respingerla
nella dura realtà della vita. Ella quinci dipartivasi con faccia
dimessa, gemendo queste parole:
- Perduto! - perduto! Oh,
senza rimedio perduto!
Don Francesco si versava
precipitoso un'altra tazza di vino, e la bevve di un sorso.([66])
CAPITOLO XI.
LO INCENDIO.
Satanasso
(perchè altri esser non puote)
Strugge, e
ruina la casa infelice.
Volgiti, e mira
le fumose ruote
Della rovente
fiamma predatrice;
Ascolta il
pianto, che nel ciel percuote.
Ariosto.
Oh quanto fu gran dolore il
caso, che incolse al misero falegname ed alla sua famiglia! - Moglie, marito e
pargoletto dormivano tutti insieme nella medesima stanza sopra la bottega.
Dormivano..... ma un sogno
spaventoso travagliava la moglie, e le parea che un mostro immane, con occhi
infuocati, peloso nel corpo composto di nodi flessibili come il verme, e di ale
scure a modo di vipistrello, le tenesse le branche deretane fitte nei fianchi e
le anteriori nella gola, affaticandosi di strangolarla: tentava muoversi, la
meschina, e non poteva: s'ingegnava gridare, e non le riusciva. In ultimo si
voltò con supremo sforzo sopra un fianco: gli occhi sentiva gravi
così, da non li potere schiudere; eppure la facoltà visiva l'era
assorta dolorosamente da due globi di luce ora violetta, ora cerulea, come
fiamma di spirito di vino. Le arterie delle tempie le battevano con ispasimo,
non altrimenti che se fossero tese, e un demonio stringendole con pinzette
infuocate si dilettasse a farle vibrare di angoscia. Nella gola durava un
raschìo acerbo, quasi cagionato da arìsta di grano tranghiottita([67]): pure finalmente ella
giunse a schiudere gli occhi, e vide per terra una rete di fuoco che trapelava
fuori dalle commessure dei mattoni, e la stanza tutta appariva ingombra di
fumo: insopportabile calore accendeva l'aria; quindi a poco a poco il pavimento
si screpola, e dai vani aperti per la caduta dei mattoni ecco sbucar fuori
lingue di fiamma, le quali dopo pochi secondi crescono in orribile incendio.
- Al fuoco! al fuoco! - grida
la donna, girando attorno gli occhi spaventati; e si precipitava giù dal
letto per prendere nella culla il suo figliuolino.
- Al fuoco! - risponde il
marito esterrefatto; e così ignudo com'era corse all'uscio della stanza,
e lo aperse. Schiuso l'adito, ecco il fuoco allagare la camera: già
tutta la casa andava in fiamme: rifece i passi, con un braccio ricinse la vita
alla moglie, con l'altro al figliuolo, e via di corsa si tuffa senza rispetto
nel fuoco per guadagnare le scale. Le pietre degli scalini arroventate si
spaccano strepitosamente: lo incendio nel piano terreno infuriava in vortici a
mo' di turbine, e mandava un rombo come di uragano. I pannilini della madre e
del figliuolo già avevano preso fuoco; ma la madre, comunque
strascinata, tendeva sollecita le mani e andava estinguendolo su le carni del
fantolino. I capelli dei miseri fumavano abbronziti; nei piedi, nelle braccia e
nel viso essi pativano angosciose scottature. - Avanti! avanti! purchè
possano giungere alla porta di casa! - Già vi stanno presso; - anche un
passo, e la toccano; - l'hanno toccata...
Oh dolore! non la possono
aprire: - la squassano; la scrollano; invano... l'avevano sprangata per di
fuori.
Circondato da vortici di
fiamma, il misero padre ansante in così orribile guisa, che stava per
iscoppiargli il cuore dal petto, riprende fra le braccia il figlio.... la
moglie lasciò stare.... si sentiva rifinito di forza.... Mugolando,
improvvido di quello che si faccia, gira e rigira per l'andito;... poi, senza
consiglio, si prova a risalire le scale.
La moglie gli trae dietro da
vicino per modo, che dove egli alza il piede ella mette l'orma; e il marito
sentiva dall'alito affannoso di lei rinfrescarsi l'aria infuocata dietro le
spalle; - sempre schermendo dalle fiamme il figliuolo, e qualche volta il
marito.
Questi rientra in camera... ma
qui giunto sente mancarsi la lena ed il coraggio: gli balenano gli occhi nella
morte, e barcolla per cadere; pure in quell'ultimo istante gli bastò
l'animo di riporre il bambino nelle braccia della madre prima di spirare: -
parole non potè profferirne..... solo con lo sguardo, lungo come quello
della lampada prima di spengersi, rivelò una desolazione, che labbro non
può dire; - una desolazione, che se avesse potuto manifestarsi avrebbe
dichiarato così: Io non te lo raccomando, perchè tu non lo puoi
salvare! Poi, squilibrato, correndo su le calcagna ei dette indietro quattro
passi o sei, e percosse aspramente il muro tentando ghermirlo con le mani
pendenti.
La mattina furono viste le
impronte nere di sangue delle mani e dei piedi su la parete e sul pavimento.
In mezzo alle strette della
necessità così avviene degli appetiti fisici come delle passioni
dell'animo, che le più intense divorino le meno profonde; epperò
la donna già più non bada all'uomo che le fu sì caro, ma
con tutta l'anima circonda il corpo della sua creatura; - apre la finestra, e si
affaccia.
I capannelli raccolti per la
via videro una figura, in sembianza di Eumenide, disegnarsi in nero sopra un
colore di fuoco, e n'ebbero compassione e paura. - Ella spinse fuori dalla gola
un grido - uno solo - ma così desolatamente acuto, così
stridentemente disperato e selvaggio, che le viscere degli spettatori si
sentirono trafitte come da una spada. - Avrebbero voluto aiutarla, e ne
consultavano i pratici; ma i vecchi, con la tremenda pacatezza romana, sporto
il labbro inferiore, le braccia incrociate sul petto, guardavano obliquamente
lo incendio, e dicevano: Non ci possiamo far nulla; acqua non basta; e, a meno
di essere diavoli dello inferno, in coteste fiamme non si entra. Sapete, che
cosa resta a fare? Vedere spengersi il fuoco da se, e poi suffragare quelle
povere anime uscite dal mondo senza sacramenti.
Ora è da sapersi come
Luisa Cènci, persuasa dalla gelosia, travestita da uomo erasi aggirata
da più notti, ed anche in cotesta si aggirava intorno alla casa del
falegname per sorprendere suo marito; ma fino a lì eranle tornate le
speculazioni inutili. Nonostante ciò neppure per ombra piegava la mente
al dubbio, che altri l'avesse tratta in inganno; ma sì piuttosto
molinava coi suo cervello, che forse Giacomo non vi praticasse di notte, o che
gli amanti convenissero altrove, o in quel momento fossero corrucciati:
insomma; ingegnosa a trovare mille modi di tormentarsi con lo errore,
anzichè consolarsi per la piana via della verità! Condizione
tristissima degli uomini in generale, e delle donne in particolare, di compartire
facilmente fede al male, e ritenere tenaci i concetti che si sono formati,
comunque lesivi della propria dignità, o dannosi alla propria persona.
Ella pertanto accorse, come
gli altri, richiamata dagli urli e dal chiarore dello incendio intorno alla
casa; - e quando la ravvisò, il suo cuore ne sentì maravigliosa
esultanza: - quello che dà la colpa, ella pensava, la giustizia
ritoglie. -
Ella rimase immobile a
contemplare il caso; e se col desiderio non attizzò coteste fiamme,
nemmeno - sia lode al vero - ella le spense.
Prima che lo incendio si
manifestasse nella sua indomita rabbia alcuni borghesi erano andati in traccia
di corde e di scale, e già tornavano provveduti di una scala da
paratori, trovata nella prossima parrocchia: l'appuntellarono al muro, e poi voltarono
la faccia in su senza muoversi, perchè la copia delle fiamme irrompenti
di sotto e di sopra chiariva disperata la impresa.
Ma quando la madre, sbucando
fuori dal fuoco, e sorreggendo il pargolo con le braccia tese, gridò:
salvatemi il figliuolo! - Oh! allora una persona - una persona sola -
sentì sciogliersi il cuore, e questa fu Luisa Cènci. Tacque in
lei la donna, e favellò la madre: fattasi di un balzo a piè della
scala, così parlò con favella spedita:
- Orsù; breve è
il tratto, non difficile la impresa; Romani, chi di voi salisce a salvarli
avrà cento ducati d'oro.
E siccome nessuno mostrava
muoversi, ella dinuovo:
- Cristiani... animo... via...
a cui gli salva duecento ducati....
Nè anche questo premio
bastò a scuoterli; chè la paura del pericolo superava la
cupidigia. Luisa si trattenne un momento a pensare come non le rimanessero a
disporre che altri cento ducati, i quali spesi non ne avanzava pure uno per
suoi figliuoli; nè dal suocero forse avrebbe potuto per allora ottenere
altro soccorso. Non importa, pensò il momento dopo; e con voce
più forte, quasi volesse rimettere il tempo perduto, con raddoppiata
prestezza gridò:
- Trecento ducati a cui gli
salvi... trecento ducati d'oro, dico... trecento ducati servono per maritare
due figliuole... Romani! - Nessuno si allenta? Sgombratemi davanti... davanti,
dico... Cristo mi aiuti!
E leggiera come un uccello
salì su per la scala, mentre le stanghe, appoggiate al muro su in cima,
già abbronzite fumavano. Arrivata in prossimità della finestra,
nel medesimo punto ella disse:
- Datemi... e le fu risposto:
- Eccovi il figlio.
Si erano indovinate. Madri
entrambi, sapevano come supremo anelito pel cuore materno sia la salvezza della
sua creatura. Scese. Un giovane popolano, vergognando che altri non si fosse mosso,
si attentò a salire fino a mezza scala, raccolse il pargolo, e lo
portò in luogo di salvazione.
E Luisa risalì mentre
su per le stanghe delle scale scorreva la fiamma come lingua di vipera; cessava
dove poneva la mano, ritornava più vivida appena levata. Giunta faccia a
faccia della donna, che supponeva le avesse tolto lo amore del suo marito, tese
valorosamente le braccia... le braccia a lei, che aveva stretto nelle sue il
padre dei suoi figliuoli... l'altra vi si gittò delirante di affanno.
La Madre di Cristo
contemplò dall'alto dei cieli cotesto amplesso, e si compiacque essere
donna. Certo, non occhi umani nè celesti avevano veduto da secoli un
tanto prodigio di carità.
Luisa stringe di forza la
cintura della rivale, e scende...
- Presto, Luisa, chè la
scala arde;... presto, Luisa, chè crepitano carbonizzati le stanghe, e i
piuoli della scala. Oh Santa Vergine! perchè si ferma ella? Un secondo
è funesto. - Immemore di se, immemore del pericolo imminente, immemore
di tutto, non potè resistere alla cupidità immensa, che sentiva
di guardare in volto la sua rivale al chiarore dello incendio, e conoscere se
la superasse in bellezza. - Cuore di donna!
Quantunque ella apparisse
stravolta orrendamente dal dolore e dallo spavento, i capelli avesse in parte bruciati
e la pelle offesa da disoneste scottature, pure le sembrò, com'era,
leggiadrissima.
- Ah, gridò, come
è bella! - e vacillò su la scala.
Era giunta vicina a terra tre
scalini, quando con orribile fracasso sprofondò giù il pavimento;
le fiamme scomparvero, globi di fumo mescolati a miriadi di faville avvolsero
la casa, la scala e le donne. Un urlo spaventoso echeggiò fino all'altra
sponda del Tevere, chè reputarono coteste creature spente dal fuoco e
dalla rovina.
Indi a breve ecco lo incendio,
come l'orgoglio un momento umiliato, divampare più terribile di prima, e
di mezzo alle fiamme uscire Luisa incolume con la donna nelle braccia.
Gridi di giubbilo,
acclamazioni frenetiche ferirono il cielo: - chi è l'animoso giovane? -
Non lo so. - Ricordati averlo visto mai? - Mai. - E sì che non ha barba
in viso, e per uomo da tali fatti è piuttosto scarso di vita, che no.
Viva il valente giovane, vero sangue latino. - E più alti sorgevano lo
entusiasmo e gli applausi.
Il Signore ebbe misericordia
della moglie del falegname, la quale tratta fuori di se non conobbe il fato
lacrimevole del marito. Luisa sempre più infervorandosi nella sua
generosità, siccome avviene ai buoni, non patì che la donna
salvata fosse tratta all'ospedale; e risovvenendole di certa vedova sua
casigliana, che le aveva raccomandato, capitando, di appigionarle due stanze,
fece conto di accomodarla là dentro: molto più, che essendosi
messa a risico di spendere per cotesta famiglia fino a trecento ducati, e
trovandosi adesso ad averli risparmiati, pensava, che quando anche per condurre
a fine la opera buona avesse dovuto impegnarcene attorno un centocinquanta, le
ne avanzava l'altra metà pei fatti suoi.
E per mandare subito ad
effetto la presa determinazione ordinò che stendessero la donna sopra un
lenzuolo tratto fortemente dai lati da quattro uomini robusti, i quali si
prestarono volonterosi a cotesto ufficio. Ella si recò in collo il
bambino sorreggendolo col braccio destro, e chiese di alcuno che caritatevolmente
sostenesse anche lei; però che le girasse il capo, e le paresse che di
sotto i piedi le venisse meno la terra. Dalla folla stipata intorno a lei
uscì un uomo membruto, ed aiutante della persona, coperto il capo, il
collo e il viso di copia grande di capelli e di barba, vestito a mo' dei ciociari
dei contorni di Roma.
- Prendete su! - egli disse
profferendole il braccio con voce assai più commossa, che non
lasciassero sperare le sue sembianze dure, e bronzate. - Appoggiatevi pur
sopra, che reggerebbe la colonna trajana. Se non vi da fastidio, mi basta
l'animo di portare voi e il putto ad un tempo.
- Lo credo. Dio ve ne renda
merito. Basta così. Ora voi altri avviatevi pian piano in via san
Lorenzo Panisperna a casa Cènci.
- Casa Cènci! - dando
di un passo indietro esclamava il ciociaro.
- In che trovate motivo di
maravigliarvi? Forse credete voi tanto straniera da casa mia la carità,
da levarne stupore? - Che cosa vi dà, in grazia, diritto di pensare
così, villano?
E siccome il ciociaro
tentennava il capo e non rispondeva, donna Luisa, come punta sul vivo,
aggiunse:
- E se volete sapere chi fu
che ardì salire la scala, mentre voi uomini rimanevate tutti immobili
dalla paura, - io vi dirò che fu una donna; però che in me
vediate la moglie di don Giacomo Cènci, e nuora del Conte don Francesco.
Il ciociaro adesso
traballò visibilmente: con la manca si Strinse forte la fronte
tenendovela per un pezzo, quasi volesse costringere le sensazioni e i pensieri
a non prorompere fuori della testa.
Io non vi farò mistero
dello essere di questo ciociaro. Voi, lettori miei, avete potuto chiarirvi a
prova come io non ami la maniera sospensiva del raccontare; però,
continuando a procedere per la via piana vi dirò a un tratto che il
ciociaro era Olimpio, e i quattro pietosi reggitori i lembi del lenzuolo erano
suoi compagni, e complici dell'orribile incendio. E non crediate già che
sentimento alcuno d'ipocrisia gli sospingesse a cotesti atti, o astutezza per
celarsi meglio; conciosiachè avessero commesso il delitto con tale
accorgimento, da non lasciare luogo a sospetto che fosse avvenuto piuttosto per
malizia, che per fortuna; ma proprio sinceri essi erano, ed esaltati dallo
esempio magnanimo di Luisa. L'uomo, per quanto tristo egli sia, contiene sempre
qualche parte di buono; e fra persone da arti lodevoli, o triste non assuefatte
a contenersi, o a fingere, il trapasso dal male al bene, e ai modi di
significarli avviene inopinato ed improvviso. Io non so se l'uomo nasca con anima
prava. Questo si trova nelle Sacre carte, e santi Dottori della Chiesa lo
hanno approvato; ma io ne dubito, e affermarlo decisamente non potrei. Solo
parmi che dentro noi di queste due cose succeda l'una: o la bontà ricama
sopra un velo di scelleraggine, o la scelleraggine ricama sopra un velo di bontà.
Chi meno ha pratica di fare i conti con la sua anima, e si lascia più
trasportare dai subiti moti del sangue forse sarebbe il migliore, se o la
ignoranza troppa, o le abitudini inique, o gli stimoli altrui non gli
chiudessero la via a ben fare, o in quella del male nol sospingessero.
Veramente, per sostenere
questa sentenza, in me fa mestieri fede di bronzo; perchè uomo al mondo,
io penso che non fosse mai scorticato vivo come me dal Popolo, il quale appunto
argomenta poco, e sente molto.
Il Popolo, dopo avermi
salutato amico e padre, ad un tratto mi disse vituperio; mi caricò di
catene, e mi chiamò a morte! Con questi miei orecchi udii i figli del
Popolo, che io mi studiai sempre, come potei meglio, onorare e avvantaggiare,
allagando il Palazzo della Signoria spartirsi poca moneta al lume dei lampioni,
e dire l'uno all'altro: «A te si perviene meno, perchè sei
piccolo; nè ti è bastato il fiato a urlare quanto me MORTE!
MORTE!»
Giuoco Roma contro uno scudo,
che cotesta moneta e coteste istruzioni vennero da tali, che saranno stati a un
punto fratelli della misericordia, guardie civiche, membri di mutuo
insegnamento, e degli asili infantili... Oh come si allarga l'albero della
ipocrisia sopra la terra, e l'aduggia tutta con l'ombra maledetta!
Avete ammazzato il cane -
sussurroni! - Godetevi i lupi.
Povero Popolo! Tu hai
perseguitato ben altri uomini, che non sono io. Dove giacciono le ossa di Giano
della Bella e di Benedetto Alberti? Io non lo so: quelle dei Medici hanno
sepolcro reale in san Lorenzo. - Dove riposeranno le mie? Chi può
saperlo? Pure non ti chiamerò ingrato, nè maligno,
come Dante; sebbene tu abbia perpetuata la voce, che correva ai suoi tempi:
Vecchia fama nel mondo ti
chiama orbo,
Sarebbe carità
percuotere il fratello perchè giace infermo? Questo argomento venne
adoperato un giorno, e con ottimo successo; ma da un Russo, e con Russi([68]): ed io, per la grazia di
Dio, nacqui italiano. Malattia d'ignoranza è più grave di
malattia di corpo; e i popoli si hanno da sanare, non già maledire e
percuotere.
Chiunque si apparecchia a
travagliarsi pei suoi simili sappia che non riceverà altra mercede, che
d'affanni. Prima assai di Prometeo lo avvoltoio divorava il cuore degli amici
della umanità. Il destino dei mortali progredisce lento rotando come una
macina immensa, e nel passare frange intelligenze e vite, lasciando dietro a se
una traccia di polvere d'uomini. Cemento tremendo composto di particelle di
cuore, di sangue e di lacrime, che vince in durezza lo stesso granito.
E se la morte fisica arriva
precoce per gli anni, anche troppo tarda sopraggiunge per le cure rodenti, per
le passioni che limano, e per gli occhi diventati ciechi nel contemplare una
luce che consuma. Quando poi l'uomo sopravvive a se stesso, che cosa attende
dal suo cervello e dal suo cuore? Ahimè! Una congestione, od uno
aneurisma.
Noi siamo morti; ma dentro al
nido composto d'odio, di vendetta e di vergogna mette l'ale adesso una
generazione di aquile, destinate forse alla vittoria.
Invero la parola ha seminato
abbastanza; ora tocca mietere, alla forza. Il pensiero può dare l'albero
della scienza, ma l'albero della vita è per le mani gagliarde; e la
libertà è la vita. Cessi una volta la generazione dei sofisti, e
sorga la generazione dei guerrieri. I retori non hanno mai combattuto una
battaglia. Maledetta la civiltà, che insegna a portare le catene come i
monili da eunuchi. Bolzari, Odisseo, Colocotroni, ed altri molti eroi, che
strapparono un lembo di terra dalle mani sanguinose del Turco, erano klefti.
- Io ritorno alla storia.
La sconsolata vedova era
tratta molto soavemente a casa di donna Luisa Cènci, la quale aveala
preceduta insieme ad Olimpio; e con la sagace sollecitudine di cui le donne
sole possiedono il tesoro, aveva già fatto apparecchiare il letto, e
cera, e olio, e cotone sodo, e altri tali rimedii, che a quei tempi, e forse
anche ai nostri, si reputano meglio efficaci per le scottature: mandò
eziandio pel cerusico, e per una balia. Questa, per buona ventura, fu rinvenuta
nella contrada, e venne subito. Udito il caso, e interrogata se si sentisse
capace ad allattare la creaturina finchè la madre fosse risanata, la buona
popolana rispose «magari!»; e senza altro invito prese il pargolo nelle
braccia, e trattasi in disparte se lo recò alle mammelle.
La madre delirò tutta
la notte ora piangendo sommessa, ora gridando disperatamente, secondochè
alla sconvolta fantasia si affacciavano immagini pietose, o terribili. Il
giorno appresso non istette meglio; il sopravvegnente ricuperò alquanto
delle sue facoltà mentali, e subito cercò il figlio. Risposerle
che le dormiva al fianco; volle muoversi, ma non potè, e con voce languida
favellò di nuovo:
- Per amore della gran Madre
di Dio non m'ingannate!
L'assicurarono con giuramento.
Allora pianse: poi domandò del marito, e le dissero, con pietosa
menzogna, giacersi malconcio assai della persona nell'ospedale, ma non senza
speranza di guarigione.
Luisa, che travestita da uomo
la vegliava del continuo, la confortò a tacersi, e a starsi di buono
animo; avvegnadio da cotesto smaniarsi non gliene potesse venire se non che
aumento di male, e ritardo del giorno desiderato di stringersi al collo il
figliuoletto; ed ella allora non flato più.
Luisa aveva posto maraviglioso
affetto alla desolata vedova, la qual cosa non ha da parere strana; chè
siccome la offesa pei petti mortali somministra ragione per offendere,
così il benefizio antico persuade il nuovo; e noi amiamo altrui meno pel
bene che ci fa, che per le cure che ci costa. Se poi questo muova da costanza o
da presunzione, o da altre buone o cattive qualità, io non saprei
affermare: bene io so, che quantunque riesca arduo, più che altri non
pensa, rinvenire la origine vera delle nostre azioni, il motivo non è
quasi mai solo, ma complesso e attorto di fili forniti in parte dagli Angioli,
e in parte dai demonii. Quale poi fosse la proporzione di questi fili
nell'animo di donna Luisa non è dato giudicare; giova credere fossero
angelici tutti; a me basti accertare, che ella amava cordialmente la vedova.
Se forte pungesse la donna il
desiderio di conoscere i particolari del commercio, ch'ella supponeva avesse
mantenuto seco lei il suo marito, non è da dire; ma la trattenevano
dall'appagarlo molte considerazioni. E prima di tutto non le pareva onesto
prevalersi dello stato di cotesta misera per istrapparle il segreto: poco
cristiano, e meno che consentaneo alla generosità fin lì
dimostrata da lei, tribolare, forse non senza danno della sua guarigione, la
inferma per farla parlare; e finalmente avendo accolto un dubbio, comunque
debolissimo, intorno alla verità dei suoi sospetti, amò piuttosto
oscillare in cotesta incertezza, che disperarsi nella odiata realtà.
Ma non vi è misura che
tanto presto si colmi, quanto quella della impazienza. Certo giorno ella sedeva
accanto al letto della vedova. Angiolina, che tale parmi aver detto si
chiamasse la vedova, contemplava il volto di Luisa con l'adorazione dei devoti
verso le immagini miracolose, e mormorava per lei benedizioni e preghiere.
Luisa la guardò fisso a sua volta; vide che le tornavano i floridi
colori della salute per la faccia, le scottature non lasciavano segno veruno, e
la donna ridiveniva bella più che mai fosse stata. Il cuore
palpitò alla gelosa impetuosamente nel seno, e sorridendo un cotal suo
riso amaro la interrogò:
- Ma sono io l'unico vostro
protettore davvero?
- E chi volete che si prenda
cura di una povera femmina come sono io, se non voi per vostra carità?
- E sì.... e sì
che la memoria, io credo, non vi aiuta a rammentar bene le cose.... in questo
momento.
- Ah! voi dite la
verità, esclamò Angiolina, facendosi vermiglia come per vergogna
di fallo commesso. Signore! O come possiamo, senza volerlo, diventare ingrati?
- Dunque.... tu hai un altro
protettore?
- Un altro protettore, come
voi dite, il quale ci ha beneficato assai....
- Sì, eh! E come si
chiama egli?
- Egli? - Il Conte
Cènci.
- Cènci? Cènci
hai tu detto? Cènci? - gridò Luisa come se l'aspide l'avesse
morsa nel cuore, e si tacque. Ma l'altra, secondo che la consiglia affetto, e
il desiderio di ammendare il fallo involontario, aggiungeva appassionata:
- Cavaliere sopra quanti altri
conobbi, eccetto voi, compitissimo e gentile. Per lui ci venne restaurata la
casa, che, guasta prima dall'acqua, adesso ha distrutto il fuoco: - egli volle
che io mi comprassi vesti sfoggiate, - orgoglio di una ora; - ed ebbi a toccare
da lui solenne rimprovero perchè non lo scelsi compare del mio figliuolo.
Luisa si morse le labbra in
modo che spicciarono sangue, e la interruppe con aspra voce dicendo:
- Basta!
E mentre per non tradirsi si
allontanava a precipizio, combattuta da passioni diverse mormorava:
- Sfacciata! E nemmeno si
rattiene da palesare la propria vergogna. Signore! Ma tu veramente comandi di
allevare le serpi che ci mordono il cuore?
CAPITOLO XII.
DELLO ASINO.
Sol l'Asino
gentil, l'Asino fino
Lodar si debbe,
e mi par che sia quello
Da scriverne in
volgar, greco, e latino.
Gab. Simeoni, Cap. dell'Asino.
E Verdiana si era fatta venti
volte alla finestra; altrettante si era posta ad annoverare i passi, che
secondo i suoi calcoli la canonica distava da Roma. Scese sul prato; e
comecchè tremolante su le gambe, si stese boccone, ed accostò le
orecchie a terra per udire qualche lontano rumore, che le annunziasse il
ritorno del Curato; - niente. Sorse, cantò le litanie, lo stabat
Mater recitò dieci volte il rosario, e poi si spazientì.
- Oh! vedete, borbottava,
quanto mai tarda quel benedetto uomo stamani.... ma che stamani? Ormai è
passato vespro, e qui la minestra diventa tutta una pania. Io per me non so chi
mi trattiene da desinare sola; e se poi giunge, e non potrà mangiare,
suo danno. Ma forse sarà trattenuto da qualche faccenda.... o forse
qualche malanno sarà capitato addosso a Marco (Marco era l'asino che
cavalcava il curato)... od anche al povero reverendo. Ahimè! meschina,
che cosa io vado immaginando? E perchè non potrebbe essere questo? Se
male può incogliere a Marco, non ci è ragione perchè non
possa succedere anche al curato. Santissima Vergine! pur troppo in fatto di
disgrazie non corre differenza alcuna fra Marco e il Curato, e per tutti, o
vogli uomini o vogli bestie, elleno stanno sempre apparecchiate come le tavole
degli osti.
Qui tolse i suoi ferri dai
quali pendeva una calza mezza fatta, e si mise a proseguirla con molta
prestezza; ma chi l'avesse osservata poteva accorgersi di leggieri, che nella
sua mente si formava un pensiero dolente come nei suoi occhi adagio adagio
andavano crescendo due lacrime, e le lacrime e il pensiero proruppero in un
medesimo punto; però che gittando smaniosa da parte e ferri e calza,
esclamò:
- Sicuro eh! se qualche
disgrazia fosse avvenuta a cotesto povero uomo, non avrebbe altrimenti bisogno
di calze nè di solette.... E perchè non ne avrebbe più
bisogno? o che forse tutte le disgrazie rendono inutili le calze?
E qui stesa la mano riprendeva
i ferri, cacciandone uno dentro al bacchetto.
- E poi, proseguiva, o morto o
vivo, le calze a qualcheduno saranno sempre buone...
Intanto riponeva in tasca il
gomitolo del refe.
- Buone per qualche poverello
di Dio,... ed anche per me...
Diciamolo a gloria del vero.
Verdiana aveva pensato a se dopo il curato e la sua cavalcatura, dopo il
prossimo, dopo di tutti; la sua carità si era estesa fin dove poteva
estendersi, e dalla periferia ritornava al centro. Per altra parte col medesimo
amore d'imparzialità dobbiamo aggiungere, che le sue mani non si erano
mostrate mai tanto sollecite come quando ebbe avvertita la probabilità
che le calze potessero rimanere per se.
Allo improvviso l'aria
dintorno rintronò dei ragli di Marco. Verdiana corse alla finestra, e di
là dalla siepe le comparvero entrambi i cari capi del Curato e dello
Asino: non già che volesse mettere l'uno a fronte dell'altro; Dio ne
liberi! Ma alla fine se al curato non potevano negarsi meriti grandi, anche
l'asino aveva i suoi; e per di più il curato, come Marco, non aveva
bevuto la luna.
Bevuto la luna? Così
almeno crederono un tempo in casa del curato, e fuori; poi per le persuasioni
di lui Verdiana incominciò a concepirne qualche dubbio; ma in quanto a
Giannicchio non ci fu verso a farlo ricredere, e lo avrebbe giurato anche sotto
la corda.
Giannicchio era un garzone
più povero di Lazzaro; portava vesti di cui metà era mota, e
l'altra toppe di ogni maniera, colore, e misura; una soprammessa all'altra come
la calca degli accattoni si affolla su la punta dei piedi a sporgere la pentola
alla porta del convento dove il cappuccino dispensa la minestra. Giannicchio
era uno di quei poveri figliuoli, i quali dalla madre natura non hanno ricevuto
altra benedizione, tranne uno schiaffo. Quanto si poneva a fare, tanto gli
riusciva a traverso: se prendeva una stoviglia la rompeva; se correva per
soccorrere, o urtava col capo nel muro, o andava a dare di cozzo nel naso della
persona che intendeva sovvenire; a chiedergli acqua avrebbe portato fuoco. Il
Curato affermò più volte, ch'egli doveva essersi trovato alla
torre di Babele a fare da manovale. Nonostante ciò Giannicchio malanno,
chè tale gli avevano appiccato nomignolo, era di così buona
pasta, tanto serviziato e amoroso, che sempre stava per casa al curato, e da
campare alla meglio ogni giorno rimediava.
Ora è da sapersi come
fuori della canonica si trovasse un pozzo, e accanto al pozzo la pila da
abbeverare le bestie, e lavare i panni. Certa sera Marco tornò tardi a
casa perchè il Curato lo aveva imprestato al Dottore, al quale in quel
giorno la cavalla erasi azzoppita dalla terza gamba; e fu deciso che ormai
nessuno potesse salirvi sopra, senza la quasi sicurezza di fiaccarsi il nodo
del collo. Nè Marco tornò solamente a casa tardi, ma vi
tornò trafelato. Trivia rideva nel plenilunio sereno, come dice
Dante, e vagheggiava il tondo disco nella poca acqua avanzata nel fondo della
pila come una ricca dama si contempla, in difetto di meglio, dentro uno
specchio da quattro soldi. Giannicchio menò Marco alla pila, e volgendo
gli occhi in giù vide la luna. L'Asino assetato bevve avidamente fino
all'ultima stilla l'acqua raccolta nella pila, e la luna scomparve. Allora
Giannicchio, preso da maraviglia e da spavento, si dette a gridare che Marco
aveva bevuto la luna. Tale era Giannicchio.
- O cari! o desiderati! -
esclamava la buona Verdiana, e si affrettava affannosa verso l'Asino e il
Curato. Abbracciò Marco pel collo nè più nè meno
con lo affetto di Sancio Panza; baciò la mano al Curato, e lo
aiutò a smontare. Siccome nella povera gente il dolore della perdita si
fa sentire più acuto assai che la speranza del guadagno, io non saprei
ridire quali, e quante suonassero le lamentazioni della Verdiana vedendo la
tonaca lacerata, e le altre cose più riposte sotto in pessimo arnese,
fatte manifeste in virtù dello strappo della tonaca: molto più che
dal volto nuvoloso del curato le pareva potere argomentare, che il viaggio
fosse riuscito indarno.
- Già m'immagino,
incominciò Verdiana, che anche per questa volta avrà fatto fallo
la promessa del chiedete, e vi sarà dato: - e intanto che
andava forbendo il curato dalla polvere, continuava: - il santo Evangelo
avrà inteso parlare della grazia gratis data, non già dei
ducati del sole.
- Silenzio, Verdiana; non
mormorate contro la Provvidenza, ch'è peccato; ho bussato, e mi fu
aperto; ho chiesto, e mi furono dati cento scudi...
- Cento scudi! E allora
facciamo i fuochi...
Il Curato sospirò; si
pose a cena; poco mangiò, bevve meno, e rispose rade e tronche parole
alle frequenti domande di Verdiana, la quale standogli attorno non rifiniva mai
d'interrogarlo così:
- Vi sentireste per avventura
incomodato, Reverendo? - Vi è forse accaduto qualche malanno in cammino?
- Avete avuto paura? - Benedetto uomo, ma parlate! Volete che io vi faccia un
po' d'acqua di salvia col miele.... o piuttosto un cotogno cotto nel vino.... o
veramente lo pezzette di aceto sopra le tempie? Un senapismo.... un
pediluvio.... un semicupio.... un cristeo?
- Ouf! - soffiò il
Curato, e disse poi: - fate tutta questa roba per voi, Verdiana, se ne avete
bisogno; sto bene, prima Dio, ed ecco i cento ducati...
- Ve' belli... belli! E' non
hanno mica torto a tenerseli stretti coloro che li possiedono.
- Date retta, Verdiana, questi
sono cento ducati; ma non bastano a gran pezza per la canonica, per le
masserizie di casa, e per la chiesa...
- Pazienza! Rifacciamoci
intanto dalla chiesa; alle altre cose il buon Gesù provvederà...([69])
- Provvederà,
sì; ma vedete bene, Verdiana mia, che se non prendiamo cura della
canonica, un giorno o l'altro ci troveremo a nuotare in casa.
- Meglio nuotare noi in casa,
che Cristo in chiesa.
- Sì; ma se il
sacerdote annega, il servizio divino rimane interrotto con danno gravissimo dei
parrocchiani.
- Già, in primis,
non rimane interrotto per nulla, dacchè, e Dio vi faccia campare mille
anni, morto un papa se ne fa un altro, come dice il proverbio; e poi in casa ci
piove, è vero, ma non vi si nuota, nè vi si affoga, che io
sappia...
- Sì; ma il savio
Ippocrate insegna: principiis obsta sero medicina paratur; la quale
sentenza sapete che cosa vuol dire, Verdiana? Vuol dire che se non si ripara in
tempo, la buca diventa fossa. Inoltre la veste abietta fa cascare nello
avvilimento chi la porta. Per colpa del sozzo servo talora venne in dispregio
anche il padrone.
- Ma egli è troppo
peggio, che prendano in odio il servo per la ingratitudine che mostra al suo
signore; e pensate un po' voi di quale signore si tratta.
Al curato pareva giacere sopra
la gratella di san Lorenzo, e sospirando ruminava fra se: come diascolo tutto
ad un tratto è capitato tanto giudizio a Verdiana! - E Verdiana
proseguiva:
- Io ho detto begli ai ducati,
perchè davvero mi piacciono; ma non mi paiono più belli della mia
coscienza, nè del mio obbligo, e molto meno poi del mio Gesù;
chè se niente niente temessi che vi avessero a far prevaricare, vedete
come io ne userei? - Verdiana ne prese due pugni, e mostrò volerli
gittare fuori della finestra - io li butterei per granturco alle galline...
- Verdiana! Verdiana! -
gridò il Curato abbracciando forte la fantesca a mezza vita, e
respingendola addietro, - ma che siete spiritata?
Quante fossero le parole dette
dalla Verdiana, e come pungessero acerbamente il Curato io tralascio; basti
sapere, che il Curato piegò il capo e pregò mentalmente che se
poteva farsi quel calice amaro, cioè Verdiana, fosse rimosso da lui;
sospirò; si pentì ripetendo dieci volte l'atto di contrizione;
deliberò rendere i ducati. Allo improvviso fissandoli, gli parvero i
trenta danari di Giuda; e, spaventato dal fine di cotesto traditore,
guardò tutto rabbrividito il fico dell'orto della canonica, e si
scostò dalla finestra; ma nel punto in cui stava per darsi in
balìa della disperazione, ecco balenargli un pensiero nella mente:
esultò come Archimede, quando ebbe trovato il modo di conoscere se nella
corona di oro avessero mescolato rame; si sarebbe per l'allegrezza dato un
bacio, se con le labbra avesse potuto toccarsi le gote; e sollevando la testa
umiliata, a mo' di cervo che ripresa lena continua la corsa, egli disse:
- Uditemi, Verdiana; voi avete
parlato molto e male, Dio vi perdoni. E chi vi ha insegnato a pensare tanto
tristamente del prossimo... di un curato... di me?... Parvi essere io stato,
per tutto il tempo che vivete con me, cosiffatto uomo da meritarmi simili
rabbuffi? E se nol fui, come da un punto all'altro di vino sarei diventato
aceto? Uditemi. Dal campo ha da uscire la fossa. Io e Giannicchio scerremo gli
embrici e i tegoli sani dal tetto della canonica, e gli adatteremo sul tetto
della chiesa: alla canonica gli riporremo nuovi: potremo tagliare sei camicie
alquanto lunghe, e quando ne occorrerà bisogno per chiesa aggiunteremo
una striscia di trina a qualcheduna di quelle, e serviranno per camici: dalla
coperta di cataluffo ricaveremo due pianete; una gialla, e l'altra faremo
tingere in rosso; le lampade e le ampolline si adoperano così in Chiesa
come in casa: - farò ancora raschiare, ritingere, riconficcare, insomma
riporre a nuovo il Crocifisso che tengo accanto al letto, e per le feste lo
esporremo in chiesa.
Il buon prete col suo cervello
aveva armeggiato in questa guisa: il patto fatto mi obbliga a non impiegare
nemmeno uno scudo in chiesa. Maladetto quel patto! Ma se tolgo le tegole e gli
embrici dalla canonica impedisco che l'acqua coli in chiesa, e osservo la
promessa: bene è vero, che così mi tocca a rifare il tetto alla
canonica; sia: ma potrò sempre sostenere, che per la chiesa non ho speso
un papetto. e rifiutare addirittura il danaro. Ma no... perchè se non
accettava non poteva sguarnire la casa per addobbare la chiesa. Quando il lenzuolo
è corto, il capo o i piedi hanno da restare scoperti. Dunque ho fatto
benissimo... benone!
E contento di se, si voltava
sul fianco sinistro. Oh curiosa! Qui trovava tutt'altra opinione: una voce, che
pareva nascosta nel capezzale, lo rampognava così: - garbuglione,
imbroglione, cavillatore, tu vorresti servire mezzo a Dio, mezzo a Mammone.
Signor no; o tutti a Dio, o tutti a Mammone: qui non vi ha strada di mezzo.
Sono questi gli esempii che ti porgevano il profeta Elisèo e san Pietro?
La tua sorte sarà quella di Simone Mago, che salì per aria in
virtù del diavolo, e cascò in terra per virtù di Dio
fiaccandosi le gambe; o per lo meno quella di Ghehazi, quando diventò
bianco da capo a piedi di lebbra([70]). Bella figura se ti
presentassi in pulpito come maestro Biagio il molinaro! E che cosa direbbe
Verdiana? Le offerte presentate senza il cuore puro vengono respinte dal cielo:
informi Caino; e tu accettasti danaro con patto espresso di non adoperarlo nel
servizio di Dio. Non è questo peggio della simonia, e della geezzia? Chi
non adora Dio egli è già diventato servo del Maligno. Levati...
levati e va al letto di Verdiana, e chiedile perdono; cotesta donna ha tanta
carità da vendertene. Levati... torna a Roma, magari in camicia; rendi i
ducati al Cènci, e digli: lasciatemi la mia povertà con la mia innocenza;
ricchezza col peccato non è affare che mi garbi. - Ouf! che caldo,
esclamava ad alta voce il curato; stanotte non mi riesce a prendere sonno; e
dando un gran voltolone pel letto tornò sul lato destro. Da questa parte
lo aspettava sempre il suo buon Genio, e: - consolati, gli mormorava soavemente
dentro gli orecchi, perchè la intenzione giustifica la opera, e in
questo mondo chi è savio si governa secondo il vento e la corrente;
chè se Verdiana continuasse a darti fastidio, tu le potrai allegare lo
esempio degli Ebrei, i quali prima di uscire dall'Egitto tolsero in prestanza i
vasellami di oro e di argento degli Egiziani, e verosimilmente gli adoperarono
nella fabbricazione dell'Arca: e le potrai citare eziandio il caso dei
figliuoli di Giacobbe, i quali per vendicarsi della sorella rapita persuasero i
Sichemiti a tagliarsi([71])...
ma no... cosiffatti esempii non sono da raccontarsi a Verdiana... gliene
racconterai un altro più accomodato... e più decente. Insomma la
intenzione giustifica le opere, se non presso gli uomini, almeno presso a Dio.
- Dunque ho fatto benissimo, benone! E a cui non piace mi rincari il fitto; - e
si addormentò.
Egli era un bel pezzo che
dormiva, quando allo improvviso gli venne rotto il sonno dalla testa da non so
quale insolito rumore: balzò a sedere sul letto, e gli parve udire un
lieve imprimere di orme sul pavimento; ond'egli ritenendo che il gatto di casa
avesse inciampato in qualche masserizia, allungò un braccio fuori della
sponda del letto, e presa una scarpa grave di chiodi di ferro e per le fibbie
d'argento, la gittò dalla parte donde gli parve che il rumore muovesse;
la scarpa colpì in pieno uno armario, che suonò come un tamburo,
perchè era vuoto. Verdiana destatasi allo strepito, incominciò a
strillare dalla stanza accanto:
- Reverendo, reverendo. Trista
moneta è quella che disturba i sonni, e Dio le mandi il mal giorno, e il
male anno: quando eravate più povero riposavate fino a giorno; adesso
non dormite, nè lasciate dormire.
Il curato messe il capo sotto
le lenzuola, e si turò le orecchia con le coperte per non udire cotesta
persecuzione.
La mattina don Cirillo, quando
si levò, guardò prima il cielo, e poi sott'occhio Verdiana;
quello gli prometteva una buona, questa una trista giornata. Si pose a cantare
a mezza voce matutino e le laudi, e prese a darsi grandissimo moto per
provocare qualche parola amica; ma e' fu tutto uno: a colezione, così
per rompere il ghiaccio, incominciò a domandare con disinvoltura il
prezzo ora di questa, ora di quell'altra cosa, e poi bravamente, con un tratto
da disgradarne ogni più arguto diplomatico, allo improvviso
osservò, come per tanta roba centocinquanta ducati gli paressero pochi.
Verdiana, colta alla sprovvista sul tasto delle biancherie, per le quali ogni
buona massaia sente tanta passione, dimenticata la origine degli scudi, si pose
a fare i conti con don Cirillo. - Questi, sebbene fosse non mediocremente
istruito, pure di conti non sapeva nulla; onde la somma non tornava mai.
Verdiana annoverava toccandosi i labbri con le dita, ma anch'ella in abbaco
andava poco innanzi. Allora il curato divisò prendere i ducati, e
separarli in tanti mucchii quante erano le cose da provvedere, giudicando ad
occhio: propose, insomma, lo scacchiere([72]).
Don Cirillo ebbe a
congratularsi del trovato strattagemma, imperciocchè riuscisse a
mansuefare l'umore della Verdiana, e a sollevare se stesso; chè la vista
del danaro letifica il cuore dell'uomo. Di ciò porgono testimonianza gli
stessi testoni di Clemente XII, dove si trova la leggenda: videant pauperes,
et laetentur([73]).
Ora i poveri vorrebbero introdurre nella leggenda una variante, intorno alla
quale fin qui non se la sono intesa co' ricchi, e credo che vogliano stare
ancora un pezzo prima d'intendersi. La variante consisterebbe nel surrogare habeant
al videant; e certamente bisogna confessare che, non ostante la leggenda
di Sua Santità, i poveri dalla sola vista del danaro non pare possano
avere motivo di menare sterminata allegrezza.
E per mettere in pratica il
consiglio, il curato si avviò alla camera seguìto da Verdiana, la
quale gli andava dietro ripetendo:
- Vedrete che al conto, che
fate voi, ce ne mancheranno una diecina... o una ventina.
- Ed io sostengo, ch'essi
hanno a bastare, - e piegò la persona per sollevare il coperchio dello
inginocchiatoio; ma ad un tratto si raddrizzò interrogando:
- Verdiana, che diamine mi
diceste ieri sera? - Che la farina del diavolo se ne va in crusca?
- E' lo dicevo, perchè
in gioventù sentii raccontare da un frate predicatore, che il Demonio
fece il patto con un contadino di comprare la sua anima per mila scudi:
sottoscritto il foglio e pagato il danaro, il contadino andò a casa col
sacco; ma la mattina fu trovato morto nel letto, e il sacco pieno di carbone:
così perse l'anima e i quattrini.
- State sicura, Verdiana, che
questa moneta non mi viene da parte del diavolo, bensì da un fiore di
gentiluomo romano: però io so una storia di scudi volati senza opera
diabolica; e se a voi piace ascoltarla, io ve la racconterò.
- Giusto! ho tempo di ascoltar
novelle! A mano a mano siamo a mezzo giorno, e non ho anche messo la pentola al
fuoco...
- Ci è più di
un'ora a mezzodì, Verdiana; e poi la è storia breve... storia,
intendete bene, non novella...
- Via, fate presto, che io vi
ascolterò.
Il curato appoggia i reni al
saccone, e punta entrambi i piedi sul pavimento: poco oltre, davanti a lui,
Verdiana stava ritta ad ascoltare: in mezzo ad essi era lo inginocchiatoio.
- Dovete dunque sapere,
incominciò don Cirillo, che ci fu una volta un vecchio avaro, il quale
quando del danaro prestato prendeva l'usura del cinquanta per cento gli
sembrava regalarlo. Ora costui non volendo per la sua tristizia fare la spesa
di un forziere di ferro, comprò una cassa da morto; la cerchiò da
se, come seppe meglio, di bandelle di ferro, e vi adattò una vecchia
serratura; poi la nascose sotto il letto, e di mano in mano andava a
depositarvi la male acquistata moneta. Quantunque poco temesse di ladri, per
essere casa sua guardata diligentemente, pure onde allontanare ogni sospetto
quando mai pervenissero nella stanza, scrisse sopra la cassa «Hic est
Christus Dominus meus»([74]): quasi volesse dare ad
intendere che quella fosse una reliquia, e così rinforzare la debolezza
della serratura con la reverenza della religione. La Provvidenza, certamente
per punirlo della sua cattiveria, gli dava un figliuolo sprecone quanto egli
era avaro, e bevone da vincere il palio con le spugne; giuocatore poi - da mettere
su lanzichenetto in mezzo alla brace accesa; nè qui si fermava; che
possedeva certe altre taccherelle, le quali, voi capite Verdiana mia, che le si
vogliono tacere honestatis causa, et caetera. Se il vecchio spigolistro
tenesse il figliuolo allo stecchetto non importa dire, e se questi lo avesse in
fastidio importa dire anche meno. Il figlio spiando il padre, un giorno lo vide
entrare in camera, chiudersi dentro, e, messo l'occhio al foro della serratura,
vide ancora com'egli aprisse la cassa, e vi riponesse dentro buona
quantità di danari. Al giuocatore venivano a un punto i sudori caldi e
freddi addosso: appena il vecchio uscì di casa, ecco quel tristo con
suoi ferri e grimaldelli arrovellarsi intorno ai serrami; aperti che gli ebbe si
empiva le tasche, e prestamente si allontanava, non senza però avere
scritto prima sotto la cassa questa altra iscrizione «Resurrexit, et non est
hic»([75]);
e così il malvagio vecchio imparò a sue spese a profanare i testi
del santo Evangelo.
- E fosse finita qui!,
aggiunse la divota Verdiana; ma il peggio tocca di là, e pochi ci
pensano...
- Sicuramente; e quando se ne
avvedranno sarà tardi... Dunque voi persistete a sostenere, che ne manca
una diecina...
- O dieci... o venti...
- Ora lo vedremo... Io tengo
per fermo, che devano arrivare...
E sollevò la
predella... Il danaro era sparito.
Don Cirillo rimase giù
curvo della persona, con la predella sollevata, la testa e il collo volti verso
Verdiana. Verdiana chiuse gli occhi, e allungò ambedue le braccia con le
mani giunte sul capo a sesto acuto: parevano colpiti da catalessi. Così
stettero lungo spazio di tempo, senza dire parola, senza battere palpebra. Una
molto acerba battaglia si combattè nell'animo di don Cirillo mentre
tenne curvata la persona. In quel turbinìo di passioni grande era il
dolore della somma perduta, grandissima la maraviglia di vederla sparita, ma
fuori di misura più grande il rimorso di averla accettata a condizioni
sicuramente non pie. Don Cirillo raddrizzandosi lentamente, parve avere vissuto
dieci anni in un minuto: però senza amarezza alcuna disse alla serva.
- Verdiana mia, voi siete
stata profetessa.
- O meschina me! non avessi
mai parlato...
- E adesso, che cosa ci avanza
a fare? - domandò il Curato dandosi della palma aperta sopra la fronte.
- Rassegnarci ai voleri di
Dio...
- Donna, voi avete parlato una
savia parola. - Però, e notatelo bene, Verdiana, qui dentro non ci ha a
vedere il demonio. Queste orme polverose per la casa, la finestra che dà
su l'orto rotta, e il rumore che stanotte ci ha desti, chiariscono apertamente
che qualche ladroncello del vicinato ci ha fatti tristi. Dio gli perdoni, e
possano cotesti danari giovargli meglio che a me.
Ma oh! come l'affanno di
queste povere creature toccò il limite estremo quando, scese nella
stalla, non rinvennero più neanche Marco! Di quali pianti non
risuonò la canonica, di quali disperati guai? Marco co' più dolci
nomi chiamavano, Marco invocavano, Marco dal cielo con ardentissime preci e con
supplici voti chiedevano, e i campi intorno si sentivano risuonare: Marco!
Marco!
Si univa al lamentevole coro
anche Giannicchio, il quale provandosi consolare quel supremo dolore si era
adattata al collo la cavezza dell'Asino, e postosi davanti alla mangiatoia,
proprio nel luogo già occupato da Marco, andava dicendo così:
- Don Cirillo non piangete,
Verdiana mia asciugatevi le lacrime; - io vi terrò luogo di Marco, vi
servirò come Marco. Reverendo, quando vorrete andare a Roma io vi
porterò a cavalluccio su le spalle comodamente come Marco.
Un'angoscia cupa
subentrò, come avviene, allo affanno clamoroso; nè sembra che le
consolazioni di Giannicchio trovassero grazia presso don Cirillo, nè
presso Verdiana. Non si parlò di mangiare: non già che Verdiana
omettesse apparecchiare; ma nel servire a tavola il Curato di tratto in tratto
voltava altrove la faccia per non mostrargli qualche lacrima, che suo malgrado
le scappava dagli occhi. Don Cirillo guardava fisso il piatto, ma non toccava
la vivanda; o se pure ne prendeva un boccone con la forchetta per recarselo
alla bocca, appena aveva alzato il braccio lo riposava, e poi con un grosso
sospiro rimoveva da se intatta la pietanza. Ah pur troppo è amaro a
inghiottirsi il pane bagnato di pianto! Don Cirillo si levò, scese, e si
mise a sedere sopra il muricciòlo a destra della porta di casa; e per
fare qualchecosa, si pose con un bastoncello a segnare di linee il terreno. Si
vedeva chiaro che cotesti erano moti puramente macchinali, e il suo pensiero galoppava
le mille miglia lontano di là; ma o sia che la passione non abbia sede
particolare, o sia che le membra conservino spontanee il moto che in loro
impresse lo affetto, fatto sta, che le mani del curato tracciarono su l'arena
il profilo di Marco. Verdiana sul muricciòlo a sinistra guardava le
galline, - le guardava; ma con le mani in tasca non udiva la costoro petizione
collettiva, che domandava il solito sussidio di grano turco. Giannicchio seduto
sotto il pagliaio piangeva, e si sfogava col pane dandogli tali morsi da far
temere anche pel pagliaio, caso che il pane non gli fosse bastato.
Il pensiero del prete dopo
avere viaggiato per diverse regioni, si fermò finalmente su Giobbe:
considerò innanzi tratto ch'egli non aveva moglie, e questo gli parve un
primo argomento di consolazione; poi pensò che non aspettava amici, e
conobbe, che se uno solo di quei di Giobbe, o il Temanita o il Suhita, gli
fosse cascato addosso sarebbe bastato a farlo gittare a capo fitto nel pozzo: e
finalmente la coscienza questa volta, sgombra da passione, discorrendo schietta
e senza garbugli, gli dichiarava ch'egli aveva commesso peccato grave contro
Dio, e che doveva ringraziarlo di cuore se lo sottoponeva a cotesta ammenda
leggiera: onde si levò da sedere con volto mestamente sereno
rimanendogli dentro una umiliazione, la quale se avessimo voluto decomporre nei
suoi elementi avremmo trovato per lo appunto: che per un quarto vi entrava il
rimorso della mala accettata moneta; per un altro quarto la vergogna delle
parole scandalose adoperate con Verdiana, e per una buona metà il dolore
della perdita del povero Marco.
- Dio me lo ha dato,
sospirò don Cirillo, Dio me lo ha tolto; sia fatta la volontà di
Dio: pel peccato che ho commesso, la tua mano, o Signore, mi punisce soavemente.
Appena il buon curato aveva
posto fine a coteste parole, come se la Giustizia divina soddisfatta volesse
aprirgli di nuovo la fonte delle misericordie, ecco rimbombare dintorno per le
valli e pei colli il raglio glorioso e trionfale, che pareva - o voluttà
celeste! - ed era certo di Marco; e appena ebbero tempo di dirselo, che Marco,
incoronato di verdi fronde la testa, scavalca secondo l'usato costume la siepe,
e come saetta volante corre verso il padrone. O come incoronato? domanda il
lettore, e aggiunge: queste le sono bizzarrie di romanziere. Sì signore,
incoronato; e il come vi sarà detto poi. Intanto compiacetevi, signor
lettore, meco di contemplare Marco incoronato; non dico di alloro
perchè, voi lo sapete, di questo
.......rado se ne coglie
Per coronare o Cesare o Poeta,
Colpa, e vergogna delle umane
voglie([76]);
ma di varia maniera fronde
corbezzolo, e quercia; e la quercia era pure nobile corona da stare a petto con
l'alloro, imperciocchè nell'antica Roma si destinasse a colui che
salvava in battaglia la vita a un cittadino romano, e si chiamasse civica.
A questo pensa, lettore, e riponti in mente, che là dove si onora la
virtù vera, supremo ufficio civico è salvare un cittadino in
battaglia, e non tradirlo in pace. - Marco pertanto apparve con la corona civica,
ed era un Asino.
Gli abbracciamenti, i baci, e
i colpi lieti([77]),
i risi, i pianti di tenerezza,
i parlari confusi, e simultanei erano una pazza cosa. Marco anch'esso si
sentiva commosso come gli altri; non affermerò che ancora egli piangesse
e ridesse, quantunque con l'autorità di scrittori gravissimi io potrei
sostenere anche questo, e la commozione interna egli manifestava con voce
potente a superare ogni altro grido. Marco era il Lablache di cotesto coro. Don
Cirillo lo liberò dalla sella e dalle bisacce, senza avvertire se
fossero vuote, o piene. Giannicchio prima di tutto lo abbracciò e lo
baciò; poi lo stregghiò, lo lavò, gli rinettò la
coda dai pungitopi e dai pruni. Verdiana gli apparecchiò paglia fresca
ed erbette; anzi volgendo gli occhi da un lato dell'orto vide un magnifico
cavolo cappuccio, che pareva un senatore: stette fra due se lo dovesse serbare
per una minestra di riso pel curato, o darlo a Marco; ma vinse amore per
questo, e risolutamente lo svelse, lo lavò, e lo sminuzzò nella
mangiatoia di Marco. Era il ritorno del figliuolo prodigo, ed ella uccideva la
vitella grassa. Cotesto giorno, si può dire che l'Asino facesse pasqua.
E per Asino, bisogna
aggiungere, che Marco ebbe in cotesta solennità convivale quasi gli
stessi onori di papa Bonifazio VIII al banchetto della sua incoronazione;
conciosiachè se lui servirono due re, l'Ungherese e il Siciliano, in
regio ammanto, e la corona in capo, il Curato e Verdiana ministrassero a Marco.
Vero è bene che il curato non vestiva il piviale; ma in compenso
Giannicchio gli fece da coppiere, conducendolo alla pila dov'egli già
bevve la luna. Sazio, non stanco, di mangiare, Marco sentì alfine il
bisogno di riposarsi: egli veramente non disse: buona notte a nessuno;
ma lo fece capire abbastanza stendendosi sopra la paglia, chiudendo gli occhi,
e declinando il capo. Usciti dal presepio, il curato raccolse le bisacce; e
questa volta essendo sgombro da passione, notò come pesassero
gravissime, e v'immerse dentro la mano. Potere del mondo! Sognava, od era
desto? Gli parve toccare moneta: le rovesciò per terra... scudi! ducati!
- e quanti! Don Cirillo e Verdiana si stesero sul prato; e fatto cumulo del
danaro, parve loro che fosse quattro e cinque volte tanto quello di prima. Oro,
argento da mandare in visibilio ogni cervello sano: conta e riconta, vennero a
capo di conoscere che dovevano essere circa quattrocento cinquanta ducati.
- Ora mi sembra, che
c'incastri ogni cosa - disse don Cirillo; ma Verdiana, alzando il dito,
rispose:
- Egli è ben nostro
questo tesoro? Badiamo, Reverendo, badiamo che Dio non ce lo abbia mandato per
provarci una seconda volta.
- Verdiana, dapprima ho
pensato come voi; ma poi mi sono persuaso che questo danaro ha da appartenere
al ladro; egli non può essere qui del vicinato, ma sarà
sicuramente qualcheduno dei banditi che bazzicano per la campagna. Ora voi
capite, che renderlo a lui sarebbe peccato, e ai derubati impossibile. Io
proporrei - e questo disse con esitanza - che per noi spendessimo un cento
cinquanta di ducati, ed ogni rimanente per la chiesa, e pei poverelli di Dio; -
sicchè faremmo restaurare ambedue i Crocifissi - quello di chiesa, e
l'altro di canonica.
Parve che la proposta garbasse
a Verdiana, perchè soggiunse senza obiezione:
- E lasceremo stare la coperta
di cataluffo sul letto, e compreremo le pianete di bel damasco nuovo.
- E le camicie non
trasformeremo più in camici.
- E i tegoli della canonica
rimarranno alla canonica, e quelli della chiesa alla chiesa.
- È giusta; a Cesare
quello ch'è di Cesare, a Dio quello ch'è di Dio.
- Ma ieri non aveva ad essere
così...
- Non ci pensiamo più,
via. Il Signore ha perdonato, e voi volete conservare amarezza? Verdiana,
sareste meno misericordiosa del Signore?
- Me ne guardi Maria
Santissima! Voi avrete due tonache nuove; una per la state di cammellotto, e
l'altra pel verno di panno; e ancora due para di calzoni, perchè ieri...
mi parve veh! di vedere quelli che portate ridotti in pessimo arnese...
- E voi due gonnelle; una di
stame, e l'altra di lana.
- E le stoviglie?
- E gli asciugamani?
- Le stoviglie sono proprio
necessarie - perchè, ora che ve lo posso dire senza affliggervi, avete a
sapere, che da un pezzo in qua voi mangiate sempre nel medesimo piatto; e
quando andavo in cucina io lo lavava presto presto, e ve lo riponeva su la
tavola per modo, che non ve ne poteste avvedere.
- E con gli asciugamani
lasceremo stare in riposo il gatto.
- O Signore, come siamo
poveri! Io non me n'era mai accorta come adesso, che, avendo danaro da
spendere, penso a provvedere le cose che mancano.
- Così è; il
danaro fa come il sole; scuopre la miseria, e la rallegra.
- Ma a noi abbiamo pensato
anche troppo.
- Giannicchio avrà di
una stoffa sola la prima vesta, che abbia portata nel mondo.
- E Marco la cavezza nuova.
- Anzi... gran benedetta
bestia è quel Marco! - e voi, Verdiana, la benedetta cristiana,
perchè ambedue mi porgete occasione di fare un'opera buona. Veronica, la
povera lavandaia, ha perduto il suo asino, ed ora se ne sta maninconiosa non
sapendo a qual santo votarsi. Ella non può andare a Roma pei panni, e i
suoi garzoni non guadagnano più il pane con la carretta. Orsù;
datemi una ventina di ducati, che io me ne andrò senza porre tempo fra
mezzo a consolare la desolata, e nello stesso viaggio menerò meco i suoi
figliuoli, ed il suo cane perchè ci facciano un po' di guardia stanotte.
Voi capite, Verdiana, che se il ladro venne pei miei danari, molto più
si proverà a tornare pei miei e pei suoi; ed è bene ch'ei sappia,
che quaggiù non tira vento buono per lui.
E come disse fece il dabbene
don Cirillo; nè male gl'incolse essersi armato di provvidenza, imperciocchè
durante la notte successiva il cane non cessò mai di brontolare e
latrare: in seguito fu pace.
Marco diventò vecchio;
e il Curato e Verdiana, com'è da credersi, non ringiovanirono certo. Un
giorno il curato, dopo cena, levò la mano, secondo il suo costume quando
voleva annunziare qualche solenne novella. Verdiana incrociò le mani sul
petto per udirlo più raccolta. Giannicchio si rimase a mezza stanza con
un piatto in mano che riportava in cucina, tenendo il corpo rivolto verso la porta
e il capo indietro verso il curato per non perdere le sue parole. Don Cirillo
incominciò così:
- I nostri antichissimi
progenitori...
- Quanti anni sono?...
- Più di millanta....
ma non m'interrompete, Giannicchio...
- Mandarono in Grecia savii ed
avvisati uomini perchè prendessero notizia delle leggi con le quali si
governavano costà, essendo predicate dalla fama giustissime e
religiosissime, per reggere con rettitudine pari questa nostra contrada...
- Ma Grecia non è paese
di Turchi?
- Verdiana non
m'interrompete... In cotesti tempi non si conoscevano Turchi... non sapete che
io parlo di quando Virginio ammazzò la sua figliuola honestatis causa?
I Greci pertanto come somministrarono ai progenitori nostri notizia delle
ottime leggi, così dettero a noi esempio umanissimo del modo da
praticarsi verso il nostro antico compagno Marco. Gli Ateniesi, dopo avere
fabbricato un magnifico tempio, chiamato Ecatompedone, a Minerva,
ch'era, come sarebbe a dire, una santa per cotesti tempi...
- O adesso, che cosa ne hanno
fatto di cotesta santa?
- Giannicchio, non
m'interrompete... i Greci affrancarono da ogni fatica gli Asini e i Muli che si
erano travagliati intorno a quel lavoro, e li dichiararono signori e padroni di
vagare e pascere dove meglio venisse loro talento; e si legge eziandio in certo
libro stampato, come uno di cotesti Asini vivesse interi ottant'anni([78]).
- Quasi quanto noi...
- Che maledetto vizio! Ma
Verdiana non...
- Sarà stato un
miracolo di santa Minerva...
- Ma Giannicchio non
m'interrompete. Minerva non poteva operare miracoli - perchè adesso ella
sarebbe, come dire, un diavolo.
- Come un diavolo? O a Roma
non ci è pure Santa Maria della Minerva? Possibile che, secondo voi, vi
fosse adesso una Santa Maria del diavolo?
- Ma Verdiana, per l'amor di
Dio, lasciatemi parlare; queste altre cose vi spiegherò a suo tempo per
filo e per segno...
- Purchè facciate
presto...
- Omnia tempus habent,
cara mia; ogni frutto ha la sua stagione.
- Sì, ma ponete mente
che noi abbiamo anni quanto lo Asino di Atene...
Don Cirillo, per liberarsi da
cotesto fastidio delle interruzioni, male oggimai diventato incurabile in casa
sua, precipitò il discorso, aggiungendo:
- Per le quali considerazioni
ed esempii io propongo che si abbia a giubbilare Marco, facendogli le spese
come buono e fedele servitore finchè a Dio piaccia di tenerlo fra noi.
E Verdiana di rimando:
- Sentitemi, don Cirillo, io
non leggo libri stampati come leggete voi; ma la ragiono così: vecchi
siamo anche noi, pure per la grazia di Dio non impediti in verun membro, o
sentimento del corpo: però, finchè la Provvidenza ci mantiene
destri, vuol dire, che secondo le facoltà nostre intende che qualche
cosa facciamo. Tempo per riposarci, Reverendo, ce ne avanzerà anche troppo
quando anderemo a dormire nel campo santo. Contro alla opinione di vostra
Reverenza io dichiaro, che Marco essendo vecchio può affaticarsi nei
lavori che convengono ai vecchi; non più sassi egli deve portare,
nè mattoni, nè calcina; non più grano al molino, nè
some di vino al mercato; non più il Dottore, ch'è più peso
di tutte queste robe; ma gli basteranno molto bene le forze per portare erbe in
Roma, e ritornare carico di qualche coserella che ci potesse abbisognare. Ciò
lo conserverà sano, e a noi sempre gradito; perchè vedendolo
ozioso a ingrassare, chi sa che non ci cadesse in disgrazia come un
disutilaccio mangiatore di pane a tradimento.
- Verdiana, voi siete la erede
vera della Sibilla Cumana.
Come poi successe il caso
dell'Asino tornato, e del danaro cresciuto potranno sapere tutti coloro, i
quali si compiaceranno leggere il veniente capitolo.
CAPITOLO XIII
IL TRADIMENTO
Poichè
si vide il traditore uscire
Quel che avea
prima immaginato invano,
O da se torlo,
o di farlo morire
Nuovo argomento
immaginossi, e strano.
Ariosto, Orlando Furioso.
La notte era alta, e don
Francesco Cènci se ne stava ridotto nel suo studio, leggendo con molta
attenzione il libro di Aristotele intorno alla natura degli Animali; e
ad ora ad ora si soffermava meditando, e notando sopra i margini con
minutissima scrittura le riflessioni, che gli si affacciavano allo spirito. Ad
un tratto batterono le due dopo la mezza notte: lo squillo percosse l'aria
acuto come una domanda superba. Pareva che interrogasse: «chi ardisce vegliare
in questo tempo di morte?»
- Veglio io, rispose don
Francesco, ma senza pro. I misteri della natura si tentano invano. - Gira,
rigira; io te lo do per giunta, se riesci a ritrovare la porta donde sei
entrato. - Chi inventò a distinguere il tempo, che fugge in ore, in
minuti e in secondi, io per me tengo che fosse uno dei peggiori tristi che mai
abbiano vissuto nel mondo. Capisco ancora io che, viaggiando per Roma o per
Napoli, l'uomo possa mettere il capo fuori della carrozza onde procurarsi il
piacere di leggere sopra le colonne migliarie di quanto spazio ha accorciato il
termine del suo viaggio; ma quando la città a cui ci avviciniamo
è Necropoli, il Campo-santo, oh! allora vada allo inferno chi mi
dice: «siamo per arrivare; ecco l'ultimo miglio!» Queste ore battute,
allorchè sono passate ci percuotono come il rumore di un frammento di
vita, che ci caschi da dosso per non ritornarci mai più. Forse in
giovanezza, quando un orecchio tintinna pei sonagli che vi squassa vicino la
follìa, e l'altro ronza d'inviti che vi sussurra dentro la bocca
lasciva, il mal suono o non giunge, o giunge fioco. Adesso poi, nella
età in cui mi sono condotto, mi pare che le ore scappino più
veloci, come i fantini raddoppiano le sferzate all'ultimo giro del palio: Motus
in fine velocior. Ora pertanto bisogna attendere con ogni studio... a che
attendere? Tutto è contrasto, disordine e confusione nel mondo: noi
siamo in guerra contro noi stessi. Io, che dai primi anni ho abbracciato un
partito, e mi vi sono confermato con la riflessione, e ostinato con le opere;..
io pure, quando meno me lo aspetto, sento dentro di me uno spirito che discorda
da me, e sempre contradice, e perfidia, e con lusinghe, o per forza vorrebbe
strascinarmi in parte ove io non voglio andare: se fosse un occhio, o una mano
ribelle potrei strapparlo, o tagliarla; ma come arrivare a mettere le mani
addosso a questo spirito di rivolta? - Se però non posso strangolarlo,
posso ben vincerlo. O spirito di rivolta, perchè ti consigli trattenere
il torrente della mia volontà con i tuoi dicchi di ragno? Se tu sei un
angiolo, da' retta a me, torna a casa tua perchè predichi al deserto; se
demonio, vattene, non m'infastidire adesso: faremo i conti tutti in una volta.
Beatrice pensò atterrirmi quando minacciava, che i posteri diranno di
me: «ai tempi del profeta Natan i flagelli di Dio erano tre, poi diventarono
quattro: fame, peste, guerra, e il Conte Cènci»; e nessun cortigiano mai
trovò blandizie più piacenti con la sua lingua dorata. - E
così fosse! Ma i posteri non sapranno neppure che tu sei vissuto. Tutto
è vecchio, consumato; tutto casca a pezzi quaggiù. I nostri
terribili genitori ci hanno divorato tutto; essi ci hanno diseredati persino
della facoltà d'infamarci. - O Tiberio, o Nerone, o Domiziano, voi ci
avete tolto il diritto di poterci chiamare scellerati. - Voi tuffaste la bocca
nel fiume della lussuria e della ferocia mentre a noi avanzano poche stille per
saziare la sete. Eppure io mi sentirei cuore e mente da superarli; e se la
fortuna mi avesse dato uno impero, o il soglio pontificio, avrei così
spigolato nel vostro campo, o Imperatori augustissimi, da non invidiarvi la
raccolta. L'arte può supplire, ed anche superare la forza: vi sono
diamanti i quali, sebbene piccoli, vincono con la limpidità della loro
acqua gemme di mole maggiore. Peccato galoppa, galoppa; poca è la via
che rimane... portami nello inferno di carriera serrata...
Un bussare precipitoso alla
porta segreta interruppe il corso delle sue malvage riflessioni: credendo fosse
Marzio venuto per qualche subito caso, si accostò in fretta, ed aperse.
Olimpio anelante, col capo bendato di una tela sanguinosa proruppe dentro la
stanza, volgendo il capo indietro come uomo che sospetti essere inseguito, e si
gettò a sedere asciugandosi col braccio il sudore della fronte. Don
Francesco, comecchè peritissimo a dissimulare, male poteva nascondere la
sorpresa e il dispetto alla vista di costui; pure fingendo alla meglio, che
potè, lo andava interrogando:
- E qual diavolo ti sbalestra
in questo arnese, e in questa ora quaggiù? Tu sei ferito! Quale stroppio
è egli accaduto?
- Traditi, don Francesco,
traditi; ma giuro a Dio e agli apostoli Pietro e Paolo, che prima di morire io
vo scannare quel brutto Giuda traditore, fosse anche mio padre.
- Traditi! E come può
essere? Ma tu grondi sangue!
- Non vi badate; egli è
un nonnulla, come sarebbe a dire una sopraccarta di pistolettata... la palla mi
ha fregato la testa, e nulla più.
- Bene; dunque, Olimpio,
accomodati a tuo grande agio, e narrami distesamente quello che ti avvenne.
- Stanotte correva la impresa
di sua Eccellenza il Duca di Altemps, dalla quale mi sconsigliava una voce, che
sentiva mormorare qui dentro... e se non era cotesto Asino dannato io aveva
deciso di provare un po' se, adoperandovi i piedi e le mani, mi fosse riuscito
tornare uomo dabbene, o lì per lì; ma nel più bello la
secchia è ricascata nel pozzo. L'Asino sta fra me e il paradiso...
- Olimpio, tu hai sofferto nel
capo; povero uomo! vaneggi.
- Per Dio! io non, isvagello,
don Francesco; dico la verità. Aveva compita la impresa del falegname,
ma con una apostilla che non ci avevamo messa io nè voi; fu il diavolo
in persona che fece bruciare quel disgraziato falegname.
- Certo fu il diavolo, che
mise di fuori alla porta una spranga inchiodata per traverso.
- Cotesto feci io; ma vi giuro
da bandito di onore, che non altro volli, che impedirlo di saltare subito fuori
di casa, e destare tutto il vicinato per aiutarlo a spegnere le fiamme: io non
credeva che i vostri fuochi lavorati ardessero così terribili; nè
poteva supporre che il maestro perdesse il cervello, da aggirarsi per tutta la
casa in fiamme prima di affacciarsi alla finestra. Insomma, io non credei, oh!
non credei, che avesse ad uscirne tanto dolore. - Don Francesco, avete sentito
il fatto di donna Luisa vostra signora nuora? Quanto ci corre tra noi e lei!
Vero sangue latino!
- Anche questo conosco. Certo
ella è valorosa femmina... ho io detto valorosa? Sì, e non mi
disdico: ogni creatura ha le sue virtù; e se io non fossi Francesco
Cènci, non vorrei essere altri che Luisa Cènci: in casa mia le
donne superano i maschi di assai. Se i miei figliuoli avessero assomigliato a
Olimpia, a Beatrice, o a Luisa; se il secolo paludoso avesse dato luogo ad
acquistare fama con qualche onesto studio, con qualche atto o di mano o
d'ingegno... forse allora... chi sa?... mi avrebbe preso vaghezza di altra
strada;... ma adesso... non ci pensiamo più...
- A me parve, che mi si
franasse il cuore; sentii cascarmi giù ogni tristezza, e piansi, piansi
come un fanciullo. Per la prima volta pensai a mia madre quando mi nascondeva
dietro la gonnella, e prendeva per se le busse che volea darmi mio padre; -
pensai alla mia povera Clelia, quando mi aspettava alla fontana; - pensai
all'oste di Zagarolo, che ha il vino tanto fresco nella estate; - alla corda di
mastro Alessandro, tanto innamorata del mio collo... e veruno di questi cari
ricordi m'intenerì tanto, quanto la famosa donna Luisa Cènci.
Deliberai mutare vita, e doveva tagliare reciso; ma io volli lasciarvi lo
addentellato, e mi sconciai. - Aveva fatto tanto male nel mondo, che pure
bisognava attendere a ripararvi con qualche bene; ma il male potei fare da me
solo, il bene no. Pensai ad acquistare i centocinquanta scudi del curato per
farne dire tante messe per l'anima del maestro e degli altri che ho morti, i
quali spero in Dio che non saranno per cagione mia in peggiore luogo che nel
purgatorio, ed anche per provvedere alla meglio alla povera vedova; nè
levarglieli mi pareva alla fin fine peccato perchè, a vostro dire, voi
glieli avevate donati per burla; e per la parte ch'egli poteva averci di suo,
la è cosa vecchia che lo accessorio seguita il principale. Mi travestii
da accattone, esaminai diligentemente i luoghi, e nottetempo quatto quatto penetrai
in casa, e m'impadronii del danaro. Nel ritirarmi entrai dentro un armario; il
curato si sveglia, mi scambia pel gatto, e mi scaglia contro una scarpa, che
parve una bombarda; ma non gli successe di cogliermi. Avevo notato come il
degno sacerdote possedesse un Asino giovane e forte, e disegnai torglielo a
imprestito per fornire più comodamente il cammino. Andai per esso: lo
sciolgo dalla mangiatoia, gli metto la bardella, ed egli quieto; lo conduco
allo aperto, ed egli sempre agevole: quando però si accorse che io
volevo montargli sopra, prese a sparare calci da spezzare un monte di ferro.
Ah! vuoi battaglia? e battaglia avrai, io dico. Egli calci, e calci io; egli
morsi, ed io bastonate da levare il pelo: alla fine egli chinò gli
orecchi, e sospirando chiese capitolare. Perdono ai vinti, purchè si
lascino cavalcare. Io vi salii sopra, e ce ne partimmo insieme da buoni amici,
come se neppure avessimo avuto contesa fra noi. Su lo albeggiare conobbi
pendere dalla bardella le bolgette; e dandomi molestia la moneta che portava
addosso, vi riposi dentro gli scudi del prete e i miei, che tra argento e oro
formavano un valsente di trecento ducati, e più. Cresciuto il giorno io
m'inselvai, disegnando rientrare in Roma su la bruna: dell'Asino pensava ormai
potermi fidare... ma sì, vatti a fidare dell'Asino! - Però lo
lascio andare a suo talento, poco curando ch'ei piegasse la testa a sterpare
qualche fronda, o pascere erba. Giungemmo ad un rio assai copioso di acque a
cagione di una serra da mandare il molino. L'Asino vi si tuffa dentro: io
ritiro le gambe per non bagnarle: ad un tratto la terra si sprofonda sotto di
me, l'Asino scomparisce, ed io mi ritrovo nell'acqua fino alla cintura. Il caso
improvviso, il diaccio che mi corse per la persona, e più i pensieri che
tenevanmi legata la mente, mi resero incapace a prendere su quel subito un
partito che mi giovasse. Stendendomi sotto i piedi la bardella vi sbalzai
sopra, e quinci spiccai un salto, che mi fece toccare la sponda opposta.
L'Asino tristissimo, che si era lasciato andare a posta giù per
liberarsi da me appena si conobbe scarico, si levò, voltò le
groppe, e via come un cervo. Ahi! Asino giuntatore, Asino ladro! - Ripassai il
rio, gli corsi dietro; non ci fu verso raggiungerlo; e' pareva Baiardo che
fuggisse davanti Rinaldo([79]):
saltava macchie, sbarattava fratte, menava tronchi e sassi; sicchè tenni
allora, ed anche adesso io credo, gli fosse entrato il diavolo in corpo. Nella
ventura notte, immaginando che l'Asino fosse tornato alla sua stalla, mi provai
a penetrare di nuovo in casa al Curato; ma costui la faceva guardare da cani e
da villani. E ora? - pensava tra me, - invece di guadagnare ho perduto, e non
mi avanza più un baiocco per farne un bene, o un male: ed ecco come io
mi trovai, quasi con la mano alla gola, strascinato nella impresa del Duca. Da
una parte mi determinò il pensiero, che si trattava di bazzecola... un
ratto di donzella! - Signore! e' ci hanno tanto gusto ad essere rapite! E poi
coteste le sono faccende che si aggiustano, e il Duca parendomi acceso molto,
chi sa che non la togliesse per sua legittima donna, e un giorno ella non me ne
avesse obbligo grande? Dall'altra parte, come beneficare senza danari? Dalla
impresa del Duca in fuori, non mi sovveniva sul momento altro partito per
procurarmene. Chi si è dannato per femmine, chi per terre, o
baronìe, chi per moneta: destino di Olimpio era, ch'ei si dannasse per
un Asino...
Il Conte guardava sovente
fisso in volto colui, immaginando dalla giocondità del racconto che
Olimpio favellasse per burla; ma egli mostrava le sembianze compunte
così, che venne di leggieri nella contraria sentenza. Olimpio pertanto
continuò:
- E' non ci fu rimedio; mi
presentai al Duca per concertare la impresa. Aveva studiato l'ora, i luoghi e
le abitudini di casa: andammo quattro compagni; io cinque. Il Duca aspettava in
istrada con la carrozza. Entrai nel cortile, e dissi al portiere: «Compare,
fammi il servizio di chiamarmi su in casa la Crezia, e dille che venga abbasso,
che Gioacchino l'aspetta per farle una ambasciata da parte di sua madre... e to'
questo papetto per bere». Il portiere andò difilato, e i compagni
s'introdussero presto presto nel cortile, ingegnandosi di nascondersi dietro le
colonne del porticato. La ragazza scese di volo, cantando come una rondinella:
in meno che si dice ave Maria la incamuffammo, e mettemmo in carrozza al
Duca, il quale l'accolse a braccia aperte. Ordinai muovessero i cavalli, e noi
scortavamo dietro: procedevamo di passo per non destare sospetto, e non
incontriamo anima vivente. Ogni cosa va d'incanto, mi disse sottovoce un
compagno; a me, pratico di simili negozii, pareva troppo bene, e non
m'ingannava; perchè sul punto di sboccare dalla contrada eccoci venire
incontro la Corte rinforzata. Sbigottirono gli altri, io - niente paura: - gira
cocchiere, grido, e per questa volta corri alla disperata. Dannazione! Un
nugolo di sbirri ci piove addosso anche da quest'altra parte. «Giovanotti,
mastro Alessandro ha teso il paretaio e se non volete essere arrostiti bisogna
rompere le reti; mano a' ferri». Detto fatto; e il Duca stesso scese di
carrozza traendo bravamente la spada. Non lo stimava da tanto... O andate, via,
a fidarvi delle acque quiete! - Ma gli sbirri non aspettarono che noi ci
accostassimo per fare loro i nostri convenevoli, e ci pagarono uno acconto di
archibugiate. Chi cadde, e chi rimase in piedi? Davvero io non poteva pensare
agli altri, ed il buio era fitto. La beghina, trattasi il bavagliolo dalla
bocca, si spenzolava fuori dello sportello della carrozza strillando:
misericordia! come se avessimo voluto levarle la vita. La corte urlava
anch'essa gridando: ammazza! ammazza! ed io zitto rasentava il muro, e menava
colpi che non davano luogo neanche a un sospiro: - mi feci largo.... e via per
quanto le gambe mi aiutavano. Andava premendo appena dei piedi la terra,
perchè, come sapete, chi corre corre, ma chi fugge vola; e nonostante
ciò due sbirri, certamente lacchè smessi, mi stavano alla vita
come levrieri: l'ansare di costoro mi sollevava i capelli dietro le spalle,
più volte mi strisciarono con le mani le vesti. Svolto un canto, e
sempre via; ne svolto un altro, e un altro poi: incominciava a sentirmi il
fiato grosso; ma essi pure erano stanchi, e uno più dell'altro,
perchè non mi percuoteva uguale lo strepito delle loro pedate. Allora mi
sovvenne la storia di Orazio il prode paladino; e parendo a me, che mi avessero
accompagnato oltre il dovere, mi fermo, mi volto allo improvviso, e dico addio
a quello che mi stava più addosso con una pistolettata in mezzo del
petto. Costui girò tre o quattro volte come il cane che si corre dietro
alla coda, e poi dette del naso in terra. L'altro capì subito che io
intendeva prendere congedo da loro, ed a sua posta, prima di allontanarsi, mi
sparò un saluto di un'oncia di piombo, la quale strisciandomi il capo mi
ha toccato l'orecchio sinistro, - Non per questo cessai di correre: dopo buon
tratto mi fermai speculando attorno per conoscere ove io mi fossi, e mi trovai
per avventura presso alle vostre case. Tornare sopra la strada percorsa era
perdermi, però che fino a questa parte mi venisse il rumore lontano del
brulichìo del popolo commosso, come fanno le acque del Tevere nelle
pigne di ponte Santo Angiolo. Decisi appigliarmi al partito, che la fortuna mi
aveva posto avvisatamente davanti: mi arrampico su pel muro del giardino, e
tentoni tentoni sono venuto fino a voi seguendo la via per la quale mi condusse
Marzio... Ora, don Francesco, nascondetemi fino a domani notte perchè,
con lo aiuto di Dio, conto tornarmene alla macchia.
Il Cènci, che
attentissimo lo aveva ascoltato, gli domandò allora:
- E tu sei propriamente
sicuro, che nessuno ti abbia veduto entrare qua dentro?
- Nessuno. Ma voi capite che
la corte stando all'erta, su questi primi bollori è bene scansarla; - e
poi qui in Roma io respiro un'aria di forca, che mi scortica la gola... davvero
non mi si confà.
- E mi assicuri non averti
conosciuto persona?
- Nessuno - nessuno. O non
vedete, che io mi sono travestito da gentiluomo?
Infatti Olimpio aveva mutato
abbigliamento.
- Sta' di buono animo; se la
cosa va come tu dici, poco male ci è dentro. - Bisogna però
provvedere con diligenza, perchè i servi non ti hanno a vedere; io non
mi fido affatto di loro; sempre stanno con l'occhio aguzzo, e le orecchie tese:
siamo circondati da spie: essi amano il padrone come i lupi l'agnello, per
divorargli la carne.
- Come, neppure di Marzio vi
fidate voi?
- Prima di rompersi egli era
sano - dice il proverbio. - Così, così; ma io l'ho mandato in
villa per faccende. Ti adatterai pertanto - (e vedi che io lo faccio più
per te, che per me) - a starti per questo po' di tempo nascosto nei sotterranei
del palazzo.
- Come sotterranei?
- Sotterranei, così per
dire... Cantine, via; e tu ti troverai con onorevole, e gradita compagnia -
quella delle botti; - io ti autorizzo a spillarle, e a bevere l'oblio dei mali
finchè ti piaccia: a un patto solo però, che dopo bevuto tu
rimetta lo zipolo al posto.
- Quando non si può
avere meglio, accetto la stanza per la compagnia.
- Tu non vi starai da
principe, ma neppure da bandito; troverai paglia in copia; in meno di un'ora ti
porterò da mangiare, e lume, e certo mio unguento, che ti torrà
dalla ferita ogni dolore. Possa io morire di mala morte, se in breve tu
sentirai più nulla. Consolati, non tutte le imprese riescono a
salvamento; non la fortuna, ma la costanza viene a capo di tutto. I Romani dopo
la rotta di Canne venderono il terreno occupato dal campo cartaginese, e alla
fine presero Cartagine. - Porgimi braccio... fa piano veh! - guarda non farti
male - andiamo adagio.
E al buio lo condusse per
infiniti avvolgimenti nei sotterranei del palazzo.
- Qui non mi trova neanche il
demonio.
- Oh! per questo sta' securo,
nessuno ti troverà!
- E poi nessuno sa, che io sto
qua dentro.
- Nè mai lo
saprà.
- A me basta, che la corte non
lo sappia fino a domani l'altro; poi non me ne importa nulla.
- Abbassa il capo, e avverti
di non urtare nella soglia... qua... da questa parte... entra..
- Entra! - disse Olimpio
trattenendo il passo, mentre sentiva un'aria fresca e umida ventargli in
faccia, - e don Francesco ridendo forte gli domandò:
- Sta a vedere, che tu hai
paura!
- Io? No; ma penso che nei
luoghi chiusi sappiamo sempre quando ci entriamo, non mai quando ne usciremo.
- Come! Domani notte, - tu lo
hai detto.
- E se voi non veniste
più per me?
- E qual profitto avrei dalla
tua morte? Dove troverei un altro Olimpio per servirmi di coppa e di coltello?
- Ma se non veniste?
- Tu urleresti. Le cantine
sono presso la strada, e i passeggieri ti udrebbero.
- Bel guadagno! Dalla cantina
Cènci sarei traslocato nelle carceri di Corte Savella.
- Avverti, che io me ne andrei
in castello per avere dato ricetto a un patriarca come se' tu.
- In questo, che dite, trovo
qualche cosa di vero: per ogni buon riguardo lasciatemi la porta aperta.
Ed entrò; ma la porta girò
sopra gli arpioni, e si chiuse a mandata.
- Don Francesco, come va che
la porta si è chiusa?
- Vi ho inciampato non
volendo.
- Portatemi presto il lume, e
apritemi la porta.
- Ora vado per la chiave, e
ritorno.
- E badate a non dimenticarvi
del lume.
- Lume! Oh per lume non te ne
mancherà, se non falla il detto: et lux perpetua luceat eis; -
cantarellava il Cènci in suono di requiem allontanandosi con
passi frettolosi.
- Pare impossibile! -
aggiungeva poi tornato nella sua camera; - e costoro si vantano di sottile
ingegno! Qual volpe mai non pose industria maggiore a fuggire la tagliola, di
questo bandito? - Ora aspettami, Olimpio; tu puoi aspettarmi un pezzo;
perchè se non viene voglia all'Angiolo di aprirti nel giorno del
giudizio, io non verrò di certo. Tu imiterai nella morte lo epicureo
romano Pomponio Attico, lo elegante amico di Cicerone. Pare che nel morire di
fame si nasconda una certa voluttà; imperciocchè costui,
sentendosi sollevato dalla dieta, volle continuare il digiuno fino alla morte;
non gli parendo bene, poichè tanto cammino aveva percorso per andarsene
fuori di questo mondo, rifare i passi per tornare indietro. Se non mi cascava
addosso così improvviso, io avrei messo Olimpio in parte da potere
osservare gli effetti di questa morte... Pazienza! Sarà per un'altra
volta, se Dio mi assiste. Ormai io mi getto in braccio alla fortuna,
perchè, considerata ogni cosa, meglio vale un grano di fortuna che uno
staio di senno. In guerra, in amore e in negozii, nelle arti stesse governa
assoluta la fortuna. Io aveva ordito una trama con filo di senno, e la fortuna
me la rompe come fa delle reti il pesce cane; poi di sua propria mano lo
riconduce in potestà mia, quasi dolce rimprovero di avere diffidato di
lei: e sì che doveva rammentarmi il fatto di Arona quando il capitano
Rense minò le mura, le quali per virtù della fortuna andarono in
aria, e poi tornarono ad assidersi sopra gli antichi fondamenti come se mai
fossero state smosse([80]).
Sacrifichiamo pertanto un giovenco alla Fortuna, e una pecora alla Sapienza. -
Addio, Olimpio, buona notte. Il mio saluto non suona strepitoso quanto quello
del birro; il mio è più placido, ma più sicuro. Dormi in
pace, Olimpio; ancora io ho sonno: io ti auguro un riposo uguale a quello
dell'uomo innocente - uguale al mio. - »
Dei quattro masnadieri
compagni di Olimpio tre rimasero morti sul luogo; il quarto, malamente ferito,
nel trasportarlo allo spedale spirò per la strada. Il Duca anch'egli
rilevò una palla nel braccio diritto, ma sopravvisse. Dopo lunga
procedura, dove confessò pianamente ogni particolarità del fatto,
tacendo quanto concerneva il Conte Cènci, il Papa stette in dubbio se
avesse a condannarlo nel capo, o alle galere. Però le raccomandazioni,
che il Duca aveva in Corte potentissime, e soprattutto la moneta largamente
spesa tra i famigliari del palazzo, disposero il Pontefice a considerare la
gioventù del Duca, la sua vita fino a quel punto incolpevole, la causa
che lo spinse a mal fare prava sì non esecranda, e il non consumato
delitto; per cui ebbe commutata la pena. Quale siffatta commutazione si fosse,
io trovo, non senza sorpresa, nei Consigli di Prospero Farinaccio, che
lo difese. - Fu inviato ad Avignone - governatore pel Papa!
Siccome le cose strane
difficilmente si acquistano fede dove non vengano manifeste le cause che le
rendono ordinarie, e naturali, così i ricordi dei tempi raccontano come
Papa Clemente fosse condotto ad abbracciare simile partito dalla solenne
avarizia che lo dominava, imperciocchè non assegnò stipendio di
sorta alcuna al Duca; anzi lo aggravò di tante spese oltre a quella di
sostenere la carica con la splendidezza conveniente a gentiluomo romano, che
tra per queste e tra il danaro impiegato per liberarlo dalla condanna, la
nobilissima casa D'Altemps ne sentì scapito tale, che indi in poi non si
è più mai riavuta.
CAPITOLO XIV.
MONSIGNORE GUIDO GUERRA.
.........
Quello amico
Non chiama.
Invoca un Dio, che l'abbandona
E la condanna a
disperarsi. È desta,
E delira.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Pallida, pallida, bianco
vestita con una lampada nelle mani, Beatrice rassembra una vestale compagna di
Eloisa, che muova per la notte sotto le volte del Paracleto a piangere sul
sepolcro dell'amica defunta; - ella rade la terra con passi presti e fugaci
come quelli della felicità nelle dimore dei figliuoli di Adamo.
Depone la lampada sul
pavimento, apre guardinga una porta, si guarda sospettosa dintorno, e si
slancia nel giardino.
Dove va a questa ora Beatrice
Cènci, l'animosa fanciulla? Forse a vagheggiare il volume dei cieli,
dove Dio ha scritto la sua gloria in caratteri di stelle?([81]) Il cielo è
ingombro di nuvoli neri, e l'aria mormora inquieta agitata dallo incubo della
tempesta. - Fors'ella scende per non perdere alcuna delle meste note di cui
l'usignòlo empie i silenzii della notte? Ma i tuoni squarciano i fianchi
dello emisfero, e spaventano tutti gli animali che si stringono paurosi nelle
caverne, o si appiattano sotto le fronde della foresta. La invoglia forse
desìo del mormorare delle acque, che per la notte sembra un pianto
arcano sopra le miserie degli uomini, - ora soltanto felici - ora perchè
in balìa del sonno fratello della morte? Ma le acque flagellate dalla
sferza del vento si arricciano come le vipere della testa di Medusa. Il riso
della primavera, ch'è l'anima dei fiori, andò a rallegrare quella
parte di mondo dove lo invita la gioventù dell'anno. L'autunno qui dona
ai primi aliti gelati le sue foglie inaridite e gialle, - simile al vecchio
avaro il quale sul letto di morte, tardamente liberale, spartisce il suo
retaggio ai parenti accorsi all'odore del sepolcro - belve affamate, che
divorano brontolando.
Ella viene, misera! in traccia
di un astro, che la guidi per tenebre più buie del cielo di questa notte
infernale. Ella viene a cercare un fiore caduto dai giardini celesti nell'anima
umana - la speranza. Fiore troppo spesso appassito nel calice, prima che dalle
aperte foglie mandi profumo: - fiore troppo spesso roso dal verme sopra lo
stelo, sicchè colto appena lascia cadere tutte le sue foglie ludibrio
dei venti, mostrando su la nuda corolla una goccia di rugiada infeconda, -
lacrima di amarezza pianta dal disinganno. E perchè esiterò io a
traccia di un fidato amatore.
E come, e quando ella sentiva
amore? In qual modo l'amore potè mettere radice in cotesta anima
desolata? - Sopra una roccia di granito incognita ad orma mortale, dove lo
smergo si sofferma talvolta a riposare le ali, lieta e gentile io vidi ondulare
la viola alla brezza del mattino. Chi portò lassù quel pugno di
terra vegetale onde ricavasse nutrimento il fiore pudico? La Provvidenza; - che
non volle creare deserto senza una fontana, alpe senza fiore, sventura senza
conforto di consolazione.
Ed il suo amore era degno di
lei. Monsignore Guido Guerra, secondo che ci vengono narrando le storie dei
tempi, nato d'illustre lignaggio, fu grande e bello e di gentile aspetto; e,
come Beatrice, di bionda chioma e di occhi azzurri. I costumi allora, io non
saprei dire se più sciolti o meno ipocriti dei nostri, non si adontavano
grandemente di prelati vaghi delle cose di arme, o di amore. Sovente i grandi
dignitarii della Chiesa spogliavano l'abito clericale; le case delle amanti
scalavano: cappa e spada vestivano; si trovavano nelle battaglie ad armeggiare;
davano, o ricevevano di buone stoccate. I concilii non approvavano, anzi da
tempo rimotissimo riprendevano acremente coteste pratiche; ma il costume
vinceva i concilii. Il coadiutore dello Arcivescovo di Parigi de' Gondi, che fu
poi cardinale di Retz, travestito da cavaliere si condusse notte tempo a
visitare Anna di Austria reggente di Francia, e in pieno giorno comparve in
corte con la daga sotto il roccetto; pel quale successo cotesta arme indi in
poi acquistò il nome di breviario di monsignor coadiutore([82]).
Però Beatrice,
purissima donzella, avrebbe rifuggito da qualunque amore il quale non fosse
stato laudabile in tutto; e sappiamo come cosa certa, che sebbene monsignore
Guido Guerra usasse abito prelatizio, non fosse però vincolato con la
Chiesa mediante voti, ed ordini sacri; sicchè spogliando la mantellina
egli poteva condurre sposa quando meglio gli fosse piaciuto: possedè
copia non mediocre di beni, e rimase unico figlio di madre vedova. Le storie ce
lo dicono ancora fornito di sottile intendimento; destro a qualsivoglia opera
avesse tolto ad imprendere, cultore delle buone discipline, e tanto
avventuroso, che non aveva mai meditato disegno, che non gli fosse riuscito di
portare a felice compimento. La fortuna parve volesse riunire sopra di lui, in
due tempi separati, tutto il bene e tutto il male che per lei possa farsi, e
ch'ella sperpera ordinariamente sopra molti capi di uomini con infinite, e
continue alternative. La signora Lucrezia Petroni, consapevole di cotesto
affetto, lo aveva favorito con ogni studio per la pietà grande che
sentiva verso la fanciulla, la quale desiderava salvare dalle persecuzioni
oscenamente feroci del padre, e vederla felice.
Nei brevi intervalli che don
Francesco si allontanava pei suoi negozii da casa o da Roma, Guido, avvertito
da messi fedeli, saliva tosto in palazzo, e visitate le donne, come meglio
poteva le consolava. Quantunque avesse data, con giuramento, fede di sposo a
Beatrice, pure godendo la grazia del Papa, e conoscendolo d'indole severa, e
desideroso ch'ei non lasciasse lo stato ecclesiastico, dove gli prometteva
amplissime promozioni, andava così trattenendosi accortamente di giorno
in giorno, cercando il destro di scuoprire l'animo suo al Pontefice senza
inimicarselo, e riportare l'approvazione di quello. Ma don Francesco dalle sue
spie, fu informato dei disegni di monsignore Guerra, o forse gli
sospettò soltanto; e questo gli bastò per ammonirlo, che cessasse
da visitare la sua famiglia e deponesse ogni pensiero su Beatrice, se gli era
cara la vita. Il nome del Conte Cènci dissuadeva i più audaci da
accattare briga con lui, e chiunque avesse avuto inimicizia con esso non si
sarebbe reputato sicuro neanche nel letto; ma è da credersi che
monsignore Guido avrebbe sfidato le sue minacce, se la fama della fanciulla
amata, che ad ogni caldo amatore deve tornare sopra tutte cose carissima, non
lo avesse trattenuto da muovere scandalo: però la vedeva rado, ed alle
accese voglie davano i male arrivati amanti scarso refrigerio di lettere, che,
come avverte il Pope,
Trasportano un sospir
dall'Indo al polo([83]).
Chi, di voi che leggete, non
ha, almeno una volta durante la sua vita, ricevuto simili lettere? Vi ricordate
come le toccaste tremanti, come le spiegaste tremanti, e come impazienti
d'indugio tentaste leggerle allo incerto albore del crepuscolo, o al fievole
raggio della luna crescente? Vi rammentate come vi battessero le tempie,
tintinnassero le orecchie, e per gli occhi vi girassero globi di atomi
infuocati? Vi rammentate come con un baleno del guardo le percorrevate tutte, e
poi rileggendole a bello agio parola per parola, riscontravate in molto tempo
quello che avevate compreso in un attimo solo? Baciate e ribaciate ce le riponevamo
in seno, rimedio di zolfo allo ardore che ci divorava; così lo incauto
fanciullo Spartano, per nascondere la volpe se la riponeva nel seno.
Era a questo termine ridotta
la condizione degli amanti, quando certa sera monsignore Guerra travestito
passava sotto le finestre del palazzo Cènci: egli procedeva a testa
alta, cercando scuoprire nella camera di Beatrice un lume, che gli sarà
desiato più del faro al nocchiero nella notte di procella. Mentre si
accosta all'arco dei Cènci, donde per mezzo della cordonata si arriva
alla chiesa di san Tommaso, ecco che sente investirsi di fianco da un uomo che
corre. Stette per rimanerne rovesciato; ma raffermatosi su le gambe
afferrò il sopraggiunto pel collo, minacciandolo con voce sdegnosa.
L'altro, appena parve riconoscerlo, disse:
- Zitto, per amore di Dio.
Prendete questa lettera: vi viene da parte di donna Beatrice; - e svincolandosi
da lui fuggì via.
Guido, diventato incauto per
soverchia passione, si guardò attorno per iscorgere un lume, che in
cotesta ansietà lo sovvenisse. In fondo all'arco, al termine della
cordonata, gli occorse una lampada che ardeva davanti la immagine della
Madonna. Senz'altro pensare colà si avvia, apre il foglio, e appena
conosce i caratteri dell'amata donzella, tanto comparivano vergati con mano
tremante. Lo scritto breve supplicava: per quanto amore portava a Dio, in
quella stessa notte procurasse all'un'ora penetrare nel giardino, e
l'attendesse nel boschetto degli allori. Se voleva non saperla morta, non
mancasse.
Guardingo ripose la lettera, e
si allontanò. Recatosi a casa tolse la spada, e una scala uncinata, e
quando gli parve tempo opportuno uscì solo: pervenne sotto al recinto
del giardino dei Cènci, lo scavalcò, ed attese celato nel luogo
del convegno.
Di tratto in tratto Guido, tese
le orecchie, credeva intendere stormire le fronde del bosco; muoveva un passo
fuori del nascondiglio, girava gli occhi intorno, e non vedendo comparire
persona si ritirava con un sospiro. L'ora indicata passò. Oh Dio! La
sciagura, accennata misteriosamente nella lettera, sarebbe ormai senza rimedio
accaduta? Sentì mancarsi, e si appoggiò a un albero vacillando.
Ma una voce lo riscosse:
«Guido! - Beatrice!» La donzella stringe tremante la mano del suo amatore, che
tremava come foglia sbattuta del lauro a cui si appoggiava; di repente
Beatrice, come percossa da cosa che le mettesse incomportabile paura, dimentica
del verginale ritegno gli si avvinghia alla vita, e sì favella a modo di
delirante:
- Guido, amor mio, salvami. -
Guido, conducimi via - subito - senza frapporre un minuto di tempo... qui il
terreno mi brucia i piedi,... l'aria che respiro è veleno... Guido...
andiamo.
- Beatrice!...
- Non parole... partiamo, ti
scongiuro, prima che cessi il battere di occhio della occasione. - Se non mi
vuoi sposa, non importa... mi riporrai dentro un convento... qualunque... anche
in quello delle Clarisse, dove si mura la porta dietro alla votata;... ma
salvami, ti comando, da questo luogo maledetto...
- Oh Dio, diletta mia, che
cosa è mai questo furore? - Le carni ti scottano come per febbre.
- Qui... qui dentro ho la
morte. Toglimi alla disperazione... alla dannazione eterna... Che cosa ho io?
Immagina delitti, che fanno impallidire uomini di sangue... delitti, che
drizzano i capelli sopra la fronte ai parricidi... che stringono le ossa di
ghiaccio, - che fanno battere i denti come pel ribrezzo della quartana, - che
impediscono il varco alla voce, e impietrano le lacrime: - immagina tutti i
delitti, che la favola racconta della famiglia degli Atridi... che fanno balzare
l'Eterno sopra il suo trono immortale, e stendere le mani al fulmine... che
avvampano di vergogna le gote dello stesso demonio... immagina... immagina
ancora... tu non troverai le infamie, che si tramano e si compiono in Roma -
qui - dentro il palazzo dei Conti Cènci.
- Tu mi empi di terrore... ma
parla... ma dimmi...
- E potrei dirle io, e tu
ascoltarle? Se io le palesassi, tu vedresti il mio rossore rompere il buio
della notte che ne circonda... io morirei di vergogna ai tuoi piedi. Ti basti
saperne questo, che io vergine e gentil donzella romana... io dai cui labbri
non uscì parola che vereconda non fosse, - io che non concepii pensiero
il quale non potesse confidarsi all'Angiolo Custode... torrei vivere piuttosto
la vita infame della cortigiana, che rimanere più oltre un'ora, un
minuto dentro queste soglie, traboccanti della ira di Dio. - Misteri di orrore
che non devono rivelarsi, nè possono. -
- Ma dove potrai venire meco
così? Come farai a salire, ingombra dalle vesti? Aspetta a domani...
- Domani! Ahi sciagurato!
forse è già tardi adesso. - Io non ti lascio... a te mi attacco
come tanaglia infuocata... Via... via... corri, chè io ti tengo dietro.
- Sia dunque come vuoi;
andiamo con lo aiuto di Dio...
- Insalutato il padrone di
casa? - Questa non è cortesia... gridò una voce beffarda, e al
tempo stesso un gran colpo di scure venne abbrivato contro la persona di Guido.
Per buona ventura lui non colse, chè lo avrebbe fesso pel mezzo; ma
dette in pieno nel tronco dello alloro presso il quale si trattenevano gli
amanti, e lo recise non altrimenti che un giunco si fosse; rovinò il
legno, e cadendo percosse, e disgiunse le mani per cui Guido e Beatrice stavano
uniti. - Infausto auspicio di amore sventurato!
Guido fieramente commosso, non
atterrito, errava tentoni per l'aere nero in traccia della mano di Beatrice,
quando un fiero urto lo sospinse per molti passi lontano, e ad un punto un uomo
gli fu sopra dicendogli con voce sommessa:
- Sconsigliato! fuggite, o
siete morto. Io v'inseguirò per salvarvi - e poi a voce alta - Ah!
traditore, non iscamperai... a te... to' quest'altra botta...
Per tutto il giardino confusi
al fragore del vento si udivano gridi di contumelia, e terribili minacce. La
voce stridula del Conte Cènci, come l'uccello di sinistro augurio,
strillava continua:
- Carne!... carne!...
scannatelo come un cane...
Guido correva stordito dal
fiero caso: però, vergognando a un tratto di avere lasciato sola Beatrice
esposta alla rabbia del terribile genitore, sebbene improvvido del come poterla
aiutare, si ferma, volta di repente la faccia, e mette mano alla spada; ma
prima che l'avesse potuta cavare lo raggiunge il persecutore, e gli dice:
- A che state? Per dio, perchè
non fuggite?
- E la donzella?...
- Vi è chi veglia sopra
di lei. Via - presto - voi non potete salvare lei, e perdete voi. - E lo spinse
contro la scala, che gli tenne ferma onde fosse più destro a salire; poi
menò un colpo così violento di daga nel muro, che la lama si
ruppe in minutissime schegge mandando faville; aggiungendo urli, e sacramenti
da far tremare le volte del cielo.
Ranchettando smanioso
sopraggiunge don Francesco, e domanda:
- Dov'è l'ammazzato?
Lumi, qua, lumi - che io possa vedergli le ferite; - lume, che io possa
strappargli il cuore dal petto e sbatterglielo nel viso: dov'è
l'ammazzato?
- Egli è fuggito -
rispose dolente Marzio.
- Come fuggito! Non è
vero; egli ha da essere qui... egli deve essere scannato. Fuggito! Ah! cani
traditori... voi lo avete lasciato fuggire. Di chi mai fidarci? La mano destra
fa da Giuda alla sinistra... e di te, Marzio,... di te da gran tempo
sospetto... badati... chè i miei sospetti si traducono in punte di
ferro... - Appena questa parola era volata, il Conte conobbe quanto
incautamente l'avesse profferita; si morse le labbra per castigarle di averla
lasciata fuggire, e ingegnandosi subito di ripararne gli effetti, con voce
più mite soggiunse: - Marzio, tu da un pezzo in qua mi riesci meno
diligente a servirmi: io non ti tengo: - quantunque se tu mi venissi a mancare
mi parrebbe far senza una mano, pure amo meglio perderti, che provarti servo
poco attento e poco fedele.
Parola detta, e sasso lanciato
non tornano mai indietro. I rabeschi sul fodero e le cisellature sopra la
impugnatura non rendono meno tagliente il filo del pugnale. La parola del
Cènci si era immersa nel cuore di Marzio come pietra nell'acqua; ma la
superficie turbata appena, ritornò piana, ed egli rispose in suono di
lamento:
- Dite piuttosto, Eccellenza,
che vi ha preso fastidio di me. Questa è la sorte comune dei servi. Non
vi è inchiostro che valga a scrivere durevolmente nel cuore dei padroni
la lunga, e fedele servitù. Per una volta che la fortuna ti tradisca,
ecco là la ingratitudine che con la spugna cancella ogni cosa:
pazienza!... domani mi torrò la vostra livrea.
Corre un proverbio trito che
dice, che in pellicceria non vi sono altro che pelli di volpe, e dice bene;
imperciocchè gli uomini presuntuosi confidino troppo nello ingegno,
nella forza, o nella fortuna loro; onde avviene che spesso, quando meno e da
cui meno se lo aspettano, si lascino avviluppare. Cesare non dubitò di
Bruto, e fu spento. Enrico di Guisa credeva che Enrico Valesio non avrebbe
ardito, nonchè ammazzarlo, guardarlo, e lo ammazzò. Il
Cènci ebbe fede avere ingannato Marzio, e Marzio, come vedremo,
ingannò lui.
- Marzio... che cosa sono le
parole pronunziate nella ira? Vento che passa. Io ti tengo pel più leale
servitore che io mi abbia, e adesso intendo provartelo.
Il Conte, accompagnato dai
famigli che portavano torcie di bitume, si dava a cercare Beatrice, e in breve,
gli venne ritrovata; dacchè percossa dall'accaduto si era rimasta
immobile. Appena ei la vide riarse in lui il bestiale furore; onde abbrancatala
forte nelle braccia, e squassandola rabbiosissimamente, incominciò a
dirle con amaro sarcasmo:
- E tu se' la pudica, cui le
parole di amore e di voluttà suonano incomprensibili come voci di lingua
ignorata? E tu la casta, che custodisci il giglio che deve accrescere le glorie
del paradiso? Svergognata!... ribalda!... tu accoglitrice di segreti amanti...
provocatrice tu d'infami piaceri... non cercata ricerchi. - Dimmi, chi era
costui col quale ti mescevi poco anzi in osceni abbracciamenti?
Beatrice lo guardava e taceva.
Il vecchio, inviperito da cotesta calma, ed era stupidità, replicava
urlando:
- Dimmelo, se non vuoi che io
ti scanni; - ma persistendo Beatrice nel silenzio, colui preso da rabbia le
caccia le mani entro i bei capelli, e glieli straccia a ciocca a ciocca;
nè qui restando, imperversava a dirle vituperio quale mai non fu detto a
rea femmina, e con isconce percosse pestarla pel seno, pel collo e per la
faccia. Oh! per pietà volgiamo altrove lo sguardo; imperciocchè
chi, senza fremito, potrebbe vedere la fronte dilicata e le guance solcate da
profonde graffiature, e gli occhi divini gonfi di nere ecchimosi, e dal naso
ammaccato scendere su i cari labbri un rivo di sangue, e miste col sangue
insinuarlesi in bocca le lacrime? La rovesciò sul terreno, la
strascinò per le chiome, e di tratto in tratto si riposava da quello
strazio per cominciarne un altro - per conculcarla, ed essa sempre tacque; solo
una volta le uscì dal profondo del petto una parola, e fu questa:
- È fatale!
- Sgombrate tutti di qua -
ordinava il Conte ai famigli; - tu, Marzio, rimanti... Senti! aveva divisato
darti in custodia costei, in prova della fede che in te ripongo... ma
sarà meglio la guardi io stesso, onde ella non ti affascini... Tu va su
nel mio studio; nel banco, nella prima cantera a mano destra, troverai un mazzo
di chiavi; prendile, e portamele... Affrettati... va... e non se' tornato
ancora?
Marzio, costretto a rimanere
spettatore dolente dello iniquo caso, andò, e tornò in un baleno
con le chiavi: egli rialza la donzella, e, interponendosi fra lei e il padre,
finge spingerla aspramente davanti a se dentro i sotterranei.
Aveva Marzio lasciato di
alcuno spazio lontano Francesco Cènci, quando un doloroso guaìto
gli giunse agli orecchi, che lamentava:
- Morire così... senza
pane, e senza sacramenti. Ah Conte traditore!...
Marzio conobbe come altri
misteri di delitto rinchiudessero cotesti sotterranei oltre quelli che
contemplava, e drizzò il volto dalla parte donde veniva la voce; ma
Francesco Cènci sopraggiunge ansante in quel momento, e lancia contro il
servo temuto uno sguardo pieno di bile e di sangue; - sprillo di veleno uguale
a quello che getta il rospo inacerbito.
- Hai tu inteso un lamento? -
interrogò il Conte.
- Lamento!
- Sì, come di anima in
pena...
- Mi è parso...
cigolìo di vento, che fa molinello in questi sotterranei...
- No... no... sono lamenti...
perchè qui dentro tenne prigione il mio avo un suo nemico, e ve lo fece
morire di fame. Indi in poi è voce, che nei sotterranei si veggano
spettri; ed io ci credo...
- Domine aiutami! Io per me
non entrerei qua dentro nè anche con l'Agnus Dei in tasca.
- E tu faresti bene. Apri
quell'uscio, là... a destra... il terzo... cotesto... va bene.
- Marzio lo aperse, e il Conte
vi cacciò dentro Beatrice con una impetuosissima spinta.
- Va' maledetta, tu proverai
adesso di che sappia il pane della penitenza, e l'acqua del dolore.
Beatrice spinta dall'urto
precipitò sul pavimento; nè tanto potè la misera aiutarsi
con le braccia, che non desse con la bocca sopra un sasso sporgente, facendosi
nuova ferita su le labbra: vinta dallo spasimo, svenne. Quando l'anima della
desolata tornò agli uffici consueti della vita si alzò da terra;
si trovò sola, in mezzo alle tenebre; onde sostenendo il corpo alla
parete, meditò:
- Fatale! fatale! Dio mi ha
abbandonata. Vivente alcuno non ardisce, o può aitarmi; - alcuno. Il
destino mi rovina addosso come la volta di San Pietro. Oh! troppo vento adunato
per rompere una canna; e poichè tuoi sono, o Signore, i furori della
tempesta, non mi condannerai se al suo impeto io mi sono prostrata. - Guido...
ahimè! anch'egli adesso sarà morto di certo... adesso
ragionerà di me con Virgilio... ed entrambi mi aspettano. Deh! Guido,
non m'incolpare della tua morte... ora, che senza vergogna io posso parlarti, -
io ti chiarirò quanto immenso, quanto infinito fosse l'amore mio per te.
Ma perchè, Dio ti perdoni, Guido, hai voluto unire il tuo destino al
mio? Non ti aveva detto che i miei giorni scorrevano come acque di desolazione,
le quali ovunque si spandano portano la morte? Non te lo aveva detto?... puoi
negarlo? Oh! perchè io sono viva? E non posso morire? Dicono che noi non
ci possiamo distruggere! No? L'anima deve sentire, soffrire, e non volere. Le
generazioni umane hanno da essere onde, spinte dalla mano del destino a
cuoprire e a scuoprire le rive del mondo senza volerlo, senza nè anche
saperlo. Ed io sopporterei queste sorti, se non mi conoscessi seme di sventura
nato a crescere in messe di pianto a tutti coloro che mi amano... Ecco, i miei
anni si dilatano come i rami dell'albero maligno, che uccide lo sciagurato il
quale si riposa alla sua ombra([84]). È carità
sradicarmi pianta maledetta da questa terra, spegnermi torcia accesa nello
inferno, che si consuma consumando... di cui ogni goccia infuocata suscita uno
incendio? Ma l'anima! - E che? Dio vorrà tenerla a bersaglio del suo
furore in questa vita e nell'altra? Dio, di misericordia per tutti, si
ostinerà soltanto ad essermi persecutore finchè dura la
eternità? E quando dovessi soffrire i tormenti dei dannati...
supereranno forse quelli che io patisco in questa vita? Nello inferno almeno
non sarò avvilita... dannata, non farò dannare altrui. Signore,
io non ti accuso. Tu ponesti sopra le spalle del tuo figliuolo una croce di
legno, ed egli vi cadde sotto tre volte; sopra le mie tu l'aggravasti di
piombo... io non ho forza per sopportarla, e la getto per terra. - Abbia chi
vuole quest'anima desolata... il patto della mia vita è troppo duro, ed
io lo rompo. -
Così favellando, un
desiderio inenarrabile di distruggersi le invase la mente; deliberata, con la
morte dipinta sopra la faccia, l'anima traboccante di fredda disperazione si
slancia di piena corsa contro il muro, e vi percuote la testa... Ahimè!
- vacilla, apre le braccia, e cade irrigidita a piè della muraglia.
CAPITOLO XV.
L'AMMAZZATA DI VITTANA.
«Vendetta ampia
ed intera, che, simile al fuoco,
distrugga tutto
come in quel giorno in cui il
mare morto
agghiacciò le ceneri di due città».
Byron, Marino Faliero.
Sarebbe pure stata
pietà accogliere cotesta anima dolente, la quale, dopo il breve
pellegrinaggio di sedici anni sopra la terra, non trovava altro asilo
fuorchè nella ombra della morte! A Dio piacque altrimenti. Il volume
delle chiome copiosissime ammortendo il colpo, impedì che riuscisse
mortale. Quante ore nel miserrìmo stato ella durasse, male sapremmo
dire: quando risensò si pose a stento a sedere là dove era caduta
appoggiando le spalle al muro, immemore del luogo e del come vi fosse stata
condotta. Con le mani si comprimeva dolcemente il capo e la bocca che le
dolevano forte, e non sapeva il perchè. Ode profferire il suo nome;
tende ansiosa le orecchie, e la chiamata si rinnuova: allora ricordò il
racconto di Virgilio, quando gli parve che lo chiamasse sua madre; e la voce,
che adesso ascoltava, aveva in se un suono misto di quella del fratello, e
della materna. Tenne che per intercessione loro la misericordia divina l'avesse
fatta salva dalla eterna dannazione, e consolata in questa idea si levò
in piedi esultante; e, battendo palma a palma, con sentimento ineffabile di
gioia esclamò:
- Gran mercè, Madre
mia; gran mercè, Virgilio, amor mio: comparitemi davanti, via!... che io
vi vegga!... Apritemi le braccia... io vi terrò stretti con amplesso
eterno. Guido mio perchè non è con voi? Com'è morto
giovane! Ma se viene qui con voi... con me, che sono sua sposa, non gli
dorrà essere morto; ed io adesso potrò baciarlo. È vero,
Madre, potrò baciarlo, anche al cospetto vostro, perchè è
mio sposo?
Ma la voce facendosi sempre
più prossima insisteva:
- Signora Beatrice... su,
scuotetevi... non vi perdete di animo... O Signora Beatrice, coraggio, sono
io... è Marzio che vi chiama.
- Marzio! Questo nel mondo di
là era il nome di certo fante, che mi voleva bene... egli fu, che voleva
rompere il capo al Conte Cènci il giorno del convito... era delitto...
ma la pietà di me lo aveva vinto: - preghiamo tutti Dio che lo perdoni;
metta piuttosto il peccato sul conto mio, e lo faccia scontare a me nel
purgatorio.
- Oh fanciulla mia! io temo,
sì, che Dio mi castighi, ma per non averlo levato dal mondo.
- E adesso Marzio che fa?
È morto egli pure? La fatalità, che usciva da me, provò ancora
egli come fosse contagiosa? Ha imparato, misero, come ferisse mortale la
jettatura dei miei occhi?
- Signora Beatrice non
vaneggiate, per amore di Dio... tornate in voi stessa... aiutatevi... venite
qua... udite... lo scellerato vecchio... il Conte Cènci, adesso dorme...
volete voi che non si svegli più?
- Che parlate, Marzio? Io non
ho compreso bene... qui nel capo ho come una nebbia...
- Colui, che vi generò
per tormentarvi - quegli, che si dice vostro padre... quegli, che vivendo vi
farà morire... volete voi che muoia... stanotte... fra cinque minuti? -
La sua vita sta nel taglio del mio coltello.
- No, no - proruppe Beatrice,
recuperando di subito la pienezza del suo intelletto - Marzio... guardatevene,
per lo amore di Dio... io vi odierei... io vi accuserei. Viva, e si penta...
egli si pentirà un giorno - forse.
- Pentirsi! Si sono mai veduti
lupi a confessione? Io ve l'ho detto; egli vivrà, e voi morrete.
- Che importa? Non aveva forse
io tentato morire? Quanto è grande dolore tornare a vivere! Marzio...
mio fedele, - io non ho più lena... io vorrei dissetarmi nella morte.
Hai tu mai sentito raccontare dei nostri antichi, i quali si tenevano attorno
qualche amico o servo sviscerato, onde se la necessità imponesse uscire
da questo mondo, con pietosa ferita gli uccidessero? Marzio, - io non chiedo
tanto da te... portami solo un sugo di erba che abbia virtù di chiudere
gli occhi ad una pace, che non ho mai goduto in vita.
- No, per l'anima santa di
Anna Riparella; se io basto, vivrete. Sciagurata fanciulla! non vi lasciate
cogliere dalla disperazione. In breve tornerò da voi; adesso mi è
forza andare dal vostro orribile genitore... s'egli si svegliasse e noi
sorprendesse, non vi sarebbe più luogo a scampo. - E si allontanava
piangente, tanta pietà lo vinse vedendo il misero stato in cui si
trovava ridotta Beatrice. - Tutto assorto in cotesto pensiero stava per uscire
dai sotterranei, quando gli risovvenne del lamento udito nella notte decorsa;
rifece prestamente i passi, ma non udì più nulla: allora prese a
percuotere lieve lieve gli usci che gli si paravano davanti, ed ecco ad un
tratto ricominciare il pianto più doloroso che mai.
- Ahimè! Muoio di fame
- muoio di sete; così non aveva da essere... impiccato a suo tempo,
andava bene; io ci aveva fatto il mio assegnamento sopra... ma confessato, e
comunicato; - col cappuccino accanto... ogni cosa secondo le regole...
- Chi sei? Rispondi, e fa'
presto...
- Eccellenza, oh! non lo
sapete chi sono io? Apritemi, per carità, che io mi sento voglia di
mangiarmi le mani...
- Rispondi breve, ti dico, o
che io ti lascio.
- Sono un uomo che ha conto
aperto con la giustizia; ma in verità per bazzecole... nel rimanente
bandito onorato, e soprattutto fedele: mi chiamo Olimpio. Qui mi ha chiuso il
Conte Cènci; da due giorni, credo, perchè qui non vedo quando
sorge, nè quando tramonta il sole; promise tornare, e lo aspetto ancora.
Deh! se tu sei cristiano battezzato dammi un po' d'acqua... un po' di pane...
un po' di lume... in carità.
- Orribile! Far morire un
cristiano di fame, e senza sacramenti! L'anima di cotesto scellerato è
come l'inferno, di cui non si trova mai il fondo. Olimpio, per ora non posso
aiutarti: abbi pazienza, presto tornerò per te; adesso mi manca la
chiave.
- E voi chi siete?
- Sono Marzio.
- Tu sei venuto a godere della
mia agonìa?
- Io non ho mai tradito
nessuno; sta' di buon animo... addio.
- Una volta fra noi non ci
tradivamo. Aspetterò... spererò... soffrirò in silenzio;
ma deh! Marzio, torna presto se vuoi trovarmi vivo... ho fame... ho freddo...
la sete mi consuma.
Il sangue acceso dalla ira, e
il moto violento avevano gonfiato al Conte Cènci la gamba offesa per
modo, che non poteva muoversi da giacere. Aveva chiuso gli occhi a torbido
sonno; quando si svegliò si provava ad alzarsi, ma la doglia acerbissima
non glielo concesse. Digrignava i denti per rabbia, e fra le bestemmie
esclamava: e' mi bisognerà fidarmi di cotesto traditore! Allora
chiamò Marzio, e questi accorse pronto e taciturno.
- Marzio, vedi se di te mi
fido; prendi la chiave del carcere di Beatrice, e portale pane e acqua....
- Altro?
- No... Marzio; mettiti
addosso qualche santa medaglia per cacciare via gli spiriti, se mai ti
apparissero. Dove qualche voce ti giungesse all'orecchio, non la badare; coteste
sono illusioni del demonio: soprattutto scansa i sotterranei a mano manca ...
lì moriva di fame il nemico di mio nonno....
- Eccellenza, perchè
non andiamo insieme?
- Non vedi, morte di Dio! che
non posso muovermi?
- Se vostra figlia fosse
ferita l'ho da medicare?
- No. Ma la credi ferita?
- Mi sembra, e la sua bellezza
potrebbe rimanerne guasta.
- Io no voglio, per ora, che
perda la sua bellezza; più tardi. Costà nell'armario vi è
balsamo e terra sigillata([85]);
se farà bisogno la medicherai.
Marzio s'impadronì
destramente delle altre chiavi, chè quella del carcere di Beatrice aveva
sottratto mentre il Conte dormiva, e ritornò nel sotterraneo.
- Signora Beatrice,
tostochè la vide Marzio disse amaramente, ecco i doni che vi manda
vostro padre; e levata la lanterna contemplò quella angelica sembianza
insanguinata. Compresse un ruggito di sdegno, e quanto seppe meglio amorevole
soggiunse: - venite qua - permettete che vi lavi il volto ... vi faccio male? -
Intanto le andava astergendo le ferite, le medicava con la terra sigillata, e
gliele fasciava. Ahi! Dio, di tratto in tratto ripeteva, vedi tu queste
empietà? E se le vedi, come puoi patirle?
Compita l'opera, Marzio
riprese a dire:
- Fanciulla mia, eccovi i doni
che vi manda colui, che chiamate vostro padre - pane ed acqua; io, contro il
suo espresso divieto, vi ho aggiunto altri cibi; ma io davvero non so
confortarvi a prolungare una vita, che supera ogni più crudele
supplizio; - e quello che maggiormente mi trapassa il cuore è, che da
ora in poi io non potrò giovarvi più in nulla, perchè - e
qui la voce gli diventava fioca - oggi ho deliberato lasciare casa vostra.
- Beatrice declinò il
capo come persona tanto sazia di affanno, che ormai, se sente, non sa
più lagnarsi dello strale di nuovi dolori.
- Guido è morto, e tu
mi abbandoni?
- E chi vi ha detto, che
monsignor Guido sia morto?
- Vivrebbe forse?
- Vive, e sano e salvo.
Beatrice piegò la
faccia sopra la spalla di Marzio; ve la tenne lungamente, poi sommessa gli
disse:
- Guido vive, e tu mi
abbandoni?
- Ma siete voi che abbandonate
voi stessa. Sentite; io voglio confessarvi cosa, che non paleserei a mio padre
se tornasse di là dai morti. Io sono entrato in casa Cènci per
adempire un voto; e sapete voi qual voto? Quello di ammazzare il Conte
Cènci. Le scelleraggini quotidiane di cotesto maledetto mi hanno sempre
più confermato nel mio proponimento; perchè levandolo dal mondo,
oltre a satisfare la mia vendetta, mi parrà acquistarne merito presso
gli uomini e presso Dio. Ma poichè questo caso vi addolora, io nol
commetterò sotto i vostri occhi: di più non posso fare per voi...
non vi affaticate a parlare... nessuno potrebbe dissuadermi - nessuno;
ciò che deve compirsi si compirà: di ferro ha ucciso, di ferro ha
da morire... sono parole di Cristo.
- E come potè recarvi
offesa il Conte? Quando veniste ad accomodarvi in casa, sua, io penso che voi
gli eravate sconosciuto del tutto.
- Ma io conoscevo lui. Se mi
avesse oltraggiato, se ferito, io avrei saputo perdonargli. Certo, gran
peccatore sono; ma pure una volta ebbi cuore di cristiano. Egli mi ha ucciso
l'anima, e mi ha lasciato la vita: ora io sono morto a tutto, tranne ad una
cosa sola, e questa io vi ho detto. Sentite, veh! se io conosceva Francesco
Cènci prima di entrare in casa sua; ciò non varrà a
dimostrarvelo più iniquo, perchè in lui delitto più,
delitto meno non conta; ma tratterrà forse su le vostre labbra le
imprecazioni contro il suo uccisore. Io poco so di lettere; vi racconto
così come mi porge il cuore, e voi potete credere a tutto come se fosse
evangelo. Nacqui in Tagliacozzo; mio padre morì quando io era fanciullo,
e mi lasciò selve ed armenti: mia madre cadde inferma, sicchè
poco potè guardarmi. Crebbi; presto mi si misero attorno tristi
compagni; mi avviluppai per ogni maniera di vizii come dentro un mantello; in
breve, tra per danari rubatimi al giuoco, tra per le ingorde usure io venni al
verde di ogni mia sostanza: con l'ultimo bicchiere di vino bevuto in casa mia
gli amici bevvero l'oblio di me; sparirono col fumo dell'ultima vivanda; ma
allo sparire di costoro comparvero altre genti, e furono i creditori; mi
spogliarono di tutto, mi cacciarono di casa ... spietati! di pieno giorno ebbi
a caricarmi la mia povera madre sopra le spalle per trasportarla all'ospedale;
i fanciulli maligni mi beffarono per la via; qualcheduno tirò sassi
contro di me, e la inferma.... Iniqua stirpe è l'uomo! - Nè qui
l'agonìa finisce: prima di arrivare all'ospedale mi circondano gli
sbirri, mi tolgono dalle braccia la madre, la depongono in mezzo della strada,
e me traggono in prigione. I creditori, non sazii di ogni mia sostanza,
volevano anche bevermi il sangue: - udiva un singhiozzare soffocato... ed era
mia madre che piangeva: mi voltai per consolarla, ma non la potei vedere perchè
i miei occhi erano pieni di lacrime di sangue. Tentai parlare... neppure... sta
bene. -
Marzio tacque alquanto; poi,
asciugatosi il sudore dalla fronte, riprese:
- Ruppi la prigione, presi la
macchia, mi vendicai di tutti. Al fanciullo, che gittò sassi contro mia
madre, ruppi il cranio sopra una pietra; sta bene. Indi in poi segnai il
calendario con la punta del mio coltello - ogni giorno fu un rigo di sangue: mi
ardeva la pelle; il sangue ubbriaca peggio del vino. Dio giudicherà se
io avrei potuto resistere al demonio, che prese possesso dell'anima mia; io non
addurrò scusa; se merito pietà voglia perdonarmi, se no mi
condanni; ma di quello che ho fatto, e dell'altro che intendo fare, io non so
pentirmi... il compito che la vendetta ha posto in mano della morte non
è ancora terminato; al mio rosario manca un paternostro - una testa di
morto - quella del padre vostro. Nel regno faceva mal'aria per me; venni su
quel della Chiesa, ed entrai nella compagnia di Marco Sciarra.
Quanto commisi da bandito non
importa che voi sappiate; così non lo sapesse la Giustizia eterna! Un
giorno di sabato, al tramontare del sole, seduto sopra una selce fuori le
ultime piante della macchia, teneva le gomita appoggiate su l'archibugio,
l'archibugio traverso alle ginocchia, e la faccia appuntellata ai pugni.
Aspettava i compagni presso la quercia della Rocca Odorisi per fare le nostre
preghiere della sera davanti alla immagine della Madonna attaccata alla querce,
e metterci d'accordo su le faccende del domani. L'aria pareva una bocca di
forno; il sole, che tramontava, aveva sembianza di un cuore insanguinato dentro
un catino di sangue; i capelli lunghi mi si erano rovesciati su gli occhi; e,
visti così traverso i raggi vermigli, apparivano anch'essi pieni di
sangue come per certa infermità, della quale ho udito ragionare un
compagno che ha dimorato un tempo nelle parti della Polonia([86]): me li tirai dietro le
orecchie; invano. Tutte le cose mi si mostravano vermiglie: il cielo, i campi e
gli animali; i tronchi degli alberi erano colore di rame, e le foglie, lucide
di un verde smeraldo, riflettevano pure raggi di sangue: ebbi orrore di me!
Fosse una itterizia di sangue! - Ho paura, mormorai; perchè sono solo?
Oh avessi qui la compagnia di una creatura vivente per liberarmi dai miei
terrori! In questo momento volgo attorno i torbidi sguardi, e vedo apparirmi
davanti una sembianza angelica, signora Beatrice, proprio una Madonna staccata
dal quadro, e venuta a rallegrare la terra... e poi... sentite... e non vi
offendete, veh! meno ch'ella era un po' riarsa dal sole, e della persona di voi
più poderosa assai... vi rassomigliava affatto: portava una mezzina sul
capo, e veniva a prendere acqua dalla prossima sorgente. Io, senza pensarlo, mi
rinvenni su le labbra il salus infirmorum delle litanie. Costei
vedendomi vestito da masnadiero, ed armato, non soprastette, nè fece
atto alcuno di viltà; e invero, di che cosa doveva ella temere? Contro
la rapina la difendeva la povertà, contro la violenza la difendeva un
cuore di Lucrezia, e lo stile attraversato alle trecce dei capelli: proseguì
il cammino, e quando mi passò davanti, con voce di foglie novelle
ventilate dai primi fiati di primavera, mi disse: la Beata Vergine vi consoli!
- Non levai la faccia, non risposi; solo voltai gli occhi, e le tenni dietro
finchè potei scorgerla. Allora, pensando al modo e al punto in cui mi
era comparsa davanti, esclamai: il Signore ha pietà di te! - Ma poi,
leggendo la storia dei misfatti commessi nel cielo e nella terra, che
continuavano a parermi tinti di sangue, irridendo me stesso, aggiunsi:
sì, certo, Cristo ha altro a fare, che prendersi cura di me. - E qui
ecco la medesima voce, come lo arbusto messo dalla Provvidenza sul ciglio di
una balza per salvare chi precipita, scendermi improvvisa sul cuore, ripetendo:
la Vergine vi consoli! - Era la fanciulla che, attinta l'acqua, tornava a casa
pel medesimo cammino. La sera successiva tornai alla Querce della Vergine, e la
fanciulla venne consolandomi col solito saluto, e l'altra, e l'altra poi. Che
vi dirò io più? Durare un giorno intero senza cibo sapeva, senza
vederla no. - Passò un buon mese senza che nè la fanciulla
nè io, per tempo ventoso o per pioggia, ci rimanessimo da convenire
tutte le sere alla Querce della Madonna; e per tutto questo spazio di tempo
ella a me non disse altro, che: la Vergine vi consoli! ed io a lei: Dio vi
rimeriti, Annetta! - Ella aveva nome Annetta Riparella, ed era del paese di
Vittana, figliuola di un pastore del contado. Certa sera, senza muovermi dalla
selce dove stava seduto, con voce umile la chiamai: «Annetta, mettete
giù la mezzina, se vi piace - e venite a sedervi presso a me, se non vi
rincresce». Depose subito la mezzina, mi guardò fisso negli occhi, e con
le sue pupille condusse le mie alla santa Immagine della Querce. Io intesi
ch'ella con quel muto linguaggio volle significare: mi metto sotto la
protezione della Madonna. - Allora io mi levai, la presi per mano, e,
condottala davanti alla Immagine devota, le favellai così: «Annetta,
dove andiamo noi? - Egli è vero, che camminiamo da un pezzo senza sapere
dove dobbiamo riuscire? - La casa di mio padre abita gente straniera; su i
campi, che furono miei, altri semina, ed altri miete. Di bene io nulla posso
offerirti, e nulla ti offro. All'opposto, ascoltami attentamente perchè
io non ti voglio ingannare: sopra la mia testa fu messa la taglia; - tutta
l'acqua che hai attinto alla fontana non basterebbe a lavarmi le mani... non me
le guardare, tu non vi puoi scorgere nulla; il sangue di cui vanno contaminate
non possono vedere che i miei occhi, e quelli di Dio. Unendo la tua vita alla
mia ti aspettano giorni di pericolo, notti di paura, tempi di patimento, e vita
di vergogna. Ai figli, se mai ce ne desse la disgrazia, sai tu qual retaggio
potrei lasciare io? Una camicia insanguinata. A te qual vedovile? Il nome di moglie dello impiccato. - Se do ascolto al
mio cuore, vorrei che tu mi scegliessi per marito; se al mio giudizio, amerei
che tu mi rifiutassi; però nè ti prego, nè ti sconsiglio:
ho gittato i dadi, e accetto il tiro che mi manderà il destino: aprimi
dunque schiettamente il tuo cuore, e non temere di recarmi offesa, -
perchè, per questa Santa Vergine che ci ascolta, se desideri rimanere
libera, io ti giuro che da questa sera innanzi tu non vedrai più la mia
faccia. - «Marzio, rispose risoluta la fanciulla, conosco i vostri misfatti, e
voi; e che da gran tempo io avessi scelto, pensava che i miei occhi ve lo
avessero appreso: meglio con Marzio il dolore, che con altro allegrezza. Che
cosa importa a me, che abbiano posto la taglia sopra la vostra testa? Se la
giustizia vi cerca, noi ci nasconderemo insieme; se ci trova insieme, ci
difenderemo; se ci prende, moriremo insieme. Ma non è di questa
giustizia che il mio cuore si affanna; vi ha una giustizia, che non cercando
trova; un occhio, che non chiude mai le palpebre sul peccato; e questa
giustizia io vorrei che voi placaste, Marzio; quello che non può fare
tutta l'acqua del fiume lo fa una lacrima sola, - la lacrima della penitenza».
Così favellava Annetta semplice fanciulla, che ogni sua educazione aveva
ricavata dallo amore che portava ardentissimo alla Madre di Dio. Mi sentii come
rompere una ghiaia in mezzo del petto, e sommesso ripresi: «Annetta, io mi ti
lego per fede di abbandonare i compagni quanto prima mi venga fatto,
perchè lasciandoli allo improvviso sospetterebbero di tradimento, e al
sospetto terrebbe dietro la morte mia; - molti essi sono, e potenti. Frattanto
io giuro astenermi da ogni opera malvagia, e giuro ancora condurti per mia
legittima sposa, e amarti sempre. E così dicendo mi trassi dal dito uno
anello, che fu della madre mia; e accostatolo al volto della Immagine santa
come per consacrarlo, lo posi nel suo soggiungendo: tu sei mia sposa. - «Io non
possiedo anella, favellò Annetta; ma taglia una ciocca dei miei capelli,
e conservala per promessa di unirmi in santo matrimonio con te». Trassi il
coltello, ed ella piegò il collo; così feci, ma la mano mi
tremò, e i capelli caddero, e il vento gli sparpagliò sopra la
terra. Malaugurio era quello. Ella levò il capo, e sorridendo disse: «e
tu tagliane un'altra, che importa? Tanto, se la ventura sarà buona ne
ringrazierò Dio; se avversa, mi piacerà ugualmente; non ti ho
detto che sono parata a tutto?»
Pochi giorni dopo, mediante
spie fidatissime, pervenne notizia al signor Marco, come dal regno e dallo
stato della Chiesa ci muovessero incontro grosse bande di armati per toglierci
in mezzo, e prenderci a man salva. Il signor Marco, che quantunque dalla sorte
maligna fosse ridotto alla condizione di capo-bandito, pure possedeva
copiosamente le qualità che convengono a esperto uomo di guerra, mi
spedì senza indugio negli Abruzzi a tenere di occhio la corte di Napoli,
per sorprenderla in qualche imboscata. M'istruiva a parte a parte dei luoghi, e
del modo da praticarsi; e mercè la virtù dell'ottimo capitano così
riusciva fortunata la impresa, che non uno, - non uno sbirro rimase vivo per
riportare a casa la nuova della sconfitta. Dopo dieci giorni di lontananza io
ritorno: con qual palpito io mi avvicinassi alla Querce della Vergine lascio
considerarlo a voi, che intendete a prova gli affanni dello amore. - A
piè della querce trovai Annetta, - la trovai - ma ammazzata.
Aveva stracciati i capelli, le
membra lacere, e le vesti; nel viso io le vidi le orme di piedi che l'avevano
calpestata; un coltello fitto nel seno le trapassava il corpo fino dietro le
spalle, e la punta per bene quattro dita stava conficcata nella terra....
Comprai un panno scarlatto;
feci lavorare una bara di legno dorato; ve la riposi dentro con le mie mani,
copersi coi fiori le lividure, e le ferite ... come era mai bella anche morta!
- e accompagnato dai popoli del contado, in mezzo al pianto universale, io
stesso dava sepoltura al cuor mio: nel calarla giù nella fossa mi
mancò il lume dagli occhi, e vi caddi sopra. Quando rinvenni mi trovai
seduto in terra; la fossa era riempita, il prete mi sorreggeva piangendo, e
alcune donne pietose mi consolarono piangendo. Mi alzai, e me ne andai senza
profferire parola.
Ricercando seppi come da
alcuni giorni il conte Francesco Cènci fosse venuto ad abitare la Rocca
Petrella, che tra noi si chiama ancora Rocca Ribalda; le tracce di costui erano
di sangue. Una voce nel cuore mi disse: egli è l'omicida. Presi a
investigare più sottilmente il caso, e per relazione di un garzoncello
pastore conobbi, che tutte le sere Annetta andava alla Querce della Vergine, e
genuflessa si tratteneva lunga ora a pregare davanti la Immagine. Certa sera il
garzone vide passare a cavallo un uomo, che alle vesti ed al portamento gli
parve un barone. Costui fermò il cavallo, e stette a considerare la fanciulla
finchè essa non ebbe terminata la preghiera: allora andatole incontro,
parve che s'ingegnasse di entrare in colloquio con lei; ma essa lo aveva
salutato, e tirato innanzi pel suo cammino. La sera successiva il garzone,
stando nel medesimo luogo a pascere pecore, vide sbucare dal macchione due
bravi, che sorpresa la giovane le bendarono gli occhi e la bocca, e lei, invano
dibattentesi, strascinarono via. Il pastore aveva taciuto per paura, adesso
parlava per guadagno; sicchè con diligenza ne cavai fuori informazioni
precise su le vesti, e su le fattezze dei ribaldi. Presi a tenere di occhio
alla ròcca; nella notte mi aggirava intorno alle sue mura come un lupo,
nel giorno mi appiattava dietro le siepi, o su pei rami degli alberi. La
ròcca stava chiusa come la cassa dello avaro. Ma un giorno si aperse, e
ne uscì fuori un uomo, che ai panni riconobbi per uno dei bravi veduti
dal pastore: procedeva cauto, e portava, come diciamo noi, la barba sopra la
spalla; ma io gli piombai addosso a guisa di falco: egli era atterrato, sotto i
miei ginocchi, ed io gli teneva le mani alla strozza, prima che avesse avuto
tempo di sapere che cosa fosse. - Ti salverò la vita, gridai, se mi
confessi come uccidesti la fanciulla della Querce. Livido dalla paura, egli mi
narrò che il suo padrone Conte Cènci vista la fanciulla, e
trovatala bella, concepì desiderio di averla alle sue voglie;
però che a lui e ad un altro servo ordinava rapirla, e portarla nella
ròcca, reputandola facile acquisto; ma vedendo che con la fanciulla tornavano
corte le lusinghe, e le minacce non riuscivano meglio, e parendo al Conte di
fare anche troppo onore a cotesta villana, era ricorso alle violenze, alle
quali la fanciulla aveva risposto menando valorosamente le mani. Onde il Conte
l'aveva presa pel collo, ed essa lui, e caduti per terra vi si erano rotolati
dandosi a vicenda morsi e percosse. Alla fine la giovane, come più
svelta, per la prima si levava in piedi, ed aveva dato di un calcio nel viso al
Conte, dicendo: «Togli, vecchio ribaldo: se avessi avuto il mio stile, a
quest'ora ti avrei scannato; - ma ti sta meglio un calcio; - fra giorni ha da
tornare mio marito, e, per la Vergine benedetta, non avrò pace
finchè non mi porti le tue orecchie in regalo». Don Francesco si levò
a sua posta senza profferire parola; e prima che la disgraziata avesse potuto
schermirsi l'arrivò con sì terribile coltellata, che la
passò fuor fuori dalle spalle, ed ella cadde senza potere pur dire:
Gesù, e Maria! Un singulto, e basta. Poi la pestò, in vendetta
del calcio ignominioso, come si pesta l'uva. Venuta la notte ci comandò
portassimo il cadavere a piè della Querce della Vergine, e noi lo
portammo, perchè chi mangia il pane altrui ha da obbedire. Il Conte ci
tenne dietro con la lanterna; e quando avemmo depositato supino il cadavere
sopra la terra egli cavò il coltello, lo rimise dentro alla ferita, e
pigiando forte ne conficcò la punta nelle zolle. «Quando verrà
tuo marito, esclamò il Conte, tu gli racconterai ancora questo». Udendo
ciò m'invase il furore, nemico sempre al buon fine dei concepiti
disegni, e gridai al vassallo: «va dunque, avverti il tuo padrone che il marito
di Annetta Riparella è ritornato, e che stanotte lo visiterà in
casa sua com'è dovere». E non mancai alla promessa, perchè,
sovvenuto dai più arrisicati fra i miei compagni, assaltai la
ròcca, saccheggiai ed arsi il palazzo. Bruciai il covo, ma la volpe si
era salvata. Il Conte non avendo forza da resistere, partì subito a
precipizio; e tanta fu la fretta di cansarsi di là, che penetrato nella
sua stanza io rinvenni sul tavolino una lettera a mezzo scritta([87]). Se mai un giorno
andrete alla ròcca, voi potrete vedere i segni della mia vendetta
impressi col fuoco sopra le muraglie. Che cosa mi avanzava nel mondo, e che
cosa mi avanza adesso? Vendicarmi, e morire. Però avendo contato
discretamente tutto il mio caso al signor Marco, egli lodommi molto nel partito
preso, mi confortò a perseverarvi, e mi fece offerte da fratello; poi,
comecchè malvolentieri, richiedendola io, mi dava licenza. Rasi i
capelli e la barba, mutate le vesti mi ridussi a Roma, giurando per l'anima
della defunta di temperare con la prudenza ogni intempestivo furore.
Mentre io stavo mulinando la
maniera di entrare come famiglio in casa vostra, ecco la fortuna che volle
favorirmi con istrano accidente. Andando per piazza di Spagna sento dietro di
me un rovinìo, uno schiamazzo di voci, che gridavano: «alla vita, bada
alla vita!» - Mi volto, e vedo una carrozza trasportata a furia da cavalli che
avevano preso il morso co' denti. Il cocchiere, balestrato giù dal
sedile, aveva percosso il capo sopra un piuolo, e giaceva col cranio aperto da
un lato della strada; chi fuggiva, chi si affacciava alle finestre, chi su lo
sporto delle botteghe, senza dare aiuto e senza neppure pensare a darlo;
stupidi e spietati, per vedere soltanto come si sarebbero rotto il collo bestie
e cristiani, e poi cavarne i numeri per giuocarseli al lotto([88])... Umana razza! Io mi
gittai al morso di un cavallo; e quantunque per buono spazio seco mi
strascinasse a furia, pure giunsi a fermarlo. Allora mise fuori dello sportello
la faccia tranquilla e mansueta un barone di età matura, il quale, dopo
avere commendato molto il mio coraggio, mi pregò a volermi presentare in
giornata al palazzo del Conte Cènci.
Così è; io,
nè più nè meno, mi era trovato a salvare la vita, senza
saperlo, al mio atroce nemico. Non me ne dolsi, anzi me ne compiacqui;
perchè se fosse morto in altro modo, che di ferro, e per le mie mani, mi
sarebbe parsa vendetta rubata.
Il Conte mi accolse co' modi
che si confanno a gentiluomo; prese contezza di me, e sentendo come io stessi
ozioso per Roma, egli medesimo mi propose accomodarmi in casa sua. - Era quello
che con tanto studio io cercava: certo il pellegrino non bacia tanto
devotamente la Madonna della santa casa di Loreto, come io toccai le soglie di
questo palazzo, col proponimento di circondare il Cènci di solitudine e
di desolazione. - Diseredato di qualunque affetto, superstite ai cari figli,
che io disegnava uccidergli con varia morte, orfano del cuore come aveva fatto
me... quando la vita gli fosse riuscita di supplizio, la morte sollievo,
conservarlo finchè i suoi polsi avessero sentito spasimo di
agonìa; quando poi l'anima stupidendosi si fosse adattata alla sventura...
allora precipitarla per via di sangue nel sepolcro sanguinoso dei suoi.
Un mostrarmi pronto ad
eseguire ogni comando, un consigliare astuto, un proporre immaginosi trovati mi
acquistarono mano a mano la sua confidenza, per quanto può fidarsi costui,
che sempre, e di tutti e di se stesso diffida. Ora immaginate voi quale
sorpresa fosse la mia, quando conobbi nessuno maggior piacere avrei potuto
recargli come ammazzargli i figliuoli! Il suo odio snaturato vinse il mio; e
dove pure io avessi continuato a portarvi rancore perchè generati dal
suo sangue, o come avrei potuto tormentarvi più atrocemente di quello
che si facesse vostro padre? Alla ira subentrò una pietà profonda
per tutti, ed in ispecie per voi, signora Beatrice;... perchè per voi,
povera fanciulla, ho concepito una tenerezza... uno amore sviscerato, che mi
rammenta la buona anima della defunta, e mio malgrado mi sforza a lacrimare...
E, vinto dalla passione,
Marzio fece atto di piegare le ginocchia davanti a Beatrice; se non che questa
con mano pronta lo trattenne, dicendogli:
- Su, Marzio, levatevi; la
polvere non ha da prostrarsi al cospetto della polvere, e noi tutti siamo
polvere; - e poi soggiunse: Marzio, io vi raccomando di avvertire a quello che
vi esce dai labbri; - ma con suono così dolcemente supplichevole, che
Marzio non ne rimase per nulla mortificato.
- Gentil donzella,
perchè volete impedirmi di genuflettermi davanti a voi? Le cose sacre si
adorano in ginocchio, e voi pur troppo consacrò lo infortunio; - certo
veruna creatura al mondo si rassomigliò, quanto voi, alla Madonna del
Pianto. Non dubitate, no; voi da me non udirete parola di cui possano
offendersi le vostre orecchie castissime: - voleva dire, che padre non possa
favellare alla propria figliuola; ma lo esempio del Cènci mi ha
trattenuto sopra i labbri il paragone. E perchè non dovrò amarvi
io, se tanto mi rammentate la mia povera defunta? Ma la mia donna è
morta, e il mio amore di amante fu sepolto con lei. Lo affetto che io sento per
voi non è di devoto, di padre, e di fratello; e pure partecipa di tutti
questi affetti insieme. Io so che voi siete amante riamata di monsignore Guido
Guerra, e tengo in altissimo conto questo gentiluomo, come quello che ha
collocato lo amore suo in così degna donzella. Più che non pensate,
Marzio ha favorito i vostri legittimi amori. Incauti! Quante volte vi avrebbe
sorpreso il vecchio maligno se io non era! Ultimamente, per la
subitaneità del caso, se non potei prevenire monsignore Guido, io lo
costrinsi alla fuga perchè ei repugnava abbandonarvi, e gli salvai la
vita. Io gli mostrai che sè perdeva, e a voi non poteva dare soccorso: e
gli promisi ancora di prendermi cura di voi, e manterrei la promessa, se voi
non mi attraversaste; però ho statuito partirmi da casa vostra: - vi
entrai per condurre a compimento la mia vendetta, ed ora mi è forza
allontanarmi se intendo mandarla ad effetto. Da un lato, voi non volete che vi
liberi dal perdutissimo vecchio; e quantunque io non possa renunziarvi la mia
vendetta, pure, per rincrescervi meno, non voglio ammazzarlo sotto i vostri
occhi; dall'altro considero che questa morte avvenendo qui in casa, il sospetto
si aggraverebbe sopra voi innocenti; onde il meglio è che io mi
allontani, perchè rimanendo non avvantaggio voi, e nuoccio a me. Signora
Beatrice, se io vi supplicassi a conservare memoria di un uomo che non ebbe per
voi altri sentimenti che di benevolenza e di ossequio; se vi pregassi a non
odiarmi affatto, sarei forse troppo presuntuoso?
- Io ricorderò che
volete uccidermi il padre: - quando sarete lontano penserò che mi
potevate difendere, e che mi avete abbandonata. - Deh! lasciate vivere il
Conte; i suoi anni sono molti... non lo mandate al giudizio di Dio; aspettate
ch'ei ce lo chiami.
- La vostra voce è
potente, ma non vince quella che mi rugge in petto. Impossibile! E non vedete
espresso qui dentro il giudizio di Dio, poichè il mio proponimento
soddisfacendo alla vendetta della donna, che amai tanto, porta salute a voi,
sventurata donzella?...
- Il dito di Dio, Marzio, non
iscrive i suoi consigli col sangue...
- Come no? L'Angiolo
sterminatore lesse in Egitto la sentenza di Dio impressa su gli stipiti delle
porte con nota di sangue: così almeno ho udito sovente predicare ai
nostri sacerdoti. Voi vi dimenticate, Signora, che qui in Roma Iddio ebbe per
suo vicario Sisto V; nè quello che regna, Clemente VIII, immaginate
già ch'ei si abbia migliori viscere di lui.
- Io non so di sacerdoti; io
so di Cristo, che riprova la legge di pagare dente per dente, e occhio per
occhio, e vuole che amiamo quelli che ci fanno del male. Marzio, lasciate a Dio
i suoi giudizii; quello che in Dio è giustizia, in voi sarà
delitto.
- Ma come lasciarlo vivere? -
esclamò Marzio percuotendosi la fronte, quasi si risovvenisse di cosa
dimenticata; - ma non sapete ch'egli respira di strage? Vedete; se io rimanessi
qui, - uno sciagurato avrebbe a morire di fame.
- Come di fame?
- Ahi, me meschino! Ragionando
con voi si dimenticherebbe il paradiso... Povero Olimpio!... mentre io mi
trattengo, tu conti i minuti con gli spasimi delle tue viscere affamate.
E così favellando prese
in fretta la lanterna, il mazzo delle chiavi e il paniere deposto sul
pavimento, e con veloci passi si avviò dall'altra parte del sotterraneo.
Beatrice, traendo a fatica la
persona inferma, gli tenne dietro, curiosa di chiarire il truce mistero che si
adombrava nelle parole di Marzio.
CAPITOLO XVI
IL MEMORIALE.
«Per il che non
potendo durare in così infelice
vita prese la
strada della sorella Olimpia, e
mandò al
Papa un buono e ben composto memoriale;
ma o che quello
fosse dato, o no, la
sua ragionevole
inchiesta non ebbe effetto, nè
si è
trovato in segreteria dei memoriali quando
ne faceva
bisogno mentr'era in prigione...»
Manoscritto
del tempo.
Il vento ne portava
le parole.
Petrarca, Sonetti
Beatrice tenne dietro a
Marzio, il quale arrivato alla prigione di Olimpio lo chiamò a nome: non
si sentendo rispondere, con molta ansietà gridava:
- Olimpio! Olimpio!
Una voce fioca rispose:
- Vattene via, malvagio
traditore... liberami dalle tue tentazioni... mi acconcerò come
potrò con Dio, per morire in pace...
Marzio schiuse la porta; e a
tale debolezza era arrivato il masnadiere pel digiuno e per le tenebre, che il
poco di lume della lanterna valse a ferirgli dolorosamente gli occhi, e a farlo
traballare. Marzio lo sostenne, e lo indusse a bere alcun sorso di liquore
cordiale, che aveva portato seco lui. Dopo brevi momenti di conforto riarse in
Olimpio la rabbia della fame e della sete; come fiera si slanciò sul
paniere, nè Marzio avrebbe potuto impedirlo s'egli non era ridotto in
cotesto stato di debolezza. Marzio lo ammonì che se non faceva senno,
scampato dal morire di fame lo avrebbe ucciso il cibo.
Beatrice attonita considerava
il masnadiero, orribile a vedersi; imperciocchè i suoi lunghi capelli
ingrommati gli pendessero giù dalle tempie come mignatte ripiene di
sangue; il colore della faccia di bronzato era divenuto cenerino; le labbra
nere; gli occhi verdi, e lucenti come vetro.
Riavutosi con discreta
quantità di cibo e di bevanda, Olimpio così prese a favellare in
mezzo al singhiozzo che lo assalse:
- Rinnegato! Cane di
traditore! Marrano! Morire di fame, eh? Confessare senza corda non è di
regola... il morto disseppellito ammazza il vivo: non m'importa... io voglio
dire... bisogna che io mi sfoghi... Iniquo vecchio, tu volevi farmi tacere...
lo capisco... ho ammazzato cinque per conto tuo - quattro di coltello, e
l'ultimo, il falegname, bruciato... povero giovane!... bruciato come una talpa
intrisa di acqua di ragia... Ah! ah! Requiem aeternam dona ei, Domine. E la sua moglie Angiolina? - Angiolo vero di nome e di
fatto. Donna Luisa! - Santa Vergine, esaltatela voi! - Guarda te, se io sto
propriamente giù in fondo del male!... ebbene; donna Luisa sta anche
più su, in cima del bene. - Le fiamme della casa del falegname, il furto
del curato, il ratto della Lucrezia - tutto commesso, tutto ordinato da lui; -
io prestai la mano, egli la diresse: - infame mano! io ti taglierei, se non
fosse la bocca che vuol mangiare. O bestie del campo, voi trovate da pascervi,
noi no; quanti delitti per pane! La volpe aveva teso la tagliòla al lupo
per mandarlo a dare dei calci al rovaio: - ora lo vedo espresso... tradimento
di tradimento... partita doppia... bravo, per dio! - Ferito, inseguito dai
mastini della corte, riparo qua dentro... allora il Conte disse: quest'uomo
vuole essere nascosto; mettiamolo tre braccia sotto terra... meglio di
così non può stare: ma bravo! E poi il Conte ha detto ancora: quest'uomo
è cercato dalla giustizia; se fosse messo al martoro potrebbe
pregiudicarsi con le sue confessioni; quando è morto, la corda non lo
farà più parlare. - Marzio, da bere. - Non è egli uomo
serviziato il Conte Cènci? - Per la Vergine sì. - Don Francesco,
se questa è la ospitalità che riservate agli amici, e ai
servitori vostri... in fè di Dio non vi scemeranno le entrate... no...
da bere.
- Olimpio non affaticarti,
taci; nudrisciti a bello agio... riposati... rifa' le forze... fra poche ore io
verrò a levarti.
- Mai no, che non mi
rinchiuderai più; - adesso ho fame e sete di aria: mi pare avere sul
petto la cattedrale di San Pietro. San Pietro! Ho io rammentato San Pietro?
Ebbene; io non mi fido neanche di lui che tiene sempre le chiavi in mano, perchè
anch'egli patisce del mestiere, e le mette più in opera per chiudere che
per aprire.
- Olimpio quietati; ormai tu
vedi che fin qui non ti ho tradito.
- Il minuto che passa è
forse mallevadore del minuto che entra? Una volta tra dodici apostoli appena si
trovava un Giuda; adesso tra dodici uomini undici, sono traditori, e il
dodicesimo un po' tarlato. - Se ho da morire... lasciami bere un altro
bicchiere di vino, e andiamo; ma come devono morire gli eroi, e i banditi
romani... a cielo aperto...
- Ribaldo! Ti pare che questa
bottega porti insegna di traditore? - disse Marzio scuoprendosi con la destra
la fronte; - ho promesso salvarti, e ti salverò: non vedi che tu
barcolli come ebbro, e le tue ginocchia si urtano insieme? Il vino ti ha dato
alla testa. - Adesso ci scuoprirebbero, e ammazzerebbero tutti e due.
- Ma colei, ch'è teco,
che femmina è? - Non è la sua figlia? - O come ci entra teco? -
proseguiva Olimpio fregandosi gli occhi.
- Veramente ella è la
signora Beatrice; ma va sicuro che non venne qui per nuocerti.
- Poichè non posso
rimediarla meglio mi fiderò... brutta parola è cotesta! - Marzio,
siccome io ho veduto che tra gentiluomini e gente altra cotale, che va per la
maggiore, si fa conto dei giuramenti e delle promesse quanto dei grilli dell'anno
passato, così mi presumo che fra noi la faccenda sarà diversa
perchè fra me, e te, - mi pare che ci corra quanto fra te, e me - misura
giusta; e noi siamo villani. Marzio, io vorrei legarti con la promessa di un
premio; ma la mia anima si trova ormai ipotecata al diavolo, e pel corpo tu
avresti lite con mastro Alessandro. Se tu avessi qualche nemico, che patisse
del male di angina... - e con la destra si toccò la gola.
Marzio alzò le spalle,
quasi volesse dire: cotesto so molto ben fare da me. Allora Beatrice si
attentò di favellare:
- Marzio vi salverà,
non ne dubitate; ed io, in mercede, vi domando cosa che mi potrete donare molto
agevolmente, e nella quale il guadagno sarà tutto per parte vostra. Voi
mi avete a promettere, che uscendo da questo pericolo muterete vita.
- Oh Signore! che si
può mutar vita come si muta la camicia? Io non ho imparato altro che
maneggiare il ferro, e il ferro è fatto per ferire...
- Il ferro è fatto non
per ferire il cuore dei fratelli, donde viene la morte; ma sì per
lavorare la terra, ch'è sorgente di vita. Muta il tuo ferro in vanga, e
la misericordia di Dio si distenderà fino a te...
Questa risposta Beatrice dava
al bandito pacatamente, senza petulanza, e con voce soave per modo, che
Olimpio, il quale per costume era solito piegarsi agli avvertimenti altrui a un
di presso come un campanile al vento di primavera, sentì un non so che
nello stomaco, che non capiva bene se dovesse attribuire alle parole udite, o
al digiuno sofferto. Ci pensò sopra un pezzo, e non gli riuscendo bene a
sciogliere il nodo, gli parve attenersi al più certo; onde concluse la
sua meditazione dicendo: sarà il digiuno!
Tornando al carcere di
Beatrice Marzio favellava:
- Vostro padre è una
miniera di delitti; più se ne scava, e più se ne trova. Io, che
pure non mi spavento per poco, quando mi affaccio a quel pozzo disperato
rabbrividisco, e non comprendo più nulla. Voi dunque non volete
consentire alla morte di lui; meglio così: conservatevi rosa bianca, e
pura, quantunque, a parer mio, ove si tinga in vermiglio per sangue scellerato
non perda pregio davanti agli uomini, nè davanti a Dio. State lieta
però; i giorni della vostra schiavitù saranno meno lunghi di
quello che voi poteste temere.
- Dio disperda lo augurio
perchè so a qual patto sia la mia libertà; e, Marzio, se voi mi
amaste davvero, come dite, se le mie angosce vi avessero toccato il cuore, ah!
voi non persistereste a rendermi la femmina più desolata del mondo
macchinando togliermi il padre...
- Dite un carnefice...
- Mio padre... però che
da lui ebbi la vita, e per lui senta, e per lui spiri...
- Vi diè la vita per
contaminarvela, o per togliervela.
- E sia così; ma se
egli dimentica le parti di padre, dovrò io obliare quelle di figlia?
- No; dunque ognuno la sua
parte: a me spetta quella di vendicatore. - Cessate... vi ripeto, Signora...
voi vi affaticate invano; voi potreste trasportare più prestamente con
le vostre mani gli obelischi di Papa Sisto fuori di Roma, che rimuovere me dal
mio proponimento.
- Di voi non sono signora, di
me sì.
- Nè io ve lo
contrasto...
- Guardate, chè io mi
dispongo ad avvertire il Conte ond'egli stia su lo avvisato.
- Avvertitelo. Non sarò
io la volpe, che insidia la gallina: - prima di rovinargli addosso io
ruggirò, perchè senta che il leone si accosta.
- Ma s'egli uccidesse voi?
- Ho sentito raccontare che,
anticamente, nei giudizii di Dio era tratta una bara sola; uno dei due
combattenti la doveva empire. Se la Provvidenza giudica delle cose umane, vi
pare che debba essere io quegli che la riempirà? - Poche più ore mi
avanzano a starmi qui in casa vostra: - avete nulla a raccomandarmi, signora
Beatrice? Io per me niente sono; una moneta di rame; pure, se data di buon
cuore al poverello, frutta una di quelle preghiere che fanno proprio diritta la
via del paradiso.
- E notate ancora, che io vi
attraverserò con ogni mia possa.
- Voi?
- Anche la formica
salvò il colombo pungendo il piede allo arciere. - Ed ora che vi ho
detto tutto questo, non vi sentite sdegnato meco, Marzio?
- Niente affatto. Non ve lo
espressi pur dianzi? Ogni uomo è forza che fili la stoppa che gli pose
in mano il destino. Forse, chi sa? Dove io vi avessi trovato diversa da quello
che siete, vi avrei tenuta di maggior senno, ma vi avrei amata meno.
- Ebbene, Marzio, per favore
estremo io vi chiedo lasciarmi per breve ora la lanterna, e recarmi quanto
abbisogna per iscrivere. - Io non voglio omettere di tentare argomento alcuno
di salute piuttosto per non avermi a rimproverare di negligenza, che per
isperanza che io ne abbia: distenderò un memoriale a Sua Santità,
supplicandola per le viscere di Gesù Cristo che provveda a me come fece
a Olimpia. Questo parmi il partito migliore. La fuga con Guido, che immaginai
esaltata dalla passione, io riprovo adesso: conosco che desterebbe scandalo; il
torto sarebbe mio, e il mondo, ignaro delle cause che mi mossero, confonderebbe
la mia deliberazione col volgare amore d'invereconda fanciulla, che sottomette
la ragione al talento. Inoltre per cagione mia andrebbe guasto ogni disegno di
Guido: sembra che a lui prema tenersi il Papa bene edificato, e tanto basta per
amante discreta onde abbia a rispettare la volontà sua. Ogni via ultima
di salute sta in questo, che Guido si adoperi a fare pervenire prestamente il
memoriale al Pontefice, e ne ottenga risoluzione sollecita. Voi poi, per accendere
Guido a non indugiare, gli confiderete quello, che io morirei di vergogna a
palesare, non che ad altrui, a mia madre. - No... no... sciagurata! non gli
dite nulla... promettetemi, Marzio, che non gli direte nulla.
- Farò come volete.
Signora Beatrice, date ascolto: per me oggimai nulla temo perchè
disposto a uscirmene infra brevi ore di qui, e perchè vostro padre non
è tanto astuto che io non lo sopravanzi. Egli mi sospetta, ed i suoi
sospetti si convertono in punte di ferro: egli lo ha palesato. La confidenza
mostratami stamani è finta per ingannarmi: ad ogni modo non temo. Voi
debole, inerme, inoffensiva, dovete troppo più paventare di me: io
voglio farvi un dono, che ad ogni estremità possa giovarvi; egli vale
quanto noi vogliamo che valga... Eccovi un coltello...
- Grazie; quando non mi
rimanga altro scampo, con questo sarà più certa la morte.... e
meno dolorosa...
- Or ora io vi porterò
da scrivere; voi mettetevi subito alla opera. Io simulerò di nettare le
mie pistole nel giardino: dove mai vedessi don Francesco piegare verso il
sotterraneo per sorprendervi, io sparerò la pistola, come se avesse
preso fuoco a caso: voi, avvertita dal colpo, spegnerete la lanterna, e
nasconderete ogni oggetto, prima che il vecchio arrivi...
- Così farò.
Addio...
Quando Marzio tornò in
camera di Francesco Cènci lo rinvenne sempre giacente in letto, e,
secondo ch'ei dava ad intendere, afflitto da dolori atrocissimi. Non senza
maraviglia Marzio vide di qua e di là del capezzale due frati domenicani,
che dal viso poco angelico, e meno serafico pareva ch'eglino pure andassero
persuasi di non possedere grande aria di santità, imperciocchè
tenessero i cappucci tirati giù sopra gli occhi. Il Conte ordinò
a Marzio posasse le chiavi, e si ritirasse. Partito ch'ei fu, il Conte,
ridendo, disse loro:
- Reverendi Padri, lo avete
notato bene? Domani egli partirà per Rocca Petrella; le vostre
paternità lo aspetteranno nel luogo che reputeranno più adattato,
e voi me lo manderete allo inferno, o in paradiso (che in quanto a questo poco
m'importa) con due palle traverso il corpo... avvertite, che quattro non
guastano nulla: poi gli celebrerete due messe in suffragio dell'anima. Intanto
prendete la elemosina; - e porgeva loro un gruppo di moneta.
- Eccellenza dormite fra due
guanciali, che noi vi serviremo da pari vostro; - rispose uno dei frati.
- Anime elette! Anzi, per non
dar luogo a svarioni, osservate questo mantello scarlatto; voi lo vedrete o
addosso al vostro uomo, o davanti alla sella del suo cavallo.
- Oh! non fa al caso perchè
io l'ho in pratica.
- Davvero? E come?
- Eccellenza ve lo dirò
un'altra volta, perchè stando qui in Roma mi sembra camminare sopra la
zolfatara... mi si bruciano le scarpe.
*
* *
- Marzio, accompagnate coteste
Reverenze. Padri, io mi raccomando alle vostre orazioni.
- La pace sia con voi.
- Amen.
Marzio accompagnò
cotesti frati di cui lo strano aspetto era tale, da fare rabbrividire Cristo
comunque crocifisso: tentò ficcare gli occhi sotto al costoro cappuccio,
ma non gli venne fatto di bene ravvisarli: mentre stavano per uscire, uno di
loro, voltandosi per salutare col solito ritornello la pace sia con voi,
lasciò cadere un largo coltello; il quale raccolto prestamente da
Marzio, fu con gesto umile presentato al frate dabbene.
- Reverendo Padre, vedete che
vi è caduta la corona.
- Figlio mio, il Signore non
vieta difendere la nostra vita dalle aggressioni degli scellerati; anche i
santi lo hanno fatto.
- Sicuro!... Perchè per
diventare santi non importa mica essere anche martiri. All'opposto, Padre, invece
di scandalizzarmi, voi mi avete edificato per modo, che io supplico devotamente
la vostra Reverenza a volere ascoltare la confessione di certo peccato, che mi
pesa su l'anima.
- In questo luogo? Adesso?
- Ogni momento non è
buono per salvare un cristiano? Forse Gesù rispondeva a coloro, che si
voltavano a lui, venite domani? Padre, non mi rimandate sconsolato; vedrete,
ella è cosa di pochi minuti; entrate in questa stanza terrena, e tutto
andrà d'incanto.
E così dicendo lo prese
a forza per le braccia per menarlo seco. Il frate non oppose resistenza, e,
avvertito il compagno di attenderlo alquanto, entrò con Marzio nella
stanza terrena.
- O Grimo, e' ti ho
riconosciuto, sai... - disse Marzio levando risoluto il cappuccio al frate.
- Ed io te, Marzio... come ti
sei avvilito! Chi ti avrebbe creduto capace di ridurti a fare lo staffiere...
- E tu frate? - Quali negozii
ti chiamano qui dentro?
- Te lo dirò; ma tu,
come servitore in casa Cènci?
- Per ammazzare il Conte
assassino di Annetta Riparella, la fanciulla di Vittana.
- Ed io per ammazzare domani
un certo Marzio, il quale penso che deva essere un po' tuo parente.
- Me?
- Come hai indovinato giusto!
Ma io l'ho detto sempre, che tu contieni più seme di un cocomero.
- E tu lo farai?
- Ho riscosso il prezzo; e tu
sai la regola di sicario onorato.
- In questo caso troverai
giusto, che io ammazzi prima te.
- Niente affatto; vi è
modo di aggiustare tutte le cose. Noi fummo compagni antichi nella banda del
signor Marco, dove imparammo sempre onorati esempii di virtù; cane non
mangia carne di cane: qualche volta, per rabbia, un occhietto di più,
che ci facciamo, non guasta la buona amicizia; ma dietro la siepe mai: questo
operiamo per conto dei Signori contro gli Signori perchè ci sono tutti
nemici vecchi. Però quando si è ricevuto il prezzo dell'omicidio
bisogna adempire il patto; altrimenti il nostro mestiere, come conosci al pari
di me, scapiterebbe di credito e di avventori. Io mi sono legato per fede ad
aspettare domani, su la strada per Ròcca Petrella, un uomo che
porterà addosso o sul cavallo un mantello di scarlatto, e ammazzarlo. Io
lo aspetto, egli non passa; il mio obbligo è soddisfatto, e posso
tornarmene in buona coscienza alla macchia. Ti garba così?
- Eh! non ci è di male.
E il tuo compagno chi è egli?
- Gli è figliuolo di
Trofimo il molinaro. Vedi un po' come è cresciuto; ha fatto a occhiate:
trovò la sua amorosa a discorrere con un giovanotto di Rieti, e gli
accadde di scannarli tutti e due - una vera ragazzata: - saranno sei mesi che
ha preso la macchia, e promette bene. Ora lasciami andare, e occhio alla penna
perchè il vecchio è mastino di buona razza.
- C'ingegneremo, fra Grimo;
non fosse altro per non fare torto alla reputazione della compagnia. Ma, senti,
mi è venuto in capo una fantasia; dove mai mi occorresse bisogno di
adoperarti (pagando, s'intende) con questo tuo garzone di belle speranze, dove
avrei da cercarti?
- Alla osteria dell'Acqua
ferrata, dove si prendono i muli per Rio freddo, tu troverai un ragazzo sordo e
mutolo, che s'ingegna come stalliere; se gli dirai con garbo, e più
sotto voce che potrai: su Monte Bove deserta è la via, forse
avverrà ch'egli t'intenda, ed anche che ti risponda. In ogni caso egli
mi farà sapere quello che tu vorrai da me. E per ora ego te absolvo.
Gli antichi compagni si
separarono più amici di prima. Marzio tornò in camera al Conte,
il quale, dopo avergli comandato certi servizietti, che quegli adempì
con la solita diligenza, così prese a favellargli umanamente:
- Marzio; se io odio, ciò
avviene perchè gli altri mi odiano; nè sopportare questa vita
è lieve cosa, poichè, tranne te, tutti m'insidiano la vita, tutti
agognano le mie sostanze. Io solo sto contro tutti; ma, come Orazio, non ho
ponte dietro le spalle. I miei figli poi sopra gli altri mi abboniscono, spinti
a questo da due ragioni, negli uomini potentissime: bisogno di vendetta, e
cupidigia di averi. Una cosa m'inacerbisce, e consiste nelle forze che scemano,
e nella perduta prestanza del corpo. È inutile dissimularlo; gli anni incominciano
a pesare; onde io non vorrei ridarmi al caso del lione, che ebbe a sopportare i
calci perfino dello asino. È prudenza uscire di teatro prima che
spengano i lumi: ho deciso pertanto ritirarmi alla Rocca Petrella, feudo che
possiedo su i confini del regno. Ne conosci le vie?
- Credo di sì. Si
prende da Tivoli; e poi domandando si va a Roma, dice il proverbio.
- Domani, dunque, tu monterai
a cavallo con nostre lettere pel castellano, e partirai per quella volta:
colà, come persona pratica e sufficiente, tu invigilerai i lavori, che
ordino per porre in assetto il castello; farai mettere nuovi serrami alle
porte: intanto apparecchiami alcune stanze, e attendi a fare scomparire le
tracce dello incendio...
- Incendio! dite voi? O che
abbruciò la ròcca?
- I banditi, mentr'era poco
guardata, me la saccheggiarono, ed arsero. A quei tempi si riparava molto nei
boschi circonvicini il signor Marco Sciarra, e dove la sua banda passava ti so
dire che non metteva più erba...
- Ma io non udii mai che la
banda del signor Marco ardesse, e guastasse...
- Accattai briga con uno dei
suoi uomini per una follìa, che non meritava la spesa. Certa volta mi
prese vaghezza di una villana, di una capraia, che so io? - Lo crederesti,
Marzio? Costei ebbe ardimento di resistermi, e di minacciarmi la vendetta del
suo marito. Siccome ella era devota della Beata Vergine dei dolori, io la resi
simile affatto alla sua santa avvocata piantandole un coltello nel cuore. Il
marito, o amante che fosse, prese la burla sul serio, e, aiutato dai compagni,
mi fece il tiro di bruciarmi la ròcca.
- In verità egli ebbe
torto. Al diavolo lo zotico, che non capiva l'onore che gli faceva un conte di
contaminarsi con la sua villana.
- Ma!... tanto è, non
la vogliono capire. - Orsù, mettiamo da banda queste freddure. Danari
non importa che tu prenda teco; il castaldo deve avere riscosso a questa ora i
canoni dei fittaiòli; - solo per amore mio porterai questo mantello, che
ti dono; egli ti riparerà dalla guazza, dalla quale importa riguardarci
bene.
- Eccellenza, un tabarro
scarlatto trinato di oro, ma vi pare che sia abito conveniente per un povero
vassallo come sono io? - E' mi parrebbe di fare la figura di uno dei re maghi.
- Chi dona considera la sua
larghezza, non la umiltà di cui riceve; e poi anche di cotesta pasta si
fabbricano baroni. Che cosa ti pensi che ci voglia, ai giorni nostri di
decadenza, per mutare un contadino in conte? Un mantello rosso, e qualche
migliaia di scudi. I titoli sono diventati le indulgenze dei Principi, e col
miscuglio della piccola gente essi guastano la vera ed antica nobiltà;
un giorno se ne avvedranno, e se ne pentiranno. A me non importa nulla.
Intanto, Marzio, prendi il tabarro, e pei danari pensa che il Conte
Cènci possiede tanto che basta per mutare quindici mendichi in principi
romani; e rammenta ancora, che a patto che la mia roba non vada agli
odiatissimi figli, io mi contento che si spartisca fra i miei servitori. Dunque
o stanotte, o domani sellerai lo storno, che tra i miei cavalli è il
più poderoso, e mettiti in cammino; io ti terrò dietro fra cinque
giorni, o sei. Intanto rendimi le chiavi del sotterraneo: alla ribelle
figliuola provvederò da me stesso.
Marzio gliele dette senza
esitare, ma nel porgergliele pensò: Ribaldo vecchio! e non sai, che
quando il tuo diavolo nacque il mio andava ritto alla panca? - E questo
avvertiva perchè. come quello che industriosissimo uomo era, non aveva
messo tempo fra mezzo, e con suoi arnesi saputo in breve ora ridurre altre
chiavi, e adattarle alle serrature dei sotterranei.
Tolto commiato, fingendo
apparecchiarsi al viaggio, si pose in guardia nella stanza terrena, dove
metteva capo il corridore che riusciva alla porta dei sotterranei: quivi prese
la valigia da trasportarsi sopra le groppe del cavallo; riguardò la briglia,
le cinghie, la sella e le armi; e come se avesse rinvenute queste irrugginite
pel non uso, con olio e smeriglio si tratteneva a polirle, stando sempre con
l'occhio avvertito.
Al Cènci, quando parve
tempo, persuaso sorprendere Beatrice con qualche foglio scritto da lei, o
ricevuto di fuori mercè il soccorso di Marzio, cauto, ed obliquo a modo
del gatto, strascinandosi a stento per via della sua infermità,
s'ingegnava penetrare inosservato nella prigione di Beatrice. Marzio, appena
con la coda dell'occhio lo vide comparire alla lontana, scattò la
pistola, la quale sparando levava immenso rimbombo in cotesti luoghi chiusi. Lo
astuto Conte penetra di un baleno la trama; freme in cuore, ma in volto non
muta colore, non istringe sopracciglio: oggimai per cotesto segnale Beatrice
era stata avvertita, e la sorpresa riusciva invano. Si appressava pacato a
Marzio, e con ipocrita ingenuità gli diceva:
- Ma badaci, figliuol mio,
un'altra volta; chè ti potresti guastare una mano.
- Figuratevi! gli è
stato proprio casaccio. Restare inabile per tutto il tempo della vita preme
ancora a me. - Lasciate però che io mi rallegri con voi, vedendovi
così presto guarito della gamba da potere uscire da letto.
- Veramente cotesti buoni
Religiosi, che tu hai veduto, mi avevano portato una reliquia capace di operare
questo, ed altri miracoli; ma io non ho consentito che per me disturbassero Dio
nello eterno suo soglio: mi attengo modestamente allo empiastro di malva. Io mi
sento tutto altro che sanato; il bisogno di prendere un poco d'aria pura, il
fastidio insopportabile di tenermi giacente in camera mi ha spinto a
perigliarmi fino qua. Marzio porgimi il braccio, tanto che io possa un po'
riconfortarmi qui allo aperto.
Marzio gli diè braccio;
sicchè a vederli parevano i più amorevoli padrone, e servo, che
da un pezzo in qua avessero rallegrato il mondo.
Io non so davvero qual pazzia
sia questa dei poeti, di ricorrere alle bestie per paragone delle umane
passioni. Vogliono dare ad intendere una immanità inaudita, ed eccoti in
ballo la tigre, e, per di più, ircana: qualche grossissima ira fra due
uomini arrabbiati, e, o Ariosto, o Tasso, o Tassoni, o Poliziano, o gli altri
infiniti (imperciocchè questa similitudine io credo che pel molto uso
caschi in pezzi) ti cantano
E si vanno a incontrar, non
altrimenti
Che due cani (o due tauri) furiosi, e d'ira ardenti.
Se due persone, che si
aborrano fra loro, si dice: stanno d'accordo come cane, e gatto. Sicuramente
che cane e gatto, se non fossero aizzati l'uno contro l'altro, starebbero
d'accordo; ed io ho veduto una cagna allattare due gattini orfani: cosa da
intenerire i sassi, e le Signore patrone degli Asili infantili. A che giova
importunare le bestie che non possono renderci la pariglia, non componendo
poemi, e non possedendo stamperie? Vi hanno forse rabbia, o ira, o ipocrisia
bestiali che superino quelle dell'uomo? Questa creatura è pari a se
stessa, a nessuna seconda; a molti facilmente prima. Se volete proprio dare
idea di persone che si odiino con tutte le potenze dell'anima, dite piuttosto
che si accordano come padrone e servo, e parlerete più dritto. Certo io
non nego, che se i servi possedessero metà delle virtù che i
padroni pretendono da loro, non vi sarebbe servitore che non meritasse avere al
suo servizio una mezza dozzina di padroni; almeno tale era il parere di Figaro:
ma per altra parte troppo spesso i servi così si mostrano o cupidi, o
ingrati, che sarebbe risparmio grande di afflizione fare da se. Marzio e il
Conte procedevano braccio a braccio, e si scambiavano parole di benevolenza.
- Vivono i tuoi genitori,
Marzio?
- Sono orfano; parenti ho da
averne di certo; però da gran tempo non udiva notizia di loro.
- E forse i luoghi ritengono
qualche vestigio di fiamma antica?
- Fiamma!... Io la ebbi, ma me
la spense il vento.
- Davvero! O narrami un po'
questo caso.
- È breve; un potente
barone se ne invaghì; costei fu temeraria tanto, da rifiutare l'onore
che il barone volea farle; il barone la uccise, e la pagò secondo i
meriti.
- Motivo forse di sospiri per
quindici giorni. Il tempo rimargina presto le ferite.
- Non tutte; dentro alcuna si
tronca il coltello, la carne vi cresce sopra, ma la ferita sanguina sempre.
- Marzio, la commedia della
vita non si compone di un atto. Hai tu veduto ghirlande di un fiore solo? Sta'
lieto; tu sei giovane, tu sei bello; un'altra volta, e due, e dieci tu potrai
menare allegri balli con giovani leggiadre intorno ai fuochi di maggio. Io non
pretendo che la sorveglianza dei lavori alla ròcca di tanto ti occupi,
che tu non possa dare una corsa fino alla tua patria, che se bene mi rammento
ha da essere Tagliacozzo, per ritrovare qualche sorriso di vita che dissipi
ogni nebbia di sospiri di morte.
- Così farò, don
Francesco, poichè me ne date licenza: vo' provare, se mi riesce, a
scacciare un diavolo con un altro.
Dio eterno! Mentre si
ricambiavano siffatte cortesie, i costoro colli, come sotto ad un medesimo
giogo, andavano gravati dal pensiero dello scambievole omicidio: ed anche
questo è un pregio, del quale gli uomini possono vantarsi superiori alle
bestie. Il Conte dopo breve cammino tornando a dolersi del piede offeso,
mostrò voglia di ricondursi in camera; e Marzio lo accompagnò, e
lo sovvenne con amorosa assistenza.
Scesa la notte, quando a
Marzio parve che tutti dormissero nel palazzo, con veloci passi s'incamminava
al giardino: quivi assicurò al muro del recinto una scala; poi, aperte
con le doppie chiavi le porte del sotterraneo, liberò Olimpio. Questi
col cibo e col riposo aveva recuperato le forze, e con le forze lo acuto
desiderio della vendetta, per cui era venuto nel proponimento di appiccare il
fuoco al palazzo dei Cènci prima di abbandonarlo; nè Marzio ebbe
a durare piccola fatica per contenerlo, e gli andava dicendo: si quietasse per
ora; lui premere smisuratamente più atroce la necessità della
vendetta; fra giorni egli ne trarrebbe del Conte una memorabile, e sicura;
essere iniquo offendere tanti innocenti per colpa di un reo.
Poi si condusse al carcere di
Beatrice; l'animò a fuggirsi seco lui, ma la rinvenne ferma nel suo
proposito di sopportare quello che alla Provvidenza fosse piaciuto disporre di
lei. Venutogli meno ogni argomento, prese il memoriale; la confortò come
seppe, provò allontanarsi, tornò indietro: sentiva, nello
abbandonarla, scoppiarsi il cuore come per morte. Finalmente a lei, che non
cessava scongiurarlo deporre per lo amore di Dio ogni disegno di vendetta
contro il padre suo, baciò, e ribaciò affettuoso le mani, e poi
si allontanò con passi concitati esclamando: «Fatale! fatale!»
Olimpio si salvò per la
scala del giardino; Marzio uscì dal palazzo montato sul cavallo storno,
portando su le groppe di quello avvoltolato il mantello scarlatto trinato di
oro.
CAPITOLO XVII.
IL TEVERE.
Acque del
Tebro, a voi sola è rimasta
La grandezza di
Roma.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Fu di Romolo la
gente
Che il tridente
Di Nettuno in
man gli porse.
Ebbe allor del
mar lo impero,
Ed altero
Trionfando il
mondo corse.
Guidi, Il Tevere.
Ecco il Tevere! Le sue acque
scorrono adesso come quando Roma vi si contemplava incoronata di tutte le sue
torri. Questi flutti hanno trasportato sul dorso regni, repubbliche, imperii, e
Popoli, e, più stupendo a dirsi! una generazione intera di Numi,
mescolata con le foglie inaridite che il vento di autunno sparpaglia lungo le
sue sponde. Ceneri di eroi, e ceneri di banditi; ceneri di papi, e ceneri di
eretici furono sparse per la sua superficie, nè egli corrugò la
fronte per le une più commosso che per le altre. Dentro ai suoi gorghi
le statue di Giove e di Mercurio riposano in pace sopra il medesimo fango, a canto
a quelle dei santi Pietro e Paolo. Tutto intorno a te rovina, tutto è
mutato; tu rimani lo stesso, e teco il sole italico, che scherza con le fulve
tue onde come con la criniera di un vecchio leone.
Leva la fronte, o Tevere. Ah!
forse non tutti i numi abbandonarono ancora il cielo di Ausonia. Si danno fati,
e quelli dei Popoli sono fra questi, che rinnuovano il caso di Anteo, il figlio
della terra. Se un lauro un giorno, secondo che porge la fama, crebbe spontaneo
sopra l'ara di Augusto astutissimo fra i tiranni([89]), e perchè non
potrebbe tornare a rinverdire sopra le tue sponde, che un dì gli furono
come terra sua propria? Nudrito di lacrime, innaffiato di sangue, il sacro
alloro spiegherà di nuovo i rami trionfali per l'aria purificata senza
temere tempesta di cielo. La rabbia dei venti non cesserà di
combatterlo; ma le fronde sbattute tale manderanno un rumore pel mondo, che i
Popoli, atterriti, tremeranno che incominci l'agonìa del creato!
Oh! cresca l'albero divino, e
possano i suoi rami circondare le tempie dell'uomo, che vinca così gli
amici come i nemici in virtù; cresca, ma le sue fronde non s'intreccino
più mai intorno alla spada del conquistatore per cuoprirne la punta
mortale alla libertà dell'uomo.
Di rado gli occhi di Dio si
voltano alla terra, contristati per la nostra viltà; tuttavolta quando
ei ve li piega essi avvampano la creta, e ne fanno scintillare le anime di Cammillo
e di Scipione. O Signore! declina i tuoi occhi, e vedi se vi ha vituperio
uguale al vituperio nostro: suscita qui fra noi un'anima grande, che senta vera
gloria essere quella di considerarsi particola della grande anima del mondo;
un'anima buona, che sappia lo ingegno essere splendore della eterna tua faccia,
riflesso nello intelletto umano per illuminare i giacenti nell'ombra della
morte; un'annima feroce, che insegni ai violenti forza essere grazia dei cieli
che solleva i caduti, e protegge i deboli. Una sola guerra è santa; e
voi, fronde imperiture dello alloro divino, la vedrete: i destini vi serbano
pel guerriero che combatterà queste battaglie, e pel poeta che le
vestirà con la luce del canto. Noi, anime stanche, rose dalle cure ed
estenuate dal dolore, che cosa ormai possiamo dare alla Patria? Augurii, e
benedizioni: - gli ultimi fiori che cascano dalla sponda del letto dei
moribondi! - Pure non li sdegnate... la benedizione di quelli che si soffermano
su la porta dello infinito per riguardare con amore i superstiti è cosa
santa, e porta buona ventura a cui la riceve devoto.
O Tevere! Tu vedesti un Popolo
uscire dal fianco dell'aspro figliuolo dello amore, allattato dalle mammelle di
una lupa, drizzarsi sul Campidoglio, e quinci, guardata intorno intorno la
terra, stenderci sopra la mano, e dire: «è mia!» La Bolla imperatoria
non fu simbolo di vanità per l'Aquila Romana; ella strinse veramente nei
suoi artigli di ferro l'universo mondo.
Ma triste glorie furono
coteste, e noi le abbiamo scontate. Vera gloria era quella quando una
generazione di scheletri prorompendo fuori dalle antiche sepolture
abbrancò con le nude ossa pugni di terra romana, e se ne faceva un
cuore; drappellava il sudario di morte convertendolo in gonfalone di vita;
chiamava un'aquila messaggera dei nuovi messaggi, e San Giovanni le inviava la
sua, impaziente di percorrere di nuovo la terra con lo evangelo dei Popoli;
supplicava da Dio una spada, e Cristo le poneva nelle mani la sua, che ha lama
portentosa di luce. Oggimai sembrava che la nuova fortuna di Roma avesse
indirizzato il volo a sicuro viaggio, perchè le sue parole suonavano:
«libertà - amore».
Ahimè! Il sole sul
nascere si chiuse dentro ecclissi infernale: da quel buio uscì un
rumore, ed era della caduta di Roma nel suo vetusto sepolcro; - uscì
eziandio una voce, che disse in suono di singulto: «anche tu, mia sorella?»
E quando il sole tornò
a illuminare la terra di una luce squallida, fu vista tutta una generazione di
redenti avviluppata nella sua bandiera come Cesare nella sua toga, quando,
percosso dal proprio figliuolo, spirava l'anima sotto la statua di Pompeo. Il
vessillo della fede, cadendo, si era tinto nel sangue dei martiri; la speranza,
come colomba ferita, batteva le ale verso il paradiso.
Invero portenti sono eglino
questi contro l'ordine naturale delle cose: chè Popoli rivendicati in
libertà sieno scesi a immolare un Popolo libero... a maledire l'eco
della propria voce; no, dopo il tradimento di Cristo redentore, la terra non
rimase spaventata da parricidio più truce.
E sia che la fiammella della
fiaccola ardesse minacciosa e stridente, doveva la Francia rovesciarla a terra,
ed estinguerla? Chi avrebbe mai creduto che l'atteggiamento della Francia in
Italia fosse quello, che gli scultori attribuiscono al Genio dei sepolcri?
Vedetela; ella ha precipitato nella sepoltura un Popolo intero, l'ha chiuso con
la lapide, e vi si è posta a sedere sopra ridendo un riso da folle.
E quando l'aria prese a
rombare dintorno d'uno stridore di penne percosse, e torme di avvoltoi comparvero
da occidente e da oriente, la Francia levò le ciglia un poco in su, e
disse loro: «Uccelli di rapina dal becco acuto e dagli artigli taglienti, io ho
ferito questo Popolo di ferita fraterna: non bastava togliergli il sangue, io
l'ho privato della speranza: l'ho ricinto di due catene, e l'ho ricacciato
nella tomba: quando lo lascerò ne suggellerò il coperchio co'
sette sigilli della Repubblica, come il libro dell'Apocalisse([90]). Così confondendo
cose, affetti, e sembianza di cose, il dubbio uccide l'anima, e l'uomo perde
non solo la potenza, ma perfino il desiderio di vivere: andate, voi siete mal
destri soffocatori di Popoli».
Allora gli uccelli di rapina,
ripiegando le ale verso le contrade native, schiamazzavano per via:
«Gloria alla Francia
soffocatrice sapientissima della libertà dei Popoli!»
Bene stia. Intanto tu, o
Francia, come la Scilla sicula, ti vai fabbricando intorno alla vita una
cintura di cani([91]).
- Quando essi rivolgeranno contro i tuoi fianchi i loro denti, tu urlerai con
immenso guaio: «aita! aita!»
Il mondo udrà cotesto
grido, e si turerà le orecchie esclamando:
«Non le badiamo; però
che le parole di Francia sieno vortici, dentro i quali scompariscono marinari e
naviglio!»
In quel giorno un altro
diluvio allagherà la terra, e l'antico patto dell'alleanza sarà
distrutto.
O Tevere! I sogni della gloria
sono passati per me: il cuore è sazio di passioni ardenti; egli non
può più desiderare, ed imprecare nemmeno: adesso egli si compiace
a fissare in faccia la morte. Quanti misteri di delitto stanno nascosti entro i
tuoi gorghi, o Tevere! A me fu concesso penetrare là dentro, e
interrogare le ombre che li traversano incorporee, e non pertanto visibili,
come lo spettro di Cleonice la trafitta appariva a Pausania quando si
affacciava su le acque([92]).
Io li guardo, e vedo attraversarli un'ombra grande, e sento dietro gridarle:
«Gracco! Gracco!»
Quali passioni mossero lo
infelice tribuno? Cupidità di potenza, o vaghezza di fama, o impeto
d'ira, o vendetta di oltraggio patito? Tutto questo può darsi: ma la sua
stirpe, e il censo, e lo ingegno, che pronto gli aveva dato natura, lui
ponevano dalla parte degli oppressori, ed ei poteva, seduto al convito della
forza, bevere la desolazione del Popolo. I Patrizii gli avevano detto:
«Scegli essere oppressore, o
vittima».
Egli scelse la virtù, e
lasciò loro il delitto([93]). Volontario si pose fra
gli oppressi, e li difese con le parole e col sangue, finchè giacque col
cranio spezzato dagl'implacabili Patrizii. Mani patrizie lo strascinarono per
le vie latine: Patrizii quelli, che, col pretesto di porlo in parte dove non
potesse più nuocere, lo gittarono trucidato fra i tuoi gorghi, o
Tevere.
Usurpare, e mantenere con la
violenza e con la frode una potenza che sono indegni di esercitare, e una
sostanza che dovrebbe essere a molti comune, formano il polo verso il quale si
appuntano perpetuamente i conati dei Patrizii. - Giano bifronte per essi
cessò di essere favola: se il pericolo dei privilegi mosse dal Despota,
ed eglino gli mostrarono faccia di Popolo; se dal Popolo, ed eglino gli
mostrarono faccia di Despota. Nè furono contro i re Agide e Cleomene
meno spietati ribelli, di quello che contro Caio e Tiberio Gracchi fossero
spietati tiranni.
Che cosa importa affaticarci
ad indagare adesso se con violenza, o con frode vincessero? Essi vinsero. Che
cosa importa travagliarci a scuoprire se vincessero con la propria
virtù, o con l'altrui? Essi vinsero, essi vinsero; e, temprato prima lo
stile nel fiele del proprio cuore, scrissero col sangue della vittima una lunga
calunnia, e la chiamarono storia, quasi consecrazione di un capo scellerato
agli Dei infernali.
Le fiere, quantunque
incatenate, si lacerano; gli schiavi, in difetto di spada, si percuotono con le
catene che portano intorno alle braccia: il padrone allo spettacolo di cotesti
osceni strazii sbadiglia, o ride; vivano o muoiano, oppressori ed oppressi,
traditori e traditi, gl'imprigionati dentro una casa e gl'imprigionati dentro
una città sono pari argomento di ludibrio per lui. Perchè, quando
strisciavano nella polvere come serpi, a cui si rassomigliano per la insidiosa
viltà, non furono calpestati? Fu creduto, che l'aspide avesse posto in
oblìo il maligno talento di offendere alla sprovvista il calcagno
dell'uomo, e fu errore.
Piacquero la fama gentile, e i
modi magnanimi; e la fama venne conseguita, e i modi furono laudati,
comecchè tardi. Si volle provare se cortesia vincesse tristezza, e la
prova fu fatta; e sebbene costi cara, sarebbe fanciullesca cosa lamentarne
adesso la spesa. I Patrizii si mantennero quali gl'incise sul bronzo della
storia uno di loro, che se ne intendeva: «nella prospera fortuna superbi,
nell'avversa abiettissimi, infami sempre»([94]).
O sacro
Tevere! Prima ch'io cessi di favellare
con te, dimmi, chi mai vedesti errare sopra le tue sponde in traccia del
cadavere di Tiberio Gracco? - Forse il Popolo, pel quale egli era morto? La
madre Cornelia venne sola a chiedere che tu le rendessi il suo figliuolo.
Popolo! Popolo! Anima di
sabbia dove un perpetuo amore scrive senza posa, e dove la eterna ingratitudine
del continuo cancella, dov'eri allora che Cornelia errava muta lungo le tue
rive in cerca del trucidato figliuolo? sussurrante nelle taverne della vile
Suburra, fra le anfore di vino e i ceci fritti([95]).
O cieco! e non ti sei accorto
per mille prove come la farfalla della Occasione non sia della famiglia di
quelle, che si ostinano a bruciarsi le ale dintorno ad un perfido fuoco? Ella
passa, e va via; ma tu, o Popolo, non pure lasci passar via la occasione, ma
strappi la fiaccola di mano all'uomo mandato da Dio per illuminarti, e tu
stesso gliene accendi il rogo dove l'odio, che non perdona, lo condanna a
morire. Il pentimento sopraggiunge a passo zoppo, grinzoso in vista, con gli
occhi ciechi dal piangere dirotto come le preghiere di Omero([96]); però giunge
sempre infallibile... e quando arriva, a che giova? Le tue tarde lacrime, o
Popolo, hanno spento talvolta lo ultime faville della cenere del martire; ma
esso non possiedono la virtù di riaccendere la fiamma nel corpo
abbandonato dallo spirito.
E tu potesti un giorno, e
forse ancora potresti, o Popolo, raccogliere la polvere, che Gracco morendo
gittò contro il cielo, e crearne Mario([97]), l'uomo di ferro trucidatore
dei Patrizii; ma a Caio Mario subentra Caio Silla, l'uomo di acciaio
trucidatore del Popolo, e la Patria muore con le vene aperte dalla
empietà di tutti i suoi figli. Io pertanto levo gli occhi al cielo, e
domando: dunque?
Ahi! Esperienza, sapientissima
stolta, perchè sopra la siepe arida del passato vai tu cogliendo spine
che ti pungono le dita? Chi sostiene vivere per inebriarsi di vendetta, viva; i
suoi occhi vedranno quel giorno di sangue: chi poi dura, anima ingannata, a
soffrire la rea temperie, e la empia compagnia per salutare l'alba della umana
felicità, stringa la zona, e parta: i cuori delle presenti generazioni
non sono che possano ospitarla.
*
* *
Da molti giorni le domestiche
mura aspettano invano Giacomo Cènci. Luisa, quantunque si sentisse
sempre l'animo acceso dalla passione, pure lo impeto della ira principiava a
declinare in lei: così cessato il vento continuano grossi marosi a
percuotere il lido minaccevoli in vista, ma senza pericolo dei naviganti. La
fierezza governava la gentildonna romana; però, non ostante cotesta
passione, male si adoperava a imporre silenzio allo immenso affetto che sentiva
pel suo marito. Le parole perfidamente generose di Francesco Cènci, che
la buona moglie hassi con ogni supremo sforzo ad ingegnare per ricondurre sul
diritto tramite il forviato consorte, contro l'aspettativa di lui le
ritornavano alla mente come regole di dovere, e come rimprovero; e poi ella
considerava che di queste due cose aveva ad essere per necessità
accaduta l'una: o Giacomo aveva deposto giù dal cuore ogni affetto per
lei e pei comuni figliuoli, o a Giacomo era incolto qualche grave infortunio;
nè una spina pungeva la donna meno dolorosa dell'altra; e
comecchè ambedue i successi non potessero stare insieme, pure ambidue la
trafiggevano, così lacerando la maligna virtù della incertezza. -
Per divertire, come poteva, il suo dolore ella prendeva cura straordinaria dei
figli; poco si allontanava da loro; lo infante recavasi del continuo al seno, e
lo cuopriva con tale impeto di baci, che quegli se ne spaventava e piangeva: ma
troppo spesso le carezze dei più adulti, i sorrisi, ed anche il pianto
del pargolo la trovavano col pensiero rivolto altrove, e talora eziandio, senza
volerlo, le lacrime le bagnavano le gote. Quantunque persistesse a credere
Angiolina prima radice del male che la travagliava, tuttavia, così
persuadendole la sua natura generosissima, non rimetteva punto della sua
carità verso di lei. Mentre così di pensiero in pensiero si
tribolava, certa sera girò chetamente sopra gli arpioni la porta di
casa, e allo improvviso comparve Giacomo.
Non disse parola, non
salutò; si assise alla estremità d'una tavola di contro alla
moglie, coprendosi la faccia con ambe le mani. Noi già lo vedemmo
squallido, e male in arnese; e non pertanto adesso, oh come mutato da quello!
Barba e chioma scompigliate; lordo di fango il cappello; i panni sordidi, e gli
occhi infiammati nelle palpebre, e cenerini allo intorno. Luisa si sentì
a un punto spaventata, e commossa. Siccome vediamo ordinariamente accadere che
l'attenzione nostra, sopraffatta dalla piena del dolore, si fissi sopra un
oggetto particolare, e si affligga per questo più che per motivi
generali, così ella, considerando le mani sordide e i manichetti sozzi,
sentì gonfiarlesi il cuore di un sospiro angoscioso.
Tolse pertanto il fantolino e
se lo pose al petto, con la intenzione medesima con la quale il messaggero,
là dove non arriva il suono delle parole, mostra da lontano l'olivo, o
sventola un panno bianco in segno di pace. Tutto questo non valse a richiamare
l'attenzione di Giacomo; il quale reputandosi tradito, piangeva, assorto
cupamente, le speranze, la felicità e la benevolenza perdute. Levandosi
a un tratto, squassandosi con le mani i capelli, esclamò con voce roca:
- A che sono venuto? Davvero,
io non lo so. - Se si potessero gittare via dal cuore gli affetti come il
carico dalla nave per iscampare dal naufragio!... ma se non se ne può
far getto, bene è concesso sradicare dal seno affetti, e cuore. Tutto
può tacere in un punto, e taccia. - Qui mosse per andare.
Luisa, con voce nè
carezzevole, nè severa, disse:
- Il padre vorrà
allontanarsi dai suoi figliuoli senza averli baciati?
- Dove sono, e chi sono i miei
figliuoli? Quale di questi fanciulli farà testimonianza ch'egli nasce da
me? Tutto si fonda sopra la fede: vetro fragilissimo! Ora come mi affiderei
alla lingua della donna fraudolenta, di cui le parole sono lacci tesi per
condurre al vituperio, e alla morte?
Luisa non sapeva che cosa
avesse a capire in cotesto discorso, e se ne stava come trasecolata. Giacomo
con ghigno amaro soggiungeva:
- Comprendo bene che un uomo,
quale mi sono io, incapace di provvedere alla sussistenza della propria
famiglia, ceppo sterile, e roso dagl'insetti; che suda da tutti i pori la
maledizione di Dio... inutile, insomma, o funesto, deva ispirare disprezzo... e
comprendo ancora, e provo come il disprezzo uccida lo amore, e generi l'odio.
Ma perchè onestare con l'audacia il misfatto? Perchè convenire la
propria colpa in sasso, e lapidarne lo innocente? Bastava, io credo, avermi
preso a vile, cuoprirmi di vergogna, senza spingermi perfidamente contra un
turbine di male parole, che a modo di polvere accecandomi gli occhi,
m'impedisse vedere il vostro delitto.
- Giacomo, a cui favellate
voi?
- State tranquilla, io non
sono venuto qua per maledirvi; ma solo per dichiararvi che voi avete potuto
gettare la disperazione nell'anima mia, non già ingannarmi. Adesso le
parole bastano... - adesso, che si spandono come fumo di fiamma spenta... tutto
è detto fra noi... - e di nuovo faceva atto di andare.
- Giacomo non partite; per la
fede di gentiluomo onorato, non partite. Quando le parole, come la nuvola che
contiene il fulmine, portano nella loro oscurità la distruzione della
fama d'una creatura di Dio... oh! allora è obbligo chiarirle. Credete
che sia vostro il segreto, quando mi avete fatto comprendere ch'egli cela il
mio vituperio?
- Mi pare che a voi non
ispetti dire questo, perchè le mie parole possono suonare oscure a tutti
altri fuori che a voi. Volete il commento al mio testo? Ebbene; eccovelo
pronto. Donde vi vennero queste masserizie? Chi provvide questa copia di robe
al vivere non che necessaria, superflua? - In questa casa, è vero, io vi
lasciai la miseria, e vi trovo l'abbondanza; ma io vi lasciai ancora un'altra
cosa, che vi ricerco invano, ed è il mio onore. - Ora non hanno a
procedere dal padre la povertà, e la larghezza dei suoi? - Chi sono i
castaldi che hanno mietuto per voi? Dov'è il forziere donde prendeste la
moneta? Certo non erano del vostro marito. Come si chiama colui che provvede ai
bisogni vostri, e di queste creature? Dove si nasconde il cortese, che prende
cura di voi più che io stesso? Perchè l'amico della mia famiglia
teme di svelare la sua faccia a me?
- Giacomo, per onor vostro,
pensate che voi oltraggiate una madre alla presenza dei suoi figliuoli...
- Ma essi che cosa sono mai se
non che testimoni, i quali v'incolpano peggio delle mie parole?
- Un parente vostro... e
mio... mi sovvenne; io non posso palesarvene il nome perchè mi sono
vincolata a tacere. Io mi sento donna da vedere i miei figliuoli piuttosto
morti di fame, che pasciuti di vergogna. Questi sospetti di viltà non mi
toccano, e vuo' che sappiate, o Giacomo, che io mi sento pura quanto la madre
vostra, che adesso è in paradiso.
- Ma e voi, contro la fede del
vostro consorte che cosa potevate allegare, ditemi, tranne la perfida calunnia
di una persona che nasconde il suo nome, e nonostante questo ricusaste credenza
ai miei giuramenti, e alle mie lacrime? Ora come volete, che io chini la faccia
alle nude affermazioni vostre? Anche a me furono porti avvisi segreti, e non
pochi, ma a questi io non dava ascolto; sto ai fatti, che voi non negate,
nè potreste negare. Ora io non dirò con quale giustizia, ma senno
pretendete voi, che mentre ricusaste il giuramento del vostro signore e marito
a smentire parole calunniose, io deva accogliere il giuramento vostro per
giustificare fatti confessati ed evidenti?
- Giacomo... di quanto io vi
rimproverava ho prove manifeste in mano; prove delle quali dubitare è
impossibile... i vostri sospetti sono infamie... andate...
- Sta bene. Io non ho cuore,
nè lena per garrire con voi. - Dopo ciò, senza minaccia, ma
orribilmente tranquillo, le si accostò domandandole a voce sommessa:
«Potrei io sapere, come in articulo mortis, se fra questi vi è
alcuno che sia mio figlio?»
- Giacomo, voi avete parlato
una stolta parola. Tutti sono figli vostri...
- Sì, certo,
così va detto. Pater est quem justae nuptiae demonstrant; tale
almeno dichiara lo jus civile, che fu fabbricato proprio qui in Roma; e il
pretore mi condannerebbe a far loro le spese. Padre sono, ma per presunzione di
diritto: - padre sono, ma buono per darsi alle bestie. Gran danno che non
costumino più gli spettacoli dello anfiteatro Flavio! Non importa; in
ogni luogo occorrono travi, alberi, e pozzi, e fiumi. - La sua voce si animava,
e al pallore mortale sopra le sue guance subentrava un vermiglio febbrile, e
proseguiva:
- Potrei vendicarmi! Ma quando
la vendetta ebbe mai virtù di ridonare la perduta felicità?
Misero, potrei rendervi misera: - ecco tutto! Il mio cibo nella vita è
stato bastantemente amaro per farmi aborrire di tuffarlo per di più nel
sangue. No... no... io non voglio vendicarmi... anzi dal cammino della vostra
vita io mi torrò come un tronco, impedimento a cui passa... e voi
proseguirete dove il cuore vi chiama. Non vi prego a rammentarmi perchè
non me ne importa, e voi nol fareste; neppure v'invito ad obliarmi
perchè me ne importa anche meno, e questo farete molto bene da voi.
Doglia di morto dura finchè non si asciugano le lacrime, e queste si
asciugano presto; - e pei mariti di rado si piange. Ma io ho amato queste
creature, le ho credute parte di me, e doverle staccare adesso dalla mia affezione
mi pesa... ve le raccomando, donna Luisa... se non posso considerarle nate da
me, ricordatevi che sono nate da voi. - Certo in questa ora suprema mi sarebbe
tornato di conforto grande accostare le labbra sopra una fronte, che fosse
sangue mio. Le mie lacrime ormai non saranno piante più per nessuno;
torneranno indietro a piangermi sul cuore... amare... gravi... ma brevi. Addio;
vi desidero che gli anni vi passino senza rimorsi, e un nuovo marito degno
della vostra fedeltà...
Luisa non aveva osato
inacerbire la esaltazione di Giacomo con parole di contrasto, e di rampogna.
Ora vedendo come gli s'infiochisse la voce, e quasi gli diventasse piangente,
- O figli... abbracciatelo...
fategli sentire s'egli è vostro padre, disse affannosa accennando ai
fanciulli...
I fanciulli, obbedienti alla
parola materna, si mossero ad un tratto; e quale attaccandosi ai lembi della
veste faceva prova di attirarlo verso la madre, quale gli stringeva le
ginocchia, e quale s'ingegnava salire sopra una seggiola per poterlo
abbracciare al collo. Giacomo, ridivenuto tranquillo, si sciolse da loro
esclamando:
- Riparate al seno di vostra
madre. Infelici! Non sapete che i Cènci avvelenano col fiato?...
Addio... e addio per sempre.
E sparì. Il suono dei
suoi passi s'intese precipitoso giù per le scale. Luisa si
slanciò al balcone, e con la sua voce più lamentosa
esclamò:
- Giacomo! Giacomo!
E lo ripetè più
volte; ma Giacomo fugge in balìa della feroce passione che lo trasporta.
Allora nella egregia donna l'amore vinse ogni risentimento, e, gittatasi
addosso una mantiglia, proruppe fuori di casa in traccia del suo consorte. Ella
aveva percorso diverse strade, quando tra per la fatica, tra per lo affanno
sentendosi venire manco la lena, le fu forza sostare, e assidersi sopra il
muricciòlo di un palazzo. Guardandosi poi attentamente dintorno conosce
cotesta essere la dimora di monsignore Guido Guerra: levò gli occhi in
su, e vide lume. Sapendo cotesto prelato familiare di casa Cènci, e di
Giacomo intrinsecissimo, parve a lei che la Provvidenza l'avesse quasi per mano
condotta colà; onde fattasi coraggio salì le scale, e, tenuto
dietro allo staffiere, senza aspettare che l'annunziasse, penetrò nella
stanza, e rinvenne Monsignore in compagnia di due uomini, uno dei quali le giunse
noto, comecchè in quel subito non ricordasse in qual parte lo avesse
incontrato: esitò un momento; ma poi, sospinta da smaniosa angoscia:
- O Monsignore, disse, voi che
per bontà vostra portate amicizia a Giacomo mio marito, deh! per amore
di Cristo, mandate gente a cercarlo per Roma, però ch'egli siasi partito
da casa tutto infellonito, ed ahimè! dubito con sinistre intenzioni.
- Contro cui, donna Luisa?
- Contro se stesso; e temo
forte, ch'egli abbia preso la volta del Tevere.
- Misericordia! Su, Marzio,
andiamo; voi, con parte dei miei staffieri, a manca; io, con l'altra parte, a
destra del fiume. Olimpio, voi accompagnate donna Luisa.
Omesso ogni saluto, Guido,
Marzio e gli staffieri si precipitano fuori di casa in traccia di Giacomo.
Donna Luisa, andando a braccio con Olimpio, così prese a favellare:
- Il vostro volto non mi
comparisce nuovo: ma, Santa Vergine! così ho sconturbato il cervello,
che la memoria non mi regge... Ah! sì... me ne risovviene adesso... voi
vi trovaste allo incendio della casa del falegname di Ripetta.
- Io?
- Sì, ed eravate di
quelli che si affaticavano a sovvenire i desolati.
- Io non feci nulla, altro che
male. A voi, egregia donna, tutto il merito... Voi siete una santa: viva la
vostra faccia. Se la mia domanda non fosse indiscreta, ci sarebbe da sapere
perchè vi mostraste travestita da uomo in quella maledetta notte?
Perchè vi metteste a quel disperato cimento?
- Ve lo dirò mentre
andiamo. La donna, che salvai, mi ha trafitto il cuore; ella ha ricoperto di
lutto la mia famiglia, certo non lieta nemmeno prima, ma neppure desolata: che
dove regna amore non si allontana mai la speranza. Quello, che Dio ha ordinato
all'uomo di non separare, la sua mano ha diviso per sempre: insomma, ella mi ha
rapito lo sposo... ed in cotesta notte mi aggirava per là, con la
intenzione del lupo intorno alle stalle... voleva bevere il suo sangue, e mi
pareva che questo solo potesse bastare a spegnere la mia rabbia. Mi percossero
gridi disperati... comparve la donna col figliuolo al balcone; - non vidi
più la esosa rivale, vidi la madre... pensai ai miei figliuoli, e mi
precipitai per salvarla, però che Cristo mi favellasse dentro al cuore,
e mi dicesse: perdona!
Olimpio udendo parlare donna
Luisa ardeva, e agghiacciava. Si fruga con la mente dentro nell'anima per
vedere se ci fosse luogo da deporvi una speranza di misericordia, e gli parve
di no. Allora gemè dal profondo del cuore: così ricadono sul
prigioniero le catene con romore disperato dopo i supremi sforzi per romperle.
Nondimeno, siccome accanto alla fiamma della carità non vi ha cuore,
comunque di selce, che non si riscaldi, Olimpio suo malgrado si sentiva
commosso.
- Se io, incominciò a
dire, se io potessi sperare che l'assoluzione mi salvasse, a nessuno io vorrei
confessare i miei peccati tranne a voi, venerata Signora, e tra Dio, e me non
desidererei mettere migliore mediatore di voi. Ma il libro della mia vita ho
così empito di delitti, che l'Angiolo Custode non vi troverebbe
più tanto di bianco da scrivervi sopra la parola misericordia con
la più fina delle penne delle sue ali. Pazienza! E nonostante questo io
mi confesserò, perchè se la mia confessione non può
giovare a me gioverà a voi, e quindi io ve la faccio. Sapete voi chi
incendiò cotesta casa? Io...
- Voi!
- Sapete chi portò al
nobile vostro consorte la lettera perfidamente calunniosa, che forse lo ha
tratto in furore? Io. - Sapete chi tutto questo ha immaginato perchè
voi, e vostro marito vi odiaste? - Il conte Francesco Cènci. Egli si
fregava tutto allegro le mani, e disse: è più facile che una rupe
spaccata dal fulmine si riunisca, che la mia nuora torni ad amare Giacomo. Ho
seminato l'odio, raccoglieranno la desolazione.
Donna Luisa si scioglie
impetuosa dal braccio di Olimpio, e corre veloce così, che avrebbe vinto
nella fuga il cervo: giunge a casa, irrompe nella stanza ove giaceva sempre
inferma la povera Angiolina, e approssimatasi al suo letto palpitante e
affannosa, la interroga:
- Donna, per quanto amore
porti al tuo Dio, guarda di non mentire. Conosci tu il Conte Cènci?
Angiolina, spaventata dalla
costei vista, e non la ravvisando per gli abiti mutati, come quella che sempre
l'era comparsa davanti in veste maschile, risponde:
- Chi siete voi? Che cosa
volete da me?
- Io non rispondo, interrogo,
soggiunse imperiosamente donna Luisa - dimmi se tu conosci il Conte
Cènci?
- Ma voi... sareste forse
sorella del mio benefattore?
- Che t'importa cotesto? -
esclama donna Luisa, percuotendo impaziente di un piede la terra; - o uomo, o
donna, o demonio, non cercare da cui ti venga la vita. Rispondi... rispondi; -
e ripercuoteva co' piedi il pavimento.
Angiolina, come sotto la
pressione di un sogno tormentoso, diceva:
- Sì, lo conosco...
Lo conosci, eh! sciagurata, e
questo è il figliuolo dei vostri amori? E sì discorrendo caccia
le mani nei capelli del fanciullino, che sentendosi far male si mette a
guaire...
- Lasciatemelo stare... in che
cosa cotesta povera creatura vi ha offeso?
E, come a proteggerlo, ella si
spendolava fuori del letto.
- Questo è figlio del
peccato, e tu lo hai avuto dal Cènci...
- Dal Cènci? Signora,
prosegue Angiolina prorompendo in pianto; conviene egli alle gentildonne
straziare così la fama di una povera inferma? Io, sì, conosco un
vecchio barone, che ha nome conte don Francesco Cènci; fu egli che beneficò
il mio defunto marito, e questi mi condusse certa volta a ringraziarlo; egli
volle donarmi danari, che io a male in cuore accettai, perchè, malgrado
i suoi capelli bianchi e le parole benigne, qualche cosa gli traluceva negli
occhi, che metteva spavento: da una volta in su io non l'ho più visto.
- Non di lui... non di lui ti
domando, ma del suo figlio don Giacomo.
- Mi parve udire, che don
Francesco avesse figliuoli; ma io non li vidi mai, nè so come si
chiamino; - e questa risposta ella dette con tale una ingenua
tranquillità, che le avrebbe creduto lo stesso apostolo del dubbio, San
Tommaso.
- Non lo vedesti mai? Ne
ignori il nome? Giuralo pel tuo Dio; giuralo per la tua anima, e coscienza...
giuralo per questo Gesù redentore, che, dove tu spergiurassi, sappi che
sconficcherebbe le mani di croce per maledirti in eterno.
E staccato un Crocifisso dal
capo del letto, glielo poneva dinanzi agli occhi. Angiolina lo prese, lo
baciò devotamente, poi glielo rese con atto pieno di dolcezza,
chiedendole:
- Siete voi madre, Signora?
- E se non fossi madre avrei
avuto cuore di avventarmi nelle fiamme per salvare te, e il tuo figliuolo?
- Voi? E vi chiamate?
- Donna Luisa...
- Moglie?
- Di Giacomo Cènci.
- Ah! Signora; comunque io sia
femmina di scarso intelletto, pure comprendo che lingue malvage hanno ad avere
messo scandalo di me. Ora uditemi. Santo è il nome di Dio, santo
è quello del Redentore, sacre cose sono la coscienza e l'anima; ma io
non giurerò per queste. - E messa la mano sul petto del caro pargolo,
che le giaceva in culla accanto al letto, proseguiva così: - se io vi ho
favellato parole di menzogna possa... in questo momento cessare di palpitare
sotto la mia mano questo cuore del mio cuore...
Luisa, come donna tratta fuori
di se,
- Ti credo... oh! ti credo,
esclamava; e piegandosi sopra Angiolina, le prese con ambe le mani la testa, la
baciò pei capelli, per la faccia, pel seno, senza avvertire punto come
coteste scosse lei, non bene risanata, addolorassero. Angiolina, per istinto di
virtù gentile, frenava appena i lamenti di angoscia che le cagionavano
coteste procellose carezze.
*
* *
Anche del cervello si conosce
la carta topografica. Gall e Spurzheim vi hanno tracciato sopra le strade
maestre, le provinciali, e quelle di sbiado; anzi perfino i viottoli, onde non
si smarrisca chiunque abbia vaghezza di viaggiarlo per lungo e per largo.
Venite qua, lettore; considerate questo cranio segnato: gittate l'occhio sopra
l'ordine delle facoltà affettive, genere primo; alla lettera B
troverete lo amore della vita, cioè subito dopo la lettera A che
distingue la cupidità del cibo. Da questo esame ne scendono due
conseguenze, la prima delle quali ha che fare col mio racconto, la seconda no.
E la prima è, che l'uomo possiede le facoltà principali
perfettamente pari a quelle dello avvoltoio; divora per vivere: alcuni
hanno sostenuto ch'egli vive per divorare, ma non è del tutto
vero. L'altra poi, che ci vuole più coraggio a non mangiare che a
morire, è maggiore violenza alla natura. Giacomo da più giorni
non gustava alcuno alimento, e lo istinto della vita così taceva in lui,
che lo aveva preso irresistibile il desiderio della morte.
Quando ciò avviene,
occhio di donna non guardò mai così dolce come il foro del
teschio, nè labbra di ranuncolo sorrisero così voluttuose come le
scarne mascelle. Quelli, nei quali dura lo istinto della vita, reputano acerbo
il fato di coloro che si dettero la morte; mentre se questi potessero
continuare ad appassionarsi per cosa terrena, sentirebbero immensa pietà
per coloro che sono vivi. Rovesciato l'appetito delle cose, tutto quanto piace
a cui vive rincresce ai consacrati alla morte: tutti i motivi che i primi
trovano per restare, i secondi li trovano per partire: niente è mutato
nell'ordine delle funzioni organiche; soltanto l'ago della bussola ha mutato polo:
il sentimento si affaccenda a mandar fuori della esistenza desiderii ed
affetti, come chi muta casa sgombra le sue masserizie; e quando il letto
è in casa nuova, e il riposo delle lunghe tribolazioni nella fossa, noi
ci andiamo con voluttuoso conforto a dormire.
Giacomo Cènci, quietato
il primo impeto che gli fece abbandonare con tanta passione la famiglia, prese
a camminare lento perchè egli fosse venuto nel proponimento di
distruggersi non mica per impeto, sibbene per discorso d'intelletto, e quasi
sommando le ragioni del vivere e del morire. Importa conoscere come Giacomo
pervenisse alla medesima conseguenza per una via diversa da quella di Beatrice.
- Quantunque, ei discorreva
fra se, io abbia fatto mille volte questo conto, pure, adesso che mi avvicino
al momento di saldarlo, ripassiamolo per vedere se torna. L'uomo ha da
considerarsi in tre maniere: riguardo al suo Creatore, riguardo alla
città, e riguardo alla famiglia. Incomincio dalla famiglia, e in questa
parte la ricerca ha da farsi così - per la famiglia propria, e per la
famiglia dei parenti. In quanto a me la famiglia dei congiunti si riduce alla
paterna, imperciocchè in quanto agli altri poco curano me, ed io niente
loro. Ora è chiaro che mio padre mi odia con tutti i sentimenti dell'anima
e del corpo, ed io per necessità mi trovo condotto a dargli frutto
corrispondente al seme. Posto che le cose rimanessero a questo punto... oh
quanto è incomportabile affanno dovere odiare il proprio genitore! Ma
qui non si fermano: egli mi perseguita, m'infama, e mi travolge nella
disperazione della miseria. Se la mia anima si accomodasse a questo carico, un
giorno mi avverrebbe di contrastare ai cani le immondezze che gettano per le
strade, o morire di fame sotto il portico di una chiesa. Se, all'opposto,
l'anima deliberasse sferzare il destino, ecco mi trovo attraverso la strada la
vita di mio padre, io la calpesto, e passo; che cosa mi aspetta dall'altra
parte? Forse il patibolo, certo il rimorso, e la eterna dannazione. Luisa ha
inchiodato il mio nome su la gogna, e vivere e soffrire sarebbe un prestare la
marca del mio casato ai figliuoli che non nascono da me. Bel mestiere, per dio!
I fanciulli m'inseguirebbero con gl'improperii per le vie; gli adulti mi
tentennerebbero il capo dietro come a miserabile ribaldo. Potrei vendicarmi; -
sì, alzare la mia vergogna come un gonfalone perchè possano
vederla anche i più lontani. I tempi non somministrano campo ad atti
generosi, nè a studii onesti. La Inquisizione aborre gente che sappia;
ella vuole gente che creda: or via, da bravo; consuma qualche rubbio di grano;
divora qualche quarto di bove; per uno che sei popola il mondo di quattro, o
cinque, od otto infelici; accendi parecchi moccoli ai santi, recita alcune
dozzine di rosarii, e muori. Ma no... ti si apre il cammino per farti degno di
fama; con che? Con le armi forse? Ingiuria partorisce ingiuria; la maladizione
scrive, e la vendetta legge. Con gli studii? Oh! questa è una via, che
dalla ignoranza conduce diritto allo errore. Se ti mantieni ignorante, e tu cammini
pel buio; se ti erudisci, l'anima si circonda col cilizio del dubbio. E poi,
che cosa avvertirà i posteri del tuo sentiero nella vita? La lapide
finchè le grappe la terranno su per la parete, o finchè i piedi
non l'avranno logorata sul pavimento della chiesa. E ai posteri che cosa
importerà di te? Importa a te dei tuoi avi? Non li conosci. Pei tempi
che corrono, però, tu puoi scegliere tra la stupidità e la
ferocia: - e se io non volessi essere stupido, nè feroce? Se io gitterò
via questa vita, che mi tribola, Dio mi condannerà? Perchè?...
Egli mi aveva concessa una tazza colma di esistenza, e grazie gli sieno; parte
ne ho bevuta, e parte io rovescio a terra - facendone libazione agli Dei. La
vittima quanto più cara, tanto più riesce gradita nell'alto; ora,
che cosa a noi può essere più caro di noi stessi? - Così
fantasticando egli giunse alle sponde del Tevere.
*
* *
Il mormorio delle acque, per
l'uomo che sta in procinto di annegarsi, percuote i sensi sublimati dalla morte
imminente; vario, distinto, moltiplice a guisa degli effluvii che si spandono
dalla famiglia infinita dei fiori. Su la cima delle onde gli si affacciano
forme aeree che guizzano, scivolano, si tuffano, tornano a galla, si baciano
abbracciandosi, o prendendosi per mano menano balli voluttuosi; - accolte nel
cavo delle mani le chiare acque, gliele spruzzano in volto invitandolo con
sorrisi e con cenni. È questa illusione di mente inferma, o gli elementi
vanno abitati da spiriti misteriosi, che camminandoci al fianco ci sussurrano
alle orecchie le buone, o le cattive determinazioni? Omero ci rappresenta dee e
numi, invisibili consiglieri degli eroi. A Socrate sapientissimo pareva
sentirsi un demone nel seno. Nelle sacre carte occorrono e pitonesse, e larve,
e genii malefici, e angioli amorosi. Il Tasso porgeva ascolto al suo genio
familiare. Sacrobosco insegnò le sfere sotto la luna andare popolate di
spiriti, e Cecco di Ascoli, ai tempi dell'Alighieri, propagò siffatta
dottrina. Milton favella di voci arcane, che si odono fra il cielo e la terra;
al fato e ai genii prestarono fede Mozart, Napoleone, Byron ed altri infiniti,
così antichi come moderni. Nella Irlanda, paese cattolico per
eccellenza, non vi ha famiglia che non possieda una Bauskie, o spirito,
di cui lo ufficio si assomiglia a quello della Nonna sanguinosa, e di
Meleusina. Meleusina era una larva, che compariva sopra i torrioni del castello
dei Lusignano, quando alcuno di cotesta casata doveva morire. Follìe! -
Io non vi parlerò dei Mesmerismo, dello Illuminismo, e di altre cose
siffatte, alle quali i nostri padri, dopo Voltaire e la Enciclopedia, posero
piena credenza. Vi narrerò la cena di Cazotte, attestata da testimoni
gravissimi. La rivoluzione di Francia si approssimava, e gli uomini destinati a
sostenere in quella una parte distinta raccolti a mensa parlavano del regno
della ragione, e della felicità universale. Cazotte torbido taceva.
Interrogato circa alla causa della sua mestizia, rispose: «con gli occhi della
mente prevedere orribili fatti»; e siccome il marchese di Còndorcet lo
scherniva, egli gli disse: «voi, Còndorcet, vi avvelenerete per
sottrarvi al carnefice». Scoppiano risa, e gridi giocondi. Cazotte continuando
predice a Chamfort, che si taglierebbe le vene; a Bailly, a Malesherbes, a
Boucher, che morirebbero sul patibolo. - Ma almeno saranno risparmiate le
donne? - esclamò allegramente la duchessa di Grammont. «Le donne? Voi,
signora, e bene altre dame con voi saranno condotte alla piazza della Giustizia
con le mani legate dietro il dorso». - Per modo che voi non mi lasciate nemmeno
il conforto di un confessore? - «Confessore! L'ultimo condannato che lo
avrà, sarà - e dopo avere esitato un momento - sarà il Re
di Francia». I convitati compresi da terrore si levarono; e, quasi per
provocare presagi meno tristi, a lui, in procinto di partire, domandò la
duchessa: - E a voi, profeta, qual destino riserbano i cieli? - Piegò la
testa, e, meditato alquanto, rispose: «Nello assedio di Gerusalemme un uomo per
sette giorni di seguito fece il giro delle mura gridando con voce di terrore:
sventura a Gerusalemme, sventura! Il settimo giorno gridò: sventura a
me! E al punto stesso un sasso enorme briccolato dalle baliste romane lo
colse, e lo stritolò». Ciò detto salutava, e partiva; e come
disse avvenne([98]).
Non vi basta? Ebbene; eccovi
uno esempio di caso recentissimo, accaduto durante la mia prigionia. Nel 17
maggio 1850 il Giornale dei Dibattimenti, dopo avere narrato che una
larva bianca compariva alla casa degli Hohenzollen quando stava per succedere a
qualche membro di cotesta famiglia alcuna sventura, assicurava correre voce,
che nella notte del 10 aprile 1850 la dama bianca era comparsa nel castello di
Berlino. La sentinella del reggimento imperatore Alessandro dei Granatieri
gridò tre volte: «chi viva?» Non ottenendo risposta, insegue il fantasma
con l'arme di contro al muro, dove ella sparisce. Nel 22 maggio successivo
Sefeloge trasse una pistolettata al re Federigo Guglielmo mentre stava per
partire alla volta di Posdam!([99])
La ragione condanna simili
fantasticherìe; - ma se la ragione condanna, la coscienza approva; e la
ragione in balìa del sentimento è straccio di carta legato al
piè di una rondine.
Inoltre, la ragione veramente
condanna? Considerando la natura noi vediamo com'essa proceda non già
per via di salti, ma gradatamente nelle sue creazioni: dai minerali, materia
passiva e sterile, noi passiamo alle piante dove incontriamo un moto, una serie
di sensazioni, una riproduzione, un palpito insomma di vita: poi ci occorrono
le conchiglie e i coralli, e stiamo incerti se devansi annoverare nel regno
animale, o vegetale: ancora, la transizione da specie a specie tra gli animali
si opera per via di anelli intermedii; così l'anello mezzano, che unisce
i volatili agli animali terrestri, viene rappresentato dallo struzzo; tra gli
animali terrestri e gli acquatici si pongono gli anfibii; le scimmie stanno a
cavallo sopra i confini della bestia, e dell'uomo. Ora se così apparisce
graduato il passaggio negli enti rammentati, come avremo a supporre noi che
rimanga vuota la immensa lacuna che passa fra gli uomini e le sostanze divine?
Perchè le medesime sostanze divine non crederemmo varie fra loro? Dio non
è diverso dagli Angioli? Gli Angioli non serbano tra essi gradi, e
preminenze distinte? Le apparizioni possono nascere dalla nostra fantasia;
tuttavolta la fede diversa professata senza interrompimento per tanti secoli da
uomini di varia religione, di varia civiltà, e di vario intelletto,
merita pure richiamare il pensiero dei filosofi. Se mi domandi: Quando avrai
pensato, che cosa ti verrà fatto concludere? Io rispondo, che questa
è un'altra cosa. La scienza è fuoco, l'anima farfalla, e la cenere
troppo spesso il frutto dei pensamenti umani...
*
* *
Giacomo Cènci, curvo il
petto e le spalle, intendendo fissamente gli occhi nel Tevere, vide, o gli
parve vedere emergere dal profondo una forma leggiadra di donna, naiade,
ondina, o ninfa delle acque, e apparire vaga, indeterminata come la
nostra immagine quando ci affacciamo per l'acqua commossa, e avvicinandosi a
mano a mano farsi distinta([100]). Aveva le chiome
cerulee stese giù per le guance e pel seno, stillanti gocce lucide
dell'iride che scaturisce dalle gemme; la faccia del colore di perla, dai suoi
occhi verde mare balenano sguardi i quali si appuntano dolorosamente negli
sguardi del Cènci per modo, che gli pareva glieli abbacinassero; ma non
sapeva staccarsene, sollecitandolo acuto una voluttà acerba, uno spasimo
soave. Dalle labbra di corallo, mobili quanto i suoi occhi stavano fissi,
usciva un suono che si diffondeva dolce su le acque, quasi note di armonica; -
suono che Ulisse non seppe vincere altrimenti che turandosi gli orecchi con la
cera.
- Benvenuto, ella mormorava,
benvenuto l'amico segreto del mio cuore; vieni, io sono fresca, e tempero
l'arsura nelle membra febbrili; vieni, io ti darò a bere l'acqua gelida,
che non si attinge a fontane terrestri; - l'acqua di Lete, che procura l'oblìo.
Se vorrai dormire io ti apparecchierò in questi miei umori un letto di
aliche molle così, da infondere sonno nei corpi che non conoscono
più riposo; - qui nel profondo tu albergherai in palazzi di carbonchio
incrostati di zaffiri; sotto la volta delle acque non morde aura ghiacciata di
verno, non affanna l'ardente Sirio; quaggiù viviamo dilettate porgendo
le orecchie allo arcano mormorio che muove dalle cose, le quali si formano e si
disformano perpetuamente nelle viscere del mondo. Noi, se ti piace, o diletto,
spazieremo seduti sopra la schiena dei delfini per la superficie delle acque, o
inseguiremo negli antri profondi i pesci che fuggono, e gli altri che si
difendono combattendo con la spada, o con la sega; - io t'insegnerò a
radere con la punta estrema dei piedi il fiore dell'onda, e a palpitare di
voluttà con le acque quando i raggi della luna penetrano loro nelle
viscere, e l'agitano con tremito di fosforo. Io mi accosto a te, tu accostati a
me. - Scortese! Io, vedi, ti tendo le braccia; a me contesero i fati oltrepassare
il confino delle onde: qui ti aspetto; - qui c'incontreremo; - e qui ti
bacerò.
Il destinato allora sente un
brivido nelle ossa; i piedi gli diventano piuma, e il capo piombo; cerca
anelante le labbra della ondina, fende l'aria, tocca l'acqua, e la bacia. La
ondina in quel punto solleva le braccia grondanti, lo avviluppa, e lo cuopre
nel suo abbracciamento.
Il giorno appresso sopra la
sponda desolata, fra un canneto, per la sabbia s'incontra un cadavere gonfio,
pieno di arena i capelli, gli occhi e la bocca: la sua pelle mostra i colori
delle erbe marine: gli occhi, comunque spenti, pare che cerchino sempre qualche
cosa, nè mai si giunge a farglieli stare chiusi: - egli sembra morto di
piacere... veramente il bacio della ondina gli ha dato la morte. -
Ma Giacomo Cènci sul
punto di spiccare il salto fatale era tenuto forte da due mani sul parapetto,
ed una voce nota lo chiamò:
- Forsennato! che fate voi?
Giacomo attonito levò
un momento il capo, e poi lo ripiegò verso il Tevere. Ogni canto era
cessato; le voci tacquero, la bella faccia della ondina disparve. Allora la sua
anima, spinta fino allo estremo limite dello infinito, stornò aborrente
agli uffici consueti della vita, e vide, o conobbe l'amico Guido Guerra.
- Oh! Guido...
- Sciagurato! - Tra commiserando,
e rimproverando proseguiva monsignore Guerra; e i vostri figliuoli?
Giacomo scosse le spalle, e
non rispose verbo; lasciò condursi rifinito di forze come uomo senza
volontà; solo quando si accorse mettere il piede sopra la soglia di casa
sua, volto a monsignore Guerra gli favellò:
- Amico, se voi credete che io
debba ringraziarvi, v'ingannate. A questa ora, voi non impedendo, io aveva
letto il laus Deo della vita, chiuso il libro, e conosciuto com'era
andata a finire: non bene, per dio, non bene; ma siccome potrebbe andare a
concludere anche peggio, così mi contentava. A rischio di passare per
ingrato, no, io non vi ringrazio.
Nello entrare in casa gli si
presentò una vista assai strana.
«Temistocle, narra Plutarco,
vedendosi perseguitato dagli Ateniesi e dai Lacedemoni, si gittò in seno
a speranze dubbiose e difficili rifuggendosi ad Admeto re dei Molossi, dal
quale era avuto in odio per certa repulsa superba fatta alle istanze di lui
mentr'egli teneva la suprema magistratura in Atene. Pure Temistocle, temendo
adesso più la nuova invidia dei suoi nemici che lo antico sdegno del re,
determinò implorarne l'aita con modo singolare; imperciocchè
presone il pargoletto figliuolo nelle braccia, si prostese supplicando davanti
l'ara domestica; la quale maniera di pregare si reputava presso i Molossi
solenne, e la sola che non potesse rifiutarsi»([101]).
Così un uomo di
sembianza sinistra, membruto a modo dell'Ercole Farnese, tenendo nelle braccia
il minore dei figliuoli di Giacomo Cènci, verso di questo lo sporgeva supplichevole.
Cotesta squisitezza di affetto
era facile che si dimostrasse da donna Luisa amante, e madre; ma come fosse
caduta nell'animo ad Olimpio, natura tristamente salvatica davvero, non si
saprebbe immaginare. Talora le api posero il favo del mele nella gola della
fiera; ma ella è cosa tanto straordinaria, che Sansone ne fece argomento
di enimma pei Filistei([102]).
Ma il partito giovò ad
Olimpio; che tenendo il fanciullo come il corno dell'altare, confessò
pianamente a Giacomo tutte le sue colpe commesse per ordine del Conte
Cènci al fine di distruggergli la pace domestica. Intanto il pargolo
sollevava di tratto in tratto le sue manine, e tutto vezzoso rideva,
sicchè Giacomo non seppe sdegnarsi contro Olimpio; il quale, colto il
destro, posto nelle braccia del padre il fantolino, soggiunse:
- Ora, poichè col
figlio vi ho portato la pace, in grazia di questa innocente creatura, che per
me intercede, io vi supplico, signore, che mi vogliate perdonare.
Giacomo tacque, e girò
gli occhi attorno torbido sempre, e sospettoso; se non che Luisa, indovinando quel
muto linguaggio, trasse da parte Olimpio; e postasi genuflessa davanti al
marito, così gli disse:
- Mio sposo, e signore; noi
abbiamo scambievolmente dubitato della nostra fede. A me valga per iscusa
considerare che dalla perfida lingua del serpente non seppe guardarsi neppure
Eva, la quale, come uscita dalle mani stesse del Creatore, deve supporsi che
fosse composta con perfezione maggiore di noi. Avendo conosciuto lo scellerato
fine a cui mirava Francesco Cènci, e considerando gl'ipocriti non meno
che tristi argomenti posti in opera da lui, io mi credo sciolta da ogni
promessa giurata, e vi faccio manifesto come, mossa dalla disperazione, io me
ne andassi dal suocero, gli esponessi lo stato della nostra famiglia, e lo
supplicassi a soccorrere i miei figli desolati, che pure erano suo sangue. Di
padre amoroso le parole furono e gli atti: a me, credula per passione,
narrò una lunga storia dei vostri amori, e di danari profusi in
lascivie, e negati ai figli, e mi sovvenne benignamente di trecento scudi, a patto
che non vi palesassi da cui mi venissero: così, con perfido consiglio, a
me dava ad intendere voi perduto dietro adultera pratica; a voi, che io a
prezzo di vergogna procurassi agiato vivere a me, e ai nostri figli...
La donna con tanta veemenza, e
prestezza aveva favellato fino a questo punto, che Giacomo non la potè
interrompere. Qui però le troncava la voce dicendo:
- Cotesta posizione male
conviene alla moglie di Giacomo Cènci. S'ella meritasse che il suo
marito la rilevasse da terra, egli non le potrebbe dire: Luisa, il tuo posto
è qui sul cuore del tuo Giacomo, che ti ha amata, e che ti ama tanto...
Si abbracciarono, e piansero
lacrime di tenerezza. Lasciamo che sgorghino copiose, e soavi; forse chi sa se
la fortuna appresterà più loro la occasione di versarne di
piacere.
I figli, comunque fanciulletti
si fossero, che il maggiore non arrivava ai sette anni, piangevano anch'essi di
allegrezza, ed esultavano aggruppati in atti dolcissimi quali intorno al padre,
e quali intorno alla madre. Monsignor Guerra e Marzio, quantunque li premesse
urgente il bisogno di mandare ad esecuzione certo loro disegno, non ardivano
turbare la santità degli affetti domestici. Olimpio, postosi a sedere in
terra con le spalle appoggiate alla parete, quasi di soppiatto erasi di nuovo
impadronito del fanciullino, e, ora sollevandolo ora abbassandolo, lo faceva
ridere.
Davvero egli era oltre ogni
credere vezzoso: rassomigliava al bambino Gesù dipinto dallo Albano, che
dorme sopra una croce; e il figliuolo di Giacomo Cènci rendeva la
pittura dello Albano anche per un altro motivo, imperciocchè la fortuna
lo stendesse appena nato sopra una croce senza fine amara, come conosceranno
coloro che vorranno proseguire la lettura di questa storia dolente.
Il bandito considerando
cotesta fronte purissima richiamava invano col desiderio i giorni nei quali,
egli fanciullo, forse destò nell'anima di cui lo guardava un simile
affetto. - Quando glielo tolsero per rimetterlo nella culla gli parve sentirsi
uscire di mano la ultima tavola, sopra la quale aveva confidato salvarsi dal
naufragio.
CAPITOLO XVIII.
ROMA.
Or di tante
grandezze appena resta
Viva la
rimembranza; e mentre insulta
Al valor morto,
alla virtù sepulta,
Te barbaro
rigor preme, e calpesta.
Testi, A Roma
Giacomo Cènci convitato
a mensa da monsignore Guerra si ridusse a casa tardi nella notte successiva; e
se a donna Luisa quella sua dimora soverchia fu motivo di affanno, il suo
giungere non la consolò meglio; imperciocchè egli si dimostrasse
pensieroso e mesto: ricusò vedere i figliuoli; si astenne perfino da
baciare, come soleva, lo infante; anzi al vagire di quello tramutò
visibilmente nella faccia. Postosi a giacere lo travagliarono sogni tormentosi,
e fu sentito lamentarsi dicendo; è morto! è morto! Allo improvviso
si svegliò esterrefatto; girò attorno torbidi gli sguardi, e,
vistasi la moglie al fianco, l'abbracciò stretto stretto come
soverchiato da interna passione, esclamando non senza lacrime:
- Quanto era meglio che io
avessi cessato di vivere!
- Ti penti forse essere
tornato nel seno della tua famiglia che ti adora? - gli rispondeva la moglie
affettuosissima.
- No, Luisa, no; Dio me ne
guardi; e ciò nonostante, credimi, sarebbe stato meglio che io fossi
morto... e lo vedrai.
- Luisa da femmina discreta
tacque, attribuendo cotesto fastidio angoscioso alle commozioni passate; e
confidò nel tempo, nelle sue cure, e nelle carezze dei figli per
ricondurre la pace nello spirito agitato di lui.
In quella medesima notte si
partirono da Roma Marzio ed Olimpio provveduti di molta moneta di oro.
Cavalcavano due poderosi cavalli; e comunque camminassero senza sospetto
d'incontrare per via cosa che fosse al loro andare molesta, pure procedevano
muniti di armi pronte a far fuoco.
Scorsi alquanti giorni, don
Francesco sentendosi bene della persona disposto, e del piede abbastanza
rimesso, certa mattina, sul fare dell'alba, sveglia di repente la famiglia, e
le ordina, che così come si trovava vestita scendesse. - Nel cortile
Beatrice vide apparecchiati cavalli da sella, la carrozza, ed uomini di scorta;
indizio manifesto di lungo viaggio. Dove il padre la menasse, per quanto tempo
sarebbe rimasta lontana da Roma, questo fu quello ch'ella non gli
domandò, nè alcuno della famiglia si attentò a
richiederglielo.
Il Cènci aveva provveduto
a tutto con la sua ordinaria solerzia. Non gli parendo bene avventurarsi co'
soli famigli per le vie infami, che da Roma conducevano alla Rocca Ribalda,
aveva stipendiato per alquanti giorni una mano di guardie campestri, che gli
tutelassero il cammino. Altre volte egli aveva percorso le cinquantotto miglia
che passano tra la città e cotesto feudo, in un giorno solo; ma adesso
non vi era da contarci sopra, considerando da una parte la carrozza lenta a
muoversi, e dall'altra le strade o sprofondate nella polvere, o dirotte pei
poggi, e il caldo grande della stagione. Nei cariaggi il Conte aveva fatto
riporre biancherie, argenti, di ogni maniera vettovaglie, e vini di più
ragioni, fra i quali una fiasca di keres che aveva sopra la veste dipinta la
data del 1550, raccomandando che ne avessero cura particolare.
Beatrice, prima di entrare in
carrozza, indirizzandosi al Conte gli disse:
- Signor Padre, ho da
parlarvi...
- Silenzio; salite...
E Beatrice, volgendogli
supplichevoli le mani, di nuovo:
- Signor Padre, uditemi per lo
amore di Dio... ne va della vita vostra...
Ma il Cènci, reputando
coteste smanie sforzi per sottrarsi dallo aborrito viaggio, la cacciò di
una spinta in carrozza, chiuse a chiave lo sportello, e fece abbassare
diligentemente le cortine.
Dato il cenno della partenza
don Francesco salì con gli altri a cavallo, e tutti si posero in via
senza dire un fiato. Cotesta compagnia, più che di cavalcata
viaggiatrice, aveva sembianza di associazione di qualche illustre defunto.
Uscirono dalla porta di San Lorenzo, e tenendo sempre la strada Tiburtina
giunsero a Tivoli.
Non poeta traversò la
campagna romana senza cantare il tumulto degli affetti, e dei pensieri che
destò nel suo animo la vista di tanti luoghi solenni per grandezza di
antiche memorie, per decoro di fabbriche, e per desolazione moderna: solo che
il cuore gli si commuovesse a pietà, spontanee e belle gli uscirono le
parole dai labbri come le lacrime dagli occhi. - Nessuno ardì maledirci
- nessuno - tranne uno solo, nato dalla gente che ha per costume di rompere la
fede ridendo([103]);
- il quale non aborrì insultare un popolo fatto cenere per la vendetta
del mondo congiurato a suo danno, per la maligna onnipotenza dei fati, e pel
perpetuo tradimento dei suoi; - egli solo calpestava lo immane sepolcro
oltraggioso e protervo; però che ci venisse dalla gente leggiera,
farfalle insanguinate, astiosa del parlare, e della fama romana([104]).
Non pittore traversò la
campagna romana senza rapire a questo cielo qualche tinta azzurra e di oro per
trasportarla sopra i suoi quadri, che indi furono divini. Dacchè Dio
volle che l'aere di questo sepolcro si mantenga glorioso, e magnifiche sieno le
aurore, e stupendi i crepuscoli. Le querce annose scuotendo le fronde al vento
mormorano antichi misteri, e l'erba cresciuta sopra le fosse funerali spira
voce fatidica.
Passerò io per la
campagna romana senza gittarvi sopra uno sguardo di pittore, o di poeta? Le
pagine immortali del Byron, del Goëthe, della Staël, del Montaigne, e di altri
famosi antichi e moderni scrittori mi sbigottiscono forse? Oh! l'ala della
immaginazione percuotendo contro i ferri della carcere si rompe, e gronda
sangue. La musa, vergine mite, si arresta sul limitare della casa dei sospiri,
e torce altrove lo sguardo. Levando gli occhi in alto io non incontro
più la casta faccia delle stelle, che versano su l'anima luce, amore, e
poesia. I campi aperti e il sole mi tornano alla mente affaticata dalla empia
virtù della prigione, come le immagini dei ruscelletti del Casentino
tormentavano maestro Adamo condannato a perpetua sete nello inferno([105]). - Ma dalle mani di Dio
escono spiriti tranquilli, che, a guisa di lago, compiaccionsi riflettere nella
limpida superficie le sponde floride, i colli cerulei, i bianchi casolari, la
parrocchia, il campanile, le croci del camposanto di campagna, - le gioie,
insomma, di coloro che nascono inosservati come le foglie di aprile, e muoiono
inosservati come le foglie di autunno. Ogni soffio leggiero da cima in fondo
gli scompiglia, e la pace, rimane in essi sconvolta con la dolce
armonìa. Altri poi, senza requie commossi, amano fare specchio di se
alla faccia di Dio divampante fra i fulmini come l'oceano in tempesta: si
nutriscono di procelle, e le corde di ferro delle loro arpe eolie non rendono
suono se non le scuote il fulmine. Ora, quando pure la sventura non avesse
inaridito il mio spirito come fa il sole della erba dei campi; quando pure il
mio spirito non avesse rovesciata la sua fiaccola a guisa di genio al fianco di
un sepolcro, perchè userei la sua forza ad evocare sopra le pianure
antiche eserciti di combattenti, e agiterei con palpito nuovo i miei lettori
sopra le vicende della pugna, e i pericoli di una gente, il cuore della quale
cessò di palpitare da venti e più secoli? Perchè aprirei
sommessamente le porte del tempio di Giano, di cui il cigolìo scuoteva
un giorno le viscere della terra? Con qual consiglio popolerei la via sacra di
carri, di cavalli, e di cavalieri armati lampeggianti ai raggi del sole?
Perchè la ingombrerei di nuvole profumate, che si alzano dai turiboli
d'oro, ( - profumi, e vasi rapiti - ) di sacerdoti, di vittime, e di re barbari
incatenati? Perchè i nitriti di cavalli, e le grida dei cavalieri già
da mille anni disfatti spaventeranno gli echi ormai usi da secoli a ripetere il
salmo cantato dietro la povera bara del villano morto di febbre dal frate
tremante pel ribrezzo della febbre? Scoperchiamo gli avelli, e interroghiamo le
ossa dei sepolti in questa parte della campagna romana - gli Orazii, i Plauzii,
gli Scipioni - : costringiamo anche Cestio, - anche Metella, entrambi i quali
nascosero il mistero della loro vita sotto splendidi monumenti, lasciandoli ai
posteri come uno enimma a indovinare - a narrarcelo intero. Io posso, per
virtù di poesia, farvi vedere dalle gelide labbra dei morti scintillare
parole come faville elettriche. E quando tutto questo potesse farsi, e quando
tutto questo facessi, qual prò ne ricaverebbe la Patria? Forse dalla
storia dei gesti antichi ricaverebbero argomento di forza i viventi?
Ahimè! Dio si è ritirato da noi perchè la nostra ignominia
supera la sua misericordia. Forse delle glorie antiche vorrò comporre un
flagello nuovo per percuotere la moderna fiacchezza? - Tutti siamo rei. Vestiti
di cilizio, col capo cosparso di cenere, prostesi a terra i Profeti lamentarono
la desolazione di Gerusalemme: sopra i fiumi di Babilonia le vergini di Sion,
sospesa l'arpa ai salici, - piangevano l'amara schiavitù: - più
felici di noi perocchè lamentassero ad alta voce, e tutti i Giudei
accompagnassero i mesti inni con i singulti! A noi è tolta perfino la
libertà del pianto. Deh! sussurrate sommessi, onde per avventura il
vostro ronzìo non rincresca allo straniero, e vi calpesti come i vermi
della terra; - gemete sommessi, onde i vostri stessi fratelli non vi denunzino
al giudice fratello, e questi vi mandi in prigione o per gli ergastoli, o a
morte per amore dello straniero, che gli dà pane, titoli, e infamia.
Addio, cascate di Tivoli;
invano il vostro Genio tenta abbagliarmi coll'iride, che mandano gli zampilli
dell'acqua rotta su gli orli dello abisso: - voi non avrete gli onori di altri
canti. - Addio, flutti pallidi dell'Aniene, consapevoli dei riti arcani degli
Aborigeni; scorrete in pace per la morta campagna: io non vi domanderò
se le stirpi andate degli Enotrii, degli Ausonii e degl'Itali fossero
più o meno infelici di noi sopra questa terra, dove la mèsse,
alimento dell'uomo, cresce per solchi pieni di morte; la vigna, letizia del
cuore, per la costa riarsa del vulcano; la intelligenza, fra i pruni della
superstizione; la virtù, sotto il taglio della mannaia. Ahimè!
ahimè! Il fegato di Prometeo non è favola in Italia. -
Ma se sarebbe vanità
rammentare glorie vetuste, mi giova tratto tratto soffermarmi nella via che
percorrono i miei personaggi, e raccogliere gli amari pensieri che desta la
vista di luoghi famosi per ricordanze lugubri. Il dolore è della
famiglia dei cancri, e intende essere alimentato di carne, e della più
sensibile del cuore umano. E non sapete voi, che la creatura può
trovarsi ridotta in tale stato da mettersi con piacere le dita nella piaga, e
lacerarla, e vederne, esultando, stillare fino all'ultima goccia il suo sangue?
Catone, quando altro non gli fu dato, si strappò le viscere, e le
battè nel viso alla fortuna, come costumavasi fare ai traditori.
Ecco da questo lato il campo
di Marte, che fu podere di Tarquinio il superbo. Il Popolo, nel giorno della
vittoria ne svelse le spighe mature, e le gittò nel Tevere; - i manipoli
resistendo al corso delle acque sceme mescolaronsi con la terra, e ne composero
l'isola sacra dedicata ad Esculapio, dio della Salute([106]). Ma quante volte il
Popolo seppe rammentare, che i doni del tiranno si convertono in arsenico
dentro le sue viscere? Tutti si stringono - ed io l'ho veduto, e lo vedo -
tutti si stringono intorno alla tirannide a succhiare, come intorno alle
infinite mammelle di Cibele. Vi aggrada cotesto umore? Succhiate, maledetti! A
stille, e per mercede, vi si rende quello che a largo sorso fu bevuto dalle
vostre vene.
Ecco la via Appia, che da
Roma, traversando le paludi pontine, andava a Brindisi, reliquia di paterna
grandezza rimasta come scherno delle nostre opere di un giorno. Lì
presso contristano più moderne rovine, quelle di Anagni, dove fece
naufragio il superbo concetto del Papato([107]). La guanciata di
Sciarra Colonna sopra la faccia di Bonifazio VIII infranse irreparabilmente il
triregno. Non essendosi aperta in quel momento la terra sotto i sacrileghi,
come a Datan e a Core([108]),
il mondo dubitò che Dio stesse davvero (come gli s'imponeva credere
sotto pena della eterna dannazione) col suo Pontefice. I colli di Roma non
imitavano ancora il monte di Gerusalemme, dove si annidano le volpi([109]); qualche volta vi
ruggiva anche il lione; ma da quel giorno in poi le chiavi di San Pietro, - le
chiavi della Città Celeste - dall'avara viltà dei Sacerdoti
furono sovente presentate ai Potenti della terra come chiavi di vinta
città.
Ecco Ferentino, là dove
è fama che Manfredi, impaziente di regno, calpestasse come uno scaglione
la testa del padre Federigo per salire sublime. O corona! quanto hanno ad
essere infernali i tuoi splendori, se un cavaliere sì degno non
rifuggì acquistarti a prezzo di un parricidio!
Più oltre apparisce San
Germano, dove i Pugliesi furono bugiardi a Manfredi per Carlo di Angiò;
antica usanza di schiavi, che immaginano mutare stato perchè mutano
soma. Si abbiano l'abbominazione dello antico signore, e il disprezzo del
nuovo; chè troppo bene meritarono ambedue.
Da questa parte giacciono i
campi Palenti, dove la stella scintillante della casa Sveva tramontò per
sempre dentro un lago di sangue. Stella imperiale, la tua aurora fu vermiglia;
il tuo mezzogiorno purpureo; il tuo tramonto sanguigno: nè quel colore
fu ricavato dal mollusco dei mari di Tiro, bensì dalle vene degli uomini,
che non ne mancano mai.
Volgiti al Mediterraneo;
là, là è un piccolo castello, infame pel tradimento del
giovane falco degli Hohenstauffen. Infelice Corradino! quantunque cresciuto
alla preda, ci commuove il tuo fato di fiore reciso su l'aurora della vita. Tu
almeno saresti stato leggiadro, ed animoso tiranno!([110]) - Tu avresti sbranato,
non leccato il sangue... E che cosa altro di meglio concessero le Eumenidi di
fare al tiranno?
Poco oltre sorgeva un giorno
Minturna; e lì Mario, trepidante per la sua vita, si nascose nel fango
fuggendo coloro che lo cercavano a morte; e lì egli fugava col terrore
dello sguardo il Cimbro omicida... Dio del cielo! allora ai nostri padri per
fugare i barbari bastava la virtù di uno sguardo! - O Mario, che valsero
i tuoi trionfi contro i Cimbri e i Teutoni, e che cosa valsero quelli del tuo
fiero avversario Silla contro Mitridate? Andate perpetuamente maledetti,
però che voi foste la rovina di Roma. Le discordie della plebe co'
patrizii avvantaggiarono la repubblica finchè terminarono in leggi; ma
quando il sangue cittadino scorse a rivi per le strade, e toccò il
limitare dei tempii a guisa di onda commossa dagli Dei infernali; ma quando per
la prima volta furono viste le spoglie di romani trucidati portate in trionfo
insieme alle spoglie dei barbari, allora incominciò l'agonìa di
Roma, e l'ombra invendicata di Annibale rise fin su la foce di Averno([111]).
Dentro i sepolcri della proscrizione
si generano i serpenti della discordia; il sangue chiama sangue da Abele in
poi; e la Vendetta, tolti in prestanza dal Tempo l'orologio a polvere e la
falce, guarda quello, e arrota questa: quando l'ora sarà giunta, popoli
e genti cadranno come fieno mietuto: - anche la Morte ha da avere i suoi
saturnali; e lo vedrete.
Volgiamoci all'Adriatico,
poichè da questi luoghi si scorgono entrambi i mari; colà si
levano ancora le torri di Ancona, le quali una volta rammentavano disperata
difesa cittadina, ed esoso nemico respinto; oggi poi ricordano gemino stupro, e
invendicato da gente, che si nutrisce di vergogna come di pane. Cesena richiama
alla mente la strage nefanda ordinata dal Cardinale di Ginevra. Giovanni Acuto,
soldato di ventura, sentì ribrezzo dello indistinto eccidio; ma il
sacerdote furibondo urlava: «Sangue; io voglio sangue, e siano morti tutti»([112]) O Cardinale, tu a buon
diritto ti guadagnasti la porpora vermiglia.
Poco più oltre ecco
Senigaglia, che dura famosa nel mondo pel modo tenuto dal duca Valentino, il
truce bastardo di Alessandro VI, per ammazzare i Baroni della Romagna([113]).
Così, sia che tu ti
volga alla diritta, o alla sinistra sponda, i mari d'Italia gridano lungo i
liti: tradimento!
Da Rocca Petrella guardando a
oriente vedi le acque del lago Fucino: esse dormono adesso simili a quelle del
mare morto. Un giorno furono piene di stridi feroci, di aneliti, e di stragi.
Claudio, sazio delle morti del circo, qui volle letiziare i suoi occhi con lo
spettacolo di una battaglia navale, e trovò tremila uomini, o piuttosto
belve con la faccia umana, che consentirono a trucidare, e ad essere trucidati
pel piacere dello Imperatore; nè già con ira, o imprecando sul capo
di lui le furie, ma lieti e salutanti([114]). Così l'antica
Roma ebbe più schiavi disposti a morire per la ricreazione di un
tiranno, che Roma moderna cittadini per la libertà della Patria!
Basta. - Addietro visioni che
spaventate l'anima agitandola. - Cessa una volta, spirito infermo, di scuotere
davanti a te stesso la camicia insanguinata della umanità. Il gran Cieco
inglese renunziò a dettare la storia della Ettarchia sassone sul
fondamento, che tanto valeva scrivere quella degli avvoltoi; io avrei voluto
sapere, che cosa gli fosse sembrato scrivere raccontando quella degli uomini([115]).
Sopra tutto questo mare di
rovine la basilica di San Pietro Vaticano con la sua croce in cima alla palla,
pare che galleggi come l'arca di Noè. - Perchè non ha ella
salvato il genere umano, e perchè non rinnuovò il patto dell'alleanza
della terra col cielo? - Di cui è la colpa? - Un'altra volta forse lo
dirò, non certo nuovamente, ma inutilmente sempre. La Esperienza, che
scrive la storia, si assomiglia alle figlie di Danao affaticate a riempire le
botti senza fondo. L'universo è un fiume, e la umanità
spensierata sta sopra le sponde a guardare scorrere le acque: può egli
l'uomo rammentarsi dei flutti dell'anno passato, o può farne suo
vantaggio? Così passano gli eventi irrevocati dalla memoria, sterili di
virtù. -
I miei personaggi da Tivoli
seguitando la via Valeria si ridussero a Vicovaro, ove a cagione del caldo
grande e della via malagevole ebbero a soffermarsi, e con quanto cruccio del
Conte Cènci non è da dire, il quale invano tentò di
spingersi innanzi. I cavalli trafelati non obbedivano a frusta nè a
sprone. A vespro ripresero il cammino, e pervennero alla osteria della Ferrata
ov'è mestiere lasciare le carrozze, e salire il monte su cavalli e su
muli. Il Cènci scese, e chiamato l'oste lo interrogò se avessero dalla
Petrella mandato somieri per prenderlo.
- Io non ho visto muli,
rispose l'oste con faccia brusca.
- Ma non si trattenne qui,
passando, un mio fante che ha nome Marzio?
- Non so di Marzio, e non ho
veduto marzi, nè aprili.
Don Francesco aveva mosso
codesta domanda ad arte per assicurarsi se fosse stato ucciso Marzio, e per
infingersi ad ogni buon riguardo ignaro dell'omicidio; ma poichè l'oste
nulla sapeva, gli parve bene simulare una gran collera, e bestemmiò
Marzio, e la pigrizia dei servi a soddisfare gli ordini dei padroni, mostrandosi
imbarazzato a procurarsi i trasporti; se non che l'oste, burbero sempre secondo
il costume dei romani, gli osservò:
- A che serve imbestialirvi,
Eccellenza? E quando avrete bestemmiato tutti i santi del paradiso, avrete
fatto apparire muli e cavalli? Se voi altri signori ci levate ancora il
privilegio della bestemmia, che cosa vogliate lasciare a noi, poveri vassalli,
in fè di Dio io non saprei. - Il vostro fante non gli avrà
trovati; sarà caduto infermo nella ròcca; non avrà pensato
tanto prossimo il vostro arrivo; lo avranno ammazzato i banditi per la via, e
che so io? Si danno tanti casi al mondo! Ad ogni male ci è il suo
rimedio. Lasciate fare a me. Voi sapete, che oste viene da ospite; e se la
fortuna non mi avesse sempre guardato in cagnesco, vorrei albergare la gente
secondo i comandamenti degli Apostoli.
- Io credeva, rispose il Conte
sorridendo, che oste derivasse da un'altra cosa...
- Da che?
- Da hoste, che vuol
dire proprio nemico in lingua latina; ma forse avrò sbagliato. Ora sentiamo
un poco che cosa vi avvisereste fare, ospite mio?
- Manderemo questo ragazzo qui
su pei boschi dove stanno i carbonari. A questa ora le buche del carbone hanno
ad essere fatte; sicchè i carbonari, un po' per usarmi cortesia, un po'
per buscare qualche scudo, saranno contenti di venire fin giù, e
condurvi alla Rocca Ribalda. Bisognerà che camminiate tutta la notte,
perchè a un bel circa, poco più poco meno, prima di arrivarci
saremo su le trentaquattro miglia.
- La strada è come
quella del paradiso, che si vorrebbe fabbricata più larga per comodo di
noi altri poveri peccatori. Ad ogni modo la luna si leva sul tardi, e
agevolerà lo scendere e il salire.
- Ma perchè non
aspettate domani? Qui troverei modo di ripiegarvi tutti... rammentatevi che
abbiamo un collo solo.
- No, a me importa arrivare
presto.
- E aggiungete, che domani per
tempo avrete cavalli da pari vostro...
- No, manda pei muli dei
carbonari...
- Farò come vi piace,
Eccellenza; anche i muli portano a casa.
Il ragazzo bruno di carne, con
occhi fissi di falco stavasene appollaiato sopra una catasta di legna, contento
come su di un cuscino di velluto. Nel sembiante mostrava tale idiotaggine, da
mettere ribrezzo in chiunque avesse avuto bisogno di alcun servizio da lui. Il
Conte sdegnoso, guardandolo di traverso, gli diceva:
- Non hai inteso? A questa ora
dovresti essere lontano un miglio.
- Non vi date fastidio,
Eccellenza, chè sarebbe fiato perso. La povera creatura non vi
può intendere; gli è sordo-mutolo di nascita, ma con quattro
ammicchi vi sbrigo.
Il Conte, dubitando essere
tolto a scherno, stava per dare tale un suo ricordo alla trista all'oste
traditore, che se ne sarebbe rammentato per tutto il tempo della vita; ma
questi incominciò ad armeggiare con le mani tanto, che parve avere fatto
capire il ragazzo: se non che il sordo-muto sbadigliava stendendo le braccia, e
con altri moti dimostrava repugnanza a partire. Allora l'oste, a guisa di
perorazione, aggiunse al suo discorso un prenderlo per l'orecchio destro, e un
trarlo giù dalla catasta dandogli al punto stesso un calcio
solennissimo, che lo mandò a rotolare contro la porta. Da tutto questo
il ragazzo potè comprendere, che si trattava di affare di premura.
Messi i cavalli in istalla
scaricano le carra apparecchiando fardelli, e funi per adattarli a soma sui
muli. Le donne e Bernardino furono fatti salire in una stanza al primo piano, e
lì chiusi. Il Conte aggirandosi sospettoso, da per tutto spiava.
Il ragazzo corse buon tratto
su per una viuzza: quivi si fermò, e voltatosi dalla parte della osteria
stese la destra col pugno; chiuso in atto di minaccia, come costumano le
scimmie quando le piglia il dispetto: poi spiccò un salto, e via, a modo
di capriolo, per la costa del monte Santo Elia, che dalla Ferrata mena a Rio
Freddo.
La salita, malagevole
dapprima, incominciò a diventare aspra, e finalmente dirotta. Il ragazzo
non aveva rimesso punto dello ardore, e balzando di greppo in greppo sembrava
piuttosto volare che correre. Lasciamolo andare, ch'egli conosce la strada, e
non si smarrirà di certo.
*
* *
Colà dove il monte
Santo Elia è più scosceso, sotto querce secolari che stendono
largamente i loro rami sopra arboscelli, di mole minore, arde un magnifico
fuoco. Su per coteste vette l'aria punge nelle notti di settembre, quantunque
nei piani la caldura soffochi; e poi gli uomini, che vi stavano intorno, con
atti diversi lo avevano acceso per vederci, e per compagnia. In quel punto
pareva che la noia piovesse giù dagli alberi sopra i loro capi;
imperciocchè taluno fischiasse supino tenendo ambedue le mani sotto la
testa, il cappello tirato su la faccia, ed una gamba a cavalcioni dell'altra
ripiegata lungo la coscia; tale altro aggomitolato dentro al tabarro si voltava
ora di qua, ora di là, traendo di tratto in tratto un sospiro: - sovente
in coro si alzava uno sbadiglio universale.
- Pericolo, che Marzio voglia
convertirci? - favellò un bandito.
- Che cosa abbia inteso Marzio
di fare io non lo so, rispose un altro; per me intendo, come siamo di patti,
tenere fermo fino a domani: poi, quanto è vero San Niccola, diserto con
arme e bagaglio.
- Su questi monti mandarci il
vino a compito! Guarda! tutti i fiaschi stanno morti per la terra. Io vorrei
vedere piuttosto uno sbirro, che un fiasco vuoto.
- E poi levarci anche i dadi!
- Le sono crudeltà da fare
svenire Nerone.
- Quasi, quasi io mi sentirei
tentato di recitare il rosario, Che ne dici, Orazio?.
- Ella è una cosa come
un'altra; per passare il tempo. Però avete torto marcio a lagnarvi,
perchè domani termina il nostro debito; e se in questo frattempo non
arriva nulla di nuovo, io m'immagino che saranno questi i primi danari
guadagnati senza rimorso, come senza pericolo.
Orazio è un bandito
alto di persona; di sembianze gravi, e, comunque sul declinare degli anni, bello
sempre. La sua fronte e il suo cuore portavano impressi i solchi di tutte le
passioni; adesso elle erano spente, ma le ceneri anche tepide facevano
testimonianza dello incendio fumando. Il fodero durava più della lama.
Orazio sopravviveva a se stesso. Fin lì erasi rimasto appoggiato a un
tronco di leccio, col capo chino su i ginocchi, senza profferire parola. Lui
salutavano i banditi poeta, medico, e legislatore della brigata. Interrogato
rispondeva, richiesto consigliava; invitato, senza farsi troppo pregare cantava
canzoni da lui composte, o raccontava strane vicende di lontani paesi;
altrimenti, sempre taciturno, meditava sopra i suoi casi, che davvero molti, e
varii la fortuna gli aveva apparecchiato davanti. Spirito fantastico, amante
del maraviglioso, il quale spesso, invece di farsi cercare da lui, gli andava
incontro. Vissuto in altri tempi, dove tre o quattro omicidii non guastavano,
con la prestanza del braccio, e il valore del canto avrebbe avuto fama in corte
di Provenza su qualsivoglia menestrello o barone uso a servire dame: adesso la
miseria, che gli si era irrugginita addosso, la usanza vecchia di far giudicare
le sue liti dal coltello che teneva al fianco, e finalmente il genio nativo lo
avevano condotto alla macchia. Tale era Orazio.
- Ma la noia, Orazio, non
conti nulla la noia?
- Io la conto moltissimo; ma
ella è un cilizio che si attacca alla vita di tutti: imperatori e papi
la portano cucita fra la camicia e la carne; e vorreste non sopportarla voi per
quattro notti, o sei? Noi fummo pagati, e bene; e questo, che duriamo, non
è troppo travaglio. Così mi fosse avvenuto sempre, che non mi
sarei trovato ad avere a venti anni i capelli bianchi!
- Come bianchi! o non hai nera
la barba?
- Ma i capelli sono bianchi. -
E qui Orazio levò una specie di cuffia, che gli cuopriva la testa
intorno intorno rasente le orecchie, ed i banditi conobbero per la prima volta,
com'egli non avesse capello che non paresse filo di argento; i sopraccigli poi
e la barba si conservavano nerissimi. - Da venti anni in qua io diventai
canuto.
- Domine in adiutorium meum,
esclamò un vecchio bandito; tu non saresti mica parente del diavolo?
- Che io sappia, no.
- Qui dentro ci è della
fattucchieria, - ripresero gli altri spaventati.
- Con licenza vostra, non ci
ha che fare il Diavolo; ma un'Aquila grigia.
- O come un'Aquila?
E tutti gli si posero attorno.
Orazio, sempre col capo scoperto, e godendo della paura dei compagni, che non
cessavano di contemplare con maraviglia mista di terrore quei capelli bianchi,
e quella barba nera, incominciò a parlare:
- Ve lo dirò; in
mancanza di vino, un racconto vi piacerà sempre meglio dell'acqua;
n'è vero? Il padre mio, boscaiolo, morì come visse povero quanto
San Quintino, che suonava a messa co' tegoli. La mamma dopo la sua morte non
ebbe più un'ora di bene, e, povera donna! cadde inferma di palpito di
cuore. Il curato, che era uomo saputo, ci disse che cogliessimo certa erba,
chiamata fu([116]),
la quale cresce per questi monti; ne spremessimo il sugo, e glielo dessimo a
bere, che le avrebbe fatto bene; e come disse trovammo essere vero; ma fu,
o non fu, quando la candela arriva al verde bisogna che si spenga; e la
vecchia si spense: requiescat in pace. Amen.
E i banditi rispondevano:
- Requiescat in pace.
- Nell'anno domini...
aspettate che me lo ricordi... l'anno, che il terremoto mandò a terra il
campanile di Santo Andrea... potevo avere a un bel circa venti anni, in giorno
di venerdì andammo in tre fratelli al bosco per tagliare legna, e per
cogliere un poco di erba fu. A venti anni costa poco salire, e noi ci
arrampicammo pei dirupi del monte Terminillo. La neve ne cuopre quasi sempre la
cima, ed in coteste solitudini altro non si udiva che stridi, e il rombo delle
aquile arrabbiate per non trovare pastura. Arrivati proprio in vetta al monte,
ecco ci comparisce davanti una figura umana immobile, come se fosse scolpita
nel sasso. La credemmo il Diavolo, e ci segnammo devotamente secondo la regola;
ma quella ferma. - Candido, il nostro maggiore, che aveva più seme in
capo di una zucca, osservò, che avendo resistito al segno della santa
croce diavolo non poteva essere; ed infatti diavolo non era; però poco
meno. Costui, solo sopra quella cima, stava considerando giù in fondo di
un precipizio tagliato a picchi sul fianco della montagna, un nido di Aquila.
Noi gli si accostammo cautamente, per timore che scosso allo improvviso non
pericolasse; nè egli ci avvertì. Io lo guardai: misericordia! che
occhi maligni! Pareva proprio dipinto in viso dalla invidia col colore verdenero([117]) dell'odio. Borbottava
fra i denti:
«E' sono fuori di tiro,
costà nessuno arriva a toccarli, e se ne stanno tranquilli come
pontefici; in breve... ecco torneranno i genitori col cibo... e saranno tutti
contenti; - i primi da me veduti, e rimasti felici!»
Qui volgendo il capo ci
scòrse; noi lo salutammo, e gli domandammo qual fantasia lo avesse preso
di avventurarsi sopra cotesti scavezzacolli, e se non temesse del capo-giro.
- Perchè volete voi
sapere il mio segreto? - ci rispose turbato. - Che cosa importa a voi di me, a
me di voi? Se siete banditi vi darò la moneta che ho indosso, e
andatevene col diavolo, che vi porti.
E noi lo avvertimmo, che per
quel quarto di ora eravamo boscaioli e cacciatori, e che non avrebbe corso
danno a mostrarsi meglio garbato.
- Sta bene; non volete
acquistare come re, guadagnerete come servi; accostatevi qua... presso me...
guardate laggiù...
- Dove?...
- In dirittura del mio dito...
in quel fondo là... il nido dell'aquila?
Circondato di nebbia, si
scorgeva appena un punto nerastro.
- Sì, lo vediamo.
Ed egli, teso sempre il dito,
aggiungeva: «A cui di voi si sente capace di portarmi i tre aquilotti...»
- O come sapete, io
interruppi, che ci hanno tre aquilotti nel nido?
- Perchè gli scorgo
distinti con le piume saure dorate. -
Io pensai: s'ei non è
il Diavolo, come ha detto Candido, per lo meno ha da essere suo cugino;
però che io ci vedessi allora, e veda sempre, mercè santa Lucia,
come un cacciatore; e non pertanto non mi bastasse l'animo di scorgere altro,
che una macchia cenerina grande come un pugno.
«Chi di voi, continuava
costui, mi riporta i tre aquilotti si godrà dieci ducati di oro».
Dieci ducati di oro! E' ci era
da comprare un reame. Volevamo andare tutti: per metterci d'accordo facemmo il
conto, e toccò a me. - Sciogliemmo le corde, che noi altri cacciatori di
montagna costumiamo tenere cinte a più doppii intorno alla vita, ed
annodatele insieme ci parve potessero bastare per giungere laggiù: mi
calarono; con la sinistra agguantava la corda, con la destra stringeva la
coltella tagliente meglio di un rasoio: arrivo al nido, lo stacco, me lo
assicuro fra il braccio, e il costato. Gli aquilotti strillano, - sono sordo;
gli aquilotti beccano, - gli lascio beccare: agito la corda, mi tirano su, ed
incomincio a salire piano piano come una secchia: ogni cosa cammina d'incanto.
Giunto a due terzi, e forse saranno stati anche i tre quarti, della salita, mi
percuote un rumore di aria rotta violentemente a modo di turbine, e m'intronano
stridi disperati. Il giorno diventa buio, e al tempo stesso due punte
m'investono, di cui l'una mi straccia la pelle del capo, e l'altra mi fora il
cappello, e se lo porta via; perocchè le aquile fossero due, maschio e
femmina, e a quanto pare, come Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi: per giunta
poi, genitori degli aquilotti che portavo meco. Ambedue rivolsero il volo per
piombarmi di nuovo a perpendicolo sul capo. Io non aveva mai visto aquile
così sterminate. Santo Uberto mi aiuti! Quando mi vennero vicino menai
colpi da disperato; ne giunsi una fra la spalla ed il collo, ma non la ferii
bene; all'altra mozzai un quarto di ala: ma egli era nulla; si alzavano, si
abbassavano, volteggiavano, mi ferivano nel petto, su le spalle, nei fianchi,
si avventavano così ratte ad artigli spiegati contro i miei occhi, che
davvero incominciai a pentirmi di essere disceso laggiù: però mi
difendeva il molinello, che faceva stupendamente veloce con la coltella per
tutta la persona. Pensate un po' voi se dovevano, o no, essere nuovi spettacoli
un cristiano sospeso per l'aria, che girava girava come fuso che torce la
canapa, col nido degli aquilotti in collo, giuocare di scherma incontro alle
aquile, le quali con tutte le malizie loro s'ingegnavano lacerarmi, e lo abisso
pieno di stridi degli uccelli, e di voci umane le mille volte ripetute dagli
echi, di penne svolazzanti, di sangue grondante, e di furore. Nel voltare la
faccia in su incontro la faccia dello sconosciuto sporgente dalla balza, che
rideva mostrando i denti a guisa di lupo quando ha fame; mi si abbagliarono gli
occhi, e un sudore diaccio mi corse lungo la spina... Santa Vergine! Quale
orrore! Nel menare colpi io aveva per inavvertenza tagliata più che
mezza la corda, già abbastanza sottile, la quale mi teneva sospeso... mi
pareva che mi fosse, e certo mi era cresciuto il vedere; imperciocchè io
distinguessi cedere, e disfarsi ad uno ad uno i fili della fune, e gli occhi
taglienti dello sconosciuto segare con le pupille la parte rimasta salda. In
quel punto sentii come darmi di un grosso picchio sul capo, rimpiccolire la
statura, strizzarmi nelle costole, e diminuire di grossezza. Chiusi gli occhi,
e vidi fuoco; - gli riapersi ben tosto, però che quattro graffi dolorosi
nella fronte mi ammonissero che accorressi a difenderli, se non voleva che le
aquile me li cacciassero di nido, come io aveva fatto agli aquilotti loro. I
fratelli, temendo che io mi fossi abbandonato, non sapevano sovvenirmi in altra
maniera, che gridando «coraggio, fratello! Orazio, da bravo!» e dando alla
corda terribili squassi, per cui ogni momento più s'indeboliva...
Sono presso all'orlo dello
abisso due... braccia... un braccio... tremendamente atterrito stendo una mano
al ciglione, getto il nido, e con l'altra mi aggrappo convulso, e bene mi
avvisai; imperciocchè i miei fratelli, appena ebbi mostrato il capo,
lasciassero la fune, e fuggissero via urlando da spiritati: pure, come Dio
volle, ne uscii a salvamento, e mi gettai avvilito sopra la neve. Lo
sconosciuto con quei suoi occhi di vetro mi guardava curiosamente, e mi
esaminava in silenzio il capo: strappommi tre o quattro capelli, se gli
recò nel palmo della mano, sempre esaminando; li pose di contro alla luce,
li tagliò, e finalmente ridendo mi disse «tu hai avuto paura». I
fratelli intanto, riavuti dal primo stupore, si accostavano levando gli occhi
al cielo, e a grande stento si persuadevano che io fossi quel desso di prima. I
miei capelli, in uno istante di agonìa, di neri si erano mutati in
bianchissimi([118]).
Lo straniero con certi suoi
argomenti ci dette ad intendere essere avvenuta naturalmente la cosa, che io
non compresi allora; e molto meno saprei ridirvi adesso. Mentre favellava egli
trasse di tasca un suo pugnaletto, e, senza punto cessare dalle parole,
tagliò il capo agli aquilotti. Le aquile ferite, e spennacchiate non
ardivano accostarsi a noi chè eravamo troppi, ed avevano già
fiutata la polvere dei nostri archibugi([119]); però da lontano
gittavano tali strida desolate, che fendevano il cuore. Colui, mozza ch'ebbe la
testa all'ultimo aquilotto, ci disse:
«Orsù, miei bravi,
volete voi guadagnare due volte tanto danaro di quello che avete avuto? Andate
a rimettere questi tre aquilotti morti nel nido donde gli avete cavati. Non ho
meco altra moneta; ma venite a Rocca Ribalda, ed io conte Cènci vi
manterrò la promessa.»
A noi parve per quel giorno
averne avuto d'avanzo; e poi, comunque bestie, le aquile avevano patito troppo
strazio. Allora il barone si allontanò fischiando dall'altra parte del
monte, senza nè darci, nè aspettare il saluto.
- E tutto questo che monta? -
notò un vecchio bandito, che pareva nato a un parto col Caronte della
cappella Sistina - O come hai provato, che tutto questo non accadesse per opera
del demonio?
- Ma o non hai inteso, che il
barone era il conte Francesco Cènci di Rocca Ribalda?
- Bella ragione! Non poteva il
diavolo aver preso la sembianza del Conte Cènci? E mettiamo il barone da
parte; o le aquile e gli aquilotti non potevano essere demonii?
- Ma vedi il caparbio! Ho
sempre sentito dire che il diavolo è un gran signore. Ora pensa s'egli
avesse voluto prendersi briga di una povera creatura come sono io.
- Eh! un'anima poi pesa quanto
un'altra nelle bilance del diavolo.
- E dodici fanno una dozzina.
- Ma, a caso, portavi addosso
nessuna reliquia?...
- Che domande! - Sicuro, eh! -
Avevo un breve con la orazione di Santo Brancazio contro le streghe; un cornino
di mare per la jettatura; la medaglia di San Tebaldo, oltre ad un pezzo di lumen
Christi in tasca...
- Tutto questo può
bastare; ma per chi va pei monti è necessaria la medaglia di San
Venanzio. Ricordatevene, figliuoli; il maligno, capite Orazio, il maligno
s'ingegnava, farti morire senza sacramenti, e portarti diritto dentro lo
inferno: di qui, figliuoli, chè posso essere padre a tutti voi altri,
comprenderete quanto profitto sia all'anima vostra starvi vicini a santa madre
chiesa. E poichè dianzi mi è venuto parlare di rosario, o che
trovereste male; per ammazzare il tempo, recitarne una mezza dozzina? Ma che
dico male? Non sarebbe tanto bene messo nel salvadanaio per il mondo di
là?
Il vecchio bandito trasse
fuori di tasca una immagine della Madonna, e la conficcò col coltello
nel tronco di una quercia. Piegate le ginocchia, prese a dire molto devotamente
il rosario. I compagni, o mossi dallo esempio, o per vera devozione, o per
mille altre cause, che sarebbe ricercare soverchio, conciossiachè i
nostri atti sieno mossi ordinariamente da un complesso d'incentivi, non
già da una singola cagione, piegarono le ginocchia, e rispondevano al
vecchio alternando pater nostri ed ave marie.
Se il diavolo fosse passato
per di là si sarebbe dato al diavolo.
- Basta così,
Ghirigoro, disse un bandito alzandosi; e mentre con le mani si poliva ambedue
le ginocchia, aggiunse: ma sapete che il vostro dubbio intorno al diavolo
mutato in due Aquile patisce, con reverenza, dello scemo!
- Scemo io? - E tu non sai,
ignorante, che ventimila diavoli possono entrare dentro un lupino, ed un
diavolo solo condire tutto un convento di frati Francescani? E non sai, che a
salvarci dal diavolo non basta metterci a sedere nella piletta dell'acqua
santa, e tenere un Cristo in bocca, chè tanto un foro per entrarci in
corpo egli lo sa trovare, come neanche a Santo Antonio fece profitto averlo
preso con le molle pel naso?
- Con le molle?
- Pel naso?
- Già! - rispose
interrompendo il bandito - appunto con le molle pel naso...
- O sentiamo anche questa...
- La è chiara come
l'acqua. Una volta il diavolo, per fare scappare la pazienza a Santo Antonio,
si trasformò nello sgabello dove si metteva a sedere: eccoti, che il
santo viene in cella, e subito va a leggere i libri di divinità; il
diavolo gli scappa di sotto, e il santo a gambe all'aria. Un'altra volta si
convertì in leggìo, e gli cascò sul naso rompendogli gli
occhiali; e poi in cane, in gatto, e in donna; sebbene molti credano che quando
il diavolo apparisce in forma di donna non si tramuti, ma che proprio vi sieno
i Diavoli donne, o vogli dire le Diavolesse, e questo credo ancora io. Insomma;
il maligno quante ne poteva immaginare, e tante gliene faceva; ma il santo,
sempre con pace esemplare, lo prendeva per un orecchio, e lo ammoniva:
«Diavolo, diavolo! ti par egli, che tu sia nato per gabbare un santo pari mio?
Il mondo è grande, e possiamo starci tutti e due senza darci fastidio:
va' pei fatti tuoi, e non mi rompere il capo». Poi lo metteva fuori di cella, e
gli chiudeva l'uscio in faccia. Un giorno, che il nostro dabbene Santo Antonio
si ammanniva a fare una bellissima meditazioncella sopra la moltiplicazione dei
pani e dei pesci, inchiavacciò per bene la porta, e sul foro della toppa
mise un pezzo di lumen Christi, sperando in questo modo avere la pace: ma
e' furono novelle. Ad un tratto sente rodere, e con la coda dell'occhio vede il
diavolo, che aveva cacciato il muso fuori da un buco scavato nella parete. Il
santo, senza darsene per inteso, agguanta adagio adagio le molle del cammino, e
poi in meno che non si dice amen si avventa sul diavolo, e lo prende per
il naso. Il diavolo strillò... ma il santo sodo: il diavolo si
provò in cima delle molle a trasformarsi ora in leone grande quanto il
monte Terminillo, ora in serpente lungo un miglio; ma tanto non si usciva, e il
santo lo tenne stretto fino a che non lo ebbe affogato dentro un orciuolo di
acqua vite, conforme io stesso con questi miei propri occhi vidi, e verificai
alla fiera di Tagliacozzo, dove un religioso di santissima vita me lo
mostrò, e mi disse che il diavolo, prima di spegnersi nell'acqua arzente
benedetta, aveva durato a friggere mezza ora e più come ferro
arroventato([120]).
- Come! tu vedesti un serpente
lungo un miglio?
- Il diavolo era rimasto nella
forma ultima, che aveva preso nelle sue tramutazioni. Quella del serpente non
era stata l'ultima.
- Dunque, o che figura aveva
egli?
- Quella di talpa lunga due
palmi compresa la coda...
Uno scoppio immenso di risa
proruppe da tutta la brigata, sicchè il vecchio ne rimase sconcertato.
Preso da cruccio, si avviluppò nel tabarro brontolando:
- Gia voi siete eretici; e un
giorno o l'altro vi accorgerete voi, che cosa significi fare i banditi senza un
po' di religione.
CAPITOLO XIX
LE FANTASIME.
Tra male gatte
è capitato il sorco.
Dante, Inferno.
Appena il vecchio masnadiero
aveva cessato di favellare, che una voce sonora e argentina rompendo i silenzii
della notte, portò agli orecchi dei banditi questa canzone:
Avventa le zanne,
Atterra
lecciòli,
Nocciòli
- corniòli,
Fa
il bosco tremar.
- Non vi muovete, disse Orazio
ai compagni, che entrati in sospetto già già ammannivano le armi:
egli è l'amico nostro; il sordo-muto della Ferrata: egli non possiede in
questo mondo nulla, eccetto voce e miseria; e la prima voi non potete, e la
seconda voi non gli volete togliere.
Infatti indi a breve comparve
il garzone della Ferrata, il quale oltre la età scaltrissimo, aveva
trovato il suo conto a fingersi sordo-muto, e idiota, e così prese a
interrogarli:
- Marzio dov'è?
- Se ce lo insegni noi te lo
diremo. Questa è l'ultima notte del nostro obbligo di aspettarlo; o
viene in breve, o non verrà più: il meglio, che tu possa fare,
è di attenderlo qui con noi.
- Questo è guaio
grande: che importa pescare, se non si bada alla rete?
- Vien qua, fanciullo, e cantaci
la tua canzone; intanto Marzio potrebbe venire.
- Oh! vi pare egli? Ella
è una canzone composta da qualche montanino ignorante di questi luoghi;
- pare proprio fatta con la piccozza.
- Che sia stata composta su
questi poggi non ha da dubitarsi, interruppe Orazio con modo acerbo; ma che
l'abbia fatta uno ignorante non è vero, brutta scimmia, perchè
l'ho fatta io...
- Orazio... vi chiedo
perdono... io non credeva...
- Credessi, o non, credessi,
impara che non istà straziare, la canzone a cui la canta: veramente la
mia poesia non vale la tua voce; ma ad ogni modo, senza i miei versi come
sapresti far sentire i tuoi canti?
Il garzone, per torsi
d'impaccio a rispondere, sciolse una nota limpidissima. Orazio non ebbe
coraggio interromperlo, ed egli continuò:
Correte alle poste,
Chè
scende il cignale
Non
venne l'uguale
Pei
boschi a stormir.
Avventa le zanne,
Atterra
lecciòli.
Nocciòli,
- corniòli,
Fa
il bosco tremar.
Per setole ha stecchi,
Ha
fiamme per occhi:
Nessuno
mi tocchi,
Grugnando
egli va.
Le belva percosse
Del
mostro allo strido,
Disertano
il nido,
I
figli, e l'amor.
I colti devasta
Così,
che ai bifolchi
Par
corsa nei solchi
La
fiamma del ciel.
Le macchie salvate,
Ai
campi accorrete,
Battete
- uccidete
Quel
verro crudel.
La carne del verro,
Un
rubbio ben pieno
Di
gran saraceno
Il
premio sarà.
La testa, e del tiro
Si
aspetta l'onore
Al
franco uccisore
Del
marzio cignal.
E premio più caro
Lo
aspetta, del viso
Di
Clelia un sorriso,
Baleno
di amor;
Di Clelia la bella,
Che
quale la mira
Delira,
- sospira,
Più
posa non ha.
- Eccoti un bacio, e uno
scudo; disse Marzio uscendo da un macchione in compagnia di Olimpio. Iddio ti
ha dato la grazia del canto come il raggio alle stelle - luminosa, e soave: io
ti chiamerò l'usignòlo dei banditi.
Ma il giovanetto, lusingato
dalle lodi, ricusò la moneta, e rispose:
- Marzio, io per danaro non
canto; la voce mi fu data senza pagarla, ed io la dono, non la vendo:
così mi sembra il canto più bello. Io ti servo per amore, e
basta. Il nostro amico della Ferrata mi manda a dirti, che il Barone è
giunto...
- È giunto?
- Certo, ed io l'ho visto; ha
seco la moglie, i figliuoli, ed una scorta di guardie campestri, o masnadieri
che sieno. Io vengo ancora a cercar muli dai carbonari perchè il vecchio
non intende fermarsi, e vuole continuare il viaggio in questa stessa notte.
- Quanti di scorta?
- Dodici; ma non di queste
bande: alla parlata paiono delle parti di Toscana.
Presto furono in ordine i
muli. Orazio, così ordinando Marzio, si tinse il viso e le mani di
carbone; tolse la vesta di un carbonaro, e insieme col garzone menò le
bestie alla Ferrata.
I banditi levarono il campo, e
seguitando Marzio si ridussero al luogo predisposto alle insidie.
Arrivati i muli alla osteria
don Francesco comandava li caricassero, e quando fossero in ordine lo
avvertissero per partire. Non passò bene un'ora, che ogni cosa era in
punto; ond'egli discese per esaminare se tutto fosse a dovere. Mentre da un
luogo ad un altro si affaticava, un pipistrello investì con l'ale la
lanterna che gli portavano davanti, sicchè l'uccello sbalordito gli
cascò in mano; egli la scosse prontamente con un senso di ribrezzo
gittando via la trista bestia, e notò:
- Cattivo augurio è
questo, e prudenza vorrebbe sospendessi il partire... Qui l'oste, mostrando un
viso di sasso - dove rompeva qualunque vergogna - soggiunse:
- Non vi faccia specie,
Eccellenza, perchè il cattivo presagio viene compensato, anzi superato
con uno buono...
- E quale?
- Caricando i fusti del vino,
poco anzi, se n'è rotto uno... e siccome il vino sparso è
allegria...
- Per avventura la fiasca
dello keres, dove si leggeva il numero tinto di bianco?
- Non vi si leggeva nulla;
state tranquillo, e fiasca non era.
- Andiamo a vedere un po' dove
si è rotto...
- Giù in cucina...
- Vi sarà rimasto il
guazzo...
- Eh! no, i mattoni lo hanno
bevuto; anche i mattoni hanno voluto fare un brindisi a vostra Eccellenza...
- Ma questa casa parmi
fabbricata almeno da un secolo addietro.
- Sicuramente; ma il pavimento
è nuovo.
- Chi aveva ragione di noi
altri due: tu, che facevi derivare il nome oste da ospite; od io, che lo
desumeva da nemico?
- L'oste, a vero dire,
interruppe il carbonaro, non fa razza da se; ma la natura lo ha messo nella
grande specie, che dondola tra il somaro e il coccodrillo.
- Chi vide mai questi animali?
- Voi gli avete davanti,
Eccellenza; questa razza è il popolo, che quasi sempre porta, qualche
volta divora.
Don Francesco, percosso da
coteste parole, prese la lanterna e la sollevò al viso del carbonaro.
Orazio riconobbe lo sguardo verde, il riso maligno, la faccia di marmo del
conte. Il Conte ravvisò i capelli canuti e le sembianze di Orazio,
comecchè gli sembrasse assai prostrato dagli anni, e forse, come ei
credeva, dai patimenti.
- Pare che noi non siamo
conoscenze nuove, favellò il Conte; l'avventura dei capelli bianchi non
è di quelle, che si possano leggermente dimenticare.
- È vero, i capelli
bianchi non si dimenticano, - già si rammentano da se.
- Quantunque io vi conservi
rancore per non avermi contentato a riportare gli aquilotti nel nido, pure, che
siate uomo animoso non è da dubitarsi. - Mi duole che la fortuna non vi
abbia sollevato; e se potessi, io le direi in viso che ha torto, e si vergognasse
una volta.
Orazio, che incominciava a
sentirsi venire i brividi addosso per la paura che gli metteva lo aspetto del
conte, alle parole oneste tutto si riconfortò: gli piacque udire
rammentare il caso del nido, e si profferse svisceratissimo al conte. Però
Orazio accanto a don Francesco non era più quello di prima; il suo
coraggio andava in fumo; e questo avveniva perchè, secondo una bella
espressione dello Sterne, con molta ala di vela non aveva una oncia di zavorra;
e imperterrito contro le palle, credeva alle streghe, temeva della jettatura, e
senza le cinque o sei medaglie che portava appese al collo egli non si sarebbe
attentato giammai di passare solo la notte.
Don Francesco, Orazio, e il
garzone (ch'era tornato a fare da idiota, e a favellare con ammicchi) in
compagnia di sei guardie campestri aprivano la caravana; in mezzo le donne,
Bernardino, i servi armati e le bagaglie; dietro altre sei guardie chiudevano
la comitiva.
Beatrice più volte si
era affaticata ad accostare suo padre, più volte lo aveva supplicato con
parole, o con cenni a porgerle ascolto: prima di uscire dalla osteria gli si
era gittata in ginocchio davanti, e gli aveva detto:
- Signor Padre, non andate
oltre, o siete morto... Marzio...
Ma il Conte a cui cotesto nome
suonava delitto, e reputando eziandio le continue smanie della figlia come
sforzi supremi a sottrarsi dalla imminente prigionia della Petrella, la
ributtò con maniere acerbe, ed ordinò che la guardassero, e la
impedissero di trascorrere dal luogo che l'era stato assegnato.
La notte diventò
più buia, chè metteva un'aria, piena di nuvole a strappi,
chiamata dai campagnuoli le pecorelle; e a mano a mano che salivano il fresco
si faceva mordente; il vento zufolava per le fronde degli alberi: si cacciarono
su per l'erta di Rio Freddo alternando discorsi, e avvertimenti di badare al
cammino, che davvero meritava attenzione. Passato Rio Freddo, per la piana del
Cavaliere pervennero a Rocca Carenzia. Di qui ripresero a salire, per una
viuzza del Monte di Bove, fin sopra la cima, dove videro comparire la luna.
Quanto è diverso il
primo quarto di questo pianeta dall'ultimo! Il primo rassomiglia una speranza,
l'ultimo uno addio: gli uomini che videro di frequente il primo, bene pensarono
a convertirlo in ornato della Diva dei boschi; quelli poi che più spesso
contemplarono l'ultimo, ne fecero con migliore accorgimento lo attributo di
Ecate, la Dea dello inferno. Chiunque ha contemplato la luna nelle varie sue
fasi, per molte notti, ad ore diverse, comprende come possa essere stata salutata
a ragione Dea degli amanti, e dei ladri. Le tenebre, non che ne fossero
rischiarate, sembravano più triste; e il vento trasportando le nuvolette
spesse, e più o meno dense, venivano ad alternarsi ora buio intero, ora
mezza oscurità, ora splendida luce, che trasformavano stranamente e
rendevano più terribile la faccia delle cose.
Potevano essere circa le due
ore dopo la mezza notte, allorchè, traversata Rocca di Cerro per la via
Valeria, rasentarono il taglio portentoso delle rupi di Tagliacozzo. Se avesse
albeggiato, od anche fosse stata luna piena, quinci sariasi potuto distinguere
la Rocca Ribalda; imperciocchè, passato alcun poca di valle,
s'incomincia a salire il colle della Petrella, in cima del quale, sopra una
rupe di pietra calcare giallognola, che si fa cenerina dalla ròcca.
Io co' miei viaggiatori ho
percorso buon tratto della campagna; ma quantunque prossimo, non sono arrivato
anche al termine del cammino: avanti dunque, chè pochi più passi
rimangono.
La via che conduce alla
Ribalda sopra la schiena del colle Petrella è aspra, rotta, e incassata
in due ripe donde si rovesciano giù per le pareti pruni, e cespi di
macchia cedua ove più radi, ove più folti. Nella stagione delle
piogge il sentiero convertendosi in torrente, nè mai le acque giungendo,
per la ripidezza dello scolo, a toccare la cima delle sponde che fanno loro di
letto, ne avviene che il sentiero largheggi nella base, e si restringa in cima.
Quando il Conte Cènci
con la sua compagnia entrò in questo cammino la luna si era appiattata
dietro una nuvola nera, che viaggiava, a cagione della sua mole, più
lenta delle altre, sicchè procederono quasi tentoni per un buon quarto
di miglio. Allo improvviso la luna liberandosi dalla nuvola gitta un raggio
obliquo, ed illumina la scena. Don Francesco alzando la testa vede sbucare
fuori delle macchie una moltitudine di strane sembianze affacciate dal ciglione
con gli archibugi tesi pronti a sparare. Non vi era scampo a resistere: a
fuggire nemmeno, perchè l'erta dirupata rompeva la lena, e la china, oltre
all'essere impedita dalla gente stipata dietro le spalle, non presentava
intoppi minori. Coteste erano veramente forche caudine.
- Fermi tutti: - se muovete un
passo siete morti! -
Così si fece sentire
una voce dall'alto, come folgore che rumoreggi per le nuvole; e la compagnia si
fermò.
I banditi, i bravi, e le
guardie campestri, maniere di gente che assai rassomigliavano fra loro, come fu
avvertito poco anzi, si mostravano quasi sempre osservatori fedeli della data
promessa. Nè si creda già, che studio siffatto muovesse da
sentimento generoso: tutto altro. Egli veniva dalla considerazione, che dove
avessero mancato, cotesto loro mestiero diventava fallito; imperciocchè
i Signori o avrebbero smesso le ribalderìe, che da loro si volevano
mandate ad esecuzione, o avrebbero ricorso ad altri uomini e ad altri
provvedimenti: sicchè essi ponevano nella sciagurata loro vita lo
impegno medesimo, che il buono artefice mette a riportare un lavoro puntuale
per mantenersi il credito e lo avventore. Indotte da questo, le guardie
campestri di scorta al Conte Cènci non fuggirono; e il caporale,
fattoglisi dappresso, gli favellò:
- Eccellenza, che abbiamo a
fare?
- Il leone è caduto
nella fossa...
- Se ci muoviamo ci ammazzano
come cani senza difesa, e senza vendetta.
- Lo vedo; qui forza non vale.
Entrate a parlamento; guardiamo se l'arte giova, e procurate capitolare co'
banditi...
- Oe, gridò il
caporale, da quando in qua cane mangia carne di cane?... Fin qui credeva, che
dai confetti di piombo e dalle nozze di canapa in fuori non avessimo a correre
altri pericoli...
E gli fu risposto:
- Parole corte. Noi non
cresceremo il fascio delle legna al boscaiuolo. La scorta dei dodici uomini
torni sopra i suoi passi senza essere svaligiata: depositi gli archibugi, che
domani alla calata del sole ritroverà alla osteria della Ferrata. I lupi
dello Abruzzo non dicono due volte: badati; la seconda parlano con la bocca
degli archibugi.
- E la compagnia?
- Con essa abbiamo altri
conti.
Le guardie campestri non istettero
ad aspettare altre intimazioni, e si allontanarono senza profferire parola,
fatto prima fascio delle armi.
- Il Conte Cènci passi
alla coda della caravana; - intimò la medesima voce.
Il Conte, ostentando allegria,
obbediva. Orazio lo seguitava, e lo intendeva favellare così:
- Semprechè nelle cose
adoperai avarizia provai ogni successo a traverso: - doveva prendere cinquanta
di scorta, ed avrei risparmiato un tesoro. - Cotesti gentiluomini, oltre la
perdita delle bagaglie, chi sa quanto pretenderanno di riscatto!
Giunto alle spalle della
caravana, quattro banditi saltarono giù dal ciglione; e siccome,
malgrado il proponimento di andare per prova di arte, il naturale istinto
spinse il Conte a metter mano al pugnale, appena fece l'atto si sentì
stringere le braccia da due tanaglie di ferro. Sì volse irritato per
vedere chi fosse, e riconobbe Orazio. Orazio, a cui cresceva forza la paura,
che gl'incuteva il Conte.
- Ah! siete voi, cacciatore?
- Sono io...
- Pare, che il quarto d'ora
del bandito sia venuto per te...
- Certo in questo punto smetto
la parte del somaro, e prendo quella del coccodrillo....
- Guarda da legarmi; io non ti
perdonerei mai questo oltraggio: impara, villano, a rispettare i gentiluomini.
- Ah! signore, perdonateci
innanzi tratto perchè noi siamo ignoranti, e non sappiamo altro che
guardare alle nostre sicurezze. - Questi quattro compagni sono scesi appunto
per aiutarmi a legarvi...
- La comitiva, gridò la
voce dall'alto, prosegua il suo cammino. Il Conte Cènci ha da restare
con noi. -
In questo punto un capo si
affaccia per un momento all'orlo del ciglione. Beatrice, che era stata attenta
a contemplare i varii casi che si succedevano, lo vide, lo riconobbe, e
comprese pur troppo qui non trattarsi di sequestro per estorcere danari, siccome
costumano ordinariamente i banditi romani e del regno: più terribile
intenzione covava lì sotto, nè s'ingannava; perocchè
lasciatasi andare giù dal cavallo si pose al fianco del padre, e
incominciò a parlare di forza con la faccia levata in su:
- Il ragnatelo insidia la
mosca con reti di bava, e se la porta nel buco per succhiarle il sangue. Voi
non siete lupi dello Abruzzo, ma ragnateli di sotterraneo. L'aquila per l'aria
vive di preda, e il leone sopra la terra; siate leoni, ed abbiatevi la preda: io
non vi parlo di quanto portiamo con noi; questo è già vostro:
intendo parlarvi del nostro riscatto. Chiedete; noi siamo pronti a pagarlo;
chiedete quanto vi basti ad arricchirvi tutti, e a farvi stare contenti in casa
vostra senza le cure della miseria, e il pericolo della forca... noi possediamo
danari più che non potete immaginare; fissate voi i limiti del nostro
riscatto...
- Beatrice, vaneggi? Per fare
quello che suggerisci essi non hanno mestieri dei tuoi consigli... e sono
capaci da non lasciarti neanche gli occhi per piangere...
- Tacete, Padre mio; voi non
pensate qual pericolo vi pende sopra la testa: lasciatemi favellare. - Noi vi
pagheremo questo tesoro, purchè lasciate che con noi venga il Conte:
egli si legherà per fede a sborsarvi il danaro di qui a dieci giorni. Se
non vi basta la sua promessa aggiungerò la mia, e la conformerò
con giuramento; che dalla parte di mia madre mi vennero moneta, e gioie in buon
dato. Se neanche questo vi basta, tenete me in ostaggio, e lasciate andare il
Conte: io sono giovane e sana, egli vecchio ed infermo. Pensate alle vostre
famiglie, - pensate alla contentezza di mangiar pane non immollato nel
sangue... ai figliuoli che avete... a quelli che potrete avere... ai vecchi
padri pieni di necessità... affamati davanti lo spento focolare...
- Via - interruppe una voce
imperiosa; ma Orazio rispose:
- Lasciamola parlare: udiamo
fino in fondo... che molte cose buone mi pare che le dica.
- Sentite, proseguiva
Beatrice, se strascinate via il Conte voi ve lo troverete ammazzato fra le
mani; voi non guadagnerete nulla, perchè quelli che vi hanno condotto
non vogliono la moneta, ma il sangue di un povero vecchio; - e poco scampo vi
rimarrà dalla forca, che le corti di Napoli e di Roma, mosse dalla fama
del personaggio e dalle aderenze potenti, v'inseguiranno come lupi di macchia
in macchia, e vi converrà morire di laccio, o di piombo. Dopo Sisto V,
quale spelonca è rimasta ignota? Qual ròcca inespugnata? - Come
finì il Cavaliere dei Pelliccioni? Impiccato. Come Marco Sciarra?
Impiccato. Come il signor Duca di Amalfi? Impiccato; tutti impiccati
comecchè potentissimi. Sappiate dunque adoperare la occasione che la
fortuna vi mette fra le mani...
La fanciulla favellando
caldamente incominciava a insinuarsi nello spirito dei banditi, in ispecie in
quello di Orazio; e dove poco più le fosse stato concesso parlare gli
avrebbe svolti tutti, se Marzio, comprendendo il pericolo, non avesse mandato
Olimpio a qualche distanza a sparare lo archibugio. La botta empì di
sospetto i banditi; e Marzio allora, per maggiormente spaventarli, gridò
con quanto fiato aveva in gola:
- Maledetti! Egli è
tempo questo da sentir cantare la calandra?... Alla foresta! alla foresta! - La
corte ci è sopra.
E Olimpio, correndo, urlava a
sua posta:
- Salva... salva... la corte
ci è sopra.
- Il Conte... portate il
Conte...
A Beatrice toccò una
spinta nel petto, che la mandò a percuotere con le spalle nella parete
del cammino; e mentre, punto sbigottita, continuava a gridare:
- Udite... siete ingannati...
cinquanta contro uno..., e tali altre parole, trassero seco loro il Conte; il
quale persuaso che fosse negozio cotesto da comporsi a danaro, sopportava meno
acerbamente lo affronto, volgendo già nel cupo animo mille disegni di
vendetta crudelissima. Per quale via lo traessero i banditi a lui non fu dato
di scorgere, però che a breve distanza, di costà gli ponessero la
benda sopra gli occhi; e poi, scaltrito com'era in simili arti, capì che
lo facevano avvolgere sopra se stesso per confonderlo, onde in qualunque evento
non riuscisse a rinvenire più il luogo.
Allo improvviso gli parve
essere rimasto solo; portò le mani alla benda, e non udendo voce alcuna
che lo impedisse togliersela se la levò ad un tratto, e si trovò
dentro una caverna spaziosissima. Senza indugiare un momento prese una lanterna
lasciata appesa alla volta, ed esaminò sottilmente le pareti, il
pavimento, e il soffitto; gli parve che le pareti e il pavimento in parte fossero
vuoti, ed in vero erano; ma così bene chiusi con assi, che ogni via alla
fuga conobbe disperatamente impedita. - Una tavola, qualche scranna, e un
mucchio di foglie coperto di pelli erano i soli mobili che guarnivano il luogo.
Don Francesco si pose a sedere, e più che pensava più si
persuadeva, che se il riscatto non gli apriva le porte di cotesto sepolcro,
qualunque altro modo per uscirne gli sarebbe tornato corto. Altre volte si era
trovato ad andare prigione, ed anche vi aveva corso pericolo non piccolo, ma
pure non si era mai sentito fiaccato come adesso; forse la età gli aveva
sottratto alquanto della baldanza per cui fu temuto una volta, e forse anche un
presentimento lo travagliava indistinto, e grave, che lo teneva sbalordito:
insomma, non può dirsi che avesse paura, ma neppure il coraggio consueto
lo sosteneva. Posizione maravigliosa per sentire le trafitte del dolore;
imperciocchè da un lato manchi la forza per prorompere, e divertirci in
mezzo alla procella dello sdegno, e dall'altro manchi la stupidezza, che ci
rende insensibili ai colpi di ventura.
Dovevano essere passate
parecchie ore dacchè ci si trovava chiuso là dentro, avvegnadio
s'impadronisse di lui uno sfinimento che gli faceva desiderare qualche ristoro.
I bisogni del nostro fisico si fanno sentire anche in mezzo alle tempeste
dell'anima: il pane par cenere, il vino fuoco dentro lo stomaco, che li chiede
con angosciosi strappamenti, e l'uomo è costretto a nutrire il cancro
che lo divora. Stette un pezzo prima di risolversi a chiamare, però che
alla sua fierezza pesasse chiedere la vivanda ai banditi; ma la natura urgendo,
gli fu mestieri piegarsi a picchiare alla porta. Tocco appena l'uscio gli venne
aperto, e subito comparve un garzoncello accorto, che con parole ossequiose, ma
che pure svelavano un senso sottilissimo di scherno, gli disse, che da buon
tempo stava di fuori aspettando; non avere ardito prevenire la chiamata temendo
disturbarlo nelle sue meditazioni; ed egli sapere essere il carcere luogo
adattatissimo a meditare. Al Conte parve ravvisare il garzone, e veramente egli
era il sordo-muto della osteria della Ferrata.
- Dimmi, fanciullo, come hai
tu fatto a recuperare la favella? - domandò il Conte.
- Per virtù di Santo
Andrea Avellino, il quale si diletta operare per queste parti di miracoli
assai.
- Se io n'esco, pensò
il Conte, furfanti, ve li darò io i miracoli di Santo Andrea Avellino.
La rete è stata tesa da mano maestra; anche l'oste d'accordo... Ma
dov'è Marzio? Non fosse rimasto ucciso? - Fosse una trama ordita da lui?
Ah! potessi sapere che cosa avvenne di Marzio!
- Eccellenza, proseguì
il garzone, se ha cosa da comandarmi rimango; altrimenti non vorrei riuscirle
importuno...
- No, figlio mio; ti ho
chiamato perchè tu veda portarmi un po' da mangiare...
- Subito, Eccellenza; - e andava.
- Senti, vieni qua; adesso fa
giorno, o notte?
- Notte, perchè senza
lumi qui non ci si vedrebbe.
- Non qui... ma fuori...
- Fuori è buio
ugualmente. Se poi lassù faccia notte o giorno io non saprei informarne
vostra Eccellenza, perchè per ora non mi concedono salire...
- Che parli tu di salire? A me
non parve scendere venendo qua dentro.
- Vi è parso
perchè è dolcissimo il pendìo, che mena nello interno
della spelonca; ma avete da sapere, che ci troviamo delle miglia ben molte
sotto terra.
Don Francesco vedendo essere
preso a gabbo, dal petulante garzone gli vibrò tale uno sguardo, che per
quanto costui fosse sfrontato non ebbe forza di sostenerlo, ed uscendo
avvertiva:
- In un baleno torno col
pranzo, che
Il nostro gregge e l'orticel
dispensa
Cibi non compri alla non parca
mensa,
come dice il signor Torquato
Tasso.
Questo baleno durò per
così lungo spazio di tempo, che il Conte attribuendo la dimora a nuova
malizia del garzone, sempre più s'inviperì contro di lui, e
dispose dargli tale ricordo, che se ne potesse rammentare per un pezzo.
Tornò alla fine il ragazzo simulandosi ansante come chi viene in fretta,
e portò due candelieri di singolare fattura: erano due mani scarne, che
reggevano le candele accese; i lini per imbandire la mensa, e di più
ragioni vivande accomodate squisitamente, e in copia da bastare a dieci:
dispose ogni cosa con accortezza sopra la tavola, procurando starsene lontano
quanto meglio poteva dal conte. - Questi spiava il modo di mettergli le mani
addosso; ma il garzone, svelto, si cansava a guisa di mosca sul muso dello
alano, che gli svolazza fastidiosa ed assidua pel naso, per le orecchie, e per
gli occhi; e quando sbuffando avventa le zanne fugge via, ed egli morde l'aria.
Don Francesco allora, traendosi di tasca un ducato, gli disse:
- Vieni qua, figliuolo, come
ti chiami?
- Chiamatemi come vi pare,
Eccellenza...
- Ma un nome devi averlo; non
ricevesti tu il battesimo?
- Sarà; sebbene avessi
a trovarmici presente, pure non me ne ricordo... Ah! aspettate; ora sì
che mi viene in mente; mi posero nome Onorato...
- Onorato! E' pare, che per
metterti cotesto nome il tuo compare non consultasse l'astrologo.
- Così diceva ancora
io; ed anche se prima di battezzarmi avessero sentito il mio parere, non avrei
permesso simili bugiarderie.
- Va, tu mi piaci; siete tutti
concettosi voi altri: prendi questo scudo, che te lo dono.
- Ed io non lo voglio...
- Perchè?
- Perchè non si deve
accettare per limosina quello che possiamo pretendere per taglia.
- Ah! dunque anche tu vuoi
taglieggiare il barone?
- Figuratevi ch'e' sia come
carne di fagiano; tutti nella vita vogliono assaggiarne una volta.
- Anche tu vuoi taglieggiare
il barone!
E si frugava in seno; ma il
garzone presagendo la mala parata, di un salto toccò la porta, e si
riparò dietro l'uscio.
- Prendi questo per taglia; e
sì dicendo, il Conte scagliava il pugnale contro il ragazzo: questi lo
schivò facilmente, e il ferro andò a piantarsi dentro la porta,
dove, dopo avere alquanto tentennato, quietò. Allora sbucò fuori,
lo staccò senza ira, e sporgendolo verso il conte gli disse:
- Io ve lo conserverò
con diligenza, e spero in Dio potervelo rendere quando i miei superiori me lo
concederanno.
Il Conte vedendo fallito il
colpo, mormorò dispettosamente: ne anche un colpo mi riesce più ad
assestare! - E si accostò alla mensa. Se la cura molesta non vi si fosse
seduta accanto a lui, per certo il cibo gli sarebbe tornato accettissimo atteso
la grande fame che lo travagliava: ad ogni modo prese a tagliare la vivanda, ed
accostandosene alla bocca un frammento non potè trattenersi da esclamare
«ho fame!...»
Nel medesimo punto, a breve
distanza da lui, una voce lamentevole rispose «ho fame!..»
Gli parve illusione; ma nel
sollevare lo sguardo ecco li, proprio seduto a mensa dirimpetto a lui, gli apparisce
uno spettro pallido, lungo, orribilmente scarno, con occhi spenti a guisa di
pesce morto, il quale, poichè l'ebbe fissato in volto, gli parve che
presentasse, e presentava certo le sembianze di Olimpio. Il Conte, tenendo il
braccio sospeso fra il desco e la bocca, prese a dire:
- Ch'è questo? Sono io
diventato don Giovanni Tenorio, e voi, mio bello spettro, volete sostenere le
parti del commendatore di Lojola? Ma io mi permetto osservarvi, che il
Commendatore era stato invitato da don Giovanni, e voi venite spontaneo; la
quale improntitudine sconviene altamente a spirito bene allevato: inoltre il
Commendatore era di marmo, e voi di qual materia siete? Ad ogni modo, ben
venuto signore spettro, e se vi garba mangiare, mangiate, che buon pro vi faccia.
Mirabile a dirsi! Appena ebbe
il conte profferito coteste parole, che lo spettro, come se lo travagliasse
quella terribilissima infermità, che i medici chiamano bulimo, o fame
canina, si gittò frenetico sopra le vivande imbandite, e tutte le fece
sparire in un battere di occhio, arraffando anche il piatto posto davanti al
conte: nè qui fermandosi, ingolò tovagliuoli, e tovaglia; poi
azzannò le stoviglie, e stritolandole co' denti ne trangugiava i pezzi([121]). Al conte, fra
maravigliato e atterrito, non bastò l'animo di salvare nulla, nemmeno il
frusto di carne fitto dentro la forchetta; ogni cosa divorò lo
insaziabile vampiro: poi ridivenne immobile; e guardando fisso il conte, con la
bocca aperta, e mostrando i denti ripetè:
- Ho fame!...
- Per la morte di Dio! -
esclamò don Francesco, ostentando una baldanza che era lontana
dall'animo suo, - che cosa ho a darti io? - -E scorto in un angolo della
caverna certo fascio di paglia, lo spinse presso a cotesta belva dicendo:
- Prendi, divora...
E lo spettro divorò
anche la paglia. Terminata che l'ebbe, tese come prima la orribile faccia verso
il conte, urlando a bocca aperta:
- Ho fame!...
- Io non ho altro a darti...
mangiati il cuore...
- Ho fame!... ho fame!... non
il mio cuore, ma la tua carne io mangerò, cane, che mi hai fatto morire
di fame...
E infuriando come belva
rovescia tavola e lumi, e si avventa alla vita del conte: questi provò
svincolarsi; sennonchè, sbattuto giù come sasso da forza
irresistibile, si sentì mordere di rabbia sopra la spalla manca. Don
Francesco, quantunque fieramente commosso, e rifinito dal digiuno, non per
questo si abbandonava, chè il pensiero di rimanere divorato da cotesto
cannibale gl'infondeva nei muscoli forza tetanica. Si rotolavano entrambi per
terra mordendosi a vicenda, e ingegnandosi di stringersi alla gola: di tratto
in tratto cacciavano urli disperati; si laceravano co' denti; si sgraffiavano
con le ugne; si pestavano a pugni; l'anelito usciva fumoso dalle narici e dalla
bocca; il cuore, tremante per tremendo palpito, minacciava scoppiare loro nel
petto... orribile lotta era quella!
Ma la potestà non
corrispondendo al volere, ormai il Conte stava per perdere conoscenza: radi, e
compressi gli uscivano dalla gola i sospiri: negli estremi sforzi si dibatteva,
quando fu udito strepito di catene, ed una voce che gridava:
- Il vampiro ha rotto la
catena!
Al Conte parve,
imperciocchè non vedesse distinto, che certe figure nere, e truci, con
tronchi di pino accesi entrassero da più parti nella caverna staccandosi
dalla parete, e gittandosi sopra la trista belva giungessero ad incatenarla con
quattro catene, e tenendone i capi uno discosto dall'altro la strascinassero
fuori della caverna. Egli stava sempre disteso sul pavimento; puntando la mano
a terra gli riuscì, quantunque con isforzo, a mettersi seduto: ansava
affannoso, grondava sudore, e sangue. Delle candele una era spenta, l'altra
rovesciata; si provò a rimetterla dritta nel lugubre candeliere: forte
sentiva dolersi la gola, la spalla, ed altre parti della persona. Volle richiamare
la mente sopra coteste vicende, ma non gli successe: anche il cervello gli
doleva informicolito, e davanti agli occhi gli andava in giro un diluvio di
faville. Spossato dalla fatica, attrito dal digiuno e dal dolore, il Conte
brancolando... a tentoni cercò il letto di foglie, e lo rinvenne. Il
ribrezzo che gli si era fitto nelle ossa lo persuase a mettersi sotto le pelli;
prese a sollevarle con mano tremante, quando una voce sepolcrale quinci uscendo
incominciò a favellare così:
- Venga il desiderato...
quanto mai tardasti! è tanto tempo che io ti aspetto vegliando!
Il Conte si drizzò su
le ginocchia intendendo a quello che era, e vide un corpo umano ignudo con la
faccia coperta da un bosco di capelli scarmigliati, e intrisi di sangue: in
mezzo al petto gli usciva fuori un manico di pugnale, e dalla ferita aperta gli
spicciava perenne un rivo di sangue.
- Sono la fanciulla di
Vittana, proseguiva la voce: se io ti odiai una volta e' fu perchè aveva
dato ad un altro fede di sposa; ma ora la morte mi ha sciolto dall'obbligo, e
mi sono accorta dal dono, che mi facesti, e porto qui in mezzo del cuore,
quanto tu sii più generoso amante. - Appressati, via... rimettiamo il
tempo perduto... a me tarda inebriarmi di amore.
E l'aborrita figura, tese le
braccia, a sè lo attirava con gesti provocanti. Il Conte rifuggiva
inorridito, e con tutte le forze rimastegli la respingeva. Invano però;
chè la femmina sottentrando lo ricinge alla vita duramente, e lo sforza
a giacere. Ora se lo preme delirante contro il seno, e col manico del pugnale
ammacca le costole e il petto del conte, che mugola pel nuovo spasimo, e poi lo
bacia, e lo ribacia con le labbra ingrommate di sangue. In breve mani, seno,
faccia, e capelli del conte grondano sangue: non poteva tenere gli occhi aperti
e la bocca senza che se ne sentisse piovere dentro caldi ruscelli, e accecarlo,
e soffocarlo. Finalmente il furore del succubo toccò il delirio;
raddoppia ardentissimi i baci e i singulti, e così stringe spietato fra
le braccia di ferro il vecchio conte, che questi sentendosi spezzare le ossa
del petto, singhiozzando per la insopportabile angoscia venne meno.
Innanzi che lo intelletto
tornasse a raggiargli nella testa, una confusione di strida e di guai dolorosi
mista di fragore di catene gli percuote le orecchie. La pelle delle ciglia
abbassata non basta a difendergli le pupille dal molesto bagliore. Apre
finalmente gli occhi, e vede la camera in fiamme: balza atterrito sopra il
letto, ed ecco in mezzo a cotesto fuoco comparirgli diversi sembianti in attitudini
disperate, che urlavano in modo da intronare il cervello:
- Allo inferno! allo inferno!
E dalla torma delle larve se ne staccò una tutta nera, se non che getti
di fuoco palesavano gli occhi, il naso, le orecchie e la bocca: le rughe del
volto erano segnate parimente da liste di fuoco. La larva appressandosi al
conte levò la mano fiammeggiante in atto di maledire, e profferì
queste parole:
- Io sono l'anima del
falegname di Ripetta. Maledetto per la morte atroce, che mi hai fatto soffrire:
- maledetto per lo affanno della mia moglie: - maledetto per la miseria di mio
figlio: - mille volte maledetto per lo inferno dove mi hai precipitato,
però che io morissi senza sacramenti, e la mia anima spirasse
bestemmiando Dio. -
Il Conte, comecchè nel
corpo si sentisse infranto da potere appena trarre il fiato, e nell'anima
avvilito, pure per abito, più che per intenzione di scherno,
favellò fiocamente:
- Poichè tu sei, per
quanto io credo, il primo corriere che il diavolo manda in questo mondo, fa' di
darmi notizie dello inferno...
- Le vuoi?... Porgimi la
mano...([122])
E siccome il Conte nicchiava,
la larva irridendo riprese:
- Ha paura il conte
Cènci?
E quegli gliela porse. Allora
la larva stese lo indice della destra, e lo appuntò in mezzo alla palma
del conte. Come dalle torcie di bitume sorrette obliquamente gocciolano stille
infiammate, le quali cadute sul terreno continuano ad ardere finchè non
si consumino, così dal braccio della larva scaturirono bolle di sudore
di fuoco, che stridendo si precipitarono giù pel dorso della mano, e pel
dito sopra la palma del Cènci. Urlò questi; e non potendo sopportare
l'ambascia, volle ritirare la mano per iscuoterne il fuoco, ma non potè;
chè la larva gliela tenne ferma dicendo:
- Ricevi le stimate del
demonio, vecchio ribaldo.
E il Conte, mugolando per
l'insoffribile crucciato, svenne da capo.
- Non ne può più,
esclamarono le larve; lasciamolo a mordere la terra; - e sì parlando si
dileguarono con grandissimi scrosci di risa.
Umana, o divina, cotesta
vendetta pungeva acerba davvero, e per quello che sembrava eravamo al
principio...
Lungamente stette privo di sensi
il mal capitato conte. Quando con un sospiro tornò in se si sentiva, a
refrigerio delle angosce che durava, detergere da mano soccorrevole il sudore
della fronte, e con abluzioni di acqua fredda temperare la vampa della febbre
che gli ardeva le vene: aperse gli occhi, e gli apparve cosa più delle
altre stupenda.
Beatrice, la sua figliuola,
sedutagli al fianco sopra le foglie, che dopo avergli lavato la faccia e
fasciato le ferite s'industriava a farlo rinvenire. Le sembianze angeliche
della fanciulla spiranti pietà, e il dolce atto di amore avrebbero
persuaso i più tristi e villani intelletti, lei essere mossa da impulso
dolcissimo di carità; e non pertanto il Conte nell'anima malvagia
immaginò subito che la sua figlia fosse complice dei suoi persecutori, e
quivi venisse a rampognarlo dei casi passati, e a godere del suo trionfo.
Beatrice, tostochè lo ebbe scorto ritornato in se stesso, gli si
accostava all'orecchio, e con voce soave gli domandò:
- Vi sentite la forza di
reggervi in piedi, Padre mio?
E siccome egli si
apparecchiava a risponderle, ella prontamente soggiunse sommessa:
- Non parlate, no... accennate
col capo.
Il Conte accennò
sì. La fanciulla riprese:
- Signor Padre, bisogna che vi
aiutiate con ogni sforzo; - qui ci vuole diligenza davvero, perchè io
non solo dalla carcere intendo condurvi alla libertà, ma dalla morte
alla vita. -
Potenti suonano sul cuore
della creatura umana le parole di libertà e di vita; imperciocchè
il Conte, malgrado gli acerbi patimenti, fosse tosto in piedi, esprimendo col
moto di tutte le membra: «andiamo!»
Lasciata la caverna entrarono
in una seconda molto più spaziosa della prima, e quivi, in mezzo alle
masserizie rubategli sparse a rinfuso per terra, vide, al chiarore incerto di
lumi ottenebrati da densa caligine, forse quindici o venti banditi addormentati
quale steso sul pavimento, quale appoggiato alle tavole. Quantunque egli usasse
infinito studio a camminare reggendosi sul braccio di Beatrice, pure, andando
com'ebbro per la debolezza e il dolore, investì dentro una tavola, e
rovesciò un vaso di terra, che cadendo si ruppe strepitosamente.
Gelò di terrore, che taluno si muovesse; ma girando gli occhi intorno
vide Olimpio e l'odiato garzone oppressi dal sonno, e vide eziandio la fiasca
dello keres col collo rivolto in giù sopra la tavola.
- Ah! bevvero il mio vino
medicato. Tardi si sveglieranno... qualcheduno mai più; - e lasciava il
braccio di Beatrice.
- Dove andate, signor Padre?
- Lascia che ne ammazzi a
conto almeno un paio: - e sì dicendo traboccava giù in terra, se
le mani pronte di Beatrice nol soccorrevano.
- Badiamo a salvarci, per
amore di Dio... vedete, che male potete reggervi in piedi;... e ripresolo pel
braccio lo traeva seco.
Continuarono il cammino, e
chiunque avesse potuto contemplarli avrebbe creduto vedere la pittura di
Raffaello nelle logge Vaticane, rappresentante la liberazione di San Pietro dal
carcere per opera dell'Angiolo. I banditi dormivano atteggiati come i soldati;
bella, e divinamente benefica incedeva Beatrice uguale all'Angiolo. La testa
del Conte talvolta, lo abbiamo già avvertito, sembrava quella di un
santo: però, considerati i suoi meriti, era giusto che non a quella di
San Pietro, sibbene all'altra di San Giovanni decollato si rassomigliasse.
Percorsa la caverna salirono
una viuzza scavata nel masso parallela alla porta, e dopo piccolo tragitto
riuscirono all'apertura, nascosta con diligente accuratezza sotto una folta
macchia di pruni. - Soffiava su que' poggi una brezza matutina mordente assai,
in ispecie per coloro i quali, come Beatrice e il Conte, uscissero da luoghi
caldi, e fossero leggieri di vesti: di più il Conte aveva la febbre
addosso, e non pertanto, assorti entrambi nel pensiero della fuga, o non la
sentivano, o non la badavano. Il sole non si era anche levato, ma l'alba serena
concedeva allungare la vista intorno alle cose circostanti, e a Beatrice venne
fatto di scuoprire immediatamente un cavallo, che legato a un albero pascolava
poco oltre i primi cespugli del bosco. - Andò; lo sciolse: mancava di
arnesi atti a cavalcare, e ciò nonostante gradito sempre a cagione del
padre, che poco a piedi poteva aiutarsi. Il Conte lo riconobbe pel cavallo
ch'egli aveva raccomandato a Marzio; e sebbene a stento, pure, aiutato dalla
figlia, gli riuscì salirvi: voleva ancora recarsi in groppa la donzella;
ma questa considerando la debolezza sua, la febbre che lo consumava, le dolenti
ferite, e il difetto di sella e di staffe per potersi sostenere, fece conoscere
al padre ch'ella così sarebbe stata impaccio, e pericolo alla fuga.
Ella era molto compassionevole
vista quella di una fanciulla delicatissima, con ogni maniera di barbari
trattamenti tormentata dal padre, immemore adesso delle ingiurie patite,
presaga, eppure improvvida degli strazii futuri, accesa di amore filiale
guidare il cavallo per quei greppi; e punto badando se i sassi di cui andava
aspro il sentiero ammaccassero i suoi morbidi piedi, avvertire poi che in essi
il cavallo non inciampasse, e le ferite del vecchio infermo per isquasso
repentino non s'inacerbissero. - Di tratto in tratto ella fissava il suo nello
sguardo del genitore; non mica per averne grazie, ma per vedere se gli si
sciogliesse punto la durezza del cuore, che a se e ad altri aveva fatto passare
tanti giorni pieni di affanno. Il Conte, chiuso nei suoi pensieri, teneva gli
occhi appuntati fissamente alla testa del cavallo, torbido, e sussurrante
accenti brevi, e feroci. Egli, che tanto aveva offeso nel mondo, senza
profondissima ira non sapeva concepire come altri avesse ardito di offenderlo,
e mulinava fra se disegni spaventevoli di vendetta... Ora, come il terrore di
provocare il conte Francesco Cènci non gli aveva trattenuti da mettergli
le mani addosso? - Ah! qual supplizio di cotesti miserabili avrebbe mai potuto
placarlo?
Già si accostavano al
luogo dove accadde l'aggressione, quando, con maraviglia pari allo spavento,
videro una mano di banditi sempre appostata, anzi pure con gli archibugi tesi
occupare il sentiero. Beatrice agitata da affannosa ansietà si ferma, il
Conte si riscuote, e, vista la mala parata, torna sopra i vecchi sospetti
interrogando:
- Mi hai tu condotto qui per
vedere la mia morte? Non era meglio lasciarmi uccidere dentro la caverna?
Beatrice solleva gli occhi al
cielo, e sospira; poi abbandonata la cavezza del cavallo, che teneva in mano
leggiera e spedita, corre colà dove vede comparire i banditi: ma prima
assai di arrivare sul luogo intendendo lo sguardo, si fu accorta dello inganno;
onde voltasi al padre lo confortava con voce e con cenni a venire risolutamente
avanti.
- Venite sicuro, chè
non vi è pericolo alcuno.
Il Conte, affidato dallo
aspetto e dalle parole di Beatrice, e dall'altra parte considerando come nulla
giovasse la diffidenza però che fosse tolta alla fuga ogni via, spinse
oltre il cavallo, ed egli pure si fu accorto ben presto come i banditi, a fine
d'incutere spavento, e per comparire quattro volte più numerosi di
quello che veramente fossero, avevano disposti pali lungo il ciglione della
via, e fasciati di paglia e di stracci, dando loro sembiante di banditi messi
alla posta. Percorso il sentiero incassato riuscirono allo aperto, e al sicuro;
però che, quando anche i banditi fossero stati in facoltà di
farlo, non avrebbero osato appressarsi a giorno alto di tanto alla Rocca
Ribalda popolosa di ben mille persone, di cui la più parte gagliarda per
le quotidiane fatiche, e armata tutta di archibugi e di scuri. - Qui il Conte
con accento severo ordinò a Beatrice:
- Dimmi con quale argomento tu
potesti giungere fino a me.
- Signor Padre, non sarebbe
meglio affrettare il passo adesso, e differire la storia a quando, ristorato
dei patiti disagi, voi foste in termine di porgermi più pacala
attenzione?...
- Tu... appena io manifesto la
mia volontà, sei usa a contrapporre subitamente la tua... e sì...
e sì che a questa ora avresti dovuto capire, che io aborro gli
oppositori. - Obbedisci. - Nelle mie mani la gente ha da essere come morta...
- Obbedirò - rispose
Beatrice levando gli occhi al cielo, quasi volesse dire: Signore, dammi
pazienza. - Marzio, mentre io era in carcere, mi raccontò la pietosa
strage della fanciulla di Vittana...
- Che? Come? Cosa favelli?
- Quando mi teneste chiusa in
prigione nel sotterraneo del palazzo di Roma, Marzio mi espose la morte di
Annetta Riparella di Vittana...
- Avanti...
- E mi disse ancora lui
esserle marito, voi avergliela ammazzata; epperò legarlo un giuramento,
fatto sul corpo della defunta, di vendicarla nel vostro sangue. A questo fine
essersi allogato in casa nostra; ma vista la vita infelicissima che voi ci
condannate a condurre, l'odio suo contro noi essersi convertito in
pietà, e non avere voluto commettere in casa l'omicidio di voi, secondo
che aveva disegnato, per timore che noi ne fossimo incolpati, e ce ne venisse
danno.
- E tu, sapendo questo, me lo
hai taciuto?
- Signore! E come poteva
dirvelo io? - In carcere, appena schiusa la porta mi gettavate lì acqua
e pane, e volgevate crucciato le spalle...
- Ma se volevi, potevi...
- E quando? Sul partire, due
volte io vi scongiurai ad ascoltarmi; voi mi cacciaste in carrozza, e, chiuso
lo sportello, vi poneste la chiave in tasca. Alla Ferrata, lo rammentate, mi
respingeste; per la via, ordinaste che non mi lasciassero trascorrere, e voi ve
ne andaste lontano... come dunque aveva a fare io?
- Tu sempre ardisci avere ragione;
- io ti dico che tu potevi avvisarmi: - chè se non partecipasti alla
iniqua trama in cuore, almeno non desiderasti prevenirla. Continua...
- Marzio partì la
notte, dopo avere posto in salvo Olimpio, che voi avevate condannato a morire
di fame...
- Dunque vive costui?... Ah
scellerati, come bene congiuraste a mio danno!... Continua...
- Al momento dello assalto
procurai badare attentamente quello che accadeva, e malgrado la diligenza usata
da Olimpio e da Marzio a mascherarsi...
- Marzio! Dunque nè anch'egli
è morto?
- Io lo ravvisai tra i
banditi; anzi guidatore dei banditi. Allora mi accorsi che non si trattava del
vostro sequestro soltanto, ma della vita; e quindi il mio discorso, e le larghe
promesse ai banditi perchè, tratti dalla cupidità a separarsi da
Marzio, noi lasciassero andare. Riuscito il tentativo a vuoto, mi calai
chetamente da cavallo e vi seguitai alla lontana, appiattandomi ora dietro a un
tronco, ora dietro a un cespuglio: giunti che furono i banditi al taglio del
dirupo di Tagliacozzo, ecco sparirmi di subito davanti agli occhi. Mi accosto
studiando il passo, e trovo l'apertura, comunque coperta con diligenza di
piante; scendo il corridore, che abbiamo percorso insieme, e ascolto uno
schiamazzo confuso di bestemmie, e di scherni. Io non sapeva allontanarmi, e
per altra parte non mi riusciva immaginare il modo di potervi sovvenire. In
questa udii Marzio che ordinava a un bandito di prender gente, e avviarsi a
Tagliacozzo; onde io mi ritirai di corsa, mettendomi di vedetta dentro una macchia.
Uscirono parecchi masnadieri, e per molte ore rimasi appiattata; a notte fitta
mi avventurai di nuovo nel sentiero che mena alla caverna; tesi l'orecchio, e
non udii rumore alcuno; sporsi la faccia, e al chiarore moribondo delle
lanterne vidi i banditi tutti addormentati; mi attentai entrare; palpitando
muoveva in punta di piedi; scòrsi una porta, pensai che voi foste chiuso
la dentro; levata la spranga apersi, e vi trovai svenuto sul pavimento. Dio ci
ha dato visibilmente soccorso, e voi siete salvo.
- Sta bene, disse il Conte. -
Intanto erano giunti alla ròcca. Don Francesco prima di porsi a giacere,
premendo le angosce che lo travagliavano, chiamò alcuni dei suoi servi,
e promise loro quattromila zecchini se gli avessero portato morti o vivi i banditi,
che avrebbero potuto prendere a mano salva nella caverna di Tagliacozzo.
*
* *
Dopo lungo sonno i masnadieri
si svegliarono. Orazio fu il primo a dire:
- E' pare che abbiamo legato
l'asino a buona caviglia: questo maledetto vino mi ha come impiombato il sangue
nelle vene. Vediamo un po' che cosa si ha da fare del nostro prigione: a me
sembra che quando avesse su l'anima anche il doppio dei peccati, ch'egli ha
commesso, meriterebbe ormai assoluzione plenaria.
- Sì, rispose Marzio,
egli è tempo che noi gli celebriamo la messa di requiem.
- Adagio ai ma' passi; prima
del requiem bisogna cavargli di sotto qualche cosa, come sarebbe un ventimila
ducati...
- Sicuramente, riprese
Ghirigoro, lo strazio che ha sofferto basta; e non potremmo rinnuovarlo senza che
ci restasse fra le mani.
- Davvero, continuò
Orazio, io credo avergli sfondato lo stomaco col manico del pugnale, che mi ero
adattato sul petto; ed anch'io mi sento indolenzito, perchè lo stringevo
con rabbia, e con paura: ve' come sono concio da quella criniera di cavallo
insanguinata; il sangue della vescica mi ha imbrodolato tutto, e mani, e seno,
e braccia...
- Io ti so dire, riprese
Olimpio, che senza le tue candele non saremmo venuti a capo di nulla; come
mordeva il tristo vecchio! Per certo ha da avere il diavolo in corpo. Deh!
Orazio, dì, o come hai fatto a comporre coteste tue infernali candele?
- E' sono segreti, che a me
per impararli costarono spesa e fatica. Uno astrologo Armeno, in Venezia, per
insegnarmi la ricetta volle che io gli contassi cinquanta ducati di oro...
- Non ti credevamo avaro,
Orazio. Se pretendi essere rimborsato, ti renderemo i ducati; ma fra noi ogni
cosa dovrebbe essere comune...
- Oh, io non l'ho detto mica
per questo! Uditemi, dunque, e imparate. Cotesta chiamasi mano di gloria,
e si compone così: taglisi primamente la mano sinistra allo impiccato, e
avviluppatala dentro un pezzo di tela nuova ripongasi in un vaso di terra, e vi
si lasci stare per quindici giorni coperta di balsamo di Arabia; poi ha da
esporsi al sole leone tanto che si secchi. Le candele si fanno di grasso
d'impiccato, di cera vergine, e di sesamo di Lapponia. Queste candele, messe
fra le dita della mano di gloria, hanno la virtù di stupidire la gente a
farla travedere con apparenze piene di terrore([123]).
- E certo esse hanno
istupidito anche noi, perchè io pure mi senta la testa tutta confusa...
- Sarà; ma io temo che
quel vino di Keres, che abbiamo bevuto, fosse medicato...
- Se Marzio anch'egli faceva
la sua parte sarebbe stata compita la festa: - dì, Marzio, perchè
non sei venuto?...
- Io? Perchè mi prese
un furore di stringergli il collo, e strozzarlo senz'altri argomenti; e
così la mia vendetta non era piena, e voi rimanevate defraudati del
riscatto. - Orsù, ormai mi tarda lo indugio: andate ad estorcere a quel
dannato la moneta che volete; poi, secondo il patto, lasciatelo in mia
potestà.
Qui si fecero a rinnuovare
l'olio nelle lanterne, e si accostarono alla porta della prigione: trovarono la
spranga levata; la prigione vuota.
Alzarono un urlo di rabbia, al
quale dalla bocca della caverna rispose un grido di spavento. Entrò un
bandito vacillando, che aveva rilevato una ferita nel fianco, e disse tutto
angoscioso:
- Siamo sorpresi... fuori, o
ci ammazzano come volpi nel covo.
I banditi afferrarono le armi,
e si affrettarono a uscire dalla caverna.
Questo dialogo spiega i
tormenti, che avevano fatto subire al Conte. La mano e le candele di gloria
erano superstizioni, alle quali prestavano piena fede in cotesti tempi. Gli
apparecchi per cura di Marzio disposti nella caverna, e il terrore avevano
fatto credere paurosamente soprannaturale una scena da giocolieri.
CAPITOLO XX.
LA NOTTE SCELLERATA.
. . . . Con
mano empia tentava
I misteri di
amore in quelle membra,
Ma lo respinse
un Dio che lei vegliava.
Il Dio che pura
se la tolse in cielo,
Come quando
ella uscìa dal suo pensiero.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Ecco come si ammenda il Conte
Cènci.
Sparsa le bionde chiome, con
la fronte volta al cielo, le braccia abbandonate, genuflessa sul pavimento sta
Beatrice Cènci dentro una stanza della Rocca Petrella. Alla bellezza, e
all'atto rassomiglia la inclita statua della Fiducia in Dio, nella quale lo Artefice
della «terra dei morti» ha infuso un'anima, ch'egli stesso non aveva([124]).
La stanza in cui si trova
è una prigione: - ormai la sua vita sembra un tristo cammino, del quale
le prigionie sieno le colonne milliarie per distinguerne gli spazii. L'aspetto
della stanza apparisce strano a vedersi: splendido è il letto per
cortine ampissime di damasco, e cornici dorate; ricopre il pavimento uno arazzo
rappresentante Enea, che ascolta i presagi maligni dell'arpia Celeno: sopra una
rozza tavola di albero stanno vasi e bacili di argento: le pareti squallide, e
tracciate col carbone dalle sentenze, che la tristezza, o l'ira, o il rammarico
spremono dal cuore del carcerato... stille di essenza di angoscia, uscite fuori
per la gran forza dello strettoio della necessità. -
Il cielo si contemplava per
breve tratto traverso una ferrata, davanti alla quale il Conte Cènci,
quel perfido ingegno, aveva fatto inchiodare uno assito a modo di tramoggia;
sopra la tramoggia ordinò adattassero una graticola fitta di filo di
ferro. Nè qui si fermava la vile crudeltà del Conte Cènci;
chè col declinare del giorno procurava calassero sopra la tramoggia una
ribalta circondata intorno da festoni di tela, togliendo a un punto la luce del
cielo e l'aria, conforto supremo alle viscere straziate. La carcere allora
pareva chiudere la bocca, ed ingoiare intera la sua vittima, come fece di Giona
la balena([125]).
Povera Beatrice! Il cielo, che
tu amavi cotanto; il cielo, consapevole dei gentili pensieri dell'anima tua; il
cielo, da cui attingevi conforto negl'ineffabili dolori; il cielo, che sovente
chiamavi in testimonio della rettitudine del tuo cuore; il cielo, che
desiderando contemplavi come la patria libera del tuo spirito divino, adesso o
ti si mostra traverso le sbarre e le graticole di ferro, o ti si toglie affatto
nella guisa, che Dio vela la sua faccia ai dannati nelle pene eterne dello
inferno.
Il sole getta obliquo lo
sguardo là dentro; i suoi raggi pesano, ed ei si affretta a ritirarli,
quasi per paura che gli rimangano avvinti, e presi alla rete delle graticole([126]).
Se durante la notte l'aria
viene tolta a Beatrice, durante il giorno non gliela ministrano a larga misura;
anzi sottile come il cibo dentro città bloccata. Se il Conte
Cènci avesse potuto dargliela chiusa in un vaso senza mai sollevare la ribalta,
oh come volentieri lo avrebbe egli fatto! imperciocchè gli ultimi casi
lo avessero reso alquanto pusillanime; e quando la codardìa ha
sussurrato nell'orecchio alla crudeltà: trema, non vi ha cosa o
tanto assurdamente spietata, o tanto atrocemente ridicola, che queste rifuggano
da mettere in opera.
Beatrice si affaticò
sovente arrampicarsi fino alla parte superiore della inferriata, tentando
quinci scuoprire o cima di albero o vetta di colle, che le fossero all'anima
come un ricordo della bella natura: e quantunque tre, quattro volte e sei
rimanesse delusa, non per questo cessò ritentare; perocchè sia
amaro rassegnarsi alla perdita dell'aria, della luce, e della vista del creato,
che Dio benigno concesse all'animale più abietto. Dotata d'anima di poeta,
capace di rendere eco dalla sua più sottile e recondita fibra alle
sensazioni del bello, almeno per le fessure s'ingegnò vedere i colli
azzurri, le verdi vallate, il fiume, boa immenso delle acque, che serpeggia per
la pianura, ma non le fu dato. Malignamente invidioso di quell'aura di
refrigerio, il Conte più volte il giorno, e più sovente nelle ore
matutine, mentre un po' di sonno le rinfrescava il sangue infiammato,
mandò fabbri, che sospesi a corde aeree (non veduti da Beatrice)
martellavano, conficcavano, ristuccavano, ristoppavano, calafatavano,
tormentavano insomma con quel fragore continuo, che è proprietà
dello inferno; - onde il capo l'era diventato come infranto, e in qualsivoglia
parte, comecchè leggermente, lo toccasse si sentiva dolere per tutta la
persona.
Oh quanto riso di cielo balena
di là da coteste luride tavole, oh come la natura esulta nella sua
bellezza oltre cotesto sozzo assito! Maledetta la mano, che si pone fra gli
occhi dell'uomo e la natura! L'anima si strugge di desìo; e se vede
trapassare un uccello, si posa sopra la sua ala e gli raccomanda di portare per
lei un saluto ai cari parenti, e ai luoghi della sua infanzia.
O nuvoletta bianca, che
traversi questo palmo di cielo che mi è dato fruire, io non vedrò
quando arrivi a baciare la luna; o stella cadente, io ti ho veduto muovere, ma
non posso vedere dove vai a finire; o foglia, che voli sopra l'apertura del mio
carcere, dove terminerà di trasportarti il vento? Farfalla, le rose che
desideri sono lontane di qui; io non vedrò quando, innamorata, tu
accarezzerai con l'ale il tuo fiore diletto... No, viva Dio; per negare la
vista di queste immagini non basta che la crudeltà e la paura
avviluppino nello loro spire un'anima maligna, come i serpenti di Laocoonte;
bisogna che al lurido sabbato dei suoi pensieri intervengano ancora la
superstizione e la invidia: la prima, furia di fuoco che osò seppellire
vive le tenere fanciulle, le quali, odiati i riti infecondi di Vesta,
sagrificarono a Venere alma genitrice della Natura; la seconda, furia di
ghiaccio che accecherebbe il genere umano, caccerebbe dal cielo l'occhio del
Sole, vorrebbe insano anche Dio perchè essa è cieca, e folle.
Lo insetto dalle ali dorate
penetrò in questo sepolcro di vivi, ma presto ne usciva cruccioso
ronzando: «dalle cure del carcerato non si fa mèle, ma tossico».
L'uccello per un momento ha posato i piedi sopra queste graticole; ma è
fuggito via gittandovi dentro un pianto, come se intendesse dire in sua
favella: «tu sei infelice, ed io non posso aiutarti».
Dentro il carcere, dietro la
infame tramoggia, Beatrice invece di ricevere le impressioni esterne, e
consolarsi contemplando, o ascoltando: - invece di blandire la memoria
implacabile, e sopire la febbrile attività del pensiero riducendosi in
condizione, più che potesse, passiva, ha dovuto all'opposto suscitare le
fiamme divoranti della immaginazione; alimentare la ferita.
Ha sentito, quando sparisce
l'allegrezza del giorno, e la crescente mestizia delle tenebre persuade
ricorrere per consolazione alla Vergine dei cieli, - lontano lontano alternarsi
il canto delle litanie dinanzi la immagine della Madonna dei Dolori, che sotto
il suo gran manto celeste ripara tutto il genere umano (tranne quelli che fanno
piangere), ma non ha potuto mescolarsi con le altre donne alla santa preghiera.
- Lei percosse a vespro la voce rozza, ma lieve come l'aura dei poggi, della
montanina, che riduceva a casa le capre, e non potè conoscere
dall'alacrità degli occhi rivolti frequentemente in giro, dallo incesso
irrequieto, dal simbolo dei fiori intorno al cappello se pei suoi amori correva
la stagione dei sospiri, o quella delle lacrime. - Su l'alba udì scoppii
di archibugi, e latrati di cani, e grida di uomini, e non potè seguitare
lietamente curiosa le vicende della caccia, o sovvenire ai feriti, se i
masnadieri avevano assaltato gl'improvvidi viaggiatori. La campana suonò
invano alla messa; invano ai funerali: poca cura ci punge pei morti ignoti; e
recitarci con le proprie labbra il de profundis è cura troppo
molesta. - Per dio! A tale l'aveva ridotta il vecchio maligno, che ella
veggente non sapeva che cosa farsi della luce degli occhi; ella viva non sapeva
in che cosa adoperare la vita. - Ma tempi di ferro erano cotesti, e Francesco
Cènci per cupa scelleraggine singolare, non raro.
Nè meno turbavano la
desolata il passo della scolta, che per lo aperto verone le camminava sopra la
testa, e il frequente gridare all'erta, e lo squillo della campana ogni quarto
di ora, - conciosiachè noi tutti, è vero, sappiamo che il Tempo
va e fa andare, cacciandosi davanti senza posa, e giorni e secoli verso la
Eternità, a guisa di mandriano che affretta gli armenti al presepio
quando minaccia tempesta; - ma starci seduti sopra la riva a vedere inerti
sparire veloce il torrente della propria esistenza, è troppo acerbo
travaglio. Nel tumulto della vita affetti, sensazioni e pensieri ci fanno
dimenticare troppo più spesso che non conviene la fuga della nostra
vita; ma nel carcere sentirsi misurare i minuti che passano dall'orma del
carceriere sul capo, è supplizio che supera la immaginazione. Tu provi
quanto tormenti acerbo il Tempo, allorchè deposta la falce prende la
lima, e lento, continuo, implacabile ti sega il cranio; e quanto sia angoscioso
contemplare speranze, ingegno, anima e corpo disfarsi in atomi, e cadere come
limatura di ferro ai tuoi piedi.
Beatrice nel volgere gli occhi
al cielo non prega, e non rampogna; sembra piuttosto che interroghi: «Dio! mi
hai tu abbandonato?»
Le sue parole furono uguali
alle estreme che profferì Cristo sopra la croce, prima di declinare il
capo, e spirare.
Io conosco bene la mente
selvaggia di uomini superbi, che le avrebbero risposto così: «E chi ti
ha detto, folle, che Dio protegge, ed abbandona? Dio non abbandona, nè
protegge. La forza misteriosa della sua azione, che si manifesta con la
moltitudine delle cose create, getta assidua nello abisso pugni d'arena di oro,
e cotesta arena sono stelle. Egli le costringe a moti diversi secondo la legge
della loro durata. Se la polvere di questi mondi, animata o no, avvalla o
s'inalza, seppellisce sotto di se lo esercito di Cambise([127]), o si lascia arare,
zappare, e si sottomette a produrre frutto: se piange, o ride, o sta immota
superficie di camposanto: se si agglomera in mastodonte, o si sperpera in
formiche: se si trasforma in penne di aquila, o nelle fibre inerti del
tardigrado, egli non cura questo, e non lo può curare. Ai fini della
natura basta che nulla giaccia infecondo, o si disperda sterilmente; poi, che
aumentino mille avvoltoi, e diminuiscano dieci mila colombe poco le importa.
Immensa macina che infrange reami ed acini, imperatori e lumbrichi per crearne
nuovamente lupi, o pecore, od altri animali. La dottrina della trasmigrazione
insegnata a Pittagora dai Sapienti di Egitto, una volta presa a scherno da
insensati filosofi, è cosa tanto evidente, che sembra impossibile come
possa essere stata impugnata. Difficile è spiegare quello che non si
comprende, e non si può intendere; follìa disprezzare, o negare
ciò che supera la nostra intelligenza; ma che il Supremo Fattore abbia a
tenere conto, non che della specie, dello individuo, non sembra che possa
dirittamente credersi. La natura recasi in mano l'universo, e lo soppesa; se
torna il volume non le importa la forma.
«E poichè gli uomini
sortirono questa vita e questa forma senza chiederle, e molti ancora senza
desiderarle, perchè le non si possono rassegnare senza offesa della
natura? Singolari ella fece le vie del nascimento, infinite quelle della morte;
sicchè può ritenersi, che a lei piaccia la vertigine delle
trasformazioni. Se gli orecchi nostri potessero udire la voce della natura, noi
sentiremmo ch'ella predica sempre ai mortali: =Ospite, io non ti trattengo a
forza alla mensa della vita; tra le bevande, che io ti appresto davanti, scegli
quella che meglio ti talenta; e se ti piace l'oblìo, bevilo, e vattene=.
«Veramente, come se l'uomo non
fosse presuntuoso abbastanza, gli hanno dato ad intendere, e la sua superbia
glielo ha di leggieri persuaso, sentinella infedele non poter disertare il
posto al quale la Provvidenza lo commise; lui essere re dell'universo; la
favola di Atlante adombrare il simbolo dell'uomo chiamato a sostenere il mondo
sopra le sue spalle. Il sole fu appeso nel firmamento per riscaldarlo, la luna
per illuminarlo, le stelle per divertirlo nelle notti di estate. - Fin qui
pazienza; le adulazioni da un lato, e la superbia dall'altro erano follemente
innocenti; ma diventarono crudeli quando gli dissero: =tutte le creature che
vedi furono fatte per te=. Allora il vanaglorioso spietato stese la mano sopra
gli enti che hanno anima e sangue, e prese a vivere della loro morte, ed
osò senza ribrezzo convertirsi in sepolcro palpitante.
«Ora questo vampiro nudrito di
superbia s'irrita di ogni lieve sciagura, non vuole sopportare le
infermità, aborre la morte. Cadono i cedri del Libano, caddero le querce
secolari delle foreste druidiche; scomparvero città, popoli, imperi, e
perfino rovine d'imperi. Nel cielo aprono, e chiudono del continuo le palpebre
i pianeti, e questo verme petulante presume vivere eterno, e felice - satrapo
della natura. - Mora come fa morire. Si rassegni al fato comune; torni senza
mormorare alla terra donde è nato: polvere è, polvere ritorni».
O filosofo dalla mente
selvaggia! io conosco questi argomenti, e il mio intelletto li comprende; ma
questo cervello che pensa, questo cuore che soffre, tutto il mio ente, che si
agita, non si appaga di sermoni e di sofismi. Poichè la natura infuse
nell'uomo lo amore, anzi la smania della propria conservazione, non può
averlo legato alla vita, come Cristo alla colonna, per dargli
seimilaseicentosessantasei battiture. L'uomo ha diritto di essere felice, e
nella natura si hanno a trovare facoltà per diventarlo; che se
così non fosse, l'uomo avrebbe ragione di volgersi al cielo, e
domandare: «Dio! perchè mi hai creato?»
E questa domanda umile
tornerebbe assai più terribile al trono di Dio, che la minaccia di
Encelado, o la ribellione di Lucifero.
Se tali fossero i pensieri,
che tennero occupata la mente della donzella finchè stette genuflessa,
io non saprei; ma certo doverono essere strazianti, però che quando si
rilevò da terra come spossata lasciasse cadersi sul letto.
E il sonno le fu meglio amico
della veglia.
Sognò il mare Jonio
là dove il cielo e l'acqua sembra che vengano a contesa di limpidezza,
di azzurro e di luce; imperciocchè se il cielo ostenta i suoi fuochi di
stelle, le acque sfolgoreggiano di fosforo; e se il cielo si ammanta di nuvole
di madre perla, il mare si vagheggia nel dorso dei suoi delfini dalle scaglie
di mille colori: gli abitanti dei due elementi paiono colà bramosi di
stringere parentela fra loro; lo smergo e lo alcione scendono a battere l'onda
con le ale, e vi si posano in grembo come dentro al nido; all'opposto i pesci volanti
si sollevano descrivendo leggiadre parabole nell'aria con le pinne verdi e
dorate. Il Creatore volge uno sguardo al cielo, ed uno al mare; e vedendoli
entrambi stupendamente belli, ride compiacendosi della opera sua: cotesto
sorriso si spande dintorno, ed empie di allegrezza ogni cosa.
In mezzo al mare sorge il
promontorio di Santa Maura, l'antica Leucade, come un'ara dedicata allo amore
infelice. Quinci soltanto Saffo, la derelitta, spense nel mare sottoposto
l'amore a un punto e la vita; e le acque memori nei pleniluni sereni lungo le
spiagge ricurve si lamentano in suono di lira([128]).
A lei parve trovarsi sopra
cotesto scoglio sola, e abbandonata da tutti. Lungi di Sotto vedea le vergini
oceanine intrecciare carole, e instituire giuochi per la chiara faccia delle
onde. Di tratto in tratto le fanciulle a lei si volgevano, e lei chiamavano co'
cenni onde ai loro cori si mescolasse. Allo improvviso un rombo di ale sopra il
suo capo le fece levare gli occhi in alto, ed ecco apparirle, in sembianza di
Amore in traccia della rapita Psiche, il biondo Guido, l'amico del suo cuore,
che scendendo le tendeva le braccia: ella con impeto grande alzò le sue,
e le loro labbra s'incontrarono...
Canova ritrovò la
immagine di quel sogno quando scolpì il gruppo divino di Amore e Psiche.
Beatrice si desta: teneva
tuttavia le braccia sollevate; ella le lascia cadere di peso su la coltre, e
sospira. Crucciosa di essersi lasciata illudere da un sogno, si chiude sotto i
lini; il seno candidissimo si affonda fra le piume, e i biondi capelli si
spandono pei guanciali. Irridendo se stessa ella diceva:
- Misera! Ormai avresti dovuto
imparare a prova come i contenti per te sieno sogni, le sole amarezze vere.
Guido con braccia di carne potrà rompere la verga ferrea del destino? -
E forse a questa ora gli sarà venuta in fastidio la vittima segnata
dalla sventura. Poveretto! Io non lo vorrei mica biasimare: no davvero,
perchè il contagio allontana il padre dal figliuolo, il marito dalla
moglie, senza che per questo ne venga loro la taccia di cattivo cuore. Ora lo
infortunio non s'insinua più inevitabile, e più fatale dello
stesso contagio? Ed io come potrei in coscienza desiderare, o pretendere,
ch'egli si sprofondasse giù nel precipizio, dal quale nè uomo
nè Dio pare che possano, o vogliano salvarmi! - Volga il suo affetto su
donna meno infelice di me, e sia sposo avventuroso... e padre... io glielo
desidero... ah! no... sì - io devo desiderarglielo con tutta l'anima: -
ma intanto ella bagnava l'origliere di molte lacrime involontarie.
Adesso si riprova a confortare
col sonno lo spirito affaticato; invano però, chè agli occhi
vigili sotto le chiuse palpebre apparisce muovere dalle lontane mura di Roma un
punto oscuro, e avanzarsi, avanzarsi per piani e per colline come polvere
sospinta dal turbine: cotesto punto nello accostarsi assumeva sembianza umana;
si avviluppava dentro una cappa bruna; teneva il nero cappello abbassato su le
ciglia: arrivato sotto la torre della Rocca Ribalda, ecco al raggio della luna
mostrarsi tutto quanto egli era aitante e bello, e chiamarla con la mano. Il
cuore con lo affrettare dei palpiti le aveva svelato chi fosse lo straniero.
Giù a piè del
colle, accanto al torrente delle acque perenni dove la forra si chiude
più ombrosa, mezzo celata tra le fronde degli olmi s'innalza una
cappelletta ufficiata da certo santo Eremita, a cui veruno afflitto cuore
ricorse mai invano. Egli, richiesto, consente ad unire in matrimonio Beatrice e
Guido. Ella tende la destra, e maravigliando forte non essere prevenuta, chiede
la destra di Guido; ma questi si ricusa, e la tiene nascosta sotto la cappa.
Ella insiste: alla fine arriva a impadronirsene; la sente umida, e viscosa:
ritira la sua spaventata, e se la vede, ahimè! intrisa di sangue: che
sangue è questo? dimmi.... Guido sparì, sparì lo Eremita;
ella si trova circondata da uno inferno di tenebre.
*
* *
Un lieve tocco sospinge la
porta; ecco si muove silenziosa sopra i cardini: prima il capo; - poi il petto;
- finalmente tutta la persona apparisce di un uomo canuto, avvolto dentro ampia
zimarra, col tòcco rosso sul capo. - È il Conte Cènci
strascinato dal destino. Tende l'orecchio... ascolta... l'alito di Beatrice.
Appoggia il corpo intero sul piede di dietro, muove cauto l'altro, e sempre va
innanzi; si ferma in fondo al letto.
Beatrice ha chiuso gli occhi a
sonno travagliato, e agitandosi irrequieta si è scomposta la chioma, che
le sta vagamente sparsa pel seno divino.
Egli la guarda. La vista di
forme così stupendamente leggiadre rallegra l'anima; chè rosa e
donna, quanto meno si mostrano tanto più appaiono belle...
Che ardisce costui? Non basta,
ed è anche troppo, vedere quel seno che palpita?
Prassitele scolpì due
Veneri: una velata, l'altra ignuda. Quei di Gnido comperarono la nuda,
modellata sopra le membra di Frine; per la qual cosa ritenendo ella più
della cortegiana che della dea, venne laidamente contaminata, e la religione
della divinità si dipartì dal simulacro; ma i cittadini di Coo
acquistarono la Venere velata, sicchè n'ebbero fama di pii, e lunga si
produsse la devozione pel tempio di loro. Quivi convennero tutti, giovani e
vecchi; i primi perchè la vedevano pudicamente leggiadra; gli altri
perchè leggiadramente pudica([129]).
Il truce vecchio stende le
scarne braccia, e trae a se cautissimo i lini. I tesori di coteste membra appaiono
manifesti... di coteste membra, che lo stesso Amore avrebbe velato con le sue
ale agli occhi di uno amante.
Cheta, cheta la porta della
stanza torna di nuovo a volgersi sopra gli arpioni: entra un altro uomo, e si
ferma: - guarda... stupisce... e non ravvisa il Conte al fioco chiarore del
lume, che veglia fra loro, egli solo innocente. Il Conte lussuriando per ogni
fibra, trema; gli occhi gli si aggrinziscono a modo di vipera: una striscia di
fiamma di etico gl'imporpora il sommo delle gote; lascia cadersi giù
dalle spalle la zimarra, e appaiono le pallide membra del vecchio... piega un
ginocchio sopra la estrema sponda del letto, e delirante si curva protendendo
le mani...
La grande rabbia di amore
sconvolge l'anima di Guido; però che il nuovo venuto sia Guido: prima di
volerlo si è trovato nella mano ignudo il coltello. - Il Conte intende
un fremito alle spalle, e volge la testa. Guido ha scagliato dentro gli occhi
del vecchio un baleno, ch'è morte. Il Conte atterrito lascia le tende, ma
Guido lo arriva con uno slancio... lo ghermisce per le chiome incanutite nel
delitto. - Il Conte apre la bocca con una contrazione convulsa... prega egli, o
minaccia? Invano: il ferro fulminando gli squarcia la gola, gli rompe le
arterie, e così profondo gli penetra nel petto, che non può
profferire la parola. - Vacillò... rovinò... percosse aspramente
sul pavimento gorgogliando dalle aperte fauci sangue a rivi, e un
borbottìo confuso. -
Beatrice mette un gemito, apre
languidi gli occhi... Dio del cielo! non è illusione adesso... gli ferma
nel volto dello amante desiderato. L'Amore con le mani di rosa schiuse i suoi
labbri al più gentile dei sorrisi - ma cadde su l'anima dello amante
come sopra statua di bronzo... egli la fissò inferocito, e col pugnale grondante
le accennò il caduto.
Il sorriso morì su i
labbri di Beatrice siccome muore il bacio, che sul punto di svegliarci mandiamo
ad una visione notturna. Pure la donzella non conosce ancora tutti i misteri di
cotesta notte scellerata. Chi è mai quel caduto, e che fa? Egli tiene
riversa sul terreno la faccia, non fiata, e scarso là giunge il raggio
della lampada. Beatrice ha già mosso le labbra per interrogare; Guido ha
scorto, comunque visibile appena, cotesto moto, e lo ha temuto... guarda lei...
guarda il moribondo; - ella segue con gli occhi lo sguardo di Guido sul caduto,
- poi torna a sollevarli su l'amante... egli è sparito...
Una luce funesta ha balenato
su l'anima di Beatrice. Immemore del verginale decoro ella balza dal letto, e
non rifugge, o non sente di lordare il piè nudo nel sangue, di cui
è inondato il pavimento. Appoggia le mani su i capelli del moribondo, -
gli volge la testa... è suo padre!- -
Egli agita lieve lieve la
bocca nelle estreme convulsioni; i suoi occhi stanno orribilmente fissi nella
immobilità della morte. Beatrice si rialza, come molla che scatti, con
le braccia tese, curva alquanto della persona, impietrita di spavento: pareva
percossa da catalessìa. Gli occhi del Conte si dilatano, si avvivano -
mandano uno sguardo lungo - poi diventano colore del piombo... si spengono...
è passato.
La mano della
Necessità, di cui le dita erano rabbia, spavento, amore, furore, e
pietà, tese orribilmente l'arco della intelligenza di Beatrice; e se non
lo ruppe, lo stupidì. La fanciulla, immemore di se, stava ferma senza
pensare, senza sentire. - Guido, come lo agita il demonio, scende tempestando
le scale, traversa la sala dove si trovavano raccolti la signora Lucrezia,
Bernardino, Olimpio e Marzio; e, scagliato lungi da se il coltello sanguinoso,
grida:
- È morto! - È
morto!
- Perchè non lasciaste
a noi la cura di saldare i nostri conti vecchi col Cènci? - interrogava
Olimpio.
E Marzio, freddo, soggiunse:
- Questo è caso da
assicurarcene bene([130]);
- e s'incamminò verso la prigione.
- Singolare natura umana! -
Marzio, capace di ammazzare il Conte con la medesima devozione con la quale
avrebbe recitato il rosario, appena ebbe visto la nudità della donzella
si ritrasse verecondo, scese, e ne avvisò sommesso la matrigna; la
quale, superando il ribrezzo, si attentò di entrare nella stanza del
delitto. Si fece presso a Beatrice; la chiamò a nome; la scosse; e non
ottenendo da lei risposta alcuna, la ricoperse con la zimarra caduta al Conte,
e presala per mano la trasse via. Ella lasciò condursi, non oppose
resistenza alcuna al lavacro dei piedi insanguinati, alle fregagioni di aceto,
allo adagiarla sul letto: guardava stupida, e non profferiva parola. Conobbero
essere necessario cavarle sangue; ma non possedevano arnesi adattati, e il modo
di adoperarli ignoravano: chiamare il barbiere parve pericoloso, e si rimasero.
Allora Marzio, secondo il suo
feroce proponimento, entrò nella stanza seguitato da Olimpio,
squassò per le chiome il cadavere, e tratto fuori lo stiletto glielo
spinse dentro l'occhio sinistro finchè la lama vi potè affondare.
- Ora mi sono assicurato!
- Non ve n'era mica di
bisogno, osservò Olimpio mettendo le dita nella gola squarciata del
Conte - vedete mo' che buca! - Potrebbe uscirne l'anima anche in carrozza. Per
un'anima questa è propriamente porta da cocchiere. Adesso pensiamo un
poco, che cosa dobbiamo farci di costui; - e dette un calcio nel capo al cadavere.
- Portiamolo giù nel
giardino, e mettiamolo sotto terra...
- Avete perso tutti il
giudizio: - non basta seppellirlo; bisogna innanzi tratto farlo morire in
maniera, che abbia senso comune. - Venite qua; prendetelo pei piedi; io lo
prenderò pel capo, e trasportiamolo sul terrazzo che dà sul
giardino: ho notato che questo terrazzo mena alle latrine, ed in parte manca di
parapetto. Il povero gentiluomo, levatosi per certo suo bisogno, si era
condotto notte tempo al destro senza lume... guardate che imprudenza! Forse si
era aggravato di cibo a cena, e certo poi di vino più del consueto...
Vedete la fatalità! disgraziatamente ha messo il piede in fallo, ed
è caduto...
- Be', be', va d'incanto. Ma
l'uomo cadendo da un'altura si rompe il collo, si spezza il cranio, e non
riporta ferite operate da un ferro tagliente, ed acuto.
- Ed anche a questo è
stato provvisto: lo getteremo sopra gli alberi; poi gli introdurremo la punta
dei rami nelle ferite, e così basterà. Credete voi, o Marzio, che
vorranno andare a cercare il nodo nel giunco? Chi è morto è
morto, e salute a chi resta.
- Qualche volta i morti
ritornano: però la proposta mi piace.
E come aveva suggerito Olimpio
eseguirono appuntino.
Siccome quando donna Lucrezia,
mediante una finestra terrena della rocca che mancava d'inferriata, mise dentro
al castello Guido, Marzio ed Olimpio era notte fitta, e la famiglia giaceva
tutta nel letto, non furono visti da persona viva; così deliberarono
uscire per la medesima via com'erano entrati. Guido venuto a consultare sul
modo di porre in libertà Beatrice, poichè si era trovato ad
uccidere il Conte, decise partire senza indugio per Roma, Marzio e Olimpio
s'incamminarono nella stessa notte ai confini del regno, per quindi ridursi in
Sicilia, o a Venezia: ebbero di presente duemila zecchini, oltre la promessa di
futuri favori e la grazia, che per la parte di casa Cènci e di
monsignore Guerra non sarebbe loro venuta meno giammai.
Guido arrivato alla osteria
della Ferrata ordinò gli sellassero subito il cavallo; la qual cosa
essendo stata fatta secondo il suo desiderio, l'oste, che lo aveva osservato
sottecchi con quei suoi occhi maligni, nel reggergli la staffa gli
favellò:
- Oe, gentiluomo! Ieri l'altro
mi diceste che andavate su alla Rocca Ribalda per farvi la villeggiatura del
Settembre: o che vi siete mangiato in due desinari un mese intero?
Misericordia! Questo è appetito!
- L'uomo propone, Dio dispone.
- Direi piuttosto, che siate
andato a recitare qualche tragedia: avete fatto la vostra parte, ed ora tornate
a casa.
- Che intendete significare
con queste parole?
- Nulla; se non che avete la
manica del giustacore insanguinata...
Guido guardò atterrito
la manica, e conobbe che l'oste diceva la verità; onde rivoltosi a lui,
con mal piglio gli disse:
- Sareste voi il bargello di
campagna?
- Mi maraviglio dei fatti
vostri, gentiluomo. Io sono compare di un certo Marzio, che immagino voi
dobbiate conoscere un poco; e faccio come da padre a questi poveri figliuoli
del bosco: sono nemico naturale della miseria, ma onorato. Tutto questo ho
voluto avvertirvi perchè, al bisogno, facciate caso dell'oste della
Ferrata.
Guido entrò da capo
nella osteria, e quivi troppo più tempo si trattenne di quello che fosse
necessario a lavare il giustacore. Nel separarsi dall'oste egli gli strinse
familiarmente la mano, e gli sorrise come se fosse stato suo domestico antico.
Strane amicizie fa contrarre il delitto!
Il giorno seguente, che fu il
dieci Settembre, la Rocca Petrella risuonò di pianti e di gemiti, i
quali echeggiarono tanto più romorosi quanto meno sinceri. Gli abitanti
del paese e i popoli del contado dintorno accorsero a frotte per vedere lo
spettacolo. Il cadavere del Conte, non senza consiglio, fu lasciato lunga pezza
confitto dentro i rami di un sambuco. Le comari del vicinato, stando in circolo
intorno a cotesto albero con la faccia levata in su, contavano le più
strane novelle del mondo. Chi diceva che quel vecchio peccatore, recandosi al Barlotto
di Benevento per rendere obbedienza al diavolo, si era levato in aria a cavalluccio
su di un manico di granata, il quale, come sapete, è cavalcatura
ordinaria degli stregoni; ma sul più bello essendogli venuto di nominare
Gesù, il manico di granata gli si era rotto fra le gambe precipitandolo
a terra da un'altezza di quattro miglia e mezzo avvantaggiate. Altre poi
sostenevano che fosse scaduto il termine della scritta, con la quale si sapeva
di certo, ch'egli avesse venduto la sua anima al diavolo; e questi, come di
giusta, gli era comparso per prenderne possesso. Confermava in questa opinione
il vedere quel corpo appeso al sambuco, che, come la savina, il noce, ed altri
alberi parecchi, è pianta consacrata allo spirito maligno: se non che a
indebolirla usciva la levatrice della Petrella, la quale assicurava come
andando fuori di casa per affari del suo mestiero aveva udito un grande
scatenìo per l'aria, e tutti i gatti miagolare su i tetti, e poco dopo
un barbagianni averle spento la lanterna con un colpo di ale: - cose tutte che
stavano a significare, che qualcheduno in quel punto passava per aria. Insomma
tornerebbe fastidioso di troppo raccontare tutte le novelle che solevano
mettere fuori a quei tempi intorno a simili casi, le quali venivano credute non
solo dalle femminucce e dalle genti grosse del contado, ma sì ancora da
uomini dottissimi, e da giureconsulti di gran nome; dei preti non parlo
perchè a figurare di crederci onde altri ci credesse era affare di
mestiere, e ci trovavano il conto. Chi campa di grano semina grano, e chi
d'errore vive non ischianta errore: e questo è chiaro. Poco oltre il
cerchio delle comari occorreva un gruppo di uomini, in mezzo ai quali sembrava
che facesse le carte il Curato, e tutti insieme stavano speculando, come
diavolo mai cotesto corpo avesse potuto rimanersi così penzoloni per
aria; ma ad interrompere coteste indagini importune sopraggiunse un servo da
parte di sua Eccellenza la Contessa, che gl'invitava tutti a entrare in
palazzo. Andarono, e trovarono donna Lucrezia inconsolabile, giusta il costume
di tutte le vedove consolabili o no, la quale dopo favellato un pezzo,
interrotta ad ora ad ora da lacrime, e da sospiri del miserando caso,
ordinò al Curato apparecchiasse al defunto funerali quanto meglio
sapesse magnifici, e corrispondenti alla nobiltà, e potenza della
famiglia Cènci: invitò poi i montanari di convenire incappati
alla ròcca per associare il morto, promettendo elemosine larghissime in
sollievo delle povere famiglie, affinchè pregassero pace per cotesta
povera anima. - Uscirono pertanto edificati della pietà di Sua
Eccellenza, e per la strada non rifinirono di magnificare la mansuetudine e la
benevolenza sue. Quando tornarono per levare il corpo del Conte lo trovarono
non pure calato dal sambuco, ma chiuso, e confitto dentro due casse di rovere.
CAPITOLO XXI.
IL MANTELLO ROSSO.
Ulrico. Non è il momento di dissimulare, o di
perderci in
vane parole. Io ho detto che il
suo racconto
è vero, e che egli deve essere
ridotto al
silenzio.....
Voi siete in
credito col Governo: quello, che
qui avviene,
ecciterà leggermente la sua curiosità; - conservate
il nostro
segreto; abbiate
un occhio
vigile; non fate moti intempestivi,
non parlate...
Noi non avremo un
terzo
cianciatore, che stia in mezzo di noi.
Byron, Verner
- La partita è perduta;
rimescoliamo le carte.
- Ma don Olimpio, osservava il
biscazziere con una vocina agro-dolce, pensa mo che ti se' messo a giuocare un
poco innanzi che suonasse l'ave maria della sera, e adesso mano a mano
siamo all'ave maria della mattina; - ogni minuto, che passa, parmi
proprio di stare su la gratella di san Lorenzo.
- Quando dianzi aprivi la
bocca, ed io te la turava, con un ducato, ti sei rimasto da abbaiare, brutto
Cerbero. - Per dio! ho perduto anche questa; a me le carte.
- Più della vostra
moneta, avrei avuto caro che ve ne andaste via; da biscazziere onorato...
- Se tu puoi fare che queste
parole stieno insieme, anche un minuto secondo... io... io ti dono la Sicilia
di qua, e di là dal Faro.
- Sono ormai sette ore,
ch'è scorso il termine assegnato dal bando del Vicerè; e se il
bargello, che ha una vecchia ruggine meco, mi cogliesse in fallo, potrei
andarmene più che di passo a gettarmi nel golfo con un pietrone al
collo.
- Brutto Giuda Scariotte! -
gridò Olimpio dando di un grosso pugno sopra la tavola, che fece
rovesciare i fiaschi, e ballare i bicchieri, e gli altri arnesi di terra cotta,
e di canna, ch'ebbero nome pipe([131]); - tu mi mandi la
jettatura sopra le carte... è andata anche questa; perdo a bocca di
barile.
Il biscazziere poi, secondo il
solito, aveva mentito; imperciocchè egli e il bargello stessero
congiunti insieme come le dita di una medesima mano, sempre pronta a chiudersi
per afferrare. Nessuna spia più puntuale, e precisa possedeva il
bargello del biscazziere circa alle cose che accadevano dentro la sua bisca,
potendo ancora intorno a quelle di fuori. Salario dello infame mestiero era la
trasgressione impunita dei bandi sul giuoco: costume in quei tempi riprovato
palesemente siccome anche ai nostri, e non pertanto in cotesti tempi di
barbarie, come ai nostri di pretesa civiltà, messo in pratica alla
sordina. Le belle leggi si rassomigliano ai tappeti di damasco, che si mettono
fuori nei giorni di gala per ricuoprire le muraglie sudice. Le usanze pessime
sotto le belle leggi continuano a camminare, perchè bisogna persuadersi
che la Società può vivere benissimo con i vecchi abusi come
l'uomo mastica anche coi denti guasti; e non è opera di un tratto di
penna emendare i disordini che derivano dalla secolare corruttela degli uomini;
e chi altramente si avvisa perde ranno e sapone: poi impreca la indomabile
perversità umana, e si getta al disperato; mentre dovrebbe correggersi
dello errore, e tornare da capo. Ma qui il discorso menerebbe per le lunghe, e
non farebbe al caso; onde il meglio fia continuare il racconto.
- Tabula rasa. Eccoli
finiti tutti...
- Coraggio, don Olimpio:
bisogna appellarci in seconda istanza; ti rifarai domani.
- Pei santi apostoli Pietro e
Paolo! egli è un bel pezzo che io dico così; ma la fortuna ha
preso ad accarezzarmi co' pettini da lino...
- Chi la dura la vince; e che
tu possa durare ce lo provi tornando ogni giorno fornito di palle e di polvere:
sicchè ho creduto, e credo, che a ricevere il galeone dal Perù
siate due: tu, e il Re Filippo nostro signore, che Dio tenga nella sua santa
guardia.
- Marzio bada a intronarmi
quotidianamente negli orecchi che la mia parte è finita... e che i suoi
mille zecchini toccano al verde...
- Mille, e mille fanno
duemila. Ma sai, don Olimpio, osservò il biscazziere, che qui nel regno
con duemila zecchini si compra un ducato? O come hai tu fatto a guadagnare
tanti danari? Raccontaci un po' come gli hai tu acquistati.
Era troppo diretta la botta
perchè Olimpio non sapesse schermirsene. Egli guardò un cotal
poco alla trista il biscazziere negli occhi, e gli rispose:
- Mi vennero dalle prese
quando combattevamo per la fede.
- Per qual fede? riprese il
biscazziere; perchè, salvo onore, mi pare che tu debba esserti trovato
co' Turchi più spesso che con i Cristiani. E in quali mari hai tu
combattuto, don Olimpio?
- Oh! In tanti mari...
- Pure, quali?
Olimpio, stretto dalle domande
insidiose, avrebbe dato agevolmente dentro a qualche scoglio, se uno dei
giuocatori non fosse venuto casualmente in suo soccorso interrogando:
- O perchè non conduci
teco questo tuo compagno don Marzio?
- Oh! Marzio se ne va per la
maggiore; bazzica co' gentiluomini, e la trincia da duca, come se non avessimo
menato vita insieme nelle foreste di Luco.
- Alla macchia, dunque -
notava maligno il biscazziere appuntando il dito teso sopra la tavola - alla
macchia dunque, e non sul mare tu facesti le prede.
- O al bosco, o al mare, che
importa a te, brutto Giuda? Ah! tu vuoi fiscaleggiarmi? - rispose turbato
Olimpio; e il biscazziere, che aveva paura di quel colosso, ritrasse indietro
la voglia del sapere imitando la chiocciola, la quale tira a se le corna quando
se le sente toccare.
La sera successiva Olimpio non
si pose al solito luogo davanti la tavola del giuoco, sibbene in fondo della
stanza col braccio piegato, e la faccia appoggiata alla mano aperta: cacciava
fuori dalla bocca con irrequieta prestezza buffi su buffi di fumo, e il suo
volto, già abbastanza sinistro, adombrato da cotesta caligine compariva
più truce.
- Il galeone di Acapulco non
è arrivato stasera?
- O perchè non hai
condotto il tuo compagno don Marzio?
- Queste due domande andarono
come due frecce a percuotere nel medesimo bersaglio: sicchè Olimpio
sentendosi punto, dopo avere bestemmiato al corpo e al sangue, rabbiosamente
favellò:
- Per avere addosso il
mantello rosso gli pare essere il Conte Cènci, a cui lo ha rubato...
- To' consolati, disse il
biscazziere mettendogli davanti un boccale di vino.
Olimpio lo vuotò di un
tratto, e sospirando lo ripose su la tavola.
- Tu non mi vuoi bene, riprese
il biscazziere, ed hai torto marcio; e per provartelo, se vuoi una dozzina di
ducati da giuocarteli, e rifarti, io te gl'impresterò...
- E chi ti ha detto, che io
non ti voglio bene? Anzi io te nè vo' più che al pane...
- E quel Marzio, che tu onori
come tuo sopracciò, intanto ti bistratta, e ti nega danari...
- Figurati! Sai tu che cosa mi
ha detto quando gli ho esposto che non avevo quattrini? Se sei povero,
impiccati.
- Ti ha detto?
- Già! e che gli
dicessi dove volevo andare; perchè se io prendeva a ponente, egli si
sarebbe indirizzato per levante...
- Le sono cose da far piangere
i sassi; - e il biscazziere beveva a fior di labbro, e poi profferiva il
boccale a Olimpio, che se ne andava in fondo senza prender fiato - solite
ingratitudini degli uomini: finchè hanno bisogno, ti fanno vedere Roma e
toma; passata la festa levano l'alloro, e chi ha avuto ha avuto...
- Proprio così; ma!...
- Ed ora, che farai? Se
potessi aiutarti fa capitale di me, e tu vedrai se per gli amici mi sento
capace a entrare nel fuoco in camicia. Degli uomini bisogna dire come dei
cavalli: alla svolta ti provo... beviamo...
- Beviamo! - rispose Olimpio;
e dopo avere bevuto, ed essersi asciugato col dorso della mano la bocca,
continuò:
- Non saprei. Se potessi far
tenere sicuramente una lettera a Roma alla famiglia Cènci, sono certo
che non mi mancherebbe soccorso... perchè bisognerebbe che mi
soccorressero...
- Sì, eh? - incalzava
il biscazziere, tenendo le orecchie tese a modo di lepre che abbia paura, e i
muscoli della sua faccia si dilatavano come l'erba sul finire dello agosto per
una scossa di pioggia: mostrava la gioia degli animali carnivori quando,
nascosti fra i cespugli, vedono, o sentono accostarsi saltelloni la preda.
Nè era affatto vero,
che Marzio avesse profferita la villana ingiuria contro Olimpio; tutt'altro:
egli lo aveva con molta benevolenza chiarito come da più giorni fossero
terminati i mille zecchini di parte sua, e come, parendogli urgente di levarsi
entrambi dal regno, non poteva consentire ch'ei si lasciasse rubare per bische,
o spendesse per taverne anche la moneta necessaria al viaggio; ma Olimpio
mentiva scientemente, e fingeva un torto per farsi ragione: caso frequentissimo
a succedere tra genti malvage; e, quello che sembra più strano, elleno
stesse talora col credere alla propria bugìa arrovellano se non vengono
satisfatte per ingiuria, che non hanno mai ricevuta.
Non pertanto a Marzio,
ripensandovi su, parve non avere praticato da uomo di senno, ed essere
pericoloso contendere con le passioni brutali di Olimpio, fuori di misura
cresciute eziandio in mezzo alla corruttela di una grande città; onde
deliberò andarlo a trovare, e raddolcirlo, finchè lo avesse
tratto seco dal regno: proponimento che intendeva compire presto. Sapendo a
quale bisca per ordinario si riducesse la sera, colà volse i suoi passi
contando, come gli venne fatto, di rinvenirlo a posta sicura.
- Bisognerebbe! - riprendeva
il biscazziere, - o che sono tuoi banchieri i Conti Cènci, Olimpio?
- Fa conto, che lo sieno...
- Ho capito, soggiunse il
biscazziere, avresti forse mandato a dormire qualche nemico di casa?...
- Per questi lavori non si
danno pensioni; chè anche qui, come costà, io mi figuro che i
guastamestieri abbiano sciupato ogni cosa...
- O dunque?
- Egli è peggio... ma
peggio di così... il segreto è qui dentro... e perchè il
coperchio stia chiuso bisogna metterci sopra un tappo di argento...
- Sì?... E questo
segreto tu me lo puoi confidare...
- Io so... chi ha ammazzato il
Conte Cènci...
- Oh! - esclamarono a coro i
giuocatori vedendo comparire in questo punto improvviso fra mezzo a loro un
uomo di maniere cortesi avviluppato dentro magnifico mantello di scarlatto
trinato di oro - ben venga don Marzio; egli si fa dei nostri...
Maravigliò non poco
Marzio sentendosi chiamare a nome; e girando intorno gli occhi li fissò
sopra Olimpio, che, torta appena la faccia, si volse nella prima posizione
senza guardarlo, e brontolando di stizza.
- Mi piace di non giungere
nuovo fra questi gentiluomini.
- Don Marzio, disse il
biscazziere strisciandogli intorno a guisa di biacco, vuoi tu posare il tuo
tabarro? In fè di Dio merita bene che tu gli abbia riguardo,
perchè mi ha l'aria di una donazione causa mortis di qualche
principe, marchese, - o per lo meno, conte.
Marzio guardò Olimpio
una seconda volta, ma questi si rimase immobile. Marzio allora depose di buona
grazia il mantello, e si assettò al giuoco. Siccome anch'egli andava
esperto delle male arti dei giuocatori, e stava su l'avvisato, così la
fu guerra tra corsale e pirata, dove non corrono altro che i barili vuoti. I
giuocatori, avvezzi alle facili vittorie sopra Olimpio, per questa volta a mala
pena poterono rimettere la spada nel fodero. Rimasto spazio convenevole di
tempo, Marzio sentendosi più del solito in quella sera travagliato dalla
tosse, che gli si era da parecchi mesi cacciata addosso, profferendosi che in
seguito avrebbe frequentato la bisca, riprese il tabarro e andò via,
lasciando Olimpio deluso nella sua aspettativa di essere pregato da un punto
all'altro a fare la pace, ed accettare una quarantina di ducati per cotesta
sera. - Marzio, considerando la bestiale rozzezza di costui, se n'era adontato,
ed aveva risoluto risparmiarsi la mortificazione di blandirlo; andare a casa,
e, fatto baule, scansarsi la mattina su l'alba da Napoli.
Olimpio quanto stette duro
finchè sperò venire ricercato di pace, altrettanto cadde avvilito
adesso che si vedeva negletto; per la qual cosa uscì con presti passi
fuori della bisca, affrettandosi a raggiungere Marzio. Nè il biscazziere
tenne i piedi in casa, e si cacciò dietro a costoro imitando il moto che
fanno i corvi tarpati, i quali saltellano, saltellano di scancìo; poi ad
un tratto si fermano, voltando il capo sospettosi di qua e di là, per
tornare a saltellare a sghimbescio.
Marzio sentendosi camminare
alle spalle con passi accelerati pose la mano sotto il farsetto afferrando il
pugnale, e soffermandosi allo improvviso, con alta voce interrogò:
- Chi va là?
- Sono io, Marzio, non abbiate
sospetto; non vi ho mica raggiunto a fine di male!
- O di male, o di bene, poco
m'importa. Insomma, che cosa volete da me?
- Non v'incollerite; andiamo
oltre, se vi piace, che ragioneremo a bello agio.
E proseguirono la via. Il
biscazziere anch'egli, saltellando, si trasse innanzi.
- Ma vi par egli,
incominciò Olimpio, che sia tratto da buoni compagni lasciarmi senza un
baiocco da far cantare un cieco? Mi avete salvato da morire di fame per farmi
poi morire di sete?
- Olimpio vi ho detto le mille
volte, che quando vi piace veniate a casa mia chè il mangiare e il bere
non mancano; ma che vogliate dar fondo anche ai miei pochi danari in vino, in
giuochi, e in altri, che io non vuo' dire, più brutti vizii; questo
è quello che io non vi consentirò mai. La vostra parte voi
l'avete riscossa; io vi ho reso i conti, e vi ho mostrato, che io sono in credito
meglio che di duegento ducati; nè voi lo avete potuto negare. Ora, qual
diritto pretendete sopra i miei danari?
- Voi mi avete insegnato, che
la mancanza di diritto pei banditi e pei soldati, ed anche pei grandi signori,
non è buona ragione ond'essi si astengano, quando capita, da prendere la
roba altrui.
- E sta bene; ma io parlava di
diritto, e non di forza; ed io di forza ne ho quanta voi. Ora, quando le forze
si bilanciano, voglionsi mettere le mani alla cintura, e aprire alla lingua
l'uscio di casa.
- E la lingua non fa peggiore
piaga delle mani? Dove hanno la loro forza l'aspide e la vipera? - L'uomo
qualche volta rassomiglia l'aspide.
- Lasciate pure da parte il
qualchevolta, e dite addirittura, che l'uomo si assomiglia all'aspide... ed io
lo so, e l'ho provato.
- Specialmente nei luoghi
dove, come in Napoli, governa un Vicario criminale con facoltà
amplissima di scuoprire delitti concedendo taglie, e remissione di pena ai
complici delatori...
- Di questa sorta vicarii ce
ne ha per tutto il mondo; ma senza i delfini che menano perfidamente i tonni,
le reti si tirano su vuote.
- E la disperazione voi
sapete, Marzio, fa gli uomini spesso peggio che delfini; gli rende pesci-cani.
- Ho capito, - pensò
fra se Marzio, e poi con voce blanda riprende: Olimpio, Olimpio! certe parole
ho inteso dal biscazziere, che mi fanno temere forte non abbiate commesso
qualche solenne imprudenza; - e allora saremmo rovinati io, e voi...
- Sì veramente!
Nascemmo ieri...
- Non v'infingete, Olimpio,
perchè potrebbe darsi che il segreto non fosse più mio nè
vostro, e a me è toccato sempre rammendare i vostri strappi: pensate che
ne va la vita.
Olimpio fece lì su due
piedi un poco di esame di coscienza, e pur troppo conobbe che Marzio aveva
ragione; però essendosegli cacciata addosso una bella paura,
proseguì a parlare con tronchi accenti:
- Ora che mi risovvengo
bene... davvero... Marzio mio... bisogna che mi aiutiate a raccattare una
maglia... ma che volete? Avevo una stizza addosso! - Insomma... mi è
sdrucciolato... giù dalla bocca... qualche cosa... da far credere...
sospettare, che noi fummo insieme ad ammazzare il Conte Cènci...
- Burlate voi? Allora noi
siamo perduti...
- No... dico da senno... ma
quelli, che mi hanno sentito, paionmi tutte persone dabbene. Nondimeno, se io
non avessi parlato... o se vi fosse modo a far sì, ch'essi
dimenticassero... o alla più trista che non potessero più
parlare...
- Come? Alle lettere si mette
un sigillo di cera di Spagna: alle labbra conviene apporre un sigillo di piombo
a mo' delle bolle di Sua Santità...
- Eh! potendo sarebbe la
strada più breve... ed anche di ferro potrebbe fare al caso.
- Lo credo anch'io; - disse
Marzio, e guardò sott'occhio Olimpio; ma gli parve ch'ei stesse su le
parate: tese l'orecchio, e non sentì muovere alito nella contrada, imperciocchè
faccia più rumore il polso di un tisico battendo, di quello che menasse
il biscazziere co' suoi saltetti misurati. Intanto giunsero davanti a un
tabernacolo della Madonna ove ardevano due lampade. Olimpio, che camminava a
mano manca di Marzio, sollevò la destra per cavarsi il cappello davanti
la devota Immagine; e Marzio, colto il destro, si volse improvviso sul fianco
sinistro, e gli cacciò lo stile fino alla impugnatura nel ventre.
Olimpio stramazzò gridando:
- Marzio, che fai? - O Santa
Vergine, aiutami!
E Marzio gli fu sopra dicendo:
- Tu ti sei condannato da te,
Olimpio, quando hai convenuto, che la bocca ciarliera vuole sigillo di ferro; e
così piaccia a Dio, che a questa ora basti; - e mentre così
favellava attendeva a finire con altre coltellate Olimpio. Sicchè
parendo a Marzio ch'ei fosse vicino a spirare, asciugato prima lo stile sopra i
panni del moribondo, si segnò davanti la Madonna dicendo:
- Di questo sangue
dovrò rendere conto un giorno; ma tu, Madre di Dio, conosci se l'ho
sparso per me; se così non faceva, costui avrebbe mandato in perdizione
intere famiglie, ed una vergine, che nel dolore e nella bellezza ti assomiglia,
se non nella gloria. -
E riprese il suo cammino come
se davanti al tabernacolo avesse recitato il rosario, non già commesso
omicidio. Brutto, ed infelicissimo miscuglio di devozione e di ferocia, pur
troppo a cotesti tempi comune. Però giunto allo albergo ripose con
diligenza vesti, danari, ed ogni suo arnese nella valigia; e quando la notte
diventò più profonda, lasciato il saldo del suo debito sopra la
tavola, levava il piede riducendosi a dormire in altro albergo, col
proponimento d'imbarcarsi il giorno successivo all'alba sopra qualunque
naviglio salpasse dal porto. -
Il biscazziere, che da lontano
aveva sbirciato il caso, saltellò, saltellò secondo l'usato
costume, frettoloso presso Olimpio; ma lo trovò spirante.
- Don Olimpio! Ti ha ammazzato
don Marzio, eh? per paura che tu scuoprissi alla giustizia quella matassa dei
Cènci, eh? -
E lo covava con tutta la persona
avidamente curioso. - A vedere quel tristo ceffo e maligno a cotesta ora, al
raggio obliquo della lampada sopra il moribondo, lo avresti detto il diavolo
che stesse al varco per acciuffargli l'anima, e portarsela seco nello inferno.
Olimpio apre a fatica gli
occhi gravi per morte, e, vista la faccia del biscazziere, gli richiude
gemendo. Il biscazziere instava:
- Vendetta! Vendetta! - Se
vuoi vendicarti, e lo vorrai certo, di don Marzio, svela a me ogni cosa, che io
sono sviscerato del bargello; e prima che la tua anima sia arrivata (-qui si
trattenne alcun poco, perchè gli veniva aggiunto naturalmente - allo
inferno; - e sostituire paradiso non gli pareva che andasse a dovere: per la
qual cosa si tolse d'imbarazzo con un mezzo termine, a modo dei diplomatici -
)sia arrivata di là, ti sentirai l'anima di Marzio dietro le spalle.
Olimpio non vedeva più,
ma sentiva ancora; sicchè acquistando un cotal poco di senso comune, nel
punto in cui stava per separarsene eternamente conobbe il mal fatto, e si
persuase della ragione di Marzio: mosse le labbra, e mormorò alcune
sommesse parole. - Il biscazziere in ginocchioni, curvo, con ambe le mani
appuntellate sopra il selciato della via, accosta avidamente l'orecchio alla
bocca del moribondo per sentire i suoi detti. Invero egli potè
ascoltarli, e furono questi:
- Brutto... Giuda...
Scariotte.
Intanto il biscazziere, per la
gran voglia di udire, aveva insinuato la estremità dell'orecchio fra i
denti di Olimpio, che stringendoli senza sforzo potè mordergliela.
Olimpio spirò, il biscazziere gridò; ed entrambi rimasero in
atto, quegli di confidare, questi di accogliere un segreto. Recuperato ch'ebbe
il suo orecchio dai denti del morto, il biscazziere prese a stropicciarselo
piano piano per mitigarne il dolore; poi saltellò velocissimo, in guisa
che parve radere la terra, in certo vicolo oscuro posto nel bel mezzo della
città; e quivi senza adoperare cautela alcuna, poichè la notte,
diventata profonda, non permetteva che lo potesse vedere persona, battè
in modo particolare alla porta segreta praticata nella parte postica di un
palazzo. La porta si aperse, e si richiuse guardinga, e quieta come la bocca
della volpe che divora una gallina.
Alla dimane, prima che l'alba
spuntasse, Marzio fu al molo; e non trovando per quel momento altro legno in
procinto di prendere il largo, tranne una tartana la quale faceva vela pur
Trapani, presto si aggiustò pel nolo col padrone; e già saliva la
scala per mettersi in barca, e già era salvo, quando il mantello rosso
gli cadde in mare. Bisognò che i marinari calassero il raffio per
ripescarlo: non venendo loro fatto di agganciarlo subito, si riprovarono anche
una volta e due. Mentre così perdono fatalmente tempo, ecco apparire
alla lontana uno stormo di corvi, e piegare difilati contro la barca. Marzio
con la sua vista acutissima aveva di già sbirciato il biscazziere; e
questi, non meno sparvierato di lui, aveva scoperto il mantello rosso, e chi lo
portava. - Marzio si affaccendò a gridare che lasciassero andare il
malaugurato tabarro, e salpassero senza indugio; ma ormai era troppo tardi.
- Ferma la barca per ordine
del Vicerè. -
La barca rimase come
impietrita, e gli sbirri arrampicandosi giunsero in tempo ad afferrare Marzio
per le falde giusto in quel punto, che stava per precipitarsi dentro al mare.
- Dio non vuole! -
esclamò Marzio, e si lasciò legare senza contrasto. Per non fare
accorrere gente, e non muovere rumore a cotesta ora matutina, gli sbirri,
seguendo l'antico costume di operare le cose loro a chetichella, gli gettarono
addosso il tabarro rosso dopo averne strizzato l'acqua, cuoprendogli
così le braccia ammanettate. Due sbirri, uno di qua l'altro di
là, lo accompagnavano in sembianza di servitori: gli altri seguivano
alla lontana.
Il bargello, rimasto addietro
sul molo, gridò:
- Oe della tartana! - Potete
andare a buon viaggio.
*
* *
- Eccellenza! gli sparvieri
tornano con la cacciagione.
Così annunziava un
servo, che al sembiante e agli atti partecipava dello sbirro, e del chierico.
Queste parole, sussurrate traverso al foro della serratura dentro una alcova,
ebbero virtù di sollevare un carcame di ossa e di cartilagini di sotto
alle coperte; e di qua e di là dai lati del letto furono viste sbucare
due persone, le quali, voltatesi le schiene appoggiate alle sponde si
affrettavano a mettersi le calze, e cuoprirsi con qualche vesta le membra.
Da parte sinistra era un uomo
lungo, magro, ossuto così, che quando ebbe tirate su le calze, le gambe
vi sguazzavano dentro come flauti: aveva il volto giallo come olio da lumi,
bucherellerato in guisa, che sembrava composto di cacio parmigiano; intorno
agli occhi ricorreva un cerchio turchino, e gli occhi in mezzo lustri, ma privi
d'intelligenza, e fissi come quelli del falco. Negli sforzi fatti tirando le labbra
verso le orecchie, egli scoprì una immane rastrelliera di zanne donde
sporgevano maiuscoli i due denti canini, i quali comprimevano il labbro
inferiore anche a bocca chiusa. Aveva in testa un berretto bianco di tela,
trinato, e legato con nastro di seta colore di fuoco: intorno al corpo
gittò una zimarra di panno bianco soppannata di colore di rosa.
Dalla parte destra era una
donna... donna? Sì, donna: i suoi capelli bianchi e neri le stavano
arricciati, irti sul capo, come se tutta notte avessero litigato fra loro. Io
non ho tempo, e manco voglia, di dipingere tutti i personaggi di questo
racconto: molto più che se tu volessi, mio diletto lettore, formati idea
precisa di questa creatura, non avresti a far altro che rammentarti il
bassorilievo della morte del Conte Ugolino, attribuito a Michelangiolo. Al
sommo del quadro apparisce la figura della Fame; torna a guardarla, e fa' il
tuo conto che la mia donna ne avesse somministrato il modello allo scultore.
Mentre l'uomo si vestiva in fretta così favellava:
- Carmina, cuore mio, questo
negozio io spero che mi rimetterà in grazia del Vicerè. Anni
sono, pei delitti che succedevano su i confini dalla parte della Chiesa egli
voleva che bevessimo grosso; e se i misfatti non riguardavano proprio gli
Spagnuoli, non ne avevamo nemmeno a parlare. - Chi sa? forse voleva
ammonticchiarvi immondezze, per dare faccende alla granata di Sisto V: ora, ad
un tratto, pretende che dobbiamo avere più occhi di Argo, - di quello
Argo, sai, messo da Giove a guardare la vacca Io, - e più mani di
Briareo; ma sono curiosi costoro! Quando dicono voglio, pensano avere fatto
tutto. I fili della giustizia vanno tenuti sempre in esercizio; se tu li lasci
troppo tempo inoperosi, quando li vuoi adoperare o si strappano perchè fradici,
o irrigiditi non molleggiano.
- Gioia mia, bisogna ad ogni
costo tornare in grazia del Vicerè; molto più che ho penetrato
come quel tristo del vostro Collaterale s'ingegni supplantarvi con ogni maniera
d'industria. L'ultima volta che il Vicerè venne alla vicaria, per
maladetta sorte voi eravate uscito, e il Collaterale lo ufficiò fino
all'ultimo scalino del palazzo; e quando e' fu per salire in carrozza gli si
curvò davanti, come se volesse dirgli con tutta la persona: Serenissimo,
mi dia la felicità di mettermi i piedi sul collo piuttostochè sul
montatoio». - Cuor mio, se voi foste stato presente questo onore sarebbe
toccato a voi, e avreste imparato ad abbassarvi quanto si deve, perchè
in questo voi non siete perito tanto che basti.
- E disse proprio al
Vicerè le parole, che mi avete riportato adesso, viscere mie?
- Gli disse! Così mi
parve, dalla lontana, che gli dicesse,
- Ah! beato lui...
- E la vegnente domenica,
quando incontrai alla messa quella brutta vecchia della sua moglie, mi
passò da canto senza salutarmi, - e vidi che mi rideva per ischerno.
Dunque, cuor mio, non risparmiate partito alcuno di rientrare in grazia al
Vicerè: vuol gente prigione, e voi dategliela su la forca; la desidera
impiccata, e voi fategliela trovare in cinque quarti.
- Che diavolo dite, dolcezza
mia? I quarti non possono essere che quattro, - perchè avete a sapere,
Carmina, che il boia... ma questo sarà per desinare... adesso bisogna
che io mi affretti, che il bargello attende. - In quello poi che avete
avvertito ci è del vero... ci è del vero, perchè se non
fossero, a fine di conto, gente di male affare, non capiterebbero in mano alla
giustizia.
- E quando anche, esempli
grazia, non fossero gente di male affare, quando il Padrone vuole che tu
strozzi, e tu strozza. Vicario mio la obbedienza è santa.
- Sicuro! Credono, i
gaglioffi, che la Giustizia pesi a bilancia: è un errore: ella pesa a
stadera, ed ha due romani come aveva due staia Burraschino il biadaiolo, che
andò in galera per misure false. - Carmina, colomba mia, fa' di portarmi
subito il cioccolatte e i biscotti, perchè tu intendi che stamani mi
tocca a fare petto di bronzo; ed io ho provato, che se sto digiuno mi casca il
cuore.
- Anima mia, andate al banco
che vi accomodo in un baleno...
Il Vicario andò nella
stanza dell'uffizio; si adagiò gravemente nel seggiolone, di cui la
spalliera gli sopravanzava la testa un palmo avvantaggiato, e subito diè
di piglio al campanello. Quasi nel punto stesso, da diversi lati si apersero
due porte; da una entrò la moglie Carmina con la cioccolata e i
biscotti; dall'altra il Bargello con Marzio ammanettato, e coperto col mantello
rosso.
Carmina di dietro alla
spalliera del seggiolone sbirciò Marzio, e le parve, come veramente era,
bellissimo uomo, comecchè pallido, e scarno oltre il dovere. Però
nel cuore suo di donna il capitale della compassione crebbe venticinque
centesimi per cento, mentre in quello dell'uomo astioso per la medesima causa
calò un franco intero. - Il male è più sensitivo del bene.
- Capitano! - chiamò il
Vicario, e il Bargello gli si accostò con certa ossequiosa
dimestichezza. - Capitano! - gli domandò il Vicario sommesso
nell'orecchio - avete badato ad ammanettarlo con sicurezza?
Il Bargello spinse in avanti
la mascella inferiore; e alzato il labbro di sotto, parve, mercè cotesto
atto, che volesse dire:
- Ce ne
fosse!
- E non vi è pericolo
che quel ribaldo, con uno strettone?... - E il bargello ripetè il segno.
- Posso dunque vivere
tranquillo? - continuava il Vicario.
- Nèh! - rispose il
Bargello scuotendo forte la lesta - l'ho legato io...
Allora il Vicario, addentata
del biscotto la parte intrisa di cioccolata e rimettendo l'altra nella tazza,
mentre masticava da due parti incominciò a dire:
- Dunque siete voi quel malfattore
empio e scellerato, che dopo aver fatto correre sangue il Tevere e gli altri
fiumi degli stati di Santa Madre Chiesa, non ha rifuggito di perpetrare
omicidii atrocissimi nei paesi felicissimi di Sua Maestà Cattolica il re
Filippo nostro signore,... e segnatamente l'ultimo nella decorsa notte, io non
so se più bestiale o sacrilego, davanti la immagine benedetta della
Santissima Vergine? - Qui, dato un altro morso al biscotto prosegue -
Santissima Vergine. Noi altri faremo vedere ai vostri tribunali di Roma, che
meglio vale incominciare tardi e durare un pezzo, che incominciare presto e
presto smettere. Se Papa Sisto in quattro ore prima di andare a mensa fece
prendere, processare, e impiccare un dabben giovane spagnuolo, costumato e
cristiano, che dallo avergli ammazzato in chiesa quel suo lanzo in fuori si
poteva dire propriamente uno agnellino di latte([132]); noi altri, dico,
mostreremo che queste, e più mirifiche cose sappiamo mandare a
compimento nella metà manco di tempo. - E intanto alternava morsi, e
parole; sicchè vedendo che terminato il cioccolatte era rimasto quasi
intero un biscotto, rivolse di repente il suo discorso al biscotto, favellando
così: «biscotto! biscotto! credi che non abbia più cioccolatte
per inzupparti? - Carmina, speranza mia, gratificami col propinarmi un'altra
tazza di cioccolatte!»
Carmina via come il vento, e,
curiosa di non perdere sillaba dello interrogatorio, come se n'era andata
ritornò veloce portando la cioccolata.
Il Vicario, guardando Marzio,
prosegue:
- Se in corte di Roma
passò di usanza la salsa di forche e di mannaie, che Pasquino
apparecchiò per Papa Sisto, ora questa voglia è incominciata a
venire a noi. Già, si sa, le cose buone fanno il giro del mondo...([133])
Adesso, mangiati tutti i
biscotti, conobbe essergli rimasta alcun poco di cioccolata nella chicchera;
onde apostrofando la cioccolata, esclamò: «cioccolatte! cioccolatte!
credi forse che mi manchi biscotto per inzupparti intero?» Carmina, fede mia,
va, e portami un altro biscotto per terminare questo insolente cioccolatte.
Carmina adesso prorompe fuori
del suo riparo dietro la spalliera del seggiolone, e, mettendosi entrambe le
mani su i fianchi, rispose:
- Ma vicario, cuor mio,
s'intende acqua, ma non tempesta! Continuando di questo passo sarà
mestieri portarvi la pasta reale a manovella, e il cioccolatte dentro al
bugliolo; e poi abbiatevi riguardo alla salute, chè il cioccolatte,
quando è troppo, guasta lo stomaco, e genera malinconia: basta per oggi,
cuore del cuore mio dolce. Non sapete che lo imperatore Carlo V per lo abuso,
che ne fece, diventò matto?([134]) - s'intende acqua, ma
non tempesta! Da un pezzo in qua, gioia mia, voi mi parete diventato uno
struzzo...
- E voi, sapete che cosa mi
parete diventata da un pezzo a questa parte? Una... una... là... una
cicogna.
Inesplicabile cosa è
pure questo nostro cuore! Marzio fino a quel punto, non badando ai discorsi del
vicario, stava immerso nel pensiero di darsi la morte. Ora venendo ad un tratto
a posare l'occhio consapevole sopra cotesti grotteschi sembianti, udendo il
garrito della femmina, e la cagione del garrire, così forte si
sentì preso dalla convulsione del riso, che proruppe in altissimo
scroscio. Il Bargello, di cui le labbra stavano ordinariamente chiuse come le
sue manette, non potè nemmeno egli trattenersi da ridere; ma frenato
dalla paura si nascose dietro Marzio, e, mettendosi un pezzo di falda fra i
denti, ebbe la buona sorte di non essere udito nè visto dal vicario. Se
il Vicario venisse in furore non importa che io dica: tenne cotesto riso irriverente
alla sua autorità, ingiurioso alla sua figura, alle sue parole
offensivo, un crimenlese universale: insomma un delitto connesso, complesso,
e per di più continuato([135]). Lasciata da parie la
tazza della cioccolata (chè, degl'istinti dello animale di rapina,
spenta la voracità prevaleva in lui la smania d'insanguinare gli
artigli) con la bocca tutta ingrommata gridò:
- Ah! cane traditore, marrano!
Tu ridi, eh? tu ardisci ridere davanti la veneranda maestà del Vicario
della gran Corte criminale di Napoli? Or ora, aspetta, che ti farò
ridere di miglior cuore, e con motivo più giusto: poichè ti vedo
disposto al giuoco... sta lieto... io ti farò ballare co' borzacchini ai
piedi e acconciature in capo, che sono una festa. Capitano Gaetanino, su, da
bello, traducetemi questo furfantissimo nella stanza delle prove, e
apparecchiate tutti gli arnesi quoad torturam preparatoriam usque ad mortem,
col gran trespolo, la capra, i tassilli, le cordicelle, insomma ogni cosa, e
per benino.
Senza compassione, - imperciocchè
nel deserto dell'anima del bargello cotesto pozzo non venisse mai scavato, - o
se scavato una volta, da tanto tempo lo aveva riempito, che qualunque traccia
gli era ormai scomparsa perfino dalla memoria - senza compassione dunque, ma
con tristezza, egli calcolò con quanti strappi angosciosi, con quanto
stritolio di ossa avrebbe dovuto quel misero scontare il riso, forse ultimo,
che gli era comparso sopra le labbra. Appena il Bargello e Marzio uscirono
dalla stanza, il Vicario, vano quanto iniquo, si provava a scaricare la
umiliazione sopra la moglie. A simile intento, con aria di rimprovero
incominciò favellando alla donna:
- Carmina io ve l'ho detto le
mille volte, che a voi non conviene entrare colà dove non vi spetta.
Ora, vedete che cosa n'è avvenuto? Cotesto ribaldo, viscere mie, vi ha
preso a scherno, mancandovi sconciamente di rispetto.
- Di me? - rispose la donna
con profondissima convinzione. - In verità io credo che sbagliate, e
ch'egli abbia riso di voi, cuore mio dolce.
- Di me? - Come di me? Egli ci
avrebbe pensato due volte... e si alzò, appoggiandosi ai bracciuoli del
seggiolone, mordendosi le labbra.
- Mi pare ch'ei non ci abbia
pensato nè manco una, gioia mia: in quanto a me, la Dio grazia, non sono
ancora tale; - e così favellando si volse ad uno specchio contornato di
larga cornice di ebano appesa in cotesta stanza. Il vetro era verde, come per
ordinario a quei tempi si fabbricava nelle officine di Murano a Venezia, e
l'umido della muraglia, squagliato il mercurio, ne aveva fatta rifiorire tutta
la foglia. La natura veramente con madonna Carmina si era comportata peggio che
da matrigna: aggiungete gli anni, parecchie infermità, che non importa
dire quali, e il matutino disordine; e, come se tutto questo non fosse anche
troppo, il vetro traditore verde, e rifiorito, si mise a parteggiare pel
vicario. Ella vi si contemplò dentro, e conobbe in coscienza di non
poter sostenere il contrasto. Caso unico, io credo, così nelle antiche
come nelle moderne storie: conciossiachè nelle femmine la vanità
sopravviva alla bellezza come il fosforo dura a brillare nella notte anche dopo
la morte della lucciola. Il Vicario uscì trionfante, però evitava
la prova dello specchio: se vi si fosse sottoposto si sarebbe per avventura
convinto, che Marzio aveva riso di ambedue.
Seduto davanti ad una lunga
tavola, avendo dall'uno e dall'altro lato due notari, e alla sua presenza
schierati tutti gli arnesi della tortura, lo egregio vicario ostentava la
fierezza di Scipione Affricano, che monta al Campidoglio in mezzo alle insegne
dei popoli debellati. Pende dai suoi cenni il boia, ed ai cenni del boia stanno
attenti due valletti... così è: l'apice della gloria umana si
tocca, e presto; per la infamia non vi ha scandaglio che basti. Inferno senza
fondo è questo nostro civile consorzio: anche il carnefice ha i suoi
subalterni.
Marzio stava costà come
trasognato. Il Vicario gli lanciò addosso uno sguardo di sfida, quasi
volesse dirgli: «or ora vedremo se riderai».
Un notaro intanto veniva
interrogando il bandito sopra le sue qualità, e circostanze del
misfatto, che gli avevano apposto. Cessate le domande, il Vicario le lesse; e
fattone come un sunto per sovvenire alla sua memoria, volgendosi con mal piglio
allo sciagurato favellò:
- A noi, mio bel gentiluomo.
Marzio Sposito, io vi contesto che siete accasato e dalle carte processali
largamente convinto: In primo luogo, che, in compagnia del vostro complice
Olimpio Geraco, avete ammazzato barbaramente e con premeditazione
l'illustrissimo conte don Francesco dei Cènci, gentiluomo romano, nella
Rocca Petrella, situata nei confini del regno. In secondo luogo, che il mandato
a uccidere voi l'aveste da tutti, o da taluno della famiglia di esso
Conte Cènci. In terzo luogo, che in prezzo dell'omicidio vi vennero
pagati zecchini duemila; dei quali mille per voi, e mille al predetto Olimpio.
In quarto luogo, che voi vi rendeste debitore di furto rubando allo ammazzato
Conte Cènci un mantello di scarlatto trinato di oro, statovi reperito
addosso al momento dello arresto. In quinto luogo, che in questa decorsa notte
avete ucciso proditoriamente il vostro complice Olimpio Geraco con istrumento
tagliente e perforante, ammenandogli quattro colpi che hanno cagionato la morte
pressochè istantanea del prefato Geraco. Sopra questi cinque punti, che
vi ho letto a chiara voce, e che a vostra richiesta potranno esservi letti da
capo, siete esortato a dire la verità confessandoli, previo vostro
giuramento; e ciò non perchè la giustizia abbisogni punto di
altri riscontri, ma per bene ed utile vostro così in questa vita come
nell'altra, e per adempire al voto della legge che desidera simili ammonizioni,
quantunque superflue. Lo eccellentissimo signor Notaio vi deferirà il
giuramento.
Il notaio, seduto dal manco
lato, prese un Cristo con tale garbo, che parve essere uno di quelli che si
trovarono a crocifiggerlo, non già degli altri che lo calarono di croce,
e gli suggerì la formula con queste parole:
- Dite: Io giuro sopra questa
immagine rilevata di Gesù crocifisso...
- Io non giuro...
- Come non giurate, se giurano
tutti?
- E tutti mentiscono. Vi pare
ella cosa naturale, che un uomo spontaneo giuri il suo danno e la sua morte?...
- Ma avreste evitato lo
esperimento, - osservò il Notaro.
- E che importa a voi s'egli
intende provarlo? -interruppe il Vicario con viso acerbo. - Egli è nel
suo diritto, e nessuno può toglierglielo. Sposito, voi volete esercitare
lo jus che vi viene dalla legge, ed io vi lodo. Mastro Giacinto, tocca a
voi...
Col garbo stesso col quale lo
artefice industre si accinge a metter mano ad un sottile lavorìo,
maestro Giacinto, ch'era il boia, secondato a maraviglia dai suoi valletti,
spogliava in un attimo, legava, e traeva in alto per le braccia il meschino;
Marzio sofferse gli atroci
spasimi senza mandare neanche un sospiro: solo quando adagio adagio lo calarono
sul pavimento, il suo demonio gli sussurrò dentro gli orecchi: «a che
stai?» E la memoria gli schierò, come traverso uno specchio, davanti lo
spirito tutte le vicende della sua vita. Tradito dagli amici, perseguitato
dagli uomini nelle più care affezioni, queste gli si erano convertite in
flagelli dell'anima; le sue furie portavano faccia di amore. L'amore filiale lo
fece bandito; lo amore di amante, perfido e dissimilatore; lo amore per
Beatrice, omicida. - Di quale natura era questo ultimo amore? Egli non lo aveva
saputo chiarire a se stesso, avvegnachè gli riuscisse sovente
incominciare a volgere il pensiero ad Annetta e terminarlo a Beatrice, o
viceversa: così errava l'anima sua dallo amore disperato allo amore
impossibile, e dallo impossibile al disperato. La sua vita, in perpetua
compagnia dell'aspra cura, aveva fatto come il ferro premuto su la ruota quando
gira; si era consumata mandando faville. Non si sentiva più voglia di
nulla. Diventa pure sazievole questo cammino mortale quando non sai dove, o
perchè indrizzare le piante! Spesso, nel golfo di Napoli, steso per
terra con le spalle appoggiate ad uno scoglio, stava per ore e ore a
contemplare la pianura dei mari pien di svogliatezza, essendo che la cura
corrosiva fosse più intensa per tenerlo assorto in se, che non leggiadro
il golfo per sollevarlo con gioconde sensazioni. Gli si spossarono le membra;
madide di sudore si sentiva sempre le mani e la fronte: una irritazione
irresistibile ai bronchi lo constringeva a prorompere di frequente in nodi di
tosse. Certo giorno, allo improvviso, gli si empì la bocca di umore
viscoso, che sapeva di piombo; - attese allo spurgo... era sangue. Tremò
da capo a piedi; corse allo specchio, e si guardò... Dio! che orrore!
Quale mai rovina di se stesso! Il sangue gli si era fermato in breve spazio sul
sommo delle gote, quasi raggio di sole che tramonta sopra la estrema vetta dei
colli; - ultimo addio del giorno che muore. Molte volte, col filo di rasoio
alla gola, o col focile della pistola alzato alla tempia, stette per troncare
una vita di miseria e di colpa; ma si trattenne sempre, adombrando a se stesso
la esitanza col desiderio di vedere prima Beatrice contenta: in verità
poi cotesta esitanza nasceva dallo istinto animale di vita, aumentato in
ragione della debolezza. Di Marzio era morta gran parte; molta vita e molto
coraggio gli fuggirono dai pori del corpo col frequente trasudare. Cotesta
prova, sebbene sostenuta con costanza, pure lo aveva abbattuto così, che
desiderò come sommo bene la morte, e sollecita. Però, appena
deposto a sedere, il Vicario ordinava:
- Tra un quarto di ora, mastro
Giacinto, replicherai cum squasso: se frattanto volesse bere, dategli
acqua e aceto; e sì dicendo faceva atto come di andarsene.
- Vicario! - chiamò Marzio
con fievole voce, trattenendo le lacrime - se m'inducessi a confessare, potrei
contare sopra una grazia?...
- Figlio mio, andandogli
incontro premuroso, e ponendoglisi al fianco, il Vicario gli favellava
dolcemente: - farò quello che posso: ti raccomanderò al
Vicerè. Il signor Duca è magnanimo e cortese, e delle grazie
donatore generosissimo. - Voi frattanto, ser Notaro, registrate che lo imputato
ha proposto di confessare, ergo le accuse sono vere. Questo è un
passo ormai acquistato al processo, e non si cancella più. - Dunque,
figlio mio, dicevi?...
- La grazia, che domanderei,
non è forse di quelle che immaginate voi...
- O dunque che cosa chiedi?
Su, da bello, diletto mio; aprimi il tuo cuore intero, fa' conto di confessarti
proprio a tuo padre.
- Confessati appena i miei
falli, vorrei essere tratto subito a morte...
- Per questo non dubitare
dell'ottimo cuore del Vicerè... e anche io ti aiuterò...
- Solo desidererei non fosse
di corda, ma sì di scure... la morte mia...
- Se non vuoi altro!-interruppe
maestro Giacinto, al quale non riuscì tacere, trattadosi di cose che
toccavano tanto da vicino il suo mestiero - il Vicerè ha un'anima di
Cesare in cosiffatte faccende...
- Silenzio! - gridò
severamente il Vicario - non sono cose queste che ti riguardino...
- Mi pareva di sì... ma
avrò sbagliato... perdonate, Eccellenza...
- Senti; in quanto alla prima
domanda, di essere mandato subito a morte, statti allegro, che la prendo sopra
di me; intorno alla seconda poi bisogna consultarne il signor Vicerè:
non è mica piccolo privilegio quello di farsi tagliare il capo! Qui
cotesto privilegio appartiene ai nobili, che ne vanno giustamente gelosi:
però, carissimo mio, per satisfarti in tutto ne muoverò espressa
domanda al Vicerè.
Il Collaterale, sopraggiunto
in mezzo allo amoroso colloquio, attendendo sempre a dare la spinta al Vicario
per farlo cadere,
- Clarissimo don Boccale, gli
disse, questo arbitrio potete benissimo torvelo; perchè, chi
vorrà riguardarvi così sul sottile le costure, quando con la
sagacità e solerzia vostre andate acquistandovi meriti ogni dì
più luminosi presso sua maestà il Re nostro signore?
La insidia del Collaterale
consisteva in questo: che dove per vanità avesse il Vicario offeso i
privilegi dei nobili, presagiva vedere scatenati contro tutti i Seggi di
Napoli. Ma il Vicario non era pesce da prendersi a coteste vangaiuole; per la
quale cosa asciutto asciutto gli rispondeva:
- Signor Collaterale, voi mi
farete la garbatezza di attendere a somministrare consigli quando vi saranno
richiesti. - Orsù... dunque, figliuolo mio, parla... che cosa hai da
dire?
Marzio aveva declinato il capo
sopra la spalla destra; e, chiusi gli occhi, gli sfuggivano dagli angoli grosse
lacrime non piante, ma traboccate per la piena dell'angoscia...
- Or via, insisteva il
Vicario, da bravo, figlio mio, confessa... confessa...
Marzo sembrava assopito, e non
rispondeva. Allora il Vicario gli compresse la scapola destra con ruvidezza:
quegli abbrividì, aperse gli occhi e domandò dolorosamente:
- Che cosa volete?
- Mantenmi la promessa, e
confessa...
- Come! così presto?
Dov'è il prete?
- Non si tratta qui della
confessione sacramentale; questa farai più tardi, amor mio; si tratta
della processale: ora il lampo, poi il tuono; un poco di rumore in appresso, e
finalmente tutto finisce... sai?
- E che cosa ho io da
confessare?
- O bella! Quello che dianzi
ti ho letto, dilettissimo mio; vuoi che io te lo rilegga?
- Oh! no: sta bene, io merito
la morte.
- Dunque confessa, via, e
ratifica in tutte e singole le sue parti l'atto di accusa.
- Sì, come volete,
purchè mi tolghiate presto di vita.
- Provati un poco, cuor mio,
se ti riuscisse firmare il foglio: e voi altri fanulloni porgetemi una
penna,... e che sia nuova, e ben temperata... tuffatela per bene nel
calamaro... Prendi, Sposito, e se in vita non hai avuto buona indole, mostra
almeno in morte un bel carattere. Signor Collaterale notate, di grazia, l'agudezza;
se la risapesse il Duca, ch'è vago di bei motti, se ne andrebbe in
visibilio. - Adagio... così... a modo... con tre dita... carino mio...
Ma le dita di Marzio,
dolorosamente inerti, lasciavano andare la penna; ond'egli sbadigliando
mormorava:
- Oh quanto sono più
generosi gli omicidi nel bosco, che nel tribunale!... non posso firmare...
- Ma quel benedetto Giacinto
poteva anche usare un poco più di carità nel dargli la corda!...([136]) disse il Vicario
volgendosi al boia in tuono di rimprovero.
- Che dite, nè!
Eccellenza? Io l'ho trattato da sposo: se avessi a dare la corda a voi, non
potrei condurmi con maggiore garbatezza.
Il Vicario, intento affatto in
Marzio, non badò alla conclusione del discorso: andati a vuoto gli
sforzi per farlo firmare, ordinò che chiudessero l'atto di accusa con le
formule necessarie per supplire al difetto della firma del prevenuto. Distese,
firmate, bollate, e impolverate le carte se le pose diligentemente in seno,
indirizzando la parola agli uscieri:
- Adesso abbiate cura di
questo povero uomo: rammentatevi ch'egli è di carne battezzata come
siete voi altri, e rammentate ancora che se la giustizia umana non lo
può perdonare, molto bene può farlo la divina: onde, un giorno,
chi sa? la sua intercessione potrebbe essere necessaria anche a noi
lassù in paradiso: pensate al buon ladrone, e non vi dico altro.
Confortatelo con vino, e confetto, e con brodo: - badate a non fargli mancare
nulla... bisogna che viva.
Marzio era caduto nella
consueta letargìa.
Per lo splendore di Dio! (e notate, che la esclamazione non è mia;
bensì di Guglielmo il Bastardo) non vi pare egli caritatevole il
vicario? Maisì e avvertite, che quantunque morto da due secoli e mezzo,
io ho veduto, ed ho udito questo vicario, epperò mi attento a
descriverlo. Il Vicario aveva posto amore a Marzio: gli voleva proprio un bene
dell'anima per molte ragioni, una migliore dell'altra: per lui contava potersi
presentare trionfalmente al Vicerè; per lui ricuperarne la smarrita
grazia; per lui dare la spinta all'odiato Collaterale; per lui dimostrare la
molta sufficienza sua; per lui trattenere il popolo nello spettacolo sempre
gradito di una tragedia criminale; per lui somministrare subietto a far parlare
di se tutto Napoli almeno tre giorni continui; per lui, finalmente, ottenere un
ciondolo all'occhiello, ed aumento di paga. Per le quali considerazioni, e per
altre, che non si dicono, importava assaissimo che Marzio vivesse - ma per
morire sopra le forche! Di qui la tenerezza dello egregio Vicario per la
conservazione del condannato. - Non vi pare egli caritatevole il mio vicario?
*
* *
Il Vicario affrettandosi si
presenta al palazzo di don Pietro Girone duca di Ossuna, vicerè di
Napoli per Filippo III re di Spagna([137]). Nel trapassare per le
anticamere egli, prima di tutto, con disgusto non piccolo osservò, come
le guardie e gli staffieri non si affaccendassero punto ad annunziarlo, secondo
che la gravità del caso gli pareva meritare: considerando poi, che non
gli potevano leggere in faccia la grande notizia di cui veniva portatore, gli
scolpava quasi da questo lato; sennonchè crescendo allora il malefizio
del poco ossequio alla sua dignità in questa parte, gli aggravava al
doppio di quello che gli aveva sollevati dall'altra. E se non lo volevano
onorare come don Gennaro Boccale, pareva a lui che lo dovessero temere come
l'uomo che avrebbe potuto mandarli da un punto all'altro alle forche:
però gli staffieri del Duca, servi insolentissimi d'insolente padrone,
lui non curavano, e molto meno temevano. Il Vicario consolava la sua
vanità offesa volgendo la mente alla necessità di contenere con
regolamenti opportuni la petulanza dei famigli dei grandi, per lo più
meccanici, riottosi, e ribaldi; ma la suprema mortificazione lo aspettava nella
ultima anticamera, dove, dopo avere pestato mani e piedi per essere introdotto
dal Vicerè, trascorso spazio lunghissimo di tempo, durante il quale gli
parve provare quei tormenti, che tanto spesso aveva applicato ai derelitti che
gli capitavano nelle mani, si presentò un segretario per informarsi del
suo bisogno. Il Vicario gli disse: negozii di suprema importanza: desiderare
che gli fosse data licenza di conferire col serenissimo Vicerè. Il
segretario oppose negozii di troppo maggiore importanza dei suoi tenere
occupato il Vicerè, nè quindi potergli concedere udienza.
- Ma il negozio, per cui sono
venuto, tocca urgentemente la sicurezza degli stati di Sua Maestà.
- Sì; ma vi ho detto
che non può pareggiare mai la importanza di quello che tiene adesso per
le mani il serenissimo Vicerè duca.
Il criminalista, con un ghigno
derisorio, disse al cortigiano:
- Salvo onore, o come fate voi
a indovinare il negozio che qui mi conduce?
E il cortigiano, con sorriso
punto meno fino, pronto alla parata, rispose:
- Non conosco il vostro,
sibbene quello del Vicerè, a cui pochi possono andare pari, superiore
nessuno.
Ed il criminalista dall'arguta
risposta si trovò capovoltato.
Ora
ecco il negozio, che in quel momento teneva occupato il potentissimo Duca di
Ossuna. Sua Eminenza il cardinale Zappata (quel desso donde nasce il proverbio,
che predicava bene, e razzolava male) gli aveva mandato in dono da Madrid un
magnifico pappagallo, ed egli si sollazzava con quello: non già che don
Pedro fosse un perdigiorno; tutto altro: aveva fama di solertissimo nelle
faccende di stato, e veramente era: ma tanto è, in quel momento gli era
saltato per la testa il ticchio di divertirsi col pappagallo, e non voleva in
cotesta ora essere infastidito. D'altronde l'arco sempre teso si rompe, ed un
po' di sollievo giunge accettissimo agli spiriti più irrequieti.
E' fu mestieri che si
rassegnasse il buon vicario ad esporre il motivo della sua venuta al
segretario, il quale accolse il racconto con mediocre premura, e a mezzo
discorso gli tolse le carte di mano, e, voltegli le spalle, disse: «ho capito!»
Il segretario entrò
improvviso, e sorprese il Vicerè che insegnava al pappagallo... che cosa
mai gl'insegnava? Una parola spagnuola, che verun gentiluomo vorrebbe
profferire, e nessuna gentildonna ascoltare... quantunque, pronunziata dal
pappagallo, ecciti la ilarità delle donne e talvolta ancora il rossore;
sicchè esse si celano la faccia dietro al ventaglio, - talune per
sentire, talaltre per fingere di sentire vergogna.
Questo don Pedro (sussurrava
la fama) in fatto di costumi e di religione procedeva più rilasciato,
che non consentivano cotesti tempi; e fra le tante si narra questa di lui.
Visitando a Catania, in compagnia della Duchessa sua moglie, la chiesa di
Sant'Agata, gli porsero a baciare le mammelle di cotesta santa, conservate con
grandissima venerazione colà. Postesi pertanto in ginocchio, prima di
baciarle si volse ridendo alla Duchessa, dicendole: «donna Caterina, senza
gelosia»([138]).
I preti lo predicavano infetto di eresia; e fra le altre accuse, messegli
davanti al Re di Spagna, vi fu quella di seguitare i riti della religione
maomettana. Al Vicerè increbbe essere colto in quel punto, e si
voltò con cera sdegnata al segretario, che, pilota sagace di corte,
vista la marina turbata, non sapeva a qual santo votarsi. Non gli soccorrendo
consiglio migliore, si accostò al pappagallo; ma questo, impaurito, gli
dette di becco nella mano, e gli stracciò la carne. Il segretario sotto
voce mormorò:
- Benedetto prezzemolo! E a
voce alta: magnifico, bellissimo pappagallo!...
Ma il Vicerè, stizzito,
lo interrogò con voce severa:
- Ynigo, chi vi ha chiamato?
Il cortigiano, a sua posta
stizzito, se la rifece col vicario rispondendo:
- Serenissimo! Il Vicario
criminale, che, salvo onore, è più fastidioso del fistolo, tanto
rumore ha mosso nell'anticamera urlando trattarsi della salute del Re e della
sicurezza dello Stato, che mi fu forza, onde non irrompesse fino a Vostra
Serenità, torgli queste carte di mano, e presentarvele per liberarvi
dalle importunità sue.
- Sappiamo a prova, disse il
Vicerè con signorile alterezza e porgendo là mano per ricevere le
carte, negarsi a noi quello di cui gli altri uomini hanno copia; - un momento
di riposo. Informate,
don Ynigo.
- Serenissimo! Un bandito
dello stato romano nella decorsa notte ha ucciso proditoriamente certo suo
compagno presso il tabernacolo della Madonna del Buonconsiglio: arrestato
stamane, confessava su i tormenti. Il Vicario, considerata la confessione
spontanea, sarebbe di avviso si condannasse a morte senz'altra procedura, per
frenare gli omicidi e i ladronecci, che incominciano a parere già troppi
anche al signor Vicario.
- Ed è questo il motivo
per cui mi siete piovuto in camera fragoroso e improvviso, come palla di
bombarda briccolata in cittadella nemica?
- Serenissimo! si degni
rammentare che la colpa non viene dalla palla, bensì da cui la manda.
- Voi non avete mai colpa,
assomigliate gli assistenti dei sagrifizi di Giove, dei quali l'uno scaricava
su l'altro il fallo del bove ammazzato; sicchè la pena toccava
finalmente al coltello, che, innocentissimo, pagava per tutti.
Il cortigiano, per non far
peggio, sorrise come estatico all'arguzia del motto. Il Vicerè blandito,
prendendo una penna stava per firmare senz'altro la proposta del vicario; ma si
fermò:
- Per Santo Yago! ella
è cosa da nulla firmare uma sentenza di morte? Tra firmarla, e patirla
una tal quale differenza ha da essere. - Passare di un tratto da un mondo dove
risplende così luminoso il raggio del sole, ad un altro dove la cosa
più chiara, che io possa comprendere, è un buio eterno... parmi
un brutto passaggio in verità. - E qui intingeva la penna nello
inchiostro. - Comprendo eziandio, aggiungeva, che deve riuscire più
facile levare l'ancora da questa vita in un giorno di gennaio a Stokolma, che a
Napoli in un giorno di aprile. - Alzatosi si approssimava al balcone, e,
muovendo discorso al cielo, continuava: - Occhio del cielo, perchè
apparisci sì bello ai nostri occhi, se poi dobbiamo così presto
lasciarti? Il tuo raggio divino dovrebbe illuminare cose degne della sua
divinità. La notte dovrebbe vedere i supplizii delle colpe che si
commettono nel suo grembo, ed io non so con quale senno o giustizia il giorno
ha da contristarsi col castigo del delitto, ch'egli non ha illuminato: l'uno e
l'altro rimangano al buio...
Questi pensieri uscivano
lambiccati dal cervello del Duca: imperciocchè non gli partissero mica
dal cuore, ma gli ostentasse, quasi per far dimenticare al cortigiano la parola
turpe con la quale in bocca lo aveva sorpreso educante il pappagallo: cotesti
pensieri tenevano officio d'incenso bruciato intorno ai cataletti per vincere
l'odore del morto. Avrebbe piuttosto desiderato sfogarsi a danno di
qualcheduno, ma la fortuna non gli presentava l'orecchio. Intanto il
pappagallo, per aumentargli la confusione e il maltalento, ripetè con
voce sonora la oscenità imparata, e parve che di lui si prendesse a dileggio
e della sua mentita filosofia. Allora si pose in fretta nuovamente a sedere, e
per liberarsi dal testimone importuno si accinse a firmare.
- Che se il ribaldo merita
commiato... via... lanciamolo nella eternità. -
Ma il pappagallo, o percosso
dalla nuovità dell'oggetto, o cruccioso per non vedersi più
vezzeggiare, con una beccata trasse la penna di mano al Vicerè.
- Montezuma non vuole
che muoia... o piuttosto Montezuma rimprovera il Vicerè di
firmare proposte di morte senza pure esaminare le carte del processo. Il pappagallo
ha ragione; il Vicerè torto. Grazie allo avvertimento, Montezuma.
Se io fossi re, forse, chi sa? in premio dei lunghi ed onorati servigi,
potrebbe darsi che un giorno tu ti trovassi premiato con una immagine di bestia
come te; o di santo, e non posso dire come me; o con un bel mazzo di
prezzemolo: ma invece, essendo io soltanto vicerè, ti darò un
biscotto di Maiorca intero. Io ti rimanderei volentieri per consigliere allo
Escuriale onde far conoscere allo Eminentissimo cardinale Zappata, che quanti
gli escono di mano pappagalli io glieli rimando consiglieri. -
Don Pedro con molta
accuratezza si pone a leggere, e tuttavia leggendo pensava a quello che fosse
da farsi; imperciocchè è fama che il Duca di Ossuna fra le altre
sue qualità possedesse quella di dividere contemporaneamente la sua
attenzione sopra svariatissimi oggetti, come leggere una cosa, e pensarne
un'altra; o pensare al tempo stesso a più cose; o conversare con varie
persone udendo senza perdere sillaba, rispondendo a segno, e al punto stesso
scrivere dispacci intorno a materie importantissime. Io ho detto
facoltà, ma doveva dire vizio; conciossiachè questo abito alteri
la virtù intelettuale, siccome il guardare strambo guata la visiva.
Adesso, mentre leggeva meditando, conobbe: non correre più tempo
opportuno di provocare il Papa; anzi con ogni maniera di riguardi doverselo
tenere bene edificato, imperciocchè egli si fosse messo in braccio alla
Francia assolvendo Enrico IV, e stringendo con quel regno vincoli antichi. Francia,
cessata la guerra civile, presto tornerebbe più bella, e più
gagliarda che mai, per la facilità maravigliosa che possiede a fare
scomparire in un giorno le rovine di un anno; mentre, all'opposto, Spagna
spirare, come Crasso, con la bocca piena di oro: le flotte, studio indefesso di
dieci anni del re Filippo II, distrutte da un colpo di vento; i Paesi Bassi
rimasti fitti a Spagna nel palato come l'amo al pesce cane; Germania avere teso
sempre la mano per prendere, e mai per lasciarsi pigliare; consumato seicento
milioni di ducati; cagionato la morte di venti milioni di uomini; empito di
rovine e di odio il mondo, e della passata grandezza oggi rimanerle la superbia
soltanto([139]).
Formarsi a poco a poco il turbine contro la casa di Austria, di Germania e di
Spagna. E al Papa, già sottratto dal dominio di Spagna, non doversi
somministrare pretesto di odiarla, dacchè, baldanzoso a cagione del
fresco acquisto di Ferrara, per poco che s'inciprignisse, era uomo a fare vive
le sue pretensioni sul regno di Napoli; nè gli sarebbero mancati
soccorsi francesi, nè i milioni di oro messi da Sisto V in castello
parevano per anche reputi a fondo: Clemente VIII poi mostrarsi di natura meno
bestiale di Sisto, e qualche termine di buona composizione potersi trovare con
lui: d'altronde, come vecchio, dovergli piacere che i trambusti cessassero per
fondare la grandezza di casa sua, nel che procedeva accesissimo, e per purgare
gli stati della Chiesa dalle bande dei ladri che gì'infestavano. In
tutti i paesi questo vediamo accadere ordinariamente dopo le guerre; e Roma
aveva terminata pure ora la impresa di Ferrara, e in ogni tempo fu terreno
classico pei banditi. Papa Aldobrandino in questa parte non mostrarsi punto
meno severo del Montalto; rammentandosi il Duca ottimamente, come creato
Cardinale dal medesimo, e conoscendolo a prova asprissimo e spietato,
giubbilando esclamasse: avere pure alla fine trovato un uomo secondo il suo
cuore!([140])
Ancora, oltre il piacere grande che avrebbe fatto al Papa porgendogli occasione
di palesare al mondo la diligenza adoperata da lui per rimettere in assetto i
suoi dominii, gli pareva cotesta essere matassa da doversi sbrogliare a Roma...
e poi... e poi più di tutto gli piacque, ed anzi fu questa la ragione
capitale, prendere da cotesto fatto occasione di mortificare il segretario che
lo aveva sorpreso ad insegnare oscenità al pappagallo, e il vicario che
lo aveva mandato. Così mescolato a molta scoria si cava l'oro dalla
miniera, e per questa volta il destino folleggiando lo affinava.
- Don Ynigo; Montezuma,
salvo onore, si mostrò troppo più acuto di voi quando mi ha
persuaso a leggere carte che non avete letto, e che dovevate leggere voi.
Questo è negozio appena incominciato, e si vorrebbe tagliare il capo del
filo per perderne ogni traccia. Viva Dio, che prudenza sia questa io non so
vedere! Bisognerà inviare questo uomo sotto buona scorta a Roma,
accompagnandolo con lettere adattate a gratificarci l'ottima mente di Sua
Santità. Esaminerete come, sebbene trattisi di misfatti commessi nella
nostra jurisdizione, tuttavolta sembra che sieno stati preordinati di lunga
mano da persone di alto affare dimoranti a Roma. D'ora in poi, signor
Segretario, non mi farete rapporto veruno se non previa diligente lettura delle
carte relative; e tenetevi per avvisato. In quanto al signor Vicario, mi sono
accorto, recandomi io stesso alla vicarìa, che sta assente dallo ufficio
troppo più spesso che non conviene per la importanza delle funzioni che
esercita; mi pare oltre il dovere svagato; e certo poi la età
gl'indeboliva il senno, che non ebbe mai troppo anche nei giorni migliori.
Speditegli pertanto lettere di dispensa con la pensione che merita,
sostituendogli il suo Collaterale, persona di proposito e manierosa. A noi
così giovi sempre la fortuna come oggi, la quale ci ha risparmiato la
firma di una sentenza di morte, e offerto adito a confermarci nella benevolenza
del Sommo Sacerdote, del quale avranno compre mestieri i Principi savii,
finchè vorranno durare a reggere con freno di autorità assoluta
li popoli soggetti. -
E tutto questo per essere
stato sorpreso il Duca di Ossuna a insegnare una parola oscena al pappagallo!
Ridere? Oh! se questo fosse tempo opportuno di ridere io vi condurrei nel buio
dove si cova il destino dei popoli, e vi chiarirei come da cause più
lievi, spesso meno oneste, e talora più burlevoli, derivassero guerre,
rovine di stati, distruzioni di popoli, ed altri dei più funesti
flagelli della umanità.
Il segretario si partì
dal cospetto del Vicerè curvo come se lo avesse caricato con mille
libbre di peso. Quando gl'impiegati ricevono una mortificazione si studiano
rovesciarla sopra gl'inferiori; ella è come un sasso, che rotola
finchè trova scalini; ma no, il paragone non mi sembra adattato; direi
piuttosto, che la scintilla del malcontento, sprigionata nelle alte regioni,
ricerca velocissima le parti più recondite delle segreterie, dove
però si sperpera fra tanti, che sovente o non la sentono, o non la
curano; e ad ogni modo tutti con una squassatina se la gittano via dalle
spalle.
Il segretario annuvolato
passò dinanzi al vicario impaziente, e gli disse torbo «aspettate!» Dopo
venti, e più minuti il segretario, maggiormente torbo, ripassa per
entrare nella stanza del Vicerè, e dice al vicario, maggiormente
impaziente, «aspettate!» Il segretario dopo lunga ora esce dalla stanza del
Vicerè, e al povero vicario, che non capiva più nella pelle per
la rabbia, ripete per la terza volta torbidissimo «aspettate!»
Il capo del vicario aveva
girato dall'uscio della stanza del Vicerè a quello della stanza del
segretario, e da questo a quello come un girasole: alla fine, dopo inenarrabile
agonia, esce per la quarta volta il segretario; e, messo fra le mani al vicario
un plico suggellato, lo squadra di traverso, lo inchina, e senza dire un fiato
sparisce.
- Ouf! - borbottò il
Vicario, - questi Spagnuoli fumano come cammini: giuoco che costui al suo paese
avrà suonato le campane in qualche convento, non cibando mai miglior
vivanda che la broda dei frati; ed ora ci viene a squadrare dall'alto al
basso... a fare lo idalgo, con noi - che abbiamo in corpo nobiltà quanta
il re. - E questo mettermi in mano suggellato il plico, o che novella è?
- Forse sarà segno di attenzione, e riguardo alla persona e alla carica:
- deve essere così: - e allora io non troverei in ciò da
biasimarli, - anzi gli lodo; - e correva via a gambe.
Prima di proseguire il
racconto del mio Vicario bisogna che mi sbrighi del segretario. Ora vuolsi
sapere come, tornato a casa, egli dicesse al figliuolo, che gli andava incontro
tutto festoso: «Figliuolo mio, facciamo le nostre valigie e ritorniamo in
Ispagna, perchè qui in Napoli l'aria non tira più buona per noi».
Signore! rispose il figliuolo, che cosa vi è mai accaduto di nuovo?
Avreste per avventura mancato di rispetto alla nostra santa religione? «Peggio,
figliuolo mio, peggio». Avreste, ohimè! ucciso in duello qualche
gentiluomo di corte? «Peggio». Per sorte, avreste ardito inalzare i vostri
affetti fino alla Serenissima Viceregina? «Peggio ancora». Voi mi spaventate;
ma che, dunque? «Ho sorpreso il potentissimo Duca di Ossuna sciupando il tempo
a insegnare parole oscene al suo pappagallo». Misericordia! è finita per
noi. -
Adesso torniamo al Vicario.
Egli giunse ansante, bagnato di sudore alla vicarìa: si pose a sedere
con il Collaterale al fianco, notari, e copisti; fece rientrare sbirri,
valletti, carnefice, e vittima, che fu portata a braccia col capo spenzoloni
giù come ubbriaco. Il Vicario levò le ciglia in su, e quando li
vide tutti attenti passeggiò i suoi sguardi allo interno nella miseria
del suo orgoglio, poi ruppe il suggello e si pose a leggere,
- Come? Come? qual tradimento
si è questo?
- Che avvenne? Che fu? Che
cosa è stato? - si udiva a coro replicare dintorno.
- Sono tradito peggio di
Cristo; - e piangendo si coperse gli occhi con le mani.
Il Collaterale, che gli stava
al fianco come lo jakal alla jena, gittò lo sguardo obliquo su le carte;
e, vedendovi scritto il suo nome, con un baleno di malignità
indovinò il mistero: onde in un punto, postergato ogni rispetto,
allungò le mani bramose; ed arraffando le carte si accinse a leggerle,
rovesciato il capo su la spalliera del seggiolone. Nel conoscere ch'era stato
promosso alla carica di Vicario in luogo di don Gennaro Boccale fu per
ispiccare un salto, prorompere in pazze risa, battere palma a palma, fare cose
insomma da spiritato; ma si contenne, e, col collo torto più
loiolescamente che potè, con un risolino sopra le labbra sottile quanto
il filo del rasoio gli favellò:
- Avvocato Boccale (di secco
in piano gli toglieva il titolo di Vicario) credete che mi sento proprio
trafiggere il cuore per la vostra disgrazia; molto più che, dentro
domani, avrei a pregarvi di lasciarmi sgombra la casa...
- Ed io credo che non vi devo
credere nulla, signor Collaterale. Intanto io me ne vado per le scale: badate
che voi, don Ciacchero, non abbiate un giorno a uscirne dalla finestra. - E
sì dicendo don Gennaro si levò tutto infuriato; e allontanandosi
dal palazzo col garbo di Scipione quando mosse in esilio, esclamava: «Ingrata
vicarìa! tu non avrai la mia cappa».
Così a mannaia vecchia
sostituivasi mannaia nuova, e i miseri accusati ebbero ad accorgersi ben tosto
ch'era stata affilata di fresco, Intanto il Vicario novello leggendo oltre il
dispaccio del Vicerè conobbe come la sentenza di Marzio non dovesse
eseguirsi altramente, bensì avesse ad inviarlo sotto buona scorta a
monsignore Governatore di Roma, la quale cosa egli fece con la diligenza
consueta agl'impiegati nuovi, o nuovamente promossi, secondo il costume delle
granate; e per la più parte di loro il paragone non è ignobile
abbastanza.
Il licenziato Boccale
ridottosi a vivere in altra casa, stette parecchi giorni smemoriato come se
avesse ricevuto un picchio sopra la testa, e di ora in ora prorompeva in risa;
ell'erano coteste le gocce grosse precorritrici della tempesta: per ultimo la
tempesta scoppiò, e terribilissima, nella quale rimase annegata la sua
intelligenza: del cuore egli aveva fatto getto da tempo immemorabile, e solo
(infelice reliquia!) gli rimase a galla l'agonia di tormentare. Tutto periva in
lui tranne la libidine di Vicario criminale, ed a ragione; conciossiachè
cotesta qualità per conservarsi non abbisogni punto d'intendimento,
bastando il solo istinto di belva. Nei feroci delirii fondò un'alta
Corte di Giustizia istituendo offici di sbirro, accusatore, giudice, e boia; e
tutte queste incumbenze, come se altrettanti benefizii semplici fossero,
accumulò sopra il suo capo, risolvendo da matto quello che già
era andato spesse volte per la mente dei savi: voglio dire, che componendo le
rammentate cariche diverse specie simpatiche, e relative fra loro, amore di
ordine persuadeva a classarle sotto la stessa famiglia, e amore di economia, a
cumularle tutte sopra una medesima testa, - almeno in certi tempi e a certi
luoghi.
Il licenziato don Boccale
incominciò a processare i volatili del suo cortile: pretesti non gli
mancarono, e, comecchè non sapesse col suo cervello matto distinguere
gl'innocenti dai rei, nondimeno procedendo perfidamente a tastoni dichiarava,
che tutti, o taluni avevano commesso il delitto; e poi, che tutti erano
stati complici a farlo, o impotenti a prevenirlo; e finalmente, che il
delitto non risultava già da uno o più fatti peculiari,
bensì da una congerie di cose connesse, complesse, e per di
più continuate; per le quali, e con le quali tutti come
felloni, e di perfido cuore, invocato prima il nome santissimo di Lui,
che sempre sta vicino a chi lo sa chiamare, tutti dannava irremissibilmente a
morte. Di questo piccola cura prendeva donna Carmina, perocchè i
giustiziati fossero da lei (che si era assunto il carico dell'Arciconfraternita
della Misericordia) trasportati con ragionevoli intervalli nella pignatta, e
quivi tenuti sepolti finchè non avessero fatto buon brodo. Quando i
polli vennero meno, egli mosse terribilissima accusa contro Giordano cane di
casa: certo da anni ben lunghi ei gli aveva badato le sue masserizie dai ladri;
una volta ancora gli salvò la vita, ma invano; fedeltà e amore, e
beneficii fatti lui non iscamparono dalla rabbia del giudice matto: egli ebbe a
morire: e di questo anche poco increbbe a donna Carmina, anzi ci ebbe piacere,
dacchè il cane fosse vecchio, e per di più aveva perduto un
occhio. E poi, si sa, gli anni dei servi quando diventano troppi pei padroni,
anche battezzati e cattolici, formano capo di delitto supremo; e di ciò
fanno fede i coloni di certa parte di America, i quali con tranquilla coscienza
accusano gli schiavi vecchi e disutili al Governo di non commessi misfatti,
ond'egli gli ammazzi, e in parte ne rimetta il prezzo!
Morto il cane venne la volta
della gatta, delizia di donna Carmina: se mai visse al mondo gatta incolpevole,
proprio fu quella; dopo tanti anni di buona condotta le si potè imputare
un errore solo: rubare un cacio fresco dallo armario([141]). Ahimè! Anche i
santi cascano, e la tentazione superava le forze della gatta; non ebbe rispetto
il fiero giudice alla fragilità del sesso, al naturale istinto, alla
provocazione del cacio fresco, e al prolungato digiuno, dacchè resultava
dagli atti, che da bene ventiquattro ore il povero animale era rimasto senza
governo: ogni circostanza attenuante rigettò, e come rea di famulato
qualificato da scalata, e colta in fragranti, condannò barbaramente
a morte. Donna Carmina si gettò ai piedi dello inesorabile, supplicando
con molte lagrime la grazia della gatta diletta; il giudice parve commuoversi,
e rispose «vedremo»; di che racconsolata la donna, pensò poter vivere
sicura. Ahi! sicurezza funesta. Un bel giorno levandosi da letto, la prima cosa
che le si parò davanti agli occhi fu la gatta impiccata. Quantunque ella
avesse l'anima e la vita assuefatte a spettacoli quotidiani di orrore, non
resse a quello; ed irrompendo insana con furiosissima ira, empì di
ululati la casa e la contrada; di atroci contumelie lacerò il consorte.
Per colmo d'ingiuria, quando armata di coltello si fece a tagliare lo infame
capestro, e riscossa la salma diletta dal patibolo comporla in sepoltura
onorata, il giudice le si oppose risolutamente dicendo, che non si aveva a
disturbare l'amministrazione della giustizia: rispettasse costei la veneranda
maestà delle leggi; a quello che si attentava commettere ella avvertisse
due volte, chè egli voleva, e sapeva adempire il suo dovere:
fellonìa espressa essere il levare di su la forca lo impiccato; e
ricordasse per suo governo, che chi spicca lo impiccato, lo impiccato impicca
lui. Figuratevi come gli animi s'invelenissero! Gli antichi dolci appellativi
mutaronsi in orrende minacce, e dalle male parole trascorsero in peggiori
fatti: nè il Vicario uscì lieto dalla baruffa, che riportò
il capo pelato, e la faccia in parte graffiata, in parte pesta. I vicini
accorsi li separarono un po' con le parole, e un po' co' manichi delle granate;
anzi più con questi, che con quelle; quindi fecero prova di ritornarli
in concordia, e crederono esservi riusciti.
Ma il Vicario, rotto nelle
turpi slealtà del suo mestiere, appena profferita la parola del perdono
pensò, che se aveva perdonato come uomo, perdonare come magistrato non
istava nelle sue facoltà; onde si pose a istruire segretissima procedura
di lesa maestà, violenza pubblica, impedita amministrazione di
giustizia, e offese qualificate contro il Magistrato nello esercizio delle sue
funzioni; insomma rovesciò il sacco del codice criminale contro donna
Carmina. Tutto questo bastava, e ce ne avanzava, per una condanna di morte: e
così fu. Il giudice profferì sentenza capitale, e da quel giorno
in poi ogni sua cura pose per mandarla ad esecuzione.
Certa notte, che donna Carmina
dormiva placidamente, il buon marito le passò cheto cheto il laccio
intorno al collo, e poi di un tratto la tirò su per le traverse del
cielo del letto. Compita la opera riprese sonno tutto contento, e la mattina si
mise a sedere sul letto aspettando che la Carmina si svegliasse, per godere
della sua sorpresa nel trovarsi impiccata([142]).
Lo trasportarono nell'ospedale
dei pazzi dove un giorno, per ammazzare l'ozio, non potendo impiccare altri,
impiccò se stesso alle inferrate della stanza.
Oh! si fosse impiccata con lui
tutta la generazione dei Vicarii criminali.
CAPITOLO XXII.
LA TORTURA.
Barbarigo «Egli non versò una lacrima.
Loredano «Due volte gridò.
Barbarigo «Un santo lo avrebbe fatto anche con la corona
celeste davanti
gli occhi, se fosse stato sottomesso
a così
barbara tortura; ma egli
non chiese
misericordia... quei gridi non
avevano nulla
di supplichevole; glieli svelse
il dolore, e
non furono seguitati da veruna
preghiera».
Byron, I Due Foscari.
Beatrice amava il sole di
autunno, i raggi del crepuscolo, e le ombre lunghe dalla parte di occidente.
Spesso, in compagnia della cognata donna Luisa, che aveva appreso ad amare come
sorella, e reverire qual madre, si piaceva aggirarsi per le strade di Roma
seguita dall'uomo nero([143])
e da due o più staffieri, giusta il costume delle patrizie romane. Certo
giorno, andando esse, secondo il consueto, a diporto, riuscirono alla piazza
Farnese: quinci proseguendo per la strada della Corte Savella giunsero nella
via Giulia: a metà di questa gli occhi di Beatrice si fermarono sopra
una fabbrica di apparenza lugubre; nera, vastissima, senza finestre od altre
aperture tranne la porta, bassa per modo, che non fosse dato ad uomo passarla
se molto non si chinasse con la persona([144]).
Sopra lo stipite della porta
un Cristo condotto in marmo di mezza figura apriva le braccia in atto di
favellare all'ospite dolente, trasportato là dentro, queste parole:
«Quando l'angoscia del patire ti vincerà, se sei innocente pensa a
quello che, innocentissimo, io soffersi; se colpevole, considera che in
qualunque momento tu mi volga il cuore pentito io tengo le braccia aperte per
istringerti al seno».
Contristava il cielo un vapore
umido dello scilocco, e l'aere denso uscendo dal Tevere investiva la fabbrica
tutta; sicchè dalle buche, lasciate nelle pareti per inserirvi al
bisogno le travature dei ponti, filtrava lo stillicidio in forma di aguglie.
Beatrice stette a considerare cotesto lugubre edifizio; e saputo essere quello
la prigione della Corte Savella, lieve percosse sul braccio alla cognata, e
favellò:
- Non ti pare, che pianga?
- Chi?
- Cotesta carcere.
- Certo molte hanno da essere
le lacrime che si piangono là dentro; e se si fossero fatta strada a
sgorgare traverso i muri, io non me ne maraviglierei.
- E quelle erbe vetriole, che
spingendosi per le commettiture delle pietre hanno trovato modo di sbucare
fuori, non paiono le preghiere dei carcerati, che escono a stento da coteste
mura?...
- Pur troppo paiono! E come
coteste erbe rimangono attaccate alle pareti del carcere per esservi sbattute
dal vento, o riarse dal sole, le preghiere si volgono invano al passeggero
perchè ricordi chi geme là dentro, e ne senta pietà.
- Luisa! E quelle tasche, che
attaccate a spaghi pendenti di sopra, ai muri scendono giù fin presso a
terra, che cosa ci stanno a fare?
In questa ecco passare
lì presso un plebeo romano dalla lingua mordace, e dagli atti petulanti,
il quale avendo inteso la domanda della giovane, quasi invitato dalla onesta
bellezza delle gentildonne, rispose:
- E' sono archetti tesi dai
carcerati alla carità di passo; ma al tempo, che corre, la carità
non si lascia chiappare più a volo, nè a fermo...
Ed un altro plebeo, sopraggiungendo,
disse:
- Non è come la conti.
Coteste tasche, eternamente vuote, stanno lì per dare immagine delle
mammelle della carità dei Preti, con le quali allattano il povero
popolo.
Le gentildonne rimasero
contegnose a quei motti; e poichè si furono assicurate che nessuno le
scorgeva, quanta moneta si trovavano addosso distribuita prima per coteste
tasche, partirono.
- Non già la moneta,
osservò Beatrice; bensì la idea, che altri pensa a te, e come
può ti soccorre, deve tornare di consolazione grandissima ai derelitti.
Nè si dica che il baleno non giova; perchè talvolta basta a
illuminare la strada, e a ritrarre dallo abisso il pellegrino smarrito.
- Veramente, riprese donna
Luisa, io comprendo quanto abbia a recare conforto in cotesto sepolcro di vivi
conoscere come qualcheduno senta pietà di te... però non lo
vorrei provare.
- Noi siamo foglie davanti al
soffio della Provvidenza; ed io, qui presso a queste mura dolorose, imparo la
ragione per la quale Gesù Cristo annoverò la visita dei carcerati
fra le opere di carità fiorita. Guarda bene, e vedrai starsi sopra la
porta del carcere la paura che respinge addietro il visitatore, e con labbra
tremanti gli sussurra: va via, chè il giudice non ti sospetti complice
del carcerato, e te pure imprigioni; sta l'abiettezza che, fatti i conti, trova
che dall'albero cadente bisogna allontanarci, per tornare poi quando è
caduto a farne provvista di legna da ardere; sta il rigore dalle viscere di
pietra, il quale dissuade da sentire pietà dei colpevoli, perchè
per lui l'uomo in carcere è reo, predica sempre meritata la pena, ed
infallibile l'autorità; vi è... Ma ahimè! se io volessi
rammentare tutte le fantasime, che stanno appollaiate su la porta del carcere
minacciando da lungi i visitatori, sarebbe troppa impresa, e per di più
fastidiosa; però non reca punto maraviglia se i carcerati passino
ordinariamente la vita soli.
Così alternando
malinconici ragionamenti si condussero a casa sul fare della sera. Don Giacomo
con la famiglia erasi ridotto nello antico palazzo dei Cènci, e sotto
questo tetto abitavano tutti, parte sicuri, parte paurosi, e Beatrice in cuor
suo desolata; quantunque non lo desse a divedere, e presaga d'impenitente
sciagura.
Alla veglia dei Cènci
non manca mai frequenza di familiari e di amici per la parentela grande che
aveva la casata, e la bella rinomanza di cortesia; ma stasera non si è
veduto ancora comparire veruno, quantunque le due di notte fossero battute alla
torre di nona. I convenuti s'ingegnano a tenere vivo il colloquio, ma soventi
accade che la proposta rimanga senza risposta, e poco si prolungano i dialoghi
penosi: il sollazzo diventa fatica; ognuno di loro desidera starsi solo in
colloquio con l'anima sua; ma fatto silenzio, della propria solitudine
impauriscono: allora si ode fragoroso lo spensierato folleggiare dei fanciulli,
e rabbrividisce come uno scoppio di riso tra i funerali, sicchè
ritornano con favelli scomposti a divertire l'affannato pensiero. Donna Luisa
incomincia:
- Orsù, io mi accorgo
che questa sera domina fra noi lo umore taciturno: prendiamo l'Orlando furioso,
e proviamo sollevarci lo spirito con qualcheduna di coteste maravigliose
fantasie.
- Io per me l'ho a noia per
quel suo costume piuttosto discolo che facile, notò Beatrice; e per di
più non mi garba quel fare leggiero: leggiamo invece, se vi piace, la
Gerusalemme liberata.
- A me piace, soggiunge breve
don Giacomo.
- Ma voi non la pensaste
sempre a questa maniera; per parte mia non mi rimuovo, e come pensai altra
volta penso anche adesso intorno a messer Ludovico: fantasie, superstizioni,
stranezze, amori, battaglie, buone o ree passioni, pianto, riso, terra, cielo e
inferno, tutto cantò quel benedetto ingegno: chi più di lui
assomiglia alla natura sempre varia, e sempre bella? Vedetelo come nuvola di
estate dondolarsi gaiamente fra gli aliti della sera, e ad ogni momento mutare
di forma: guizza per un mare di piacere, e, a modo del delfino, ad ogni
scuotere di squamme egli cambia colore. Parlando del poeta quasi mi pare
diventare io pure poetessa, dacchè i suoi versi passando per la mia
memoria vi scuotono l'ale pregne di poesia. Ditemi, in grazia, Armida forse non
emula Alcina? Sì certo; ma in poema così solenne, come pretese
comporlo il signor Tasso, cotesto colore sfacciato offende; mentre nei vispi
canti di messer Ludovico diletta, e piace: arrogi che diavoli e streghe,
incanti, e selve custodite da demonii femminini quanto mi talentano
nell'Orlando, perchè davvero vi stanno come in casa propria, altrettanto
nella Gerusalemme m'increscono. L'Ariosto parmi meglio avvisato del Tasso,
perocchè il primo cotesti errori schermendo s'ingegni bandirli dalla
mente del popolo; mentre il secondo favellando sul sodo, ve li conferma. - Ora
nei poemi solenni il buon poeta deve valersi della religione depurata dagli
errori vulgari, non già amministrate agl'ignoranti il male per medicina.
Nel demonio abbiamo a credere, e Dio ci salvi dalle sue tentazioni; ma non
dobbiamo nella maga Annida, e negli stregoni Ismeno ed Idraotte; anzi è
peccato; onde io giudico ohe il signor Tasso, avendo in poema religioso
accreditato queste favole malefiche, non abbia punto bene meritato della
umanità.
- Poter del mondo! Luisa, ma
sai che tu difendi il tuo Orlando
Come orsa, che l'alpestre
cacciatore
Nella petrosa tana assalito
abbia?
Io te la do vinta; leggiamo,
se ti aggrada, la storia di Ariodante e di Ginevra.
- Leggiamola pure, soggiunse
don Giacomo; comecchè quella di Olindo e Sofronia mi paia troppo
più mesta cosa...
- Ma noi non vogliamo
malinconie, esclama donna Luisa; se di queste avessimo vaghezza non farebbe di
bisogno uscire dall'Orlando. Sapreste voi indicarmi più pietoso racconto
che quello di Brandimarte e di Fiordiligi, o l'altro di Zerbino e d'Isabella?
- Dirai bene, notò
Beatrice; ma che vuoi tu? I casi di Olindo e di Sofronia m'invogliano al pianto
come di fatto veramente successo; mentre le storie dell'Ariosto mi hanno l'aria
di finissime immaginazioni: e poi, vedi, temo sempre che ad un tratto gli
prenda il capriccio di farmi ridere;... ma via, leggiamo di Ginevra.
Donna Luisa, altera alquanto
della riportata vittoria, andò a cercare il volume; e quello aperto,
pose davanti a don Giacomo dicendo:
- Incominciate voi.
Don Giacomo appena vi ebbe
gittato gli occhi sopra diventò pallido in faccia, e prestamente
rispose:
- No... no... a voi tocca
essere prima.
- Ed io incomincerò; ma
aveva sbagliato: la storia non principia al Canto sesto, bensì al
quinto; e sfogliato di alquante pagine il libro, prese con bella grazia a
declamare dal verso Tutti gli altri animai che sono in terra, fino ai
seguenti:
Quel, dopo molti preghi, dalle
chiome
Si levò l'elmo, e
fè palese e certo
Quel che nell'altro canto ho
da seguire,
Se grato vi sarà la
storia udire.
Ora basta, disse donna Luisa
riposandosi; qualche altro sottentri.
- Deh! in grazia Luisa, la
supplicava Beatrice, continua; chè con la tua voce deliziosa tu fai
all'Orlando quel medesimo officio, che fa la bella vesta alla bellezza: Chè
spesso accresce alla beltà un bel manto, per dirla col tuo Ariosto.
- Lingua dorata! E sì,
e sì che avresti a sapere essere la lusinga peccato, ed anche dei
grossi. Non in virtù delle tue lodi pertanto, bensì per lo amor
che ti porto mi fia grato compiacerti in questa come in ogni altra cosa, ch'io
possa.
Adesso come familiarissimo di
casa, senza farsi annunziare, pone il piede su la soglia della porta della sala
un giovane di bella sembianza, in abito prelatizio colore pagonazzo,
dall'occhio azzurro, dalla chioma bionda: non salutò, ma quivi fermo e
taciturno si pose a considerare quel gruppo di teste, maraviglioso argomento
pei pennelli fiamminghi, che in quel tempo erano in fiore,
E donna Luisa, non avvertendo
il sopraggiunto, con voce vibrata continuava: - Canto sesto.
Miser chi male oprando si
confida
Che
ognor star debba il maleficio occulto;
Chè,
quando ogni altro taccia, intorno grida
L'aria
e la terra stessa in ch'è sepulto:
E
Dio fa spesso che il peccato guida
Il
peccator, poichè alcun dì gli ha indulto,
Che
se medesmo, senza altrui richiesta,
Inavvedutamente
manifesta.
Il Prelato questo intendendo
stette per ritirarsi inavvertito com'era venuto, ma gli parve malagevole farlo;
e poi don Giacomo non gliene dette campo; però che alzata la testa lo
vedesse, e gli gridasse:
- Ben venuto, Guido nostro...
- Qui si fa accademia:
avvertite, di grazia, che in Roma non vanno a finire bene siffatte accademie
letterarie; e Pomponio Leto informi([145]).
- Non ci è pericolo,
riprese don Giacomo; noi stiamo in famiglia, e per aggiungervi voi io spero che
in famiglia rimarremo pur sempre.
- Questo con tutto il cuore
desidero; e poichè in famiglia abbiamo a restare, piacciavi in cortesia,
donna Luisa proseguire nella lettura.
Di vero nella famiglia
Cènci consideravasi monsignor Guido Guerra come fidanzato della
Beatrice: questa notizia andava per le bocche della gioventù romana, e
lui chiamavano avventuroso, e al suo felice stato invidiavano: sapevanlo anche
in corte; e il Papa lo sofferiva acerbamente sì perchè avesse
posto la mira su Guido, conoscendolo sufficiente molto e di abito gentilesco,
per inviarlo legato a qualcheduna delle Corti straniere; sì
perchè egli non lo avesse prima richiesto del suo consenso, o per lo
meno consultato; infine gli dava uggia quel sentirlo proclamare sposo, e
vederlo con la mantellina addosso: conciossiachè uno dei punti
più ardentemente combattuti fra Cattolici e Luterani fosse stato, e
durasse ad essere, il celibato dei preti. Maffeo Barberini, cardinale di molto
seguito, come intrinsecissimo di Guido, lo tenne avvertito di quanto
buccinavasi in corte, ond'ei si governasse: e questi informatosi se il
memoriale di Beatrice al Papa avesse avuto corso, e sentito che no, fu cauto di
ritirarlo dallo ufficio, temendo che, capitato sotto gli occhi di Clemente, non
valesse a suscitargli qualche sospetto nell'animo, già troppo per natura
sospettoso.
Guido con leggiadra scioltezza
si accostò alla Beatrice, e fece atto di prenderle la mano per recarsela
alla bocca; se non che questa, invece di porgergliela, si levò risoluta
in piedi accennandogli che la seguitasse. Ella lo condusse nel vano di una
finestra, e l'ampia cortina li ricoperse completamente.
Però rimasero celati
colà uno istante; un solo istante; tutto al più quanto un ferito
a morte pone a raccomandare l'anima a Gesù e a Maria prima di spirare, e
uscirono poi uno dopo l'altro, e tali nel volto da chiarire, che invece di
avere stretto il laccio di amore, lo avessero rotto con violenza, e per sempre.
Invero ognuno di loro sentivasi il cuore legato; ognuno di loro strascinava un
tronco della catena, e nondimeno i capi erano stati infranti irreparabilmenle.
Una parola di Beatrice l'aveva spezzata come colpo di scure: con lo stringere
la mano dello uccisore del padre suo non si rendeva ella complice del
parricidio? Questo aveva pensato, e questo nel brevissimo istante fu da lei al
suo amatore significato.
Guido, percosso da sgomento,
adducendo il pretesto di certo suo negozio che lo chiamava altrove, poco si
trattenne, e come meglio poteva celando lo affanno si accomiatò. Donna
Luisa accortasi della confusione del giovane, e attribuendola a qualcheduna di
quelle brevi procelle, che agitando accrescono la fiamma di amore, disse
scherzando:
- Beatrice, Beatrice! non
essere tanto corriva a scartare il re di cuori; bada, che carta male scartata,
spesso è partita perduta.
Monsignore Guido appena svolto
il canto della contrada occorse in un suo fidatissimo servo, il quale veniva
frettoloso in traccia di lui. Appena lo ebbe scorto, quegli gli disse:
- Monsignore l'eminentissimo
Cardinale Maffeo ha mandato un donzello del Governatore al palazzo, affinchè
adoperasse ogni diligenza per trovarvi, e consegnarvi questo paio di sproni([146]).
- Sproni! E non ha egli
soggiunto altro?
- Sì; ha soggiunto, che
tornato l'Eminentissimo di campagna aveva trovato in palazzo monsignore Taverna
che lo aspettava; e dopo essere rimasto chiuso lungo tempo con lui, l'Eminentissimo
aveva aperto appena l'uscio della camera e dato gli sproni al donzello,
dicendogli «subito a monsignore Guerra»; e poi era tornato dentro.
Guido soprastette alquanto a
meditare; poi, come illuminato da subita luce, esclamò:
- Ho capito!
In casa Cènci protratta
per qualche altro tempo penosamente la veglia, tacquero tutti. I fanciulli
erano stati condotti a giacere, onde ne seguitava un silenzio profondo solo
interrotto dal fruscìo delle tende seriche, agitate appena da una bava
di vento. Ognuno desiderava separarsi, e, come avviene, a nessuno bastava
l'animo di proporlo; quando ad un tratto si ode un rumore sordo... cresce... si
distingue il calpestìo di molta mano di persone, e vi si mesce strepito
di arme.
Don Giacomo si leva, preso da
maraviglia e da spavento, incamminandosi verso la porta per ispecolare che
nuovità fosse. Appena giunto a mezzo cammino, si aprono gli usci
fragorosi, e un'onda di sbirri allaga non pure il luogo ove stavano convenuti i
Cènci, ma anche tutta la casa. Alcuni rimasero sopra le soglie delle
stanze con le spade sguainate, per impedire lo accesso da un luogo ad un altro.
- Siete arrestati per ordine
di monsignore Taverna, gridò certo uomiciattolo bistorto, che pareva un
grimaldello; il quale postosi le mani sui fianchi, si dava aria da Sacripante.
- E perchè? -
interrogò don Giacomo, con voce che invano ostentava sicura.
- Questo saprete, a suo tempo
e luogo, nello esame. Intanto con vostra buona licenza...
Ma ciò diceva per
ischerno; imperciocchè non avesse anche posto fine alle parole, che
già con le impronte mani lo aveva frugato da capo a piedi. Assicuratosi
per siffatta guisa ch'ei non portava addosso neppure il breve, lo interrogava
beffardo:
- Avete armi sopra di voi?...
Confessatelo addirittura, che sarà pel vostro meglio.
- Ma parmi, che ve ne siate
chiarito con le vostre mani abbastanza.
Altri nel medesimo tempo, con
pari diligenza e improntitudine maggiore, ricercavano Lucrezia e Bernardino, i
quali sbigottiti lasciavansi fare, e piangevano. Certo sozzo, e avvinazzato sbirro
si attenta stendere la mano sul seno della Beatrice; ma questa, prima che lo
arrivasse, gli lasciò andare su la guancia un potentissimo schiaffo.
Proruppero in risa i compagni, e taluno consolandolo gli disse:
- Guanciate di femmina non
fanno sfregio.
- Canchero! Sgraffia la gatta,
rispose il birro simulando allegria; e Beatrice allora, senza sdegno,
alteramente parlò:
- Persone infami non hanno
diritto di mettere le mani addosso a gentildonna romana: mi chiamo pronta a
seguitarvi dove comanda monsignore Taverna; ma voi procurate starvi lontani da
me.
Nel punto stesso un altro
sbirro, fetido di tabacco e di lezzo, pretendeva frugare donna Luisa, che lo
guardava in molto truce maniera; senonchè il bargello lo ammoniva:
- Rimanti, Piero; chè
non ho ordine per lei...
Intanto i fanciulli, desti al
rumore, nelle contigue stanze spaventati piangevano, più degli altri il
lattante; sicchè quinci usciva un suono, che percuoteva le anime di
pietà e di dolore. Donna Luisa, tra lo amore di moglie e lo amore di madre
perplessa, esitò uno istante; alfine cede al grido maggiore della
natura, e muove ad acchetare i figli, e a porgere la mammella al pargolo. Uno
sbirro leva la spada, e, puntatagliela al petto, grida:
- Non si passa.
Donna Luisa guarda fisso negli
occhi lo sbirro, e così gli favella:
- Tu non puoi avere ricevuto
comando d'impedire la madre di allattare il suo figliuolo. Ma se mai qualche
Prete, la quale cosa non conosco, nè credo, chiuso ad ogni affetto di
natura, ti dava questo ordine, gli dirai ch'egli è uno scellerato; tu,
se l'obbedissi, saresti più scellerato di lui; ed io, se vi dessi retta,
più scellerata di tutti. Largo alla madre che va ad allattare il
figliuolo. - E risoluta allontana con la mano la spada, e passa oltre. Il birro
attonito non ardisce fermarla.
Poichè la Corte ebbe
rovistato ogni masserizia, frugato pei mobili e per ogni canto, e non rinvenuto
cosa che le paresse buona ad assicurare, il bargello intimò la partenza.
- E dove ci conducete? -
domandarono tutti ad una voce.
- Lo vedrete.
Donna Luisa adempiuto lo
ufficio di madre, tornava a soddisfare quello di moglie. Accortasi dello
abbattimento del marito preme l'angoscia, e si accosta a lui per dargli animo,
ed abbracciarlo; senonchè lo sbirro, che prima l'aveva lasciata andare,
quasi sdegnoso di avere sentito affetto, si pone fra il marito e lei, e,
respingendola, in molto dura maniera le dice:
- Addietro; qui non venimmo a
sentire piagnistei.
E cosa degna di considerazione
grandissima come gli esecutori di giustizia, qualunque sia il nome col quale si
appellino, e qualunque assisa essi vestano (chè l'abito e il nome nulla
mutano al costume), per ordinario pacati, ed anche cortesi negli arresti dei
volgari facinorosi, procedano poi con villana compiacenza nel mettere le mani addosso
a persone di alto affare. Della quale diversità volendo indagare la
causa, ci parve essere la seguente. Cotesta carnaccia non s'irrita contro i
ribaldi come quelli che sono stoffa tagliata dalla sua medesima pezza, e
perchè in certo modo eglino somministrino materia al mestiero professato
da lei. Lo scultore percuote, e manda a schegge il marmo; il sarto frappa il
panno e lo trapunta, e non per questo essi odiano il sasso, o la stoffa; anzi
così fanno per amore della opera donde sperano ricavare guadagno ed onore.
Gli sbirri ed i ribaldi assai si rassomigliano ai marchigiani, o vogliamo dire
abitatori delle frontiere, i quali spesso passano da una terra nell'altra per
bisogno o per vaghezza: così i primi si trovano ad essere sbirri
perchè in quel quarto di ora non sono masnadieri, ed i secondi si
trovano ad essere facinorosi però che in quel punto non sia loro toccato
di fare da sbirri; e fra loro, tutto bene considerato, altra alternativa non
corre. Epperò s'intendono molto più spesso che altri non pensa, e
molte imprese di misfatti e di arresti si commettono fra loro di amore e di
accordo: essi si corrispondono come l'eco alla voce, come il coltello alla
guaina, come il cherico al prete. Inoltre usare qualunque umiliazione
tornerebbe inutile, imperciocchè i ribaldi ogni loro sensibilità
abbiano ridotta nelle braccia e nei polsi. Infatti tu non gli odi profferire
altre parole, se non queste une: «Compare, non istringermi tanto forte!»
Sarebbe proprio un dare del capo nel muro il tentativo di eccitare in costoro
vergogna, o pudore. All'opposto quando la fortuna mette in mano allo sbirro, od
altro arnese cotale un uomo dabbene, gli si allargano le viscere, e si
rifà in un'ora del diuturno disprezzo nel quale venne saziato; il
serpente invece di fango trovò finalmente da mordere vive carni, e
infondere il suo veleno dentro vene che sentono. Percorri i tempi, e non
troverai signorie peggiori di quelle dei servi fatti padroni; coteste appaiono,
e sono i lupercali della feccia umana: a misura di carboni, essi pagano con
moneta di ferocia le umiliazioni patite. Alla mota pare essere onorata quando,
pesta dai piedi, schizza a deturpare la veste signorile. I rettori dei Popoli
s'ingegnano tramutare, e travasare i berrovieri; in questo adoperano ogni arte,
e sempre invano. I littori si assomigliano agli apparitori, gli apparitori agli
sbirri, ai donzelli, ai fanti, e ad altri cotali antichi, moderni, e
modernissimi cagnotti della polizia. Chi più ne ha, più ne metta;
parenti sono tutti in vinculis. Cerca tra cento lupi il meglio, e forse
lo troverai; non lo cercare fra costoro, che opera perduta sarebbe. Ogni potere
ne abbisogna, e li mantiene e s'industria nobilitarli, e levarli a cielo. Egli
è nulla: uno scarabeo, per raggio di sole che gl'illumini il groppone
non diventa cavaliere. L'abito morale informa l'uomo, non già il
materiale: sicchè, prendi il più degno soldato, e mettilo sbirro;
non egli migliorerà il mestiero dello sbirro, bensì il mestiero
guasterà lui: e questo è sicuro.
Ahimè! il soldato, il
vecchio soldato convertito in birro! - Io per me, che estimai sempre, e
tuttavia estimo il soldato il quale dura il travaglio degli aspri cammini, e
serena nelle gelide notti, e gli ardenti soli sopporta, e per mille disagi si
conduce a perigliare la vita per la Patria senza premio condegno nel presente,
con premio incertissimo nel futuro; tenuto a vile, forse, e certo poi non
curato trascorso il pericolo; io per me, dico, estimai questo soldato come
divinità. E a lui vorrei che si dessero largamente i frutti della terra,
avvegnadio, sua mercè, lo straniero non li colga; a lui le migliori
stanze nelle città, che valse a difendere; a lui reverenza figliale, ed
affetto... onde io quando incontro qualche vecchio soldato avvilito sotto la
veste di sbirro, mi sento scoppiare il cuore dalla passione.
A voi, liberi uomini, tanta
predilezione pei soldati infastidisce. Ma udite me, che parlo aperto; occorre
speditissimo il rimedio per licenziarli: fatevi tutti soldati, come adesso fra
gli Svizzeri, e come una volta (per poco) nelle Repubbliche del medio evo. Io
vi avverto però, che per qualche ora bisognerà abbandonare le
botteghe, e i fondachi; non registrare qualche sessione, o perdere lo sconto di
qualche cambiale; udire più tardi se metta bene la vigna, o se la vacca
sia pregna; forse (sagrifizio più duro!) mancare qualche sera alla
veglia, o al teatro... bastavi l'animo a tanto? Se bastavi, e se sentite la
necessità di vestire a corrotto finchè la servitù della
Patria dura, licenziate gli eserciti stanziali; imperciocchè oltre la
spesa strabocchevole, che sempre portano seco, le armi poste in mano a pochi se
talora difendono la libertà, più spesso convertonsi in arnese di
tirannide. - Privi di virtù civili e di virtù militari, che Dio
vi benedica, o come mai presumete voi acquistare la libertà, ed
acquistata serbarla?
- Voi voleste mietere, e non
seminaste; voi non piantaste, e voleste raccogliere. E quando avreste seminato
e piantato, avreste eziandio dovuto sapere che altra è la stagione del
seminare, ed altra quella del mietere: che alla primavera non si domandano i
frutti dello autunno, nè allo autunno i fiori della primavera; che i
frutti bisogna, prima di coglierli, lasciare al sole perchè maturino; e
colti anzi tempo guastano la pianta, e morsi allegano i denti. Io parlo a voi,
che vi chiamate amici della libertà; però che altrove non sarei
inteso, e forse chi sa se lo sarò da voi. Voi avvisaste, e per avventura
avvisate anche adesso, tenere su ritta la libertà co' chiodi;
però in cotesta guisa fannosi crocifissi, non già cittadini
liberi. Per forza non si fonda libertà, come per forza non fondasi
servitù: per forza si fa l'aceto. Quantunque volte sopra terreno non
dissodato da forte, e generosa virtù tu pianterai con violenza la pianta
della libertà, perderai irreparabilmente gli effetti della persuasione e
della violenza: quella, perchè non bada alle parole, ma ai fatti;
questa, perchè essendo proprietà di tirannide, comunque invocata
dalla libertà, bisogna che a tirannide ritorni. Qui fo punto e torno
agli sbirri: rispetto ai quali, quando hai meditato un pezzo, ti
converrà concludere con la ragione dei gatti, che si tengono in casa per
prendere i topi; o, se ti piace meglio, con quella delle passere, le quali
Rougier della Borgerie raccomanda ai francesi suoi concittadini lasciar vivere
in pace, imperciocchè se ogni anno divorano duegento milioni di libbre
di grano, distruggano ancora centotrentasei bilioni, e quattrocento milioni
d'insetti([147]).
Misericordia Domini super nos! Chi avrebbe mai creduto che tanti insetti vivessero
in Francia! Eppure ci vivono...
Nel cortile trovarono pronte
diverse carrozze con le stoie abbassate; vi entrarono al sinistro chiarore di
lanterne sorde, preceduti, fiancheggiati e seguiti dalla turba dei birri, e si
avviarono al luogo destinato.
Guido vide passare il
corteggio lugubre; ed avvertito dal popolo accorrente del caso, vinto dalla
passione, stava sul punto di manifestarsi e di accorrere, se il buon servo,
forte tenendolo per le braccia, non gli avesse detto:
- Monsignore, voi perdete, e
loro non salvate... libero, giovate a voi e a loro.
Guido, represso in seno il
gemere vano, esclamò:
- Ora staremo a vedere dove ne
conduce la fortuna; e trasse verso casa sua. Giunto a breve distanza
mandò innanzi per ogni buon riguardo il servo, a speculare se si vedesse
gente di corte da cotesta banda. Tornato addietro, questi lo avvertì del
no: ond'egli entrato nelle sue stanze scrisse lettera pietosissima alla madre
sua, nella quale la ragguagliava della soprastante sciagura, e della urgenza di
sottrarsi alle ricerche della giustizia senza perdita di tempo: la lettera
stesse in luogo di abbracciamento, e di addio; in fortuna migliore sperasse; le
avrebbe mandato sue nuove dal luogo ove prima giungesse; in qualunque parte
capitasse, qualunque avventura fosse per accadergli, dopo Dio prima ella
avrebbe occupato l'anima sua. Quindi mutati panni, e tolta seco quanto maggior
copia potè di danaro, uscì dalla porta segreta del suo palazzo,
disegnando guadagnare la campagna; nè andò guari, che
s'imbattè in certa brigata di sbirri incamminata verso la sua contrada,
la quale gli passò da canto, e così com'era travestito non lo
riconobbe. Comprese pertanto il caso farsi grave davvero; licenziò il
servo, e con cauti avvolgimenti si appressò alla porta Angelica; se non
che rifece la via più che di passo, notando da lontano come gli sbirri,
uniti ai gabellotti, quanti volevano varcare le porte minutamente esaminassero,
e perquisissero. Ora vaga improvvido per le strade di Roma fantasticando di
questo e di quell'altro partito, senza riuscire mai a capo di nulla; camminando
ad occhi bassi, ecco lo percuote una luce che scaturiva dai sotterranei di un
palazzo. Guardando traverso la inferriata vide intorno una tavola un gruppo di
carbonai, che passavano il tempo, secondo che fecero i loro padri, ed i
più tardi nepoti loro faranno, bevendo e giuocando, in onta agli sforzi
poco lodevoli del Padre Matteo lo apostolo della temperanza.
Sì certo; poco
lodevoli, e non mi disdico. O filosofi, che Dio vi tenga lontani dalle
disgrazie, mi sapete un po' dire come voi non facciate altro che levare al
Popolo, e a dargli non pensiate giammai? Malthus al Popolo contende i connubii;
il Padre Matteo il bere; altri il giuocare. La suprema felicità a poco a
poco ripongono nella privazione di ogni cosa. Apicio diventato gesuita non
pubblica più libri de arte coquinaria, nè imbandisce le
mense agli amici; solo la esercita per uso proprio, ed a finestre chiuse in
casa sua. - Aristippo recita in bigoncia i sermoni di Zenone, che ha imparato a
mente dopo il convito. Continuate, filosofi; in breve spero persuaderete il
Popolo a risparmiare le vesti, e a cuoprirsi di foglie di fico come il primo
Padre Adamo. La gaia vita che stanno per filarti queste Parche novelle, o
Popolo! «lavorare, soffrire, e morire». Suonate le cornamuse, intuonate il
peana a questi pellegrini Benefattori della Umanità. Davvero così
appare fronzuto l'albero della felicità del Popolo, che merita bene
andare potato dei rami rigogliosi. Noè, ch'era quel gran patriarca che
tutto il mondo onora, e favellava col Creatore a tu per tu, per essersi
inebriato una volta tagliò egli forse le viti? No certamente;
annacquò il vino, e continuò a bere; conciossiachè il vino
letifichi il cuore dell'uomo. Licurgo, pazzo melanconico, recise le viti; ma
Bacco crucciato operò in guisa, che costui scambiando le proprie gambe
pei tralci se le tagliasse di netto; e Bacco fece bene.
Guido si risovvenne allora
dell'oste della Ferrata; e ricordando in quella stretta le parole di
contrassegno, ch'ei gli aveva dato, scese improvviso nella grotta dei
carbonari. Quivi costoro battezzavano quotidianamente il carbone con copia di
mezzine di acqua; non mica per lavarlo dalla macchia del peccato originale,
bensì perchè crescesse di peso: onesta pratica, che si costuma
anche adesso; avvegnadio le cose buone una volta scoperte, ragion vuole che
tanto presto non si dismettano. I carbonari, quantunque Guido comparisse senza
usbergo fra loro, sbigottirono come il Pastore allo apparire di Erminia:
senonchè Guido a rassicurarli incominciò:
- Viva San Tebaldo. e chi
l'onora.
I carbonari si guardavano in
viso irresoluti. Però uno di essi, cui tornarono a grado le sembianze di
Guido, riprese:
- Lodato sia; ma la fatica del
carbonaro è molta, il guadagno scarso.
- San Niccola protegge il
carbonaro, e i suoi guadagni moltiplicano.
- Il carbonaro vive nei
boschi, e lo circondano i lupi.
- Quando i carbonari faranno
lega co' lupi scenderanno al piano dove pasturano gli armenti, e prenderanno le
stanze dei pastori.
- Datemi il segno.
- Eccovi il segno. - E furono
tre baci: uno in fronte, l'altro su la bocca, il terzo nel petto.
- Sta bene: voi siete dei
nostri; non vi è che dire. Nondimeno mi pare strano, andando composta la
nostra consorteria di gente disperata unita insieme dalla povertà, e dal
bisogno di difenderci dai soprusi degli uomini potenti: basta, forse anche voi
sarete dei perseguitati. Che cosa volete? Quale aiuto domandate? Ma innanzi
tratto seguitatemi in luogo più riposto.
Guido pensava avere frainteso,
dacchè in cotesta grotta non vedesse pertugio capace di condurre in
altra parte: però rimase chiarito in breve, avendo i carbonari rimosso
il cumulo del carbone, e sollevata dal pavimento una selce, che aperse lo adito
a più basso, e segreto sotterraneo. Il carbonaro e Guido vi scesero per
una scala a piuoli, e tosto egli intese riporre la selce, e sopra essa di nuovo
ammonticchiare il carbone. In quella stanza si vedevano raccolte masserizie e
argenterie di ogni maniera, e, giusta la empia profanazione di cotesta sorte di
gente, vi ardeva una lampada davanti la immagine di San Niccola venerato come
protettore dei ladri, e non meno solenne nemico dei birri. I carbonari stavano
da tempo immemorabile legati co' banditi della campagna, e li servivano da
fattori nelle città: taluni di loro esercitavano a un punto i due
mestieri. La roba rapita trasportavano in città, e quivi gli argenti
struggevano, e per interposte persone mandavano al conio: le merci affidavano a
certi loro amici mercadanti di Civitavecchia e di Ancona, i quali soprammare le
spedivano a Napoli, a Venezia, o in Levante; onde accadde talora che un
gentiluomo veneziano ritrovasse presso qualche rigattiere del regno il suo
mantello smarrito nella campagna romana, e un barone napolitano si vedesse
servito alle locande di Verona o di Padova co' suoi pannilini, perduti passando
per Terracina. Parecchi in questi onesti traffici avevano avanzato assai, e se
ne sussurrava palesemente; ma la corte non li sapeva cogliere in fallo, e gli
arricchiti non ne scemavano punto di credito; anzi in virtù del bene
acquistato danaro procacciavano ai proprii figli illustri parentadi, e cariche
insigni, ed onorificenze. I cittadini ne mormoravano otto giorni o dieci, non
mica per istudio di virtù, bensì per astio di non poter fare
altrettanto; poi tacevano; e quando incontravano di questa razza nobili erano i
primi a scappucciarsi, e a chiamarli Eccellenze. I nobili antichi in palese
ostentavano spregiarli; in segreto gli accarezzavano, e ne accattavano danaro:
e così a quei tempi remotissimi camminavano le cose di questo mondo.
Oggi poi la faccenda è diversa:
E s'egli è vero, il
fatto nol nasconde.
Guido aperse al nuovo amico,
che la fortuna gli parava davanti, il pericolo in cui si versava, e lo richiese
di consiglio e di aiuto. Costume dei carbonari era muoversi due volte la
settimana: quando veniva in città col carico una caravana, l'altra
partiva per la campagna. Il carbonaio ristretto a favellare con Guido, giunto
in quella medesima mattina, doveva partire dopo tre giorni da Roma a vespro, o
verso l'ave Maria della sera.
Intanto costui in questa guisa
ammoniva Guido:
- Domani manderò fuori
delle porte qualcheduno dei nostri, per vedere se vi fossero nuovità.
Voi vi raderete barba e capelli; vestirete i nostri panni, ed anche dei peggio:
vi tingeremo con certe erbe la pelle, e v'insozzeremo con la polvere di carbone
in maniera, che voi non ravviserete più voi stesso. Qui fra noi abbiamo
un compagno che zoppica; egli v'insegnerà a imitarlo nella voce e negli
atti. Domani, appena farà giorno, ve ne andrete con due somari a vendere
carbone per la città: se vi chiamano per comprare, poche parole bastano;
che le balle ragguagliano le duegento libbre, e il prezzo è fermo a
mezzo scudo per balla: anzi potreste recare in bocca qualche pietruzza, fingendo
masticare; in questa maniera le gote si gonfiano, e meglio rimanete
trasformato. La gente vi torrà in iscambio dello zoppo; ad ogni modo si
assuefarà alla vostra vista, e così spero, con lo aiuto di Dio,
condurvi fuori a salvamento.
Siccome fra gente di simile
natura i fatti abbondano più delle parole, in breve per opera del
carbonaio Guido venne trasformato nella guisa ch'egli aveva detto; ed alla
mattina il bellissimo fra i gentiluomini romani fu visto, in sembianza di laido
carbonaro, aggirarsi per Roma vendendo carbone, recandosi in mano pane nero e
cipolle, che fingeva masticare; di tratto in tratto gridava con accento
aquilano, e ranchettava stupendamente. Tanto bene insegna, e in breve tempo, il
pericolo!
Giunto il giorno prefisso i
carbonari uscirono senza ostacolo di Roma, e Guido con essi. Per via occorsero
nella squadra della corte, che tornava da perlustrare la campagna; e taluno di
loro avendo interrogato il bargello, come fra gente amica si costuma, che nuove
ci fossero, n'ebbe per risposta: «Uscimmo per caccia di pelo, ma ha fatto la
BELLA; e a questa ora neanche caramella la pizzica».
*
* *
Le carrozze che conducevano la
famiglia Cènci fermaronsi. Aperta quella nella quale stava chiusa
Beatrice, le venne ordinato di uscire; e mentr'ella, obbedendo al comando,
poneva il piede sopra del montatoio, al chiarore vermiglio dei lampioni che il
carceriere ed i serventi portavano, s'incontrò di faccia a faccia col
Cristo di marmo, da lei poche ore innanzi avvertito sopra le porte del carcere
della Corte Savella. Gli volse la desolata ambe le braccia, esclamando nella
effusione del cuore:
- «Mio Dio, abbiate
misericordia di me!»
E scesa, curvò la
persona varcando la porta della prigione... vera forca caudina del pianto!
Quando volse il capo per rivedere i suoi essi già erano tratti lontano,
e tra lei e loro intercedeva un'onda di armati: come naufraghi divisi dalle
onde si rimandarono scambievolmente il saluto con un grido, che rimbombò
doloroso di corridore in corridore per cotesta immensa prigione.
A Beatrice fecero percorrere
lunghi anditi, salire e scendere scale; poi in fondo di una stanza a volta
apersero un uscio e la cacciarono là dentro: subito dopo richiusero
l'uscio con impeto, trassero il catenaccio, a doppia mandata girarono la serratura,
ed ella si trovò al buio in luogo freddo ed umido; inferno vero di vivi.
Non mosse piede; da qual parte volgersi non sapeva: le tornarono a mente certe
storie udite raccontare di trabocchetti, mediante i quali, a quei tempi meno
ipocriti, non meno scellerati dei nostri, si toglievano di mezzo le persone,
che non si ardiva condannare o perchè incolpevoli, e nondimanco odiate,
o perchè troppo potenti. Ella ebbe paura, e si tenne ferma presso alla
parete.
Allo improvviso ecco col
solito strepito si spalanca il carcere, e irrompe dentro una turba di laida
gente affaccendata a portare acqua, e taluni grossolani arnesi accomodati alle
prime necessità della vita. Non le proffersero conforto, non le dissero
parola; tornarono carcerieri e serventi com'erano venuti, chiudendo
fragorosamente la porta.
Beatrice aveva scorto da qual
parte stesse il pancaccio; colà si condusse tentoni, e sopra la estrema
sponda inferiore si pose a sedere nello atteggiamento della statua della
Scoltura che ammiriamo al sepolcro del divino Buonarroti; e quivi si rimase
assorta in quiete dolorosa. Ad un tratto trasalì, percossa da orribile
rovinìo sopra il capo: intende gli orecchi, e parle che muova da imposte
chiuse e da catenacci violentemente tirati. Assicuratasi che non era per uscirne
peggio, si acquieta; quando di nuovo venne schiusa la porta del carcere, e
gente come la prima volta affaccendata recò pagliericcio, coperta di
pelo, ed altri arnesi, e come la prima volta se ne andò villana, o
feroce. Allora Beatrice giacque sul pagliereccio senza voglia di nulla,
rifinita di forze, stupidamente impassibile; chiuse gli occhi, ma non
dormì: il suo cuore era oppresso, e non trovava la via di sfogarsi,
quantunque le lacrime le sfuggissero dalle palpebre non piante, ma chete chete,
come vena di acqua che spicci di sotto a un sasso. La facoltà pensante,
quasi sole senza raggi, le stava fissa nel mezzo della fronte inerte, e
tuttavia ardente. In arroto di spasimo sentì per la intera notte un
rammarichìo a mano a mano più fievole di persona che si doleva, e
le parve ancora udire, e udì certo, le preci degli agonizzanti:
nè punto s'ingannò, imperciocchè nella cella accanto alla
sua in cotesta notte passasse a vita migliore uno sciagurato prigione per male
di asma. Una malignità suprema, od una stupidità di mente da non
temere paragone in terra o in inferno, aveva presieduto all'ordinamento di
cotesta carcere; conciossiacosachè, quasi fossero poche le riferite
tribolazioni, dieci battagli battessero nel bronzo, e più nel cranio
della povera Beatrice, i mezzi quarti, i quarti delle ore, e le ore intere:
nella dodicesima ora furono percossi centosessanta tocchi; e v'era da
diventarne matti. Più tardi, quando Beatrice domandò per quale
causa menassero così increscioso scampanìo, udì
rispondersi placidamente: in primis, che così aveva ordinato il
Soprastante delle carceri; e subitochè il soprastante l'aveva ordinato,
la sua ragione ci aveva da essere; e poi, che in quanto al fracasso il
soprastante aveva osservato che i detenuti ci si abituavano, e che le campane
alla lunga la vincevano sempre sopra i nervi degli uomini. Nè qui finiva
lo strazio: allorchè, dopo tormentosa vigilia, gli occhi di Beatrice
incominciarono a chiudersi sul fare del giorno, tre campanelli presero a
suonare a distesa, e subito dopo tenne loro dietro lo insopportabile strepito
di trecento e più catenacci tirati, altrettante porte spalancate, e
l'odioso fragore della moltitudine delle chiavi cozzanti fra loro. Quindi si
levò una nenia lugubre di voci discordanti, le quali stridevano le
litanie su la musica della sega scuffinata a suono di lima, o di marmo
raschiato; e cessate le litanie, da capo i trecento usci chiusi, i trecento
catenacci tirati, e lo squasso dei mazzi delle chiavi. Queste cose accadevano
fra tenebre fittissime, per modo che Beatrice ignorasse se avesse perduto la
vista, o se a buio perpetuo l'avessero condannata. A torla dal dubbio indi a
breve la spaventa un rovinìo sul capo, e subito dopo un cotal poco di
luce grigia si mise nel carcere. Recatasi, tra stupida e atterrita, a sedere
sopra il giaciglio specola il luogo dove l'avevano rinchiusa: era una cella
quadrilatera, lunga, e larga fra sei passi e sette, di soffitto altissima,
terminata a cuspide ottusa: nella parte superiore aprivasi un pertugio sbarrato
da grosse bande di ferro, donde però non si contemplava il firmamento,
chè andava a sboccare in certa maniera di abbaino, il quale prendeva
luce da una finestra per traverso. In cotesto macello di carne umana un
meriggio di agosto appariva come un vespro nel mese di dicembre, e un vespro di
dicembre come l'Ave Maria della sera nelle terre boreali. Allora
Beatrice conobbe due cose essere senza misura nel male: lo inferno nella vita
futura, e la perversità dell'uomo nello escogitare trovati capaci a
tribolare il proprio simile nella vita presente. Piegò vinta la faccia
pensando ai destini di questa razza feroce, la quale si vanta creata ad
immagine di Dio([148]).
Lei misera, che delibava
appena il calice del dolore!
Più tardi le portarono
pane nero, vino di agresto, e una broda nauseabonda ove galleggiavano frusti di
carne grassa e di erbe. Si attentò ancora guardare in faccia i
carcerieri. A quale razza di bestie spettassero costoro, chi lo può
dire? Uno di essi rassomigliava al geroglifico egiziano, che presenta forma di
uomo, e capo di sparviere; un altro pareva un pomodoro fradicio imbrattato di
calcina, così lo aveva concio nella faccia l'erpete maligno inasprito
dalla perpetua ubbriachezza: invece di occhi tu avresti detto che tenesse in
fronte coccole di cipresso, tanto elli apparivano duri, e senza sguardo: gli
orecchi poi erano un vero laberinto della pietà, dacchè i gemiti
degli afflitti o vi si perdevano, o vi restavano divorati da bestia più
crudele del Minotauro, voglio dire dall'anima malnata di costui. Di rado accade
che nelle cose belle, per quanto leggiadrissime esse sieno, le parti armonizzino
perfettamente tra loro; ma in questa trista carcere tutto accordavasi,
così uomini come cose, con istupenda corrispondenza. Il brutto e il
cattivo occorrono in natura troppo più copiosi del bello e del buono.
Come talora, per giuoco,
facciamo passare sopra la buia parete una serie di figure spaventevoli o
grottesche, in quel giorno davanti agli occhi maravigliati di Beatrice dovevano
fare la mostra stranissimi aspetti. Preceduto dal solito scatenìo, mezza
ora dopo che costoro erano spariti, ecco entrare nel carcere un uomo molto
lindamente abbigliato, con certi orecchioni a guisa di conchiglia marina,
camuso il naso, le labbra grosse e sporgenti in fuori come quelle della
scimmia. Questi esaminò con diligenza le mura, il pavimento e lo
spiraglio, e poi alla sfuggita sogguardò anche Beatrice, mostrando egli
solo fin lì un'aurora boreale di compassione. Sul punto di uscire dalla
cella fu udito favellare queste parole:
- Sana cotesta prigione non si
può dire in coscienza, e per di più è buia: trasporterete
il numero centodue al numero nove, e gli addobberete la stanza con mobili
convenienti; pel trattamento gli somministrerete quanto desidera, già
s'intende nei limiti della temperanza... Avete capito? Trasgredendo, due tratti
di corda senza pregiudizio di pene maggiori. Avete capito?
Così anche la
umanità assumeva faccia di ferocia, e di contumelia. Però
Beatrice ritenne che cotesto personaggio, il quale in seguito conobbe essere il
soprastante delle prigioni, si fosse soffermato a dare con voce alta cotesti
ordini perchè giungessero a sua notizia, e ne prendesse conforto;
ond'ella lo raccomandò al Signore, non le rimanendo altra via per
manifestare la propria gratitudine.
Al soprastante fu inteso
rispondere con un forte grugnito, il quale poteva apprendersi per un: «Illustrissimo
sì».
Il traslocamento avvenne nel
modo col quale fu ordinato, e Beatrice si ebbe nella nuova cella un tozzo di
pane bianco, e un raggio di sole puro: con questi la creatura umana può
vivere, o almeno aspettare che la scure o l'affanno la uccida.
Una volta la scure,
perocchè la giustizia ferocemente sincera gavazzasse brandendo la spada;
ai miei giorni lo affanno; avvegnadio, piegando ai tempi, anche la giustizia,
educata in collegio dai Gesuiti, siasi fatta ipocrita: ma non dubitate, no, i suoi
colpi per essere ammenati co' bastoni di arena non riescono meno mortali di
quelli percossi con la piccozza. Il giudice del decimosesto secolo, sbrancato
dalla razza dei tigri, con un colpo di granfia ti faceva scemo del capo, il
giudice del secolo decimonono, se timore di Dio non lo soccorre, e paura
d'infamia, a modo di serpe ingola poco a poco gì'improvvidi uccelli,
sicchè tu glieli senti pigolare fin dentro lo esofago, e glieli vedi
palpitare anche in mezzo del corpo. Con una botta in testa, nei tempi passati
anima e corpo estinguevano; adesso il secolo civile ha ribrezzo del sangue;
onde imparò ad acuire l'anima; e dopo averla per bene affilata su la
cote della disperazione, se ne lava le mani, e lascia a lei la cura di
traforarsi una uscita traverso le viscere del condannato: prima erano colli
mozzi, oggi sono cuori rotti. Quale dei due fosse più caritativo
argomento altri giudichi: gli antichi sistemi non ho provato; conosco i
moderni, e so che i nervi delicatamente gentili dei nuovi pietosi si offendono
della disperazione scarmigliata, e vogliono ch'ella appaia in pubblico co'
capelli pettinati a statua; così anche al vizio più sozzo si apre
la porta di casa, gli si augura la buona sera, alla veglia domestica si
accoglie, purchè si ammanti di verecondia, e la virtù ha da
smettere coteste sue superbe jattanze, che ci hanno fradici; matrona e
meretrice formano un terreno di confino, dove la virtù e il vizio
esercitano il contrabbando su gli occhi ai gabellieri della morale pubblica.
Dolori, affanni e delitti s'inverniciano con la tinta della decenza. Per amore
delle fibre sensitive delle femmine, e sopra tutto per amore di quelle degli
uomini, bisogna piangere con ordine, ruggire armonicamente, agonizzare con
arte; ogni lacero di anima, ogni crispazione del cuore ha da essere classata, e
numerata. Tutto occorre ai giorni nostri con esattezza prodigiosa, e
proprietà uguale; l'acqua del santo battesimo, e l'olio della estrema
unzione; la cappa castagnola del frate francescano, e la camiciuola rossa del
condannato allo ergastolo. Le prigioni appaiono eleganti; gli architetti
s'ingegnano disegnarle vaghe a vedersi. Oh andate, via, a credere che sotto
cotesti edifizi lustri, levigati, e inverniciati uomini dalla anima immortale
s'inverminiscano di disperazione e di disagio!... Le gentili donne vengono a
passeggiarvi la tetra noia, e la spietata vanità; passano come rondini
fischiando qualche parola di filantropia, ed assicurano poi che le
prigioni sono luoghi superbi, e d'incanto. Guai al misero che
osasse temerariamente affermare, potersi condurre vita meno trista che in
prigione; tenga in mente il fato di Orfeo, e il furore di umanità non
agita meno violento il petto delle nostre gentildonne, di quello che per vino
sentissero le antiche Menadi. Intanto il Promotore di tante belle cose, curvo
il dorso come il primo quarto di luna, assapora il profumo delle lodi; e, tutto
umile in tanta gloria, ponendosi una mano su la parte dove comunemente si crede
che stia il cuore a pigione, esclama: «facciamo ogni sforzo perchè... compatibilmente
alla loro condizione... i detenuti stieno con ogni riguardo...
perchè alla fin fine anche i detenuti sono uomini... però
la prigione, bisogna avvertirlo, non può essere paradiso... - Ma
voi, lo interrompe un Diplomatico, signor Cavaliere (però che ai giorni
nostri anche i Soprastanti sieno cavalieri) fate di tutto onde presto lo
diventi; e questo affermo, perchè ho esaminato i vostri stabilimenti
di dietro agli usci». Il Cavaliere, sospettoso, guarda il Diplomatico
coll'occhio porcino; ma questi dura col volto impenetrabile come quello della
sfinge; e costui, non distinguendo se lo lodi da senno, o gli dia la baia, sta
in bilico: al fine, non sapendo che pesci pigliare, per torsi d'impaccio gli
mostra i denti con un risolino agro dolce, che pare di gatto quando ha leccato
l'aceto. O Ipocrisia, o gran Madre Cibele della moderna Divinità!
«Ma insomma, che modo di
raccontare egli è questo? Voi fate, come le balie, un passo innanzi, e
due indietro». Così parmi udire esclamare una mia gentile leggitrice, ed
io le rispondo: «Gentil donzella, o donna, o quello che sarà; se non ti
piace il traino, e tu smonta, che già non ti pregherò io a
restarci su. Io scrivo per tale a cui le mie fermate non dorranno; all'opposto
poche parranno, e troppo brevi: per questo mi affaticai nei giovanili anni
miei, e per questo soffersi in quelli della virilità: certo ho servito un
signor crudele, e scarso; ma pure è il solo, che sappia emendarsi,
piangere, e amare; e questo è il Popolo: gli altri non vale il pregio
servire».
Per tre dì Beatrice
ebbe pace, se pace poteva dirsi quella; il quarto giorno verso nona le si
presentarono nuove sembianze: erano due uomini vestiti di nero; uno rimase
alquanto indietro, lo distinse poco; però le parve di cera acerba: l'altro
bianco, con la fronte di porcellana e lo sguardo socchiuso, sembrava uomo
compassionevole, almeno col sospirare frequente, e lo incrociare le dita di una
mano in quelle dell'altra in atto di preghiera. Questi si palesò pel
medico delle carceri, le mosse accurate domande circa la sua salute, la
visitò attentamente, consultò il polso, il corpo le tentò
con tatti onesti, poi si congratulò seco lei delle ben disposte membra,
le offerse tabacco da una scatola che sul coperchio presentava bellamente
miniata la immagine del sacro Cuore di Gesù; e confortandola a starsi di
buono animo, che presto le sue miserie sarebbero terminate, aggiungeva: in
quanto a se disponesse; poi, raccomandatala alla gran Madre di Dio, si
allontanò.
- Ed anche questo pare uno dei
buoni, esclamò Beatrice un po' consolata.
- Quantunque a prima giunta
(diceva il medico nell'andito al notaro criminale, dacchè il suo
compagno fosse appunto il notaro) io mi fossi benissimo accorto che non faceva
mestieri, tuttavolta l'ho voluta esaminare con diligenza, perchè voi
capite che la umanità deve andare innanzi ad ogni cosa... e l'anima
preme...
- Capisco!... l'anima, e il
corpo altresì... Diavolo! Sicuramente... e voi potete assicurarla, eh?
- Con certezza capace,
capacissima a sostenere la tortura. I polsi battono regolarmente, ed escludo
ogni indizio, comunque remotissimo, di gravidanza... sicchè vedete...
- Sicuramente; per
formalità vi compiacerete, eccellentissimo signor Dottore, rilasciarmene
il solito certificatino per metterlo in processo, e procedere con tutti
i modi legali prescritti dai veglianti regolamenti.
- Volentieri,
illustrissimo-signor Notaro; questi scrupoli vi onorano: bisogna pensare che un
giorno i nostri posteri leggeranno questo processo, ed importa che veggano con
quanta regolarità, e con quanto riguardo procedemmo pei sacri diritti
della umanità...
- E della giustizia,
Eccellentissimo, aggiungeva il Notaro; la Dio grazia non viviamo mica in tempi
di barbari!
Anche a costoro pareva essere
civili, e se ne vantavano. Il Notaro, col certificato dello Eccellentissimo in
mano, s'incamminò verso la stanza degli esami.
Questa era una sala immensa, e
forse un giorno servì per oratorio; da capo, sopra un rialto di legno,
stava il banco dei giudici coperto di panno nero: nero il corame dei seggioloni:
dietro il capo del Presidente pendeva dalle pareti un immane Cristo nero
scolpito nel legno, il quale non avresti saputo dire se stesse lì per
consolare, o per mettere spavento nei miseri condotti dinanzi a lui; tanto lo
aveva scolpito truce il fiero scultore.
Siccome non si era per anche
visto comparire nessuno dei giudici all'uffizio, il dabbene notaro, che poteva
vantarsi l'ordine incarnato, si pose a dare sesto ad ogni cosa;
accomodò i seggioloni con simetria, mise su la tavola davanti al Presidente
il certificato del medico umanissimo, e l'orologio a polvere; ricollocò
nel posto consueto i grandi candeglieri di ottone rinettando i torchietti di
cera gialla dalle sgocciolature, e in mezzo a quelli il Cristo di bronzo, sopra
il quale gli accusati e i testimoni giuravano di confessare la verità.
Cotesto Cristo avevano più volte arroventato, e così offerto al
bacio degl'inquisiti di eresia, onde, lasciandolo cascare a terra con paura,
resultasse la doppia prova dello aborrimento loro pel Redentore, del Redentore
pel loro. O Cristo, se non ti avessero inchiodato in croce, come non avresti
menato le mani sentendoti tante volte, e tanto sconciamente spergiurare!
Nè qui si rimase il metodico notaro, che volle eziandio ordinati i
calamari e i quinterni; tagliò le penne; di più le guardò
di contro alla luce per esaminare se le punte fossero pari e il taglio diritto,
e le dispose a scala una accanto all'altra a guisa di frecce, pronte ad essere
tratte contro San Bastiano legato al palo.
Poco oltre il banco un forte
cancello di ferro separava questo spazio dalla rimanente sala, ed anche
là si vedeva un altro uomo che apprestava gli ordigni del proprio
mestiere, quasi per virtù di simpatia; e questo era mastro Alessandro,
celebrato giustiziere di Roma. Mastro Alessandro appariva di membra
proporzionato egregiamente; senza adipe, muscoloso come atleta, olivastro di
pelle, o piuttosto bronzino; i capelli aveva ricciuti, e neri; le sopracciglia
irte calanti su le palpebre in modo, che dai peli rabbuffati vedevi comparire
la pupilla ardente come fuoco tra pruni; le labbra poi sottili, e compresse
parte per natura, parte per la lunga abitudine di tacere: minutissime rughe gli
attraversavano la fronte; se così fitto avessero solcato gli anni, o
piuttosto lo interno avvoltoio non si sapeva, nè alcuno curava sapere;
avvegnachè anche i suoi anni fossero mistero e parecchi vecchi prossimi
alla decrepitezza narrassero di un mastro Alessandro carnefice ai tempi della
loro puerizia: forse era stato suo padre, o suo nonno; ma il volgo lo credeva
lo stesso uomo; e ciò gli accresceva la paura. Nello insieme però
la sua faccia dimostrava durezza, non bestialità: tipo degenerato, ma
pur sempre romano. Ci trattenemmo non senza ragione a descrivere così particolarmente
mastro Alessandro, avvegnadio ricorresse in quei tempi il giustiziere spesso,
quanto ai nostri ricorre il soprastante dei carceri solitarii. E il Soprastante
dei carceri solitarii, se lo ricordino bene, è moneta con la effigie del
Boia, tosata dalla Civiltà con una lima presa nella bottega della
Ipocrisia.
Nella stanza erano ritti
parecchi pali con un braccio traverso, e in cima a questo pendevano carrucole
fornite di girelle di bronzo con funi adattate a tirar su pesi; in terra sparsi
piombi da mettersi ai piedi per dare la corda con lo squasso, e tassilli, e
canobbi, eculei, capre, imbuti, sgabelli da vigilia, aliossi, torcie
bituminose, cordicelle di sverzino, fruste, flagelli con triboli in fondo,
seghe con altri più arnesi; corredo che la Ferocia e il Vitupero dettero
alla Giustizia quando la maritarono con lo Inferno. Mastro Alessandro li
passava tutti in rassegna, li rimetteva in sesto; qualcheduno forbiva da certe
macchie nere, che le vene umane vi avevano sprizzato vermiglie. Il notaro e il
giustiziere, ognuno dal canto suo si apparecchiava a celebrare degnamente la
solennità giudiziaria.
Intanto sopraggiunsero un
altro notaro, e due giudici; i quali poichè si furono ricambiati gli
onesti salutari, ed ebbero lungamente favellato del tempo, della stagione,
della loro salute, e delle donne loro, Cesare Luciani creatura bruttissima, con
un capo che pareva un corbello; di faccia verde, come composta di sego vieto e
di verderame, disse che l'aria fresca gli aveva inacerbita la gotta, e la
tosse; ed il notaro Ribaldella, che lo considerava suo protettore, gli
raccomandò con voce lacrimosa, che per lo amore di Dio avesse cura della
sua preziosa salute. Egli brontolando rispose:
- Lo faremo, - lo faremo,
Giacomino; - e non può sapersi se questo dicesse o maravigliato, o impaurito,
o soddisfatto che vivesse creatura al mondo la quale sentisse, o fingesse
affetto per lui.
Un altro giudice (e questi
passava per pietoso) così per la faccia vermiglio, che pareva un terzino
di vino puro lasciato per dimenticanza sopra la mensa di madonna Giustizia, con
occhi tondi, fissi, e stupidi come quelli di un tacchino, saltò su a
raccontare come gli fosse toccato a vegliar tutta notte a cagione di un suo
cane preso dalla colica, e:
- Che volete? - egli aggiunse
- gli è questo il mio pecco; mi sento il cuore troppo tenero; proprio
non era nato per fare il giudice criminale.
E il Ribaldella lusinghiero:
- Illustrissimo, chi non vuol
bene ai cani non vuol bene manco ai cristiani.
- Certamente, Giacomino;
stanotte (tra un nodo di tosse e un altro continuò a dire il giudice
Luciani), stanotte furono commessi quattro omicidii, e sei furti. Stiamo su la
traccia di certe streghe; e se mettiamo loro le mani addosso, io vi so dire che
ne faremo un processo famoso. Questi processi, la Dio grazia, ogni giorno
più spesseggiano, e presto ha da capitare qualche altro Giordano Bruno([149]) da mandarsi alle
fiamme. Io vi so dire, che non vidi mai più bel fuoco di quello che
fanno i filosofi: sicchè, Giacomino mio, studiate impratichirvi presto,
sapete. Il diavolo non manca mai di tagliare le legna al giudice che vuol fare
bollire la pentola.
- Pare impossibile! Voi sapete
tutto, siete informato di tutto; - non si sa come diavolo fate! - Eh! uomini
istancabili come siete voi non ne nascono più, - astutamente
osservò il Ribaldella. A cui il Luciani:
- È una passione che ho
avuto sempre fin da piccino; ma, vedete, io pago in moneta di gotta la mia
curiosità.
- Desiderate tabacco? -
interruppe il notaro amico dell'ordine, il quale aveva nome Bambagino Grifi, e
pavoneggiando mostrò una magnifica scatola.
- Stupenda! Superba! -
esclamarono a coro i circostanti. - Questa è nuova di zecca. A quante
siamo arrivati?
- Me ne mancano dodici per
compire le trecentosessantacinque, dove mi fermerò. Lo Eminentissimo
cardinale Evangelista Pallotta, per quanta industria ei abbia adoperato,
è giunto a trecento solamente; e poi, salvo il debito ossequio, egli le
compra a gatta in sacco, e, sto per dire, come le pentole, purchè
appaiano di forma diversa; ma io, signori, no; laddove, non sieno tabacchiere
storiche, e le non mi vengano profferte coi certificati autentici della loro
celebrità, ancorchè fossero di oro e di argento non mi degnerei
classarle in collezione([150]).
Ne possiedo una... una sola, che non cambierei col bottone del piviale di gala
di Sua Santità; - mi fate celia! Se ne serviva il glorioso imperatore
Carlo Quinto nel convento di San Giusto, ed io potei acquistarla da un
religioso di santa vita dell'ordine dei Girolamini in baratto del naso di Santo
Serapione, devota reliquia conservata ab antiquo in casa dei Grifi. E
questa qui, di cui vi credereste voi che fosse fattura? Sentite veh! nientemeno
che di Benvenuto Cellini...
- Mastro Alessandro, avete
insaponato la corda? - domandò il giudice Luciani infastidito al
carnefice, il quale col capo gli rispose di sì.
- Osservate, continuava il
notaro Grifo esaltandosi, il portentoso magistero, e il sottile lavorìo
di niello. E a chi immaginereste voi che fosse appartenuta? Io ve lo
dirò di un tratto. A monsignore Duca di Guisa Enrico lo sfregiato,
e la ebbi da certo padre Minore Osservante che a Blois gli diede l'olio santo,
quantunque lo rinvenisse già spedito nell'altro mondo con la unzione di
cinquanta tra spadate e colpi di alabarda. Adesso vi racconterò il modo
col quale venni in possessione di tanto tesoro...
- Lo illustrissimo signor
Presidente! - gridò un usciere spalancando la porta; e tutti, tacendo,
si volsero a quella parte donde si affacciava il sole.
Ulisse Moscati si fece innanzi
con passi gravi, e lenti. Cotesto suo incesso non procedeva da burbanzosa
jattanza: malgrado il lungo esercizio della sua professione infelicissima,
nello accostarsi al banco dei giudici egli erasi sempre mai sentito compreso da
ribrezzo. Teneva il capo chino, e gli occhi intenti alla terra; gemendo
nell'anima cercava colà gli oggetti della sua tenerezza, la moglie
diletta e la figlia trilustre, che, seguendo da presso la madre in paradiso,
lui aveva lasciato solo sopra la terra, e quando per gli anni già troppi
sentiva maggiore necessità di consolazione. Di sembianze appariva duro,
nè poteva fare a meno; ma sotto cotesta crosta di ghiaccio scorrevano le
lacrime, le quali non piante tornavano amarissime ad allagargli il cuore. Per
natura inchinevole alla pietà, ragioni di famiglia lo avevano costretto
ad esercitare ufficio da cui repugnava; e così tra fare una cosa ed
aborrirla erasi condotto a quella parte della vita, dove, spento il vigore
dell'anima, l'abitudine tiene luogo di volontà: adesso gli mancava la
forza per troncare il vecchio costume, e, come la più parte degli uomini
spossati, lasciavasi menare dalla corrente dei casi esterni. Esitanza di
voglie; inanità di affetti, sazietà di ogni cosa fastidioso il
rendevano a se stesso e ad altrui: immenso sentiva il bisogno di pace, ma non
sapeva dove trovarlo, nè donde gli potesse venire. Stato passivo, che
una foglia caduta, una farfalla che voli, un suono improvviso, od altro simile
avvenimento può determinare ad estrema risoluzione. Ebbe fama di
giureconsulto valente per quei tempi, e lo fu; dacchè allora da per
tutto, in ispecie, a Roma, far procaccio di sofisticherie scolastiche
chiamavasi scienza. - Di vero. le lettere scarse e servili piacquero ai Preti;
e quando nella universale ignoranza esse valsero a somministrare fondamento
alle tenacissime, ed improntissime cupidità loro, giovandosi del credito
e del decoro che le accompagnano, le molte e generose odiarono, come quelli che
tremano del volo del pensiero, se prima, legatogli un laccio al piede, non ne
abbiano la cima stretta in mano. Però i Sacerdoti nel buio universale
tennero acceso un lampione che tanto lume spandesse dintorno, quanto bastasse a
rischiarare loro il cammino: quando poi si levò sul mondo la luce, che
deve illuminare tutti, si strinsero insieme smaniosi, e vi soffiarono su; la
propria scienza infante usarono come verga, l'adulta altrui tentarono
soffocare; invidia, e peggio. Così quando sorse il sole dell'universo,
quello di Roma declinò al tramonto. La Umanità cammina a oriente,
Roma a occidente; e ad ogni passo che muovono rendono la separazione loro
più ampia, ed irrevocabile.
Salutati cortesemente i
colleghi e gli ufficiali minori, il Moscati prese posto al suo seggio; dove
essendogli per prima cosa caduto sott'occhio il certificato del medico intorno
allo stato di salute di Beatrice, lo lesse due volte, poi pacato
favellò:
- Pare dunque, che quante
volte ne faccia di bisogno possiamo in coscienza sottoporre alla tortura questa
sciagurata fanciulla.
- Sicuramente, rispose
tossendo il Luciani, - addirittura...
- Dubito però che le si
possa applicare legalmente, per avere l'accusata poco più di quindici
anni. Su di che desidero sentire il vostro savio parere, Signori...
- Io per me sono chiaro,
soggiunse il Luciani, e non ha luogo dubbio. Dirò nondimeno in tutta
coscienza, e per convinzione, quello che sento per la verità. Se
consideriamo il diritto, per comune consentimento troviamo stabilito come la
età non faccia caso in atrocioribus; e poichè atrocissimo,
e immanissimo è il parricidio, così con piena coscienza possiamo
omettere in questo processo le regole della procedura ordinaria. Inoltre,
Signori miei, la malizia nella femmina precorre di assai quella del maschio
come la pubertà: di fatti, il gius dichiara pubere la donna agli undici
anni, l'uomo a quattordici, nè la quistione della malizia già
deve risolversi a ragguaglio degli anni, o per presunzione astratta,
bensì in ragione della prova di fatto: per questo modo quei solenni
giudici dello antico Areopago condannarono saviamente a morte il fanciullo
ladro della corona di oro al tempio di Minerva, avendo saputo distinguere al
paragone le fronde del vero lauro dalle fronde dell'oro; e per me penso, e voi
tutti, signori Colleghi, ne andrete persuasi, che pravità maggiore di
quella mostrata da questi scelleratissimi nella strage paterna difficilmente
possa, non che trovarsi, immaginarsi. Se poi vogliamo attendere alla pratica vi
occorrerà copia di casi, per cui conoscerete che la età non forma
ostacolo; tra i quali piacemi ricordare quello che somministrò materia a
Sisto Quinto, pontefice veramente grandissimo, di profferire auree parole.
Monsignor Governatore faceva, col debito ossequio, considerare al Papa non
potersi, com'egli desiderava, condannare a morte il giovane fiorentino, reo di
resistenza alla corte in Trastevere, perchè non avesse la età
stabilita dalle leggi. Se non gli mancano altro che anni, rispose quella
bocca benedetta di Sisto Quinto, lo potete far morire addirittura,
perchè noi gliene daremo dieci dei nostri([151]).
E Valentino Turchi giudice
collaterale, che presentava tutta la sembianza di un cane da macellaro con gli
occhiali, affermando osservò:
- Ed io rincaro osservando,
che non si trattava di caso atroce.
- Giustissima considerazione,
soggiunse il vecchio Luciani, sentendo quasi rimorso per non averla aggiunta al
suo discorso.
Il Luciani, secondo la
giustizia di cotesti tempi, aveva ragione da vendere. Pur troppo la giustizia
di oggi pare ingiustizia domani; anzi da un luogo all'altro essa muta, e tale
si condanna a Firenze, che si assolve a Parigi. Di questo non vogliono rendersi
capaci gli uomini che giudicano: e sì che se vi pensassero sopra
ventiquattro ore del giorno non sarebbe abbastanza. Il Moscati non trovò
da opporre cosa, che valesse; onde, abbassati gli occhi, ordinò:
- Conducasi la prigioniera
Beatrice Cènci.
E venne condotta. Circondata
da molta mano di sbirri, e fatta subito voltare con la faccia al banco dei
giudici, ella non vide gli arnesi lugubri di cui era ingombra la sala. Gli
astanti appuntarono cupidissimamente gli occhi in lei; e, percossi dalla
sembianza divina, pensarono tutti come mai tanta perversità di mente
potesse accompagnarsi con bellezza sì portentosa di forma. Tutti così
pensarono, tranne due soli, i quali ebbero il coraggio di sospettarla
innocente: e questi due furono il giudice Moscati, e il giustiziere Alessandro.
Il notaro Ribaldella prese
tosto ad interrogarla intorno alle sue qualità, ed ella rispose
nè timida, nè proterva, come conviene a persona che senta la
dignità della propria innocenza.
- Deferite il giuramento:
ordinò il Moscati.
E il Ribaldella, impugnato il
Cristo con tale un garbo, che parve piuttosto volerglielo dare sul capo, che
presentarglielo per compire un rito solenne, disse:
- Giurate.
Beatrice distesavi sopra la
destra candidissima, così favellò:
- Giuro sopra la immagine del
divino Redentore, che fu per me crocifisso, di esporre la verità
perchè so, e posso dirla; se non potessi o volessi, mi sarei astenuta da
giurare.
- E così aspetta la
giustizia da voi. Beatrice Cènci, incominciò a interrogare il
Moscati, voi siete accusata, e le prove in processo lo dimostrano
sufficientemente, di avere premeditato la strage del vostro genitore conte
Francesco dei Cènci, con la complicità della matrigna e dei
fratelli vostri. Che cosa avete da rispondere?
- Non è vero.
E con tale ingenuo candore
pronunziò queste parole, che, non che altri, San Tommaso si sarebbe
chiamato vinto; ma il giudice Luciani brontolava fra i denti:
- Non è vero, eh?
- Accusata; v'imputano, e le
carte del processo lo provano sufficientemente, voi avere, in compagnia dei
predetti parenti vostri, conferito il mandato a uccidere il conte Francesco
Cènci ai nominati Olimpio e Marzio banditi, con la promessa del prezzo
in ottomila ducati di oro; di cui la metà subito, e l'altra metà
dopo consumato il delitto.
- Non è vero.
- Adesso adesso vedremo se non
è vero; - mormorava il Luciani, come se le tenesse il bordone.
- Siete accusata, e dalla
procedura resulta provato sufficientemente, avere voi fatto dono, o dato per
giunta di prezzo, al nominato Marzio un tabarro scarlatto trinato di oro, che
fu già del defunto conte Francesco Cènci.
- Non è così. Il
padre mio donò quel tabarro a Marzio suo cameriere, prima che da Roma si
partisse per la Rocca Petrella.
- Siete accusata, e dalla
procedura resulta abbastanza provato, avere voi fatto commettere la strage
paterna alla Rocca Petrella il giorno nove di settembre dell'anno
millecinquecentonovantotto, e ciò per comando espresso di Lucrezia
Petroni vostra matrigna, la quale impedì che si commettesse il giorno
otto per essere la ricorrenza della festa della Santissima Vergine. Olimpio e
Marzio entrarono nella stanza dove giaceva il conte Francesco Cènci, al
quale era stato precedentemente propinato vino coll'oppio; e voi, in compagnia
di Lucrezia Petroni, Giacomo e Bernardino Cènci, attendevate
nell'anticamera la consumazione del delitto. I sicarii essendo tornati indietro
sbigottiti, voi gl'interrogaste, che cosa ci fosse di nuovo: alla quale domanda
avendo essi risposto non sentirsi cuore a bastanza per ammazzare un uomo che
dormiva, voi li rimproveraste con queste parole: «Come? se preparati non siete
capaci di uccidere mio padre dormente, immaginate se ardireste di pur guardarlo
in faccia se fosse desto! E per venire a questa conclusione voi avete
già riscosso quattromila ducati? Orsù, poichè la
codardìa vostra vuole così, io stessa con le mie mani
ammazzerò mio padre, e voi non camperete molto». Per le quali rampogne e
minacce i sicarii rientrarono nella stanza dove giaceva il conte Francesco
Cènci, ed uno di loro postagli sopra l'occhio una gran ferla,
l'altro gliela conficcò prima nella testa, e poi nel collo, donde
accadde la morte del prefato conte. I banditi riscosso il saldo del prezzo si
partirono, e voi, in compagnia dei fratelli e della matrigna, strascinaste il
cadavere del trafitto genitore sopra una vecchia loggia, dalla quale lo
dirupaste su di un albero di sambuco. Che rispondete?
- Signori miei, rispondo che domande
di tante, e tanto orribili perversità vorrebbero volgersi più
acconciamente ad un branco di lupi, che a me. Io le respingo con tutta la forza
dell'anima mia.
- Siete accusata, e lo
chiarisce il processo, avere voi consegnato alla donna Laurenza Cortese,
cognominata la Mancina, un lenzuolo intriso di sangue perchè lo lavasse,
ponendo mente di avvertire la curandaia provenire questo sangue da perdite
copiose; e siete accusata altresì aver fatto uccidere Olimpio dal
bandito Marzio, per paura che costui rivelasse il delitto alla giustizia.
Rispondete.
- Posso io favellare?
- Anzi vi s'impone: favellate
apertamente tutto quanto valga a chiarire la giustizia, e difendere voi
dall'accusa.
- Signori! Che io non venissi
educata a siffatti orrori, non importa che dica; vi parlerò ingenua come
il cuore mi detta, e voi scuserete la insufficienza mia. Di poco oltrepasso i
sedici anni; me educarono la santissima madre mia donna Virginia Santacroce, e
donna Lucrezia Petroni femmina preclara per pietà; nè gli anni
miei, nè gl'insegnamenti altrui persuadono a sospettare in me gli atroci
delitti i quali appena s'incontrano nelle Locuste, ed in altre famose
colpevoli, che pure mano a mano s'indurirono a misfare. Posto eziandio che la
natura avesse voluto creare in me un prodigio di perversità,
considerate, di grazia, come la indole atroce tanto non possa celarsi, che in
parte almeno non trapeli, per così dire, novizia, prima che stampi profonde
le orme nel sentiero della maledizione. Ora quale io mi sia stata, e come io
abbia vissuto, vi sarà facile conoscere interrogando gli amici, i
parenti, e i servi di casa. La mia vita è libro che si compone di poche
pagine; svolgetelo, consideratelo attentamente, e tutto. Poi, se non prendo
errore, mi sembra che per giudicare con discretezza le azioni umane faccia di
mestieri avvertire le cause, che possono averle per avventura persuase. Qual
fine pertanto immaginereste voi, che mi muovesse a così enorme delitto?
Cupidità di averi? Ma la più gran parte dei beni di casa
Cènci vincolati a fidecommisso credono al maggiorasco. Dei benefizii,
delle prebende, e di uffici altri siffatti non si avvantaggiano le femmine. A
me era ignoto, che il mio defunto genitore avesse per testamento disposto dei
beni liberi a favore di luoghi pii: morendo di morte violenta ed improvvisa,
doveva supporlo intestato; e da questi beni del pari, come femmina, mi
avrebbero escluso le leggi. La mia sostanza mi viene dalla madre, che il padre
non poteva tormi; e, tra doti e stradotali, ho sentito dire che sommi a
quarantamila scudi: sicchè vedete, che avarizia non ci può
entrare. Io non nego, anzi confesso, che mio padre mi facesse passare giorni
pieni di amarezza, e... ma religione vieta ai figli volgersi addietro a
riguardare la tomba paterna per maledirla, onde io mi astengo da mettere
troppe, e non degne parole su questo: bastivi tanto, che volendo sottrarmi alle
diuturne sevizie, e procurarmi meno tristo vivere, fra i cattivi partiti
pessimo aveva da comparirmi quello del parricidio; imperciocchè oltre
alla eterna dannazione dell'anima nell'altra vita, fosse pieno di rimorsi, di
pericoli e di paura in questa. Non mi mancavano poi esempi domestici di
pratiche riuscite prosperamente, le quali mi ammaestrassero il modo di
tutelarmi dalle paterne persecuzioni. Olimpia mia maggiore sorella ricorse alla
benignità del Santo Padre, e mercè umile memoriale ottenne le
onorate nozze col Conte Gabbrielli di Agobbio: e di vero com'ella m'insegnò
io feci, scrivendo una supplica, e la consegnai a Marzio affinchè mi
usasse la carità di presentarla allo Ufficio dei memoriali...
- Sapete voi, che veramente la
vostra supplica fosse presentata?
- Signor mio, io la
raccomandai a Marzio onde fosse messa in corso.
- E perchè affidaste a
Marzio commissione tanto importante?
- Ah! mio padre mi teneva
chiusa; sicchè, tranne Marzio, in cui mio padre unicamente confidava,
non mi era dato abboccarmi con altra persona in quel tempo.
- Proseguite.
- E supponete, che la natura
m'avesse dato la ferocia, il padre il motivo, il diavolo la occasione per
commettere il delitto, ditemi, potreste voi immaginare modo più assurdo
per consumarlo di quello che finge l'accusa? Perchè adoperarvi il ferro?
Con ottomila ducati possono facilmente procurarsi veleni che uccidono come il
mal di gocciola, o disfanno come le febbri etiche, senza lasciare vestigio alle
indagini della giustizia; ma che dico io, che possono procurarsi veleni?
L'accusa suppone averli io procurati; nè solo procurati, ma propinati:
dunque se versai al padre mio vino alloppiato per farlo dormire una notte,
bastava aumentargli la dose perchè non si svegliasse mai più in
questo mondo. A qual pro tante operazioni pericolose? A qual pro banditi?
Perchè tanti complici, sovente traditori, sempre funesti? E soprattutto,
qual bisogno, qual consiglio fu quello di chiamare a parte della congiura
Bernardino, fanciullo di dodici anni? In che cosa poteva giovarmi costui, o
piuttosto, in che cosa non doveva aspettarmi ch'egli non fosse per nuocermi? Se
in casa Cènci viveva un lattante, anch'egli avrebbe tenuto per complice
l'accusa; come se, tolto in fastidio il materno latte, con gridi e con minacce
avesse chiesto nudrimento del sangue del padre? Assurdi paionmi questi, e sono.
Don Giacomo quando avvenne il caso funesto trattenevasi in Roma, e di questo
potrà somministrarvi buone testimonianze. Del tabarro vi dissi. Del
lenzuolo può darsi; altre volte udii raccontarlo, ed aggiunsero la
curandaia avere confessato che glielo consegnò una donna di trent'anni:
ora nè io ho trent'anni, nè parmi dimostrarli; almeno non li
dimostrava allorchè non era passata per tante tribolazioni; e il luogo
dove si asserisce che la curandaia lo trovasse macchiato, esclude il sospetto
che sgorgasse dal capo del giacente. O Signori! voi siete valentuomini, e
pratichi di queste materie; onde io non dubito che sarete per ricusare fede a
tante gagliofferie. A che il chiodo e il mazzuolo? I banditi vanno sempre
armati oltre il bisogno di pistole e di pistolesi; pensate un po' se gli
avessero lasciati quando venivano appunto per commettere omicidio! Bene trovo,
che il chiodo venne adoperato per ammazzare Sisara; ma Giaele non faceva
professione di sicario, nè ella aspettava il nemico nella sua tenda. -
Perchè avrei strascinato io il cadavere, mentre uomini poderosi ne
circondavano? Forse così persuadeva il bisogno? No certamente. Forse
m'inviperiva ferocia d'istinto? Oh! Le cose fuori dell'ordine naturale non si
suppongono; e moglie, e figlia che strascinansi dietro il corpo del marito e
del padre come due volpi un coniglio, avrebbero mosso in un punto a riso e a
ribrezzo gli stessi banditi. Se qui avete cuore, - e con una mano si
toccò il petto; - se qui senno, - e coll'altra si toccò la
fronte, - non pure cesserete angustiarmi l'anima sconsolata con simile accusa,
ma vi guarderete di confondermi la mente col miscuglio di tante
mostruosità.
E tutto questo pronunziava
Beatrice speditamente, con tuono di voce, e garbo bellissimi; per la qual cosa
gli astanti, con le braccia tese sopra i banchi, inclinato il corpo e sporgente
la faccia, stavano in ammirazione: fino il notaro Ribaldella, con la manca
ferma su i fogli e la destra sospesa in alto, era rimasto senza scrivere: fino
l'auditore Luciani maravigliando aveva esclamato:
- Come s'impara presto alla
scuola del diavolo!
- Io vi ammonisco, riprese il
presidente Moscati, a mantenere la promessa di confessare la verità, e
ad osservare la religione del giuramento; imperciocchè i vostri complici
abbiano ormai palesato la colpa, e ratificato la confessione con la prova della
tortura...
- Come! Dunque pel dolore dei
tormenti non hanno abborrito di aggravarsi l'anima, ed infamarsi perpetuamente?
Ah! La tortura non fa prova di verità...
- Non fa prova di
verità la tortura? - proruppe furibondo il Luciani, incapace di
contenersi più oltre; e levatosi mezzo da sedere, appoggiava le mani
sopra i bracciuoli della sedia sostenendo il corpo tremante. Se avessero
calunniato l'onore della consorte e delle figliuole sue non sarebbe salito a
tanto furore. - Non fa prova di verità la tortura, che i giureconsulti
tutti, nemine nemine discrepante, predicano la regina delle prove? Te ne
avvedrai fra poco se la tortura abbia virtù di far confessare il vero...
Beatrice scosse il capo, come
un mal vento glielo avesse bruttato di polvere, e continuò:
- Donna Lucrezia, già
attempata, pingue, nudrita nelle delicature di poco animo, non prevedendo il
male futuro, in grazia di sottrarsi al male presente si è condotta di
leggieri a confessare il falso. Con Bernardino fanciullo non faceva mestieri
tormento; per indurlo a confessare quanto da lui si voleva bastava un po' di
treggèa. Giacomo poi da lungo tempo sente fastidio della vita; ed altre
volte ha tentato gettarla, come peso troppo grave per lui. Tali sono quelli che
provaste con la tortura, e presumete avere scoperto il vero?
- Non tutti questi furono i
vostri compiici, soggiunse il Moscati. Altri pure confessò.
- Chi dunque?
- Marzio.
- Ebbene; mi venga Marzio
davanti, e vediamo un po' se ardisce sostenermelo in faccia. Quantunque io
debba credere l'uomo capace delle più orribili cose, se da me non lo
sento ricuso prestar fede a tanta iniquità.
- Ebbene; chiaritelo da per
voi stessa...
- Ahimè!
E parve questo uno di quei
sospiri, che rompono il cuore che lo esalò. Beatrice allora volse gli
occhi, e vide quello che non aveva scorto prima, lo apparecchio degli arnesi
infernali, e rabbrividì dal capo alle piante. A piè d'una forca
stava Marzio, o piuttosto l'ombra di Marzio: la pelle gli s'informava dalle
ossa, e, se togli gli occhi vitrei, ogni altra parte del corpo pareva morta in
lui; avresti detto che lo avessero tratto colà per ispirarvi l'anima:
egli tentò muoversi per gittarsi ai piedi di Beatrice, ma non
potè mutar passo, e cadde su la faccia stramazzone per terra. Beatrice
stette a considerarlo un istante bieca negli occhi; il piede irrequieto fece
atto di calpestarlo; ma di subito l'ira le si converse in pietà, e
chinò le braccia per sovvenirlo a rilevarsi.
- Dunque, con un filo di voce
favellò Marzio, mia dolce signora, sono io sempre degno della vostra
pietà? O signora Beatrice, abbiatemi compassione per lo amore di Dio;
chè io sono misero... misero... ma misero assai.
- Marzio, perchè mai mi
avete accusata? Che cosa vi ho io fatto, onde anche voi vi siate congiurato con
gli altri per tormi la fama?
- Ah! conosco tardi la mano
divina che mi percuote; tardi, che la innocenza sola può darci
contentezza: io tenni altra strada, ed ecco mi trovo ad avere fabbricato, con
la mia, l'altrui rovina: e di me pazienza; ma di tanti altri innocenti...
oh!... Io ammazzai Olimpio temendo che la sfacciata scelleraggine di costui non
vi offendesse, e mi è riuscito il contrario. Ma io giuro per quel
Gesù che dovrà giudicarmi fra poco, che mai ebbi intenzione di
nuocervi. Sazio di vita, logoro dalla infermità, lacerato dal rimorso
dei commessi delitti, sbalordito dai tormenti, io nulla intesi di quanto mi
lessero, e mi fecero affermare; confessai tutto quello che vollero, a patto che
mi mettessero a morte, e subito: essi non mi tennero fede, e le mie parole
hanno convertito in stiletti per piantarli nel cuore di creature innocenti...
- Signor Presidente,
interruppe l'auditore Luciani, non penso io già che voi ci abbiate
radunati per udire recitare egloghe fra Amarilli e Melibeo.
- Approvo l'assennatissima
osservazione del meritissimo auditore Luciani, - rincalzava per parte sua il
giudice Valentino Turchi.
- Abbiate pazienza, Signori,
gli ammoniva placido il Moscati, e rammentatevi che noi non siamo convenuti qui
per sollazzarci: poichè sta in noi la terribile facoltà di
troncar le parole con la mannaia, lasciamo ai miseri lo infelice sfogo del
pianto.
- Per piangere non
mancherà loro il tempo quando saranno tornati in prigione: se voi,
signor Presidente, vi foste preso cura di voltare l'orologio a polvere, vi
sareste accorto come sieno già passate due ore senza costrutto di nulla.
Lo Stato per certo non ci paga onde in siffatta guisa noi scioperiamo... e
continuando di questo passo, chiederei licenza di andarmene ad accudire a
faccende di maggiore rilievo.
- Dio vi accompagni...
Ma il tristo non si
giovò del commiato del Presidente; anzi parve accomodarsi con agio
maggiore sopra la seggiola. Intanto il Moscati voltosi a Marzio gli disse:
- Accusato, rispondete breve:
ratificate, o no, il vostro esame in confronto dell'accusata?
- Signori Giudici! oggimai il
male, che voi volete farmi, sarà grave ma corto. Io conosco trovarmi
presso a comparire davanti al tribunale di Dio, a cui non fanno di mestieri
confessioni nè testimoni. - Tanto, voi potete scorciare il filo di
questa mia vita; allungarlo no. Orsù; udite la verità come la
conosce Quello che ha da giudicare me, ed anche voi. So bene queste essere le
mie ultime ore, e chi sa come orribilmente dolorose!... non importa...
benedette elle sieno, poichè per esse mi è dato porgere
testimonianza della innocenza di questa divina fanciulla. Chi fosse Francesco
Cènci molti di voi l'avrebbero a sapere, che si saranno trovati ad
esaminarlo, e a giudicarlo per gl'immanissimi suoi misfatti. - I santi del suo
calendario furono delitti uno più atroce dell'altro; suo passatempo
pestare le leggi divine ed umane; a lui parve aver posto la natura i confini,
dinanzi ai quali i più solenni scellerati si arretrano, solo per provare
la sua empietà a saltarli. Tale fu il Cènci: e chi di voi lo
ignora? Un giorno cotesto demonio mi fiatò accanto, e mi seccò il
cuore. - Avete a sapere. Signori, che io aveva contratto le nozze con una
fanciulla di Vittana... Annetta... dopo la Madonna Santissima, da me, povero
orfano, adorata; ed ei me la rapì bella, fresca, e piena di vita... e me
la rese... sì, me la rese; ma cadavere trasformato, con uno stile nel
petto che la passava da parte a parte. Lo assaltai nella rocca, che, per le
infamie commesse dentro le sue mura, ha titolo di Ribalda; e non ve lo
trovando, detti il guasto alle case: quanto mi capitò sotto le mani
arsi: su quelle pietre rimangono i vestigi delle mie fiamme. Lasciai il paese,
sacramentando trarne vendetta di sangue sopra la sua famiglia e su lui. Mi
ridussi a Roma, m'industriai a entrargli in casa, e vi riuscii: mi venne fatto
altresì di guadagnare la sua grazia; con quali argomenti non importa
dire... a rammentarli mi mettono ribrezzo; e neanche vi narrerò quello
che egli mi confidasse... bastivi, che furono cose da sgomentarne lo stesso
demonio. Colà, mentre studio portare a compimento la vendetta, conobbi
lo inenarrabile affanno della sua famiglia. I figli odiava come nemici: Dio
supplicava ed i Santi affinchè gli concedessero, prima di morire, la
grazia di vederli tutti ammazzati. Andate nella chiesa di San Tommaso, e
troverete i sepolcri ch'egli aveva fatto apparecchiare pei figli che bramava
seppellirvi; - andate, e vedrete accanto ad un suo figliuolo sepolto... chi? un
cane. - Una sola creatura amava... ho io detto amava? Ho detto male, e pure non
saprei esprimermi diversamente: temo aver detto poco, e più non saprei
dire senza cuoprirmi il volto per la vergogna... ma io non posso alzarmi le
mani alla faccia... perchè voi mi avete fatto troncare i bracci dai
tormenti. - Amava dunque Beatrice. Carceri, fame, battiture, e le peggiori
assai corruttele, lusinghe, e immagini abbominevoli, tutto adoperò lo
infame vecchio per contaminare questo angiolo di purità. Allora la
compassione mi vinse per la infelice famiglia che io aveva giurato sterminare,
ed in un giorno solo io impedii più delitti, che voi forse non avete
giudicato in un anno. Quando giunsero al Conte Cènci di Spagna nuove
della morte dei suoi figliuoli Rocco e Cristofano, gli bastò l'animo
imbandire convito ai parenti e agli amici, dov'egli disse, e fece cose, che
parve miracolo se Roma non sobbissasse: ricercatene i commensali; erano tra
questi Cardinali di Santa Madre Chiesa, e Baroni cospicui. Quando la gente,
cacciata via dal terrore, lasciò la sala deserta, egli, ebbro più
di empietà che di vino, osò levare le scellerate mani sopra
Beatrice. Cotesto sarebbe stato il suo ultimo giorno, però che io dietro
le spalle di lui alzassi un vaso di argento per ispezzargli il cranio, se
questa innocente, urlando, e riparandolo con le braccia, non lo avesse salvato.
Mosso da lei con ardentissime preghiere di non attentare alla vita del padre,
io non volli deporre la mia vendetta; ma determinai uscire di casa, e coglierlo
altrove. Però il maligno vecchio mi aveva tolto in sospetto; e,
fingendomi amore, m'inviava alla Rocca Petrella por apprestargli le stanze. Le
stanze! - Già aveva innanzi spedito alla posta sicarii perchè mi
ammazzassero, e intanto mi donava cortese il tabarro scarlatto trinato di oro;
e comecchè io mi difendessi da accettarlo, non mi parendo dicevole al
mio stato, egli volle che ad ogni patto io lo prendessi per preservarmi dalla
influenza della malaria viaggiando per la campagna romana: così egli
diceva; ma invero perchè il tabarro rosso servisse di contrassegno ai
sicarii. Mi salvai dalle sue insidie, e le tesi a lui: raccolsi una mano di
compagni; e quando mi credeva morto, lo feci prigione nel suo ultimo viaggio
alla Ribalda, e lo trassi alle caverne di Tagliacozzo. Colà doveva
morire; ormai pareva che ingegno, o potenza di uomo non valessero a salvarlo; e
pure ei fu salvo. Bevemmo certo vino alloppiato, che il Conte si portava seco
da Roma; e mentre eravamo immersi nel vino ci fu tolto di mezzo,
comecchè io tenessi la chiave del suo carcere in tasca. E il suo
liberatore chi fu? Eccolo; questa divina figliuola. Non per questo deposi il
fiero animo, anzi sempre più mi arrovellai nella vendetta; ed una notte,
avendo prima speculato cautamente il luogo, tolti meco due compagni, per una
finestra del piano terreno, rotta la inferrata, penetrai nella ròcca:
qui ci spartiamo a perlustrare la casa; uno dei miei compagni vede traversare un'ombra;
si nasconde nel buio, e poi le tiene dietro alla lontana: l'ombra ascende le
scale della torre, apre una stanza, ed entra: il mio compagno si affretta a
seguitarla; tocca la porta, gli cede; sia che non volesse, od obliasse
riservarla colui, che andava avanti stimandosi sicuro. In cotesta carcere il
Conte Cènci teneva chiusa la figlia Beatrice in guiderdone della vita
salvata... Dovrò io dire che cosa traeva costà l'empio vecchio? -
No... ve lo dica il ribrezzo, che a voi, tutti padri, fa tremare le carni e le
ossa... e il mio compagno gli si avventò sopra, e di coltello lo uccise,
meno in grazia della mia vendetta, che per vendicare la natura; e fece bene: e
chiunque fra voi sostenesse che non avrebbe operato altrettanto, io lo dichiaro
qui, alla presenza di Cristo, più traditore di quello che gli diè
la guanciata. Noi strascinammo il cadavere maledetto, noi lo precipitammo
giù dalla loggia su l'albero di sambuco. La signora Beatrice fu desta al
rumore del tracollo che fece il trafitto sul pavimento. Il lenzuolo rimase
intriso nel sangue del Conte; ma nè ella il vide, nè ella lo
diede alla lavandara, perchè cadde tramortita nella prigione; e quinci
tratta semiviva, giacque più giorni in letto travagliata da fierissima
convulsione. Olimpio ammazzai io, e come, e il perchè vi dissi... A
Napoli confessai quello che vollero, per forza di tormenti... questa è
verità... ogni altro menzogna... Ora di me fate quello che vi piace. -
Intanto, concludendo, ringrazio di vero cuore Dio, il quale mi ha dato tanta
lena da finire... perchè tornare da capo io non potrei... E ciò
detto cadeva giù in terra un'altra volta, se mastro Alessandro,
prontamente non lo soccorreva.
- Ditemi, signor Presidente,
non ci sarebbe pericolo ch'ella lo avesse stregato? - sussurrò il
Luciani, in aria di mistero, nell'orecchio al Moscati; e siccome questi fece
spallucce senza rispondere motto, il Luciani continuò a brontolare: -
Già... già... voi non credete a questo... vi pare novella...
badate a non lasciarvi allucinare dai lumi tenebrosi del secolo, perchè
io vi so dire ch'essi rischiarano un cammino solo, e questo è quello che
mena dritto all'inferno.
Al Moscati acerbamente dolse
la petulanza del Luciani: tuttavolta, sentendo mettere in dubbio la sua fede,
imperciocchè in quei tempi credere nelle streghe fosse articolo di fede,
come colui che piissimo uomo era si scosse, e domandò risoluto al
Luciani:
- Signor Auditore, e per qual
causa dubitate voi che io non creda alle fattucchierie? Io ci credo benissimo;
ma qui non parmi che cada il caso. - Dunque persistete a ritrattarvi, accusato?
Marzio assentiva col capo.
- Tortura definitiva... non ci
è rimedio, sempre pronto osservava il Luciani; e Valentino Turchi
ripeteva latrando:
- Non ci è rimedio;
tortura definitiva.
Il Moscati, trattosi il fazzoletto
di tasca, si asciugò il sudore dalla fronte; poi si volse al notaro, e
gli disse:
- Notaro, ammonite lo accusato
a non insistere nella sua ritrattazione... ammonitelo, che diversamente la
legge vuole che venga esposto alla tortura definitiva... ammonitelo, tortura
definitiva... che sia... e in caso di persistenza stendete il decreto.
- Il dabbene uomo queste
proposizioni favellava singhiozzando, e il notaro per filo e per segno le
ripeteva a Marzio; cerziorandolo inoltre, che tortura definitiva significava
applicarlo ai tormenti usque ad necem; le quali parole latine, in lingua
volgare suonavano fino alla morte. Marzio anche a questo assentì
col capo, perchè ormai la lingua ingrossata gl'impediva la favella.
Disteso, letto, e sottoscritto il decreto, il notaro Ribaldella, volto prima al
Luciani, che alacre gli ammiccava con gli occhi, disse al carnefice:
- Tocca a voi.
Mastro Alessandro prese le
braccia di Marzio; gliele tirò dietro la schiena; le soprammise una
all'altra; le legò con un nodo in croce; tentennò il canapo per
assicurarsi se scorresse spedito dentro alla carrucola, e poi, cavandosi il
berretto, domandò:
- Illustrissimi, con lo
squasso, o senza squasso?
- Diavolo! con lo squasso,
s'intende, e co' fiocchi... - rispose il Luciani, che non si poteva contenere
in verun modo.
Gli altri affermarono
assentendo col capo.
- Mastro Alessandro, sovvenuto
da uno dei suoi valletti, trasse su piano piano Marzio. Beatrice inclinò
la faccia sul petto per non vedere; ma poi fu spinta da uno interno moto ad alzarla.
- Orribile! orribile! - Urlando si coperse gli occhi con ambe le mani... quel
nudo ossame, stirato in truce atteggiamento metteva a un punto terrore e
pietà. Il giustiziere, poichè ebbe fatto toccare a Marzio con le
braccia tese in angolo sopra la testa la traversa della forca alta sei braccia
da terra, si recò in mano il capo della fune, e lasciò andare.
Marzio rovinò giù a piombo fino a quattro dita distante dal
pavimento: tremendo fu lo squasso, e si sentirono scricchiolare le ossa, e
stracciarsi i muscoli. Marzio spalancò gli occhi stralunati come se
volessero schizzargli fuori dei cigli; aperse la bocca spaventevolmente
mostrando tutti i denti, e un singulto secco gli chiuse la gola: subito dopo si
sentì come un leggiero gorgoglìo, e dalla bocca aperta apparve
una bolla d'aria, che scoppiando lasciò gocciare giù dagli angoli
dei labbri bava sanguigna. In fede di Dio egli era stato uno dei più
famosi squassi, che avesse saputo dare mastro Alessandro in vita sua: s'egli se
ne compiacesse, o se ne dolesse, non poteva indovinarsi; stava duro, e
taciturno a considerare l'opera sua.
- Su, mastro Alessandro, da
bravo... agguantamelo con un altro squasso dei buoni, - appoggiate ambe le mani
ai bracciuoli del seggiolone, e mezzo ritto con la persona, insisteva
l'auditore Luciani.
- Non monta, Illustrissimo;
l'ultimo squasso glielo ha dato la morte.
- Come? come? È morto?
- imbestialito urlò il Luciani. - Perchè lo avete fatto morire
voi? Perchè ha ardito morire costui prima di annullare la sua
ritrattazione?
E siccome mastro Alessandro
stringendosi nelle spalle non fece motto, il giudice instava:
- Vediamo, - proviamo se fosse
sempre vivo; dategli una stretta co' tassilli - un po' di fuoco sotto le
piante, per tentare se gli tornassero gli spiriti.
E si levava, quasi per aiutare
mastro Alessandro; sennonchè il Moscati, sdegnoso, lo tenne pel braccio
esclamando di forza:
- Per dio! vi sovvenga della
dignità del vostro ministero! Siete voi giudice, o giustiziere?
Ma il Luciani svincolò
il braccio; e, padroneggiato dal bestiale suo istinto, si fece in fretta presso
il carnefice, che teneva stesa la mano sul cuore di Marzio, e ansiosamente lo
interrogò:
- Ebbene?...
- Illustrissimo ve l'ho
già detto, egli è morto.
Allora il Luciani, pieno
d'izza, voltando il discorso al cadavere lo rampognava:
- Ah mi sei scappato,
furfante! Sei morto per giuntare la giustizia della confessione, e mastro
Alessandro di cinquanta scudi di salario per impiccarti. - E quindi tornando al
banco, con voce e gesti infelloniti di faccia al Moscati gridava:
- Su via, signor Presidente,
battiamo il ferro quando è caldo: mettiamo a profitto lo sgomento che
deve avere incusso il terrore nello spirito dell'accusata; - sentiamo un po' in
qual nota canti costei a suono di corda; - e dardeggiava gli occhi contro
Beatrice come lingua di vipera.
- Basta, ordinò
severamente il Moscati; io regolo il processo: la seduta è chiusa; - e
mosse per uscire.
Il notaro Grifo, vinto dal
costume, si trattenne alquanto per nettare le penne; e ripostele frettoloso in
bell'ordine, corse dietro ai giudici dicendo:
- Adesso terminerò
raccontarvi, com'io acquistassi la tabacchiera del signor Duca di Guisa...
Beatrice, bianca come un
lenzuolo da morto, tentennò per cadere; le labbra le diventarono
pagonazze, e gli occhi suoi tremolarono smarriti; indi a breve scosse il capo,
e lo rialzò a guisa di albero piegato dal remolino che passa; poi
animosa andò incontro al cadavere di Marzio, gli stette davanti, lo guardò
fisso, e favellò:
- Sciagurato! Tu non hai
potuto salvarmi; ma ti perdono, e supplico Dio che ti perdoni. Tu hai peccato
molto; ma hai amato, e patito anche molto. Tu non vivesti alla virtù, ma
sei perito per la verità. Io t'invidio... chè la mia vita
è tale, da portare invidia ai morti([152]). Adesso non posso
dimostrarti l'amor mio (e sì dicendo stese lo indice e il pollice, li
soprappose ai cigli del morto e gli chiuse gli occhi, ch'egli teneva sempre
aperti in molto terribile maniera; poi trasse un pannolino e gli asciugò
le labbra dalla bava sanguigna) in altro modo, che rendendoti questo ultimo
ufficio, e te lo rendo di cuore. - Ciò detto si volse ai custodi, e con
fermo sembiante riprese: ora torniamo al carcere.
Ma il fitto ribrezzo delle
carni palesava la tremenda commozione dell'anima sua: le gambe le tremavano
sotto, e ad ogni passo incespava per cadere. Mastro Alessandro trattosi il
berretto di capo, e tenendosi lontano con doverosa distanza, così le
favellò:
- Signora, io so che non mi
potete toccare; così a Dio piaccia, che io non tocchi mai voi: voi avete
bisogno di qualcheduno che vi sostenga; se me lo concedete io chiamerò
tale, su cui vi appoggerete senza paura: di mala pianta nacque, e in carcere; e
non pertanto è fiore, che può presentarsi alla Madonna...
è mia figliuola.
E con un fischio prolungato
chiamò: indi a breve fu vista comparire una fanciulla bella sì,
ma bianca, bianca come voto di cera. Poveretta! ella sapeva essere nata alla
sventura.
- Virginia, le disse il padre,
da' braccio a questa Signora... è disgraziata quanto te.([153])
Beatrice fissata la fanciulla
in volto, si sentì bene disposta verso di quella: quando poi intese che
si chiamava come la madre sua. le sorrise mesta, e le si appoggiò sul
braccio incamminandosi al carcere.
Mastro Alessandro
avvisatamente dava cotesta terribile strappata di corda a Marzio, tentando
farlo restare sul colpo; e come aveva immaginato gli riuscì, stante il
miserabile stato in cui lo infelice si trovava ridotto: non mica per odio;
all'opposto, per pietà. Onde costui morisse presto, e con meno
patimenti, il boia mandava male una trentina di scudi; e per boia non era poco,
anzi moltissimo: troppo più, che le pietose viscere, di un Soprastante
di carceri umanitarii non gli potrebbero permettere; il quale per trenta scudi
e un po' di seta tinta nel sangue di Santo Stefano venderebbe trenta Cristi,
con la Beata Vergine per giunta; e se colmo la misura di un grano solo, il
diavolo mi porti mentro che scrivo.
CAPITOLO XXIII.
I GIUDICI.
Di nuova pena
mi convien far versi.
. . . . . . . .
. . . . . . . . . .
Chè dove
l'argomento della mente
S'aggiunge al
mal volere ed alla possa,
Nessun riparo
vi può far la gente.
Dante, Inferno.
Ha la sventura un vento che la
precorre, e chiamasi augurio: le anime pacate per mille indizii lo presentono,
come gli uccelli lo approssimarsi del turbine: le altre poi, dalla vicenda dei
quotidiani eventi perpetuamente commosse, non se ne accorgono, e la sventura le
coglie subitanea e improvvisa.
Invano il giudice Ulisse
Moscati chiudeva le orecchia alla voce interna, la quale insistente gli diceva:
«tu getti via i passi». La voce tornava a sconfortarlo, e per la sua mente si
avvolgevano pensieri simili a spettri, che in parte celino, e in parte palesino
il minaccioso sembiante; nè egli osava interrogarli, e che si scuoprissero
più palesemente aveva paura: tuttavolta, sciolto un grandissimo sospiro,
e supplicato il cielo di uno sguardo, si avviò al palazzo Vaticano.
Fattosi annunziare aspettò con pazienza per bene due ore, finchè
il camerario del Papa gli partecipò che poteva entrare, e scortato da
lui si trovò al cospetto del Sommo Pontefice.
Fosse per amore della vista, o
quale altra causa più vera lo persuadesse, il candelabro appariva
circondato da un cerchio di seta verde per modo, che dal busto in su la faccia
di Clemente VIII non si distingueva, nè punto vedevansi Cinzio Passero e
Pietro Aldobrandino cardinali nipoti, che stavano fermi in piedi dietro la
spalliera della seggiola. Allora i Papi si assomigliavano tutti come le dita
della stessa mano, stesa per molti secoli sul capo di parte non piccola del
genere umano... e se per benedirlo, Dio onnipotente un giorno
giudicherà. Adesso qualche maggiore differenza corre tra loro; non tanta
però, che paiano nati di diversa famiglia: e tacendo degli altri per dire
degli ultimi, Pio IX si mostrò tenerissimo delle libertà dei
popoli; e della patia sua, la veneranda madre Italia, figlio amorosissimo:
delle cose di religione poi studioso sì, ma non rigidamente zelatore,
almeno sul principio del suo pontificato: all'opposto Gregorio XVI non
versò in altro che in divinità, di cui fu maestro solenne; della
libertà, e felicità dei figli suoi dilettissimi prendendo cura
alquanto minore. Questi, per istringere il vincolo soave tra figli amati e il
padre amante, chiamò uno straniero solo; quegli, per istringerlo
più forte talchè in processo di tempo non avesse ad allentarsi
più mai, ne chiamò quattro, e due ne conserva per aiutarlo a far
portare al popolo romano quel dolce giogo, ch'è il suo amore: e se io
dica il vero, la Civiltà Cattolica (dotto, pio, e soprattutto
sagace diario dei Reverendi Padri Gesuiti) informi.
Clemente vestiva la mezzetta
di velluto sanguigno ornata di ermellino, e il roccetto di trina finissima; il
cappuccio pur di velluto rosso; la toga, le calze e le scarpe di seta bianca, e
sopra queste ricamata la croce di oro. La luce dei doppieri spandendosi su la
parte inferiore del capo del Pontefice metteva in rilievo un piede del servo
dei servi, che, posato superbamente sul pulvinare di velluto vermiglio ornato
di gallone e di nappe di oro, sembrava che comandasse a chiunque si accostava:
baciami. Il giudice Moscati era troppo buon cattolico per non sentire cotesta
voce; e comecchè per gli anni male egli si tenesse fermo su la persona,
la vanità non consentì che l'altro si rammentasse caduco essere e
mortale come lui, e gl'impedisse l'atto ignominioso: il Moscati cadde
giù gravemente, e col capo venerando di canizie urtò nella gamba
del Papa, il quale, malconcio da abituale podagra, forte se ne sentì trafitto;
ma mordendosi il labbro compresse il lamento, finchè con voce acerba
potè dire:
- Sorgete.
Il vecchio, appuntellata la
tremula mano sul pavimento, non senza tornare a piegar le ginocchia più
volte, giunse a raddrizzarsi sopra le gambe. Sorto, e ripreso lena, con ingenua
franchezza egli aperse al Pontefice l'animo suo intorno al processo; della
famiglia Cènci; lo chiarì della incertezza degl'indizii, espose
la inverosomiglianza dei deposti, la età novella di alcuni fra gli
accusati, i fatti non pure discordi, ma contrarii; e quantunque parecchie ne
aggiungesse di suo, ripetè le considerazioni discorse da Beatrice; si
avventurò eziandio a toccare (suprema audacia in cotesti tempo) delle
prove dubbiose, che, a parer suo, nascevano dai tormenti; imperciocchè
se Marzio aveva confessato in grazia della tortura, aveva ancora soppresso la
sua confessione, ed era morto fra i tormenti in testimonianza di aver detto per
ultimo la verità. I Cènci poi, tranne la donzella, un po' avevano
confessato, un po' negato, dichiarando essersi accusati unicamente
perchè costretti dalla forza del dolore: maravigliosa, egli aggiunse,
essere la ingenuità di Beatrice, stupenda la efficacia dello eloquio, il
modo di persuadere irresistibile, sicchè in quanto a lui giudicarla
innocente. Queste cose avere voluto per debito di coscienza significare a Sua
Santità, onde nel suo infallibile giudizio avvisasse quello che fosse da
farsi pel meglio. Bernardino, fanciullo di dodici anni, avere sperimentato con
la corda, e sentirsene al cuore un rimorso e uno affanno indicibili. Beatrice
no, parendogli proprio commettere peccato mortale.
Mentre favellava il Moscati, i
due Cardinali per quella mezza oscurità avvicendavansi sguardi simili a
baleni precursori della tempesta, e il Papa anch'egli aggrottò i
sopraccigli più volte; ma, per antico costume, a dissimulare e a
simulare espertissimo, si contenne, e in suono di voce più pacato assai
che di ordinario non soleva, commendò il Moscati della ottima mente sua,
promise far capitale delle cose rapportategli, e, confortatolo con amorevoli
parole a tornare il giorno veniente alla medesima ora, lo accomiatò
impartendogli l'apostolica benedizione.
E il Moscati, pratico della
temperie di corte, nonostante le singolari dimostrazioni di benevolenza, se ne
andava col cuore più chiuso di quando ci era venuto: la voce interna,
più incresciosa che mai, lo ammoniva aver gittato la opera e i passi:
educato alla scuola della esperienza, ben egli sapeva come con gli uomini in
generale, ma segnatamente co' Prelati, quanto il promettere si allunga si
accorcia lo attendere, e le speranze nate in corte o su la pianta appassiscono,
o, a modo del fiore di papavero, al primo soffio si spelano; - spiagge
insidiose si provano le corti, dove mai tanto non fosti prossimo a naufragare
come quando il cielo si mostra sereno, e il mare tranquillo.
Nonostante il presagio, l'uomo
dabbene alla ora destinata andò, supplicando il Signore che almeno gli
tenesse conto del buon volere. Accolto dai camerarii con insolito ossequio, lo
resero avvertito attenderlo nelle sue stanze lo eminentissimo Cardinale San
Giorgio, nipote di Sua Santità. I tristi auspicii sempre più si
colorivano; ma l'uomo, che cosa può mai contro il fato? Certo quando
ogni industria nostra per procurare alcun bene riesce invano, piccolo conforto
è pensare che noi operammo quanto stava in nostra potestà; e
nondimeno, da questa in fuori, altra consolazione non ci avanza. Il Cardinale
Cinzio, versato per tempissimo nelle faccende di governo (chè tuttavia
giovanetto accompagnò come segretario lo zio Ippolito, allora Cardinale
di San Pancrazio, nella sua legazione di Polonia) andava famoso per la perizia
delle arti cortigianesche, onde non fa mestieri raccontare se accogliesse il
Moscati con esquisita urbanità: lo fece sedere accosto a se, non senza essersi
adoperato in prima con preghiere, che sopra la sua medesima sedia si assidesse.
Poichè si furono entrambi adagiati, il Cardinale con piacevole favella
incominciò:
«Sono lieto, clarissimo signor
Presidente, poterla assicurare, Sua Santità avere avuto accettissime le
savie avvertenze di lei intorno al processo dei Cènci; e questo essere
stato segno manifesto non pure del suo ottimo cuore, quanto del suo eccellente
giudizio; onde se prima lo reputava assai, adesso averle a mille doppii accresciuto
l'affezione e la stima: - però essere mente di Sua Santità
considerare questo negozio seduto, e con quella gravità di cui
gli sembrava meritevole: rifuggire il Beatissimo Padre dalle asprezze,
comecchè salutari, della gloriosa memoria di Papa Sisto, ma detestare
nel medesimo tempo la soverchia benignità Gregoriana: con inestimabile
amarezza egli vedere come le male piante, a cagione della poca diligenza usata
durante la guerra di Ferrara, ripullulassero più spesse e maligne che
mai in grembo ai suoi stati: questo la sua religione non potere comportare, e
il debito che gli correva davanti a Dio. Tuttavolta non potersi mettere in
dubbio, senza offesa della somma pietà del Beatissimo Padre, che i
partiti a cui avesse reputato nella sua suprema saviezza doversi appigliare,
non fossero consentanei alla giustizia». E qui di punto in bianco data una
giravolta, vie più benigno aggiungeva: «Le paterne viscere del Sommo
Pontefice sono state commosse nel considerare il deperimento notabile di salute
d'un servitore zelante, e benemerito quale ella è, chiarissimo signor
Presidente; egli ha saputo con profonda amarezza avere la sventura visitato
casa sua, e desidera, per quanto a mano mortale è concesso, alleviare il
dolore di vostra signoria illustrissima. Questo per bocca mia le significa: il
Santo Padre rimane dello zelo di lei, chiarissimo signor Presidente, edificato;
ma carità, ma giustizia non consentono accettare il più che umano
sagrifizio suo.
- Ah! vi sono affanni qua
dentro (rispose il Moscati, a cui le parole soavemente spietate del Cardinale
fecero lo effetto di una mano che prenda a fasciare la piaga per vederla, non
già per medicarla) che gli uomini non possono consolare; inasprire si.
Iddio solo lo potrà, e forse col rimedio unico a tutti i mali - la
morte.
- Ed io lo credo; però
tanto più mi maraviglio come, travagliato da tanto domestico lutto, le
basti la mente per dare opera alle incumbenze del suo officio, le quali,
faticose e per propria natura malinconiche, invece di sollevarla devono mantenere
nello animo suo lugubri considerazioni.
- È vero; ma io vi
persevero perchè ho sempre creduto, e credo, che tra soldato e
magistrato non corra divario; e debba questi per sommo onore morire al suo
banco, come quegli sul campo di battaglia: anzi gl'Imperatori romani, considerati
i travagli e la costanza dei primi, la Eminenza sua conosce meglio di me come
non dubitassero di preporli con amplissime lodi ai secondi.
- Questa, che vuolsi estimare
e commendare bontà egregia di suddito, sarebbe ripresa come durezza nel
Principe; il quale non può patire che il magistrato fedele si logori
nella fatica finchè diventi pianta infracidita, buona solo a farne
fuoco: anche i Romani, che furono sì operosi, com'ella dottissimo non
ignora, quando giungevano a quella parte di vita, da loro distinta col nome di senio,
senza infamia potevano ritirarsi dai pubblici negozi; verso sera ogni animale,
che vive in terra, cessa dalle opere.
- Ed anche a me,
Eminentissimo, piacerebbe seguitare lo usato tenore di tutte le creature; non
già per riposarmi, chè a riposare tempo ne avanza anche troppo
nel sepolcro; bensì per apparecchiarmi con la meditazione delle cose
divine a quel termine, per tutti noi quanti siamo comune, e da me sopra gli
altri mortali desiderato; ma nonostante gli esempii pagani, ne temo biasimo.
Bene altramente c'insegnò la virtù del sagrifizio Gesù
Redentore; onde io, che per questa parte mi sento incolpevole, vorrei senza
rimprovero portare i miei capelli bianchi alla fossa.
- In primo luogo io la
conforto, carissimo fratello in Cristo, a porgere volonterose le orecchie alla
chiamata che le viene dall'alto; inoltre io l'assicuro, che invece di biasimo
dai buoni non può venirlene altro che lode, e dal Beatissimo Padre
amplissima approvazione; a nome del quale io le profferisco tutti quei favori,
che possa desiderare più acconci per condurre a termine l'ottimo suo
proponimento.
- Poichè,
Eminentissimo, con tanta benignità le piace consolare questo mio cuore
trafitto, io le paleserò sentirmi vocazione di rendermi a Dio in qualche
Regola di religiosi insigne per santità non meno, che per opere utili ai
miei fratelli di tribolazioni.
- E di queste regole siffatte,
mio caro, abbonda sì la santa Chiesa Cattolica, che non vi ha altro
imbarazzo se non quello di scegliere. Ella ha i monaci di San Giovanni di Dio,
consacrati alla cura dei poveri infermi; ha gli Agostiniani del Riscatto;
l'Ordine dei Predicatori, veri atleti di Cristo; i Francescani, che, coi
Domenicani, Papa Onorio (per rivelazione, divina) conobbe sostenere la Chiesa
periclitante; ma tutte queste religioni, come quelle che appartengono alla
Chiesa militante, quantunque convenevoli allo zelo di vostra signoria
illustrissima, male si confanno agli studi suoi ed alla età. I reverendi
Padri Benedettini di Montecassino, consacrati alla vita contemplativa, andarono
per esercizio di cristiane virtù e per dottrina famosi fra i più
distinti ordini della Cristianità; ed io le proporrei riparare fra loro,
se per mia convinzione non trovassi a preferire i Padri della Compagnia di
Gesù...
- I Gesuiti?
- Per lo appunto. Chi meglio
di loro meritò della Chiesa? Francesco e Domenico sostennero la Chiesa
pericolante, i Gesuiti la rilevarono pericolata. Chi sarebbe stato a pari di
loro gagliardo a durare le lotte della fede co' Luterani, Calvinisti,
Zuingliani, e l'altra peste maledetta di eretici, che Cristo confonda? Al
Papato e al Principato i Gesuiti sono più necessari che i denti in bocca
all'uomo; senza essi non si mastica: ed io so quello che mi dico. Il Principato
attese a deprimere la Chiesa; e la Chiesa, legittimamente difendendosi,
crollò il Principato: dannose le mutue offese, e quelle dei Principi,
per di più, empie. Ora poi che assursero i Popoli ad avvantaggiarsi
delle diuturne discordie, e, rotto il freno, minacciano il trono e l'altare, i
Principi hanno fatto senno; e, uniti in bel vincolo di amore, attendono a
sanare le scambievoli ferite: di entrambi adesso ne stringe pari la cura,
però che entrambi derivino da Dio, quantunque immediatamente la Chiesa,
mediatamente il Principato. I Gesuiti ottimamente compresero la doppia
missione, e la esercitano con la sapienza del serpente, e la semplicità
della colomba: non dubbii in loro, non esitanza, non disonesto spirito di
discussione. Obbedienza e fede trionferanno del mondo, perchè deve
capire, chiarissimo signor Presidente, come colui, che si avvisa a sottoporre
ad esame i dogmi della Chiesa e i motuproprii dei Principi, se non è
diventato eretico e ribelle, già cammina per la strada di esserlo.
- Eh! sì... i
Gesuiti... non dico; in verità meritano moltissimo: ma dei Girolamini,
Eminenza, che ne parrebbe a lei?
- Santa Vergine! Vorrebbe,
signor Presidente, scegliersi per avventura ritiro imperiale? Questa non mi
parrebbe umiltà: extra jocum, anche i Girolamini meritarono
ottimamente della Chiesa. Già come sono frati ella può andare a
occhi chiusi; se quelli paionle buoni, e questi proverà meglio; è
tutta messe del seme di Dio. S'ella si sente vocazione per la regola di San
Girolamo, dia retta alla chiamata di Dio.
- Il Signore la rimuneri di
avermi illuminato: in breve, se la Eminenza sua si degnerà concedermelo,
depositerò nelle mani riveritissime di lei il memoriale onde Sua
Santità mi dispensi dallo ufficio; e nel presentarglielo, che farà
la Eminenza sua, io la supplico di renderla capace, con quelle parole che le
parranno più acconce, delle ragioni che mi muovono a questo passo,
affinchè mi sia continuata la grazia del Padre dei Fedeli.
- Non rimettere a domani
quello che puoi far oggi, ci ammonisce una sentenza antichissima. Davanti a
lei, carissimo, ella ha quanto bisogna per iscrivere; tregua agl'indugi: dei
buoni ufficii miei stia sicuro, della ottima mente del Santo Padre verso di lei
non dubiti punto.
Ulisse, stretto dall'ardente
pressa, scrisse la supplica, e scritta che l'ebbe la consegnò al
Cardinale di San Giorgio; il quale l'accolse con sottilissimo riso, che appena
gli fece tremolare i peli estremi dei baffi: forse era di compiacenza, forse di
scherno, e può darsi di ambedue. Ridottosi a casa, meditando sopra lo
accaduto, e riandando con mente quieta le parole e i fatti, Ulisse si accorse
come, prevalendosi del turbamento dello animo suo, lo astuto prete lo avesse
condotto se non a sbagliare, almeno a mutare strada, e cavatogli di sotto
quanto ei desiderava. Però quegli che n'ebbe profitto questa volta fu il
vinto; avvegnadio il Moscati senza viltà si ritraesse da un passo, donde
indietreggiare senza pericolo, e oltrepassare senza infamia non poteva. Di
grazie, favori, pensioni od altri simili vantaggi non fu fatto parola nel
memoriale, nè nel breve; e il Moscati non si curò ricordarli al
Cardinal Cinzio: egli schivo e superbo, avarissimi gli altri; sicchè
avevano detto, consigliandosi fra loro: nulla ha chiesto, nulla pertanto egli
vuole; e poi, un povero frate di che cosa abbisogna? E poi, copia di beni
possiede anche troppa, e fa anni più di quaranta che tira paga dallo
stato; e poi aggiungete, che questa impresa di Ferrara ha propriamente
disastrato lo erario, e bisogna rinsanguarlo; inoltre assegnandoli pensione
parrebbe un guastare la umiltà e spontaneità dell'atto; e chi sa
ancora, ch'egli non siasi taciuto su questo tasto per superbia? Chi più
ne ha più ne metta, chè tanto non arriverà a indovinare
tutti i poi, pei quali l'avarizia crede potersi sdebitare dall'obbligo
senza metter mano alle tasche. - D'altronde è cosa nota che papi,
principi, e cardinali eziandio, non meno che l'altra gente di alto affare, ed
illustri, che Dio manda per sollievo della umanità, sono di buona
memoria (quando ce lo incidono) sopra le lapide soltanto; in ispecie poi
Papa Clemente, il quale pativa di chiragra e di podagra; e se ne teneva, a
quanto pare, avendo donato due gambe di argento massicce alla Casa di Loreto,
allorquando la visitò incamminandosi a prendere possesso del Ducato di
Ferrara, quasi perchè i posteri non dimenticassero cotesta sua
qualità([154]).
Ulisse Moscati si ritrasse,
come aveva divisato, nel chiostro; però non prese mai gli ordini sacri,
e godè per alcuni anni quella pace stanca, che aspetta gli uomini, non
già tutti, bensì i meglio fortunati, dopo le contese e le
percosse di questa battaglia, che si chiama vita.
Il Cardinale di San Giorgio
nella sera stessa presentò la supplica al Papa, il quale postala sopra
la tavola la compresse col pugno chiuso; e poi, assentendo col capo e con uno
stirare delle labbra verso gli orecchi, che per lui voleva dire riso,
favellò breve al nipote della sua predilezione:
- Or, Cinzio, abbiate
avvertenza all'altro.
Se nelle pianure dell'Affrica
o dell'Asia, ed anche nei campi di Sardegna, avvenga mai che muoia cavallo o
montone, e sotto la sferza ardente del sole incomincino appena a svilupparsi da
cotesto cadavere i primi effluvii della corruzione, ecco tu levi la testa, e
dal punto culminante dello emisfero passeggiando il tuo sguardo fino
all'estremo orizzonte ti comparisce tutto dintorno limpido e puro: torni ad
alzarla di nuovo, e tu vedi, colà dove il cielo pare che tocchi la terra
o le acque, avanzarsi un nuvolo di punti neri, il quale ad un tratto
dilatandosi ti è sopra, e all'occhio attonito ti manifesta una torma di
avvoltoi, i quali, in virtù dello stupendo odorato, vengono tratti
all'oscuro convito. In questa guisa stessa i perversi, senza paura
d'ingannarsi, fiutano alla lontana i perversi; si ravvisano subito, si
stringono, e prestansi aiuto. Soventi volte, e con inestimabile dolore, io ho
notato la immensa e forte fratellanza dei maligni. Non è mica giuramento
di setta che sospinge gli uni verso gli altri, nè disciplina di collegio,
nè istituto di consorteria, no; bensì un arcano magnetismo
animale, un soffio alitato sopra il capo di costoro dalla bocca del demonio.
Quando ti muovono guerra renditi per vinto, dacchè tu non li potrai
neanche combattere; dispersi in polvere sottilissima ti si avventano agli
occhi, penetrano nei pori, s'insinuano nel sangue; invisibili, e nondimeno
potenti; impalpabili, eppure invincibili: essi ti stritolano nelle mani un
disegno come vetro; ti fermano lo strale sopra la noce; si cacciano sotto la
rota del carro trionfale, e lo arrestano a mezzo cammino; accosti le labbra
alla tazza, ed essi si mescolano nel vino che prende sapore di fiele; accosti
le labbra a quelle della moglie, dei figli e del padre, ed eglino si posano
sopra coteste labbra sicchè ti sanno di terra; insomma, anima e corpo ti
seppelliscono sotto un cumulo di arena. Per altra parte, e con altrettanto
rammarico, ho avvertito la indifferenza dei buoni fra loro; non già
perchè patiscano difetto di cuore, o rifuggano dal sovvenirsi cortese con
mutui offici; all'opposto, completi di virtù e di senno, pensando
bastare a se stessi, non credono doversi collegare a difesa, molto meno ad
offesa. Ercole potè raccogliere nella pelle del lione tutta la gente dei
pigmei perocchè essi fossero almeno alti un cubito; ma oggi, ridotti
in polvere, sfuggirebbero al tatto di lui, che ne avrebbe irrimediabilmente
pieni gli occhi e la bocca. O sapienti, fate senno una volta; e conoscete a
prova, che se il diritto è l'elsa, la forza è la lama della
spada. Sì legge scritto come, nelle Indie orientali, le turbe dei
formicoloni assaltino lo elefante, ed in breve ora lo riducano a tale, che di
lui non si trovano altro che le ossa politissime, e bianche: quello che nella
India costumano le formiche, in Europa fanno i nulli, i mediocri e i perversi,
a detrimento dei buoni e dei grandi. Certo il lione va solo; ma nel deserto,
dove non trova gesuiti, nè commissioni governative, nè
formicoloni dell'India, nè corti regie, nè procuratori generali.
In questo modo il cardinale Cinzio
Passero avendo a sbrancare dalla trista mandra della magistratura una bestia
malefica, alzò le narici, e gli venne dalla lontana fiutato il giudice
Luciani. Chiamatolo a se gli usava le consuete carezze feline, e poi gli diceva
come il Santo Padre, suo gloriosissimo zio, non rifinisse mai di favellarne con
rispetto grande per la sua molta dottrina, e più per la prontezza e
salutare severità con le quali egli spediva i negozii; egli sapere per
conto suo, che la santa memoria di Papa Sisto lo teneva in ottimo concetto, e
che lo aveva, prima di morire, raccomandato al Pontefice suo zio come soggetto
commendevole per ogni punto, e da potersi adoperare a chiusi occhi in emergenze
difficili: essere stata intenzione del Pontefice suo zio promuoverlo, e riconoscerlo
dei molti meriti suoi, ma fino allora avergliene impedito il modo le faccende
dello stato, e le cure della guerra, e di questo sentirne amarezza infinita.
Intanto, per rimettere il tempo perduto, come segno della sua fiducia volergli
confidare la procedura dei Cènci scandolosamente protratta, mentre, per
quanto correva universale la voce, tante, e patentissime abbondavano le prove
della reità degli accusati. Andasse, rompesse gl'indugi, facesse cosa
gradita al popolo romano, e al Santo Padre accettissima: il nome di
restauratore della giustizia si meritasse...
Anche le civette impaniano,
dice il proverbio; e il Cardinale, infiammato dal desiderio di venire a capo
del suo disegno, ci aveva messo troppo più mazza che non ci bisognava.
Le pupille del Luciani oscillarono corruscando, come quelle delle belve prima
di spiccare il salto; e la parola prorompendo impetuosa gli si rompeva fra i
denti.
- Certo, balbutiva costui,
certo, Eminentissimo, col signor Moscati non ci era verso di trarre un
ragnatelo dal buco: gli avevano fitto in testa certi scrupoli... lo assalivano
tali uggie... tanti rispetti, che nemmeno io mi sapeva dove mi trovassi. La
s'immagini, Eminentissimo, io lo sperimentai renitente perfino ad applicare
Beatrice Cènci alla tortura preparatoria monentibus indiciis,
mentre (Dio mi guardi da formare giudizii temerari) a me sembra che la prova
abbondi per farla impiccare (domando perdono del lapsus linguae, essendo
ella nobile) - per farla decapitare dieci volte.
- Guardate un po' voi! -
esclamava maravigliando il Cardinale, ed alzava ambe le mani.
- E quando dubitai che la
potesse essere ammaliata, considerando la perspicacia dello ingegno e la pronta
favella, niente affatto naturali in giovanetta ingenua, mi fece spallucce come
se avessi pronunziato qualche eresia. La Eminenza vostra sa troppo bene, come
il diavolo quasi sempre dia il dono delle lingue a coloro cui entra in corpo.
Sua Eminenza all'opposto
sapeva, pel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli, che il dono delle
lingue si diparte dallo spirito; e che quando, dopo la Pentecoste, gli Apostoli
scesero per la via favellanti in più lingue, le turbe non li giudicarono
già invasi dal demonio, bensì ebbri di vino dolce([155]): tuttavolta, non
trovando il suo conto a contradire il giudice, approvò stringendo le
labbra, ed abbassando la testa.
- Riposino pure sopra di me,
continuava il Luciani, come su due guanciali; io sono avvezzo a far presto, e
bene. Quando Papa Sisto mi mandò a Bologna pel negozio del conte
Peppoli, io ebbi l'onore di darglielo spacciato nelle mani in meno d'una settimana...
- Ah! il povero conte, che fu
decapitato nell'ottantasei...
- Domando perdono,
Eminentissimo è' fu nel millecinquecentottantacinque, il venerdì
dopo la pasqua del Corpo di Cristo, nel primo anno del suo pontificato. Quel
benedetto conte ne aveva fatte delle bige e delle nere; sicchè anche i
suoi nodi un giorno vennero al pettine. Caduto in potestà della
giustizia, siccom'egli era di ricchezze copioso, potente di parentadi, e
abbondante di partiti, non si trovava persona la quale si avvicinasse deporgli
contra; per le quali cose si correva pericolo di doverlo metter fuori per
mancanza di prove. La Santità di Papa Sisto apprendendo queste novelle
mi spedì incontanente per le poste fino a Bologna, affinchè
significassi alla recisa a quegl'illustrissimi signori giudici, che se non
condannavano alla forca, e subito, il conte Giovanni, Sua Santità
avrebbe impiccato loro. Messi così nello strettoio, o d'impiccare o
d'essere impiccati, impiccarono; e fecero bene: non però senza qualche
scapito della reputazione della magistratura, per i passati indugi;
avvegnachè, che cosa sia la legge nei governi bene ordinati? Niente
altro che regola di condotta pei sudditi. Ora, chi fa la legge? Il Principe;
dunque la sua volontà è legge; scriverla, e pubblicarla spetta
alla forma, non alla sostanza; e Papa Sisto, che sapeva governare, volle che
legge fosse la sua volontà non pure scritta, ma eziandio manifestata con
la voce e col cenno([156]).
- Eh! Papa Sisto la intendeva
pel suo verso.
- Le suppliche mandate al buon
pontefice in pro del Conte sommarono a cinquecento, e tante; egli ne
graziò una sola, e fu proprio del Conte stesso, il quale allegando i
privilegi del nobile lignaggio, domandava reverentemente essere decollato
piuttostochè impiccato. Sisto, con la consueta sua benignità,
oltre la grazia supplicata, aggiunse di suo, che per maggiore onore gli
concedeva di andare al patibolo con la spada al fianco; come di fatto successe.
Però, continuava esitando il Luciani, io non capisco come la gloriosa
memoria di Papa Sisto si degnasse raccomandarmi in morte; conciossiachè
io gli venissi in uggia per modo, ch'io ci ebbi a rimettere il collo; e la veda,
Eminentissimo, proprio in me non era colpa al mondo, e Dio sa se io lo servissi
di cuore. Basta, un papa veramente grande egli fu; ma quando cotesta sua accesa
natura montava su le furie, non ci era modo di poterlo attutire.
Lo Eminentissimo, che aveva detto
una bugia, non era uomo da sgomentarsi per così poco; ond'è, che
senza punto turbarsi così rispose:
- Certamente: siccome Papa
Sisto passato il primo bollore di leggieri si ravvedeva, è da credersi
che, riconosciuto lo error suo, non avendolo potuto riparare in vita, si
adoperasse di farlo in morte. - E subito dopo, studioso di divertire
l'attenzione del Luciani, interrogò: «E come vi avvenne, illustrissimo
signor Presidente, di cadere in disgrazia ad un tanto pontefice?
- Avete a sapere, Eminentissimo,
come una idea fissa si fosse impadronita della mente di Papa Sisto, infastidito
di volgari supplizii; ed era una smania sterminata di far morire sul palco
qualche principe. Tanto lo dominava questa fantasia, che talora, facendosi
leggere per diletto la relazione della prigionia e morte della regina Maria
Stuarda, sospirava dicendo: «O Signore! e quando verrà quel giorno in
cui capiterà una tale occasione anche a me?» Ed altra volta,
affacciatosi alla finestra, si voltò alla plaga di ponente, dove si dice
che giaccia Inghilterra; e, sollevata la mano, quasi volesse parlare con la
regina Elisabetta, ad alta voce favellò: «O te beata, regina, che
sortisti dai cieli l'onore di poter far cadere una testa coronata! Va, che tu
sei un gran cervello di donna». Ora mentre stava sopra questo appetito, la
fortuna gli parò dinanzi la occasione per poterlo satisfare. Il signor
Ranuccio Farnese, figliuolo del serenissimo duca di Parma Alessandro Farnese,
contravvenendo al divieto del papa, si attentò portare armi per Roma; e
non solo le portò per Roma, ma con esse venne in Vaticano, e si
presentò al sommo pontefice. Papa Sisto, come colui che con le spie non
soleva fare a spilluzzico, avvisato minutamente del fatto mise il bargello e
gli sbirri in anticamera, dove il temerario giovane venne preso, e poi portato
dritto come un cero in Castello Santo Angiolo. Chiara la legge, il delitto
manifesto, e per di più qualificato dallo spreto dell'autorità e
del luogo venerabile. Appena successo il caso si levò rumore grande per
Roma, ed all'universale sembrava agevolissimo ottenere grazia al signor
Ranuccio, considerando il credito che godeva infinito presso la Corte il
cardinale Farnese, la fama del duca Alessandro tanto benemerito della fede
cattolica, che Papa Sisto per via di legato speciale gli mandò sino in
Fiandra il cappello, e lo stocco benedetti; l'autorità della casa
inclita a paro delle più illustri, il parentado co' meglio potenti
Principi della Cristianità, e finalmente la leggerezza degli anni
giovanili del signor Ranuccio; ma quelli che conoscevano il papa da vicino
tentennavano il capo, e dicevano: «e' ci è l'osso!» E questi la
indovinavano. Di vero Sisto si mostrò, piuttostochè duro,
incocciato a farlo morire; ed a quelli che gli esponevano i meriti del duca Alessandro
Farnese, rispose: «nessuno meglio di lui averli tenuti, e tenerli in pregio; ma
le virtù del padre non dovere, nè poter compensare gli errori del
figliuolo»: agli altri, ed erano i giureconsulti, che gli obiettavano i
principi ed i forensi non andare suggetti alle leggi statutali, a differenza
delle altre che nascono dallo jus comune, opponeva cotesta ragione non correre,
avvegnachè il principe Ranuccio, come vassallo della Chiesa, non potesse
allegare ignoranza di statuto: per ultimo a coloro che adducevano la novella
età del contumace, rivoltava contro lo argomento osservando, la poca
età doversi apprendere come circostanza aggravante; e chi sentiva
altramente parergli scemo di senno: dacchè se così tenero tanto
egli ardiva, qual termine estremo, quale ultimo confino non avrebbe passato
adulto? Insomma, egli era un gusto a sentirlo schermire; pareva un toro quando
caccia per aria i cani nello steccato. Il cardinale Farnese, personaggio di
quella gravità che la Eminenza vostra conosce, prese come prudente il
suo partito; e fatti i suoi apparecchi con sagacia pari alla segretezza, calato
il sole si fece a visitare Sua Santità. Giunto al cospetto del papa
prese con ogni maniera di pietose supplicazioni a raumiliarlo, esortandolo di
tratto in tratto a non empire di tanto lutto la casa Farnese, e contristare
così l'anima del campione invittissimo della fede, il duca Alessandro.
Per la qual cosa Papa Sisto, volendo torsi cotesto fastidio dattorno, presa una
carta vi scrisse sopra l'ordine al castellano di Santo Angiolo di consegnare
alle ore due precise di notte il prigione al cardinale Farnese, e al tempo
stesso scrisse un altro ordine al medesimo castellano, che senza porre veruno
indugio tra mezzo, nè anche di un minuto secondo, mettesse a morte il
signor Ranuccio. Pare impossibile quale, e quanta fosse l'accuratezza dello
eminentissimo cardinale Farnese, il quale, nel presagio che la cosa andasse
come veramente successe, corruppe con danari l'orologiaro del castello, e gli
fece avanzare l'ora; ond'egli presentatosi con tutta diligenza al castellano ne
ottenne facilmente il Principe, che tosto mise in carrozza, e con tanto
precipizio spinse fuori di Roma, che correndo, senza mai fermarsi, le poste, si
ridusse in salvo ai suoi stati di Lombardia in meno di trenta ore. A me poi,
senta qual trama tese cotesto benedetto cardinale. Papa Sisto mi aveva
confidato l'ordine secondo, affinchè lo portassi, aprendomi l'animo suo;
e, volendomi esercitare ad usar diligenza, mi diè una spinta, quasi
intendesse balestrarmi di punto in bianco in castello. Ora mentre io mi
affretto, allo scendere del ponte, o per corda tesa traverso o per altro
argomento che vi adoperassero, i cavalli stramazzano di sfascio; la carrozza si
rovesciò su di un lato, ed io, comecchè a fatica, pure senza
offesa potei uscire dagli sportelli. Rimanendomi poca più via, mi
disponeva farla a piedi; quando mi vennero attorno parecchi gentiluomini, i
quali commiserando il mio stato si mostravano timorosi che qualche guaio mi
avesse colto: io badava a ringraziarli, e a renderli capaci, che per grazia di
Dio era rimasto illeso; ma essi, niente; non vollero rimanere convinti, e quasi
a forza mi fecero salire nella carrozza loro, profferendosi pronti di condurmi
al luogo ch'io mi fossi compiaciuto indicare. A questo patto, per non mostrarmi
di soverchio scortese, accettai, manifestando subito il desiderio di esser
condotto in Castello Santo Angiolo. «Subito; la rimanga servita, disse uno di
quei gentiluomini; e affacciatosi allo sportello ordinò al cocchiere: «a
Castello Santo Angiolo». Appena egli ebbe profferite queste parole ecco i
cavalli s'inalberano, prendono a imbizzarrire, e quinci in breve a scappare via
rovinosamente: andammo di su e di giù, percorremmo in tutti i lati la.
città: a me pareva trovarmi nella botte in cui i Cartaginesi misero
Regolo; sudava acqua e sangue pensando all'ira del papa. Finalmente i cavalli
si acquietarono, e i gentiluomini, forte rammaricandosi dello accaduto, non
senza molte cerimonie mi deposero alla porta del castello: io gli ringraziai
con la bocca, mentre li malediceva largamente col cuore. Nello affrettarmi con
celeri passi cavai l'orologio di tasca, e vidi che mancava qualche minuto alla
un'ora e mezza di notte. Riprendo animo, e, rinforzato il correre, mi trovo
davanti al castellano, a cui metto senza potere far motto la carta nelle mani:
egli la prende, la legge, la volta sotto sopra, e poi mi sbarra in viso due
occhi stralunati come avesse dato volta alle girelle. Gli domandai che cosa
aveva, ed ei rispose, che ore pensava che fossero: ma, ripresi io, l'un'ora e
mezza di notte circa. - Domani torneranno; per oggi contentatevi che sieno le
tre. - Le tre? - Le tre, e staranno lì lì per suonare. - Io mi
trassi l'orologio di tasca, che in quel punto segnava le due meno cinque
minuti, e glielo posi sotto gli occhi. Nel medesimo istante all'orologio del
castello batterono le tre. - Le trame dello astuto cardinale apparivano
manifeste; ci aveva gabbato tutti, e me peggio degli altri. Quando al Santo
Padre venne riferito il successo, non s'incollerì punto, com'io aveva
immaginato, col cardinale Farnese; all'opposto, quando lo vide, gli andò
incontro congratulandosi dell'arguzia e diligenza sue; me poi, allorchè
mi condussi ai santi piedi per iscolparmi, non volle ascoltare; ma squadratomi
bieco, con labbra tremanti di rabbia mi disse: «Toglimiti dinanzi in tua
malora, e ringrazia Cristo s'io non ti mando adesso adesso in galera». Io non
me lo feci ripetere due volte; ma lascio considerare a vostra Eminenza s'io mi
meritassi siffatto rabbuffo([157]).
- Consolatevi, via, signor
Presidente: vedete, l'ora del risarcimento non manca mai a cui la merita, e la
sa aspettare... Orsù, andate, ed attendete al negozio, ch'io in nome di
Sua Santità vi raccomando.
Il presidente Luciani
inchinandosi fino al pavimento rinnuovò la sua alleanza con la polvere,
e prese commiato. Nel condursi a casa non aveva membro che non gli sussultasse;
tremava, il codardo. nella gioia pregustata di tribolare a voglia sua enti
sensibili, creature di Dio. Se io affermassi che in cotesto feroce e vile
intelletto non capisse desiderio di avvantaggiarsi con promozioni e pecunia,
non sarebbe vero; ma siffatta passione veniva di gran lunga seconda all'altra
di tormentare. Guardagli la faccia, e poi dimmi se sia uomo costui; la testa ha
quadra, depressa la fronte, le orecchie indietro, il muso assai più
largo nelle mandibole inferiori che negli zigomi, le guance pendenti, la bocca
senza labbra si perde per le rughe, e non lascia indovinare dove abbia confine;
i capelli irti, e rasi; il colore è di grasso vieto tranne la parte
pelosa, che ha lite col verderame, e lo vince; gli occhi piccoli e tondi, e
gialli come l'orpimento: creazione sbagliata, distrazione della natura;
conciossiachè con una variante leggerissima nella gola la voce non gli
sarebbe uscita articolata in parola, bensì abbaiata in latrato; ed
allora invece di doventare uno arnese pessimo di quella, che gli uomini
sogliono chiamare giustizia, sarebbe riuscito un ottimo cane da macellaro.
Ridottosi a casa, il
presidente Luciani si mostrò fuori dell'usitato giocondo: favellò
piacevole alla moglie, che di cuore diverso dal suo gli aveva dato il cielo;
accarezzò le figliuole, poi si mise a sedere, e volle cena;
festeggiando, come la gente del volgo costuma, col bere smodatamente la
domestica allegrezza. Diventato più sciolto, anzi impudente di lingua
per virtù del vino, esclamò:
- Orsù, via, figliuole
mie; venite qua, che voglio darvi una buona novella, ed è, che prima che
finisca la settimana intendo presentarvi di un magnifico dono.
- Magari! E che cosa ci dona,
signor padre? - rispose la maggiore.
- Indovinate.
- Una faldiglia di seta?
- Meglio ancora.
- Un viaggio a Tivoli?
- Meglio, meglio. Io vi
donerò quattro teste tagliate di gentildonne, e gentiluomini romani; e
tra queste una attaccata ad un collo bianco, e rotondo come il tuo.
E sì dicendo, con
gl'indici e i pollici delle mani le cingeva il collo. La fanciulla si sottrasse
con ribrezzo alla stretta esclamando:
- Cotesti sono presenti pei
carnefici: io non lo voglio.
E le altre sorelle, in coro:
- Tristo dono, tristo dono;
noi non lo vogliamo.
- Donna, gridò il
Luciani guardando con occhi arruffati la moglie, la nostra schiatta madreggia;
- e così dicendo si levò in piedi, si trasse il berretto fino sul
naso, e preso un lume s'incamminò borbottando alla sua camera, dove si
chiuse per di dentro.
La mattina veniente, appena
fatto giorno, fu visto il Luciani nella carcere di Corte Savella accompagnato
da due vecchie femmine, o piuttosto furie, incamminarsi alla prigione di
Beatrice.
La mesta fanciulla giaceva
assorta da moltitudine di pensieri, i quali tutti mettevano capo ad affannose
conchiusioni; ond'ella infastidita, e sazia di giorni, non rifiniva di
raccomandarsi a Dio, che per pietà da questo martirio la chiamasse alla
sua pace. All'improvviso, aperta strepitosamente la imposta della carcere, si
presentano davanti alla dolente le sinistre sembianze del Luciani e delle sue
compagne.
Costui con parlare succinto ed
acre le dichiarò, essere venuti per visitarla se avesse fattucchierie
addosso; però di buona grazia si accomodasse allo esame. Egli intanto si
ridusse in un canto della stanza, e quinci, con la faccia rivolta al muro,
ordinò alle due Megere che compissero lo ufficio.
Beatrice avvampando d'ira e di
vergogna si ravviluppa nelle coltri, e, forte stringendolesi intorno al corpo,
rifiuta sottoporsi alla umiliante ricerca. Non si rimasero per questo le due
carnefici pinzochere, che, adoperandovi le mani loro adunche ed ossute, le
strapparono di forza coltri e lenzuola. Nudo quel bell'angiolo di amore cadde
in balìa di costoro.
- Dal capo vien la tigna,
diceva il Luciani dal suo cantuccio; però incominciamo a perquisirle la
testa: separate in prima i capelli per bene, guardate con diligenza la
cotenna... voi, signora Dorotea, forbitevi gli occhiali... ve lo ripeto per la
ventesima volta... voi le troverete una macchietta livida, o nera un poco
più grande di una lenticchia... come sarebbe a dire un granchio secco...
avete trovato?
- Non trovo altro, rispose
Dorotea, che un visibilio di capelli sufficienti per farne una parrucca a
tutt'e due, e ne avanzerebbe.
- Basterebbero a tutt'e tre,
osservò l'altra.
- Scendete giù...
guardate il collo, il seno, le spalle...
- Nulla...
- Come nulla? Egli è
impossibile.
- Ella è così.
Sarebbe più facile che passasse inosservato un bufalo sopra la neve, che
un pelo vano sopra queste carni di latte.
In questo modo fu ricercata
Beatrice sottilissimamente per tutta la persona, senza che potessero scuoprire
il segno indicato.
- Veramente, prese allora a
brontolare, sempre nel suo canto, il Luciani, i maestri dell'arte insegnano
come il demonio per ordinario imprima la sua macchia sul seno, o sopra la
coscia sinistra; tuttavolta, non essendo astretto a veruna legge, voltatela
bocconi, e perlustrate con la solita diligenza la schiena.
- Ecco... troviamo...
- Che cosa trovate, nè?
- domandò il Luciani, mal si potendo contenere nel cantone.
- Troviamo a mezza vita un
neo, circondato di alquanta calugine color dell'oro.
- Bene!... benissimo!
Comecchè i maestri dell'arte ammoniscano che la macchia deva apparire
livida, o nera, tuttavolta ricorre la osservazione, che il maligno essendo
spregiatore di ogni legge, non può essersi assoggettato a regola fissa:
in ispecie adesso, che, avendola a fare con me, avrà capito che la va da
galeotto a marinaro. Signora Dorotea prendete lo specillo, e procurate prima
tuffarlo nell'acqua benedetta.
La beghina tratto fuori un
lungo spillo di ferro lo immerse, borbottando non so quali preghiere, dentro un
vaso di acqua santa. Il Luciani impaziente domandava:
- Insomma, avete fatto?
- Illustrissimo sì.
- Or via, da brava, cacciatelo
giù adagio adagio dentro la macchia infernale.
Beatrice piangeva di rabbia
nel vedersi ridotta a tanta abiezione, e forte dibattendosi cacciava lunge da
se ora l'una, ora l'altra delle spietate pinzochere; ma costoro le tornavano
sopra più gagliarde che mai. Adesso poi al sentirsi trafiggere le vive
carni proruppe in furore, interrogando con voce concitata che insania fosse mai
quella; ed aggiungeva lei essere cristiana quanto, e meglio di loro; e si
vergognassero con quelle superstizioni turpissime tribolare una povera
fanciulla, la quale avrebbe potuto essere a loro figliuola.
- Santissima vergine, belava
la Dorotea con voce caprettina, menando tuttavia le mani audaci, noi non vi
vogliamo mica male, cara sorella; no davvero, ma lo facciamo per vostro bene;
proprio per la salute dell'anima vostra.
Intanto il presidente Luciani,
senza mai volgere la testa, aveva borbottato nel cantuccio uno di quei tanti oremus,
che incominciano In nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti, e finiscono
col per omnia saecula saeculorum, amen; col quale si faceva intimazione
e precetto allo Spirito delle tenebre di sfrattare immediatamente, lasciandolo
libero sgombro e vacuo, dal corpo di Beatrice Cènci; e compito ch'ei
l'ebbe, così prese a favellare:
- Lodato sia Dio; adesso mi sento
soddisfatto, e potrei dire quasimente sicuro, conciossiachè o il diavolo
ci fosse, o non ci fosse: se ci era, in virtù dell'esorcismo a quest'ora
se ne torna più che di passo in cammino per lo inferno; o non ci era, e
ormai di entrarci non avrà più balìa.
E richiamate le donne, senza
pure volgere uno sguardo alla derelitta, usciva con esso loro di prigione
alternando insieme pii e dotti ragionamenti intorno alla potenza del demonio, a
cui, secondo il suo avviso, la misericordia di Dio ne aveva lasciata troppa; -
che se avesse avuto l'onore di consigliare il Padre Eterno lo avrebbe persuaso
a impiccarlo addirittura ai corni della luna, e lasciarvelo penzoloni
perchè servisse di esempio ai malfattori avvenire, così in cielo
come in terra: poi, dato a ciascheduna di loro uno scudo, le supplicava a
pregare per lui San Gaetano padre della divina provvidenza, ed
impetrargli la grazia di riuscire a bene nello importante negozio che aveva per
le mani, a sbigottimento degli empii, e alla maggiore esaltazione di santa
madre chiesa cattolica. Le pinzochere corrisposero al desiderio incamminandosi
difilato alla chiesa del Gesù, e pregando fervorosamente Santo Gaetano
onde si degnasse concedere al dilettissimo fratello in Cristo presidente
Luciani la grazia di poter mandare legalmente al patibolo tutta la famiglia
Cènci, nessuno escluso, nè eccettuato.
E mentre il dabbene Luciani
stava in aspettazione degli aiuti divini, non tenne le mani alla cintura per
mettere in opera i terreni; dacchè appuntatosi con gli altri giudici di
trovarsi la mattina di poi per tempissimo alla carcere di Corte Savella, vi si
recarono di fatto; e quivi, senza porre tempo fra mezzo, egli ordinò si
conducesse loro davanti la fanciulla.
Al posto resultato vacante per
la promozione dell'auditore Luciani avevano preposto un certo coso, sciapito
più del cetriolo; nè buono nè cattivo come uomo; iniquo
poi come giudice, e veramente pessimo; imperciocchè, da quello di
ritirare la paga nelle debite ricorrenze in fuori, non si fosse dato il
travaglio di pensare a nulla, piegando sempre, a mo' che fa l'elitropio al
raggio del sole, la sua volontà nella parte che gli veniva indicata da
tutti i suoi superiori. Impasto vergognoso di viltà, d'ignoranza e di
accidia, comunissimo fra gl'impiegati di ogni maniera, in ispecial modo poi fra
coloro che chiamansi sacerdoti della giustizia, senza dubbio in
allusione al costume dei sacerdoti pagani, di scannare e divorare le vittime.
In ciò costoro trovano il tornaconto; onde siffatta pratica, nata dalla
natura, essi rinforzano con l'arte: dacchè in questa guisa primieramente
non consumano olio a studiare, con vantaggio così della economia come
della salute; in secondo luogo schifano la noia del contradire, e i pericoli
della opposizione; per ultimo, leggieri e galleggianti, si trovano a poco a
poco trasportati alla riva della buona pensione con la croce, o senza. E il
vulgo non li guarda in cagnesco; anzi gli accarezza, e li vezzeggia col nome di
buoni figliuoli: quel vulgo, che non dìstingue tra bontà che
delibera, o vuole, bontà di pendolo, che oscilla quando riceve la pinta,
- e bontà di cappone perchè nacque cappone, e l'hanno
accapponato.
Ecco Beatrice davanti al
presidente Luciani Atrocemente barbaro
fu lo spettacolo, che fece trovar acuto solletico nel contemplare nei
circhi fiere duellanti contro fiere, uomini contro uomini, od uomini contro
belve: però sovente pari erano gli argomenti di difesa; e se talora
impari, la disperazione più di una volta domò la forza feroce, e
fu veduto il condannato spingere il braccio ignudo nella gola del lione, e
soffocarlo. Ma egli è troppo più laido, e schifo spettacolo
esporre una creatura stretta di ceppi alla rabbia, quanto quella delle belve
bestiale, ma più ingegnosa assai, di un uomo che si chiama Giudice, il
quale le si muove contro armato di terrore, circondato di forze insuperabili,
accompagnato dai tormenti che neppure il demonio avrebbe saputo ricavare dalla
corda, dal ferro, e dal fuoco.
- Accusata! -
incominciò il Luciani con certo suo piglio plebeiamente acerbo, ch'ei
per avventura immaginò rendere solenne, - udiste altra volta le
imputazioni che vi vengono apposte; desiderate che vi sieno rilette?
- Non fa mestieri; le sono
cose coteste, che udite una volta non si dimenticano più...
- Specialmente poi quando le
abbiamo commesse. Ora io vi ammonisco, come pel deposto dei vostri medesimi
complici voi siate pienamente convinta della vostra empietà;
cosicchè la giustizia a rigore di termine potrebbe molto bene farne a
meno.
- E allora, perchè con
tanta insistenza me lo domandate voi?
- Ve lo domando per la salute
dell'anima vostra; perchè come cristiana e cattolica, quantunque
indegnamente lo siate, dovreste sapere, che morendo senza confessione voi
infallibilmente andreste perduta.
- Come! la cura che voi,
signore, dovreste porre alla salute dell'anima vostra, può darvi agio di
pensare anche alla mia? Lasciate che ognuno provveda alla sua salvezza come
meglio la intende. Queste sono cose che passano tra il Signore e la sua
creatura, e non ci entrate voi. Voi, se siete convinto, condannatemi, e basta.
- Accusata! Fate senno, e
avvertite che i modi temerarii adoperati da voi al cospetto dei vostri giudici
ad altro non possono condurre che a peggiorare la vostra condizione, già
grave abbastanza; e in quanto a me poi non possono partorire effetto veruno
perchè, oltre all'avervi esorcizzata nelle regole, porto qui meco un
rimedio sicurissimo contro le malìe e le incantagioni, quando mai vi
fosse rimasta facoltà di adoperarle a mio danno. Ora, per la seconda
volta ve lo domando; volete, o non volete confessare?
- Quello che la santa
verità mi faceva debito confessare, ho confessato; la menzogna, che voi
cercate, con lo aiuto di Dio, nelle braccia del quale io mi rimetto, non
sapranno strappare i vostri tormenti, nè le vostre blandizie.
- Questo è ciò
che staremo a vedere. Intanto io vo' che sappiate, bene altri cervelli che non
è il vostro aver saputo mettere a partito, io. Notaro Ribaldella
scrivete: «Invocato il santissimo nome di Dio. Amen. Decretiamo ec. prima di
passare ad ulteriora la vigilia nei modi et termini consueti per ore
quaranta, la quale dovrà subire l'accusata Beatrice Cènci in
luogo di tortura ad quaestionem ec., incaricando di assistere alla
predetta il notaro Jacomo Ribaldella per le prime quattro ore; per le seconde
quattro ore il notaro Bertino Grifo; per le terze quattro ore il notaro
Sandrello Bambagino; e così, tornando da capo, succedersi di mano in
mano, finchè non sia decorso il termine assegnato, o non sia intervenuta
la confessione dell'accusata». Firmate...
Così, dopo aver firmato
il foglio che gli porgeva il notaro, ordinò il presidente Luciani,
passandolo agli altri giudici; e gli altri giudici, come pecore (e il paragone
è benigno) lo firmarono, quasi il Luciani pensasse, sentisse, e
deliberasse per tre. Benefizio ordinario dei tribunali collegiali, di cui la
trinità può rettamente definirsi: Due persone che dormono, ed una
terza che fa le carte!
La vigilia era uno sgabello
alto da terra un braccio e mezzo, col sedile acuminato a punta di diamante, e
largo poco più di un palmo; la spalliera pari. - La mia storia non si
fermerà a raccontare come quivi costringessero la derelitta a sedersi;
come le legassero le gambe, affinchè distendendole non toccasse il
pavimento ricavando refrigerio al suo martirio; come con una corda, calata dal
soffitto per via di carrucola, le mani dietro i reni le avvincessero. La mia
storia torcerà lo sguardo spaventato dagli sbirri, che vegliavano
accanto alla misera vergine, i quali di tratto in tratto l'andavano urtando nei
fianchi, onde con inaudito spasimo sopra la cuspide del sedile dondolasse, o
nell'acuta spalliera percuotesse. La mia storia non dirà come il carnefice
mastro Alessandro, due volte almeno per ora, avesse commissione di sollevarla
con tratti di corda, e lasciarla quindi cascare a piombo sopra il sedile
angoscioso; ed egli, come gli era stato ordinato adempiva; e che cosa poteva
fare? Troppi erano gli occhi che lo guardavano attorno; e poi, a lui non era
dato mostrare la sua tenerezza senonchè mandando per linea retta il
paziente alla morte, e removendo il lussurioso, e il vano dei martirii: oltre
ciò nè poteva, nè forse voleva; pietoso era, ma boia.
Intriso di sangue il pane quotidiano che lo nudriva, e più infami,
più atroci, più scellerate cose, che le sue non erano, e da
persone a lui maggiorenti si commettevano tutto dì allora, e tutto
dì si commettono anche adesso per un tozzo di pane, destinato a mantenere
per brevi istanti una vita di verme per un mondo di fango. - La storia mia
tacerà le scene turpi, i vituperii, le oscene allusioni: prodigate alla
santissima fanciulla da tutte coteste belve dalla faccia umana, e sopra tutti
dal notaro Ribaldella, che riverberava come specchio l'anima del Luciani: -
tacerà del frequente apparire che fece, anche nelle ore più tarde
della notte, il presidente Luciani infellonito della divina costanza di
Beatrice, e il perpetuo digrignare fra i denti di costui «stringete più
forte, squassate più spesso»: - tacerà le lacrime ardenti, il
freddo sudore, gli spasimi ineffabili, gli spessi svenimenti della fanciulla, e
la pietà crudele dei carnefici nel ritornarla con sali e spiriti al
sentimento delle angosce: no; quelle cose, che i vicarii di Cristo
sopportarono, e non solo sopportarono ma consentirono e promossero, oggi la
penna aborrisce di scrivere, e lo inchiostro tracciandole diventerebbe rosso
per la vergogna. Dirà ella piuttosto del coraggio sopraumano e della costanza
della inclita donzella, la quale nonostante la immensità del suo
martirio rimase ferma nel proponimento di morire in mezzo ai cruciati,
anzichè contaminare la sua fama con la confessione di un misfatto,
ch'ella non aveva commesso. Tolta quasi spirante dalla tortura lei portavano di
nuovo al carcere, e quivi adagiavanla sul letto.
Colà fu lasciata stare
due giorni: la sua intelligenza, ora luminosa, rischiarava il dolore percorso;
e il tratto di gran lunga più amaro, che le rimaneva a percorrere, ora
le s'intenebrava circondandola di trepidante incertezza: così il fanale
di una nave per notte tempestante apparisce a vicenda e scomparisce sul dorso,
o nel gorgo dei marosi, segno funesto di prossimo naufragio a cui palpitando la
contempla dalla riva: solo irrequieto, durava in lei il senso dell'ambascia, il
quale con le sue traffitte rammentava a quel cuore sicuro non già di
cedere, bensì il proponimento di morire in silenzio.
Il terzo giorno gli sbirri
tornarono per lei, che il Luciani chiamava a nuovi strazii. Ormai rassegnata al
suo destino, ella non repugnò andare; solo li supplicava con voce soave
volessero di tanto aspettare, che si fosse vestita: e poichè i manigoldi
capirono che così ignuda, com'ella era, dinanzi al tribunale non la
potevano trarre, risposero acconsentirebbero attendere; però fossero
brevi gl'indugi, dacchè i giudici stessero adunati, e non conveniva ai
colpevoli farsi aspettare. Intanto che Beatrice, sovvenuta dalla figlia del
carnefice, si vestiva, così favellò:
- Senti, sorella mia; se mi
chiamano, lo sai, e' lo fanno per tormentarmi: ora io dubito forte di rimanere
morta fra le torture, come vidi accadere a quel povero Marzio; e come ho
provato con lo esperimento proprio, che potrebbe pur troppo succedere anche a
me: però io intendo non già ricompensarti della tua
carità, Virginia mia, bensì lasciarti un ricordo di me
sventurata. Tu ti prenderai tutti i miei pannilini e le vesti, che ho qui meco
in prigione... e tieni... prendi ancora questa croce, che fu della signora
Virginia mia madre; a patto... che se io torno viva dal tormento, e possa in
altro modo lasciarti ricordo di me, tu me la renda; avvegnachè vorrei
che fosse sepolta meco. Di queste viole, ahimè! innaffiate di pianto, e
cresciute al raggio del sole che penetra obliquo e tristo per le inferrate
della finestra, tu, finchè durano, ne farai ogni giorno un mazzetto, che
offrirai alla immagine della Santa Vergine che tengo a capo del letto...
anzi... ascoltami... Virginia, - e qui si fece per la faccia tutta vermiglia, e
favellò più basso, - tu devi sapere ch'io ho... oh! no... io ebbi
un amante grande, ben fatto a maraviglia, e buono; ed io l'amai... ed egli mi
amò, e tuttavia io credo che svisceratamente mi ami;... ma in terra
uniti noi non potremmo essere mai... e dubito forte se un giorno anche in
cielo... colpa non mia, ahimè! - Tu prenderai cotesta immagine, e
t'ingegnerai penetrare fino al cardinale Maffeo Barberini, e gli dirai che
gliela mando io onde procuri che l'abbia il suo amico, e gli faccia nel punto
stesso saper com'io sovente abbia pregato davanti a lei per la salute
dell'anima sua: bada, tienlo bene a mente, per non avertelo a scordare: ed
aggiungerai...
- Oe, o che vi pensate andare
al corteo? È un'ora che aspettiamo... venitevene via come vi trovate.
Beatrice andò;
nè Virginia le potè rispondere una parola, tra per la pressa
degli sbirri che le ne tolse il campo, tra per la passione che le stringeva la
gola: l'accompagnò piangendo fino alla porta, e quivi, dopo averla
abbracciata e baciata, l'abbandonò. Beatrice volse il capo sul limitare,
e vide come la pietosa fosse corsa ad inginocchiarsi davanti alla immagine
della Madonna, appendendo sotto di quella la crocellina di diamanti, che fu
della Virginia Cènci sua madre.
Il presidente Luciani, con
ambe le braccia fino al gomito stese sopra la tavola in attitudine del cane
mastino quando si posa, in questa maniera discorreva agli onorandi colleghi:
- Pare impossibile! S'io non
l'avessi fatta ricercare sottilmente, si può dire sotto i miei occhi,
avvegnachè honestatis causa io tenessi la faccia volta alla
parete, non mi potrei persuadere che la non fosse ciurmata.
- Però, - notava
gravemente Valentino Turchi con ostentata umiltà, che lasciava trapelare
la sua prosunzione come da imposta mal chiusa sbuca fuori di scancio il raggio
del sole, - però mi permetto avvertire, che non fu fatta tosare...
Il Luciani volgendo exabrupto
la testa, qual mastino punto dal tafano, all'auditore Valentino Turchi, con
voce acerba gli rispose:
- Io non la feci radere
perchè Del Rio, Bodino, e gli altri più schiariti scrittori di
materia infernale non indicano la parte pilosa, come quella sopra la quale il
demonio eserciti per ordinario la sua potenza.
- Per ordinario; e sta bene,
soggiunse il Turchi, arduo anch'egli a lasciare la presa; ma avendo meco
considerato più volte, da una parte come Dio la gran forza di Sansone
nei capelli di lui collocasse, e dall'altra come al diavolo piaccia sempre
imitare, e volgere a male quello che il Signore opera a fine di bene;
così dirimpetto all'autorità, d'altronde negativa unicamente,
degli scrittori allegati io ho ritenuto sempre, che i capelli potessero bene e
meglio essere scelti dal demonio come sede delle sue perfidissime incantagioni:
per ultimo utile per inutile non vitiatur; ed in faccenda siffattamente
grave il tuziorismo, voi siete per insegnarmi, non è mai troppo.
- Il vostro dubbio, riprese il
Luciani piegando vinto la testa, e con tal suono, che mal celava lo interno
dispetto, non è per certo privo di fondamento, e...
Ma qui il notaro Ribaldella,
il quale era come un'eco dell'anima del suo patrono Luciani, sovvenendo
prontissimo a lui pericolante, scrisse sopra un pezzetto di carta una parola,
ed umile in atto glielo porse mentre stava per finire il discorso. Lo vide il
Luciani, ed i suoi occhi balenarono di ferocia e di superbia: rilevò il
capo, e prima lo volse al fido creato con tale un garbo, che pareva volesse
dargli un morso, e gli volea sorridere; poi all'auditore Valentino Turchi, e
continuò a dire:
- e meriterebbe plauso se non
ci togliesse modo di sperimentare la tortura capillorum, che presagiva
applicare in questa mattina; e voi siete troppo rotto nella pratica delle cose
criminali per non sapermi istruire, come questa prova partorisca quasi sempre
ottimi effetti.
Il notaro Ribaldella sopra il
frammento di carta aveva segnato:
- E la tortura capillorum?
L'auditore Valentino Turchi
declinò a posta sua il capo confuso; il Luciani insistendo
favellò:
- Anzi per me sono di avviso,
che si abbia stamani a incominciare dalla tortura capillorum; secondo
poi quello che butta, noi ci regoleremo. - Oh! sì, come dice il
proverbio: come il padron ci tratta, e noi lo serviremo.
- Allo apparire di Beatrice
pallida, in aria soffrente, con gli occhi smorti dentro un cerchio azzurro, il
Luciani, sempre in atto di mastino quando si posa, s'ingegnò, per quanto
gli era dato, comporre a mitezza il sembiante sinistro e la voce arrotata:
- Gentil donzella! quanto il
mio cuore abbia patito nel dovervi porre ai tormenti, Dio ve lo dica per me;
chè con parole convenevoli non potrei dimostrarvelo io. Anch'io sono
padre di fanciulle per età, se non per bellezza, uguali a voi; e nel
vedervi straziare, non senza sgomento ho interrogato me stesso: Luciani, qual
mente, quale animo sarebbero i tuoi, se tale aspro governo facessero del sangue
tuo? Dovere di magistrato, senso di uomo, pietà di cristiano mi
persuadono raccomandare voi stessa a voi. Deh! vi calga della vostra
giovanezza. A che monta la pervicace caparbietà vostra? Io ve l'ho
detto, e vel ripeto adesso; abbondano in processo le prove per convincervi rea:
la confessione dei vostri medesimi complici vi condanna. Meritatevi con ingenua
confessione la grazia del beatissimo Padre. Delle somme chiavi, di cui egli ha
l'augusto ministero, troppo più gli piacque adoperare quella che apre,
dell'altra che serra. Soprattutto a lui talenta la fama di benigno; e davvero,
qual è nel nome, così nei fatti vuol dimostrarsi Clemente. Non mi
sforzate, via, signora Beatrice, ad usare rigore; considerate che i tormenti da
voi, mio malgrado, patiti sono quasi piaceri in paragone delle atroci torture
(e qui lasciò libero il corso alla voce arrotata) che la giustizia
riserva contro i contumaci ostinati.
- Perchè mi tentate? -
rispose Beatrice pacatamente. Come se non vi paresse abbastanza la
facoltà di straziarmi il corpo, perchè v'industriate ad avvilirmi
l'anima? Queste sono le parti del demonio, non quelle del giudice, o almeno una
volta non lo erano. Il mio corpo è vostro... la forza feroce lo pone in
balìa di voi... a posta vostra straziatelo; - l'anima il mio Creatore mi
diede ben mia, e questa, anzichè lasciarsi sbigottire dalle vostre
minacce, o prendere dai vostri blandimenti, mi conforta a sostenere più
di quello che voi non possiate tormentare.
Le sopracciglia del Luciani si
strinsero come tanaglia; e percuotendo con ambo le mani aperte sopra la tavola,
urlò furiosamente:
- Ad torturam... ad
torturam capillorum... Dov'è mastro Alessandro? Egli dovrebbe
trovarsi sempre presente al tribunale quando presiedo io([158]).
- Egli ha dato un salto fino a
Baccano per faccende di mestiere, con ordine superiore; ed ha lasciato detto
che tornerebbe in giornata.
- Al maggior uopo tutti mi
lasciano solo. A voi dunque, Carlino, che so che siete un giovanotto per bene;
fatevi onore adesso.
Queste parole volgeva il
Luciani allo aiutante del boia, il quale replicava ingenuo, stropicciandosi le
mani:
- Eh! c'ingegneremo...
La verità era che
mastro Alessandro, colto il destro che il caso gli aveva posto davanti, si era
allontanato da Roma. Due sgherri ora si avventano sopra la Beatrice, le
disfanno le bellissime chiome bionde, le scarmigliano, le ravviluppano, e
legano, e stringono intorno ad un mazzo di corde così prestamente, come
fuori di ogni immaginazione orribilmente; - poi la sollevano da terra...
La beltà sformata
stringe, a vedersi, più angosciosa il cuore che la bruttezza medesima.
Se mai tua ventura ti condusse per le contrade di Grecia, tu passasti, senza
pure avvertirli, accanto ai ruderi di qualche fortilizio veneziano, o turco; ma
il tuo spirito si contristò contemplando il Partenone mutilato dal
tempo, dai Turchi, e da lord Elgin, lasciando il passeggiero incerto se al
delubro di Minerva abbia più nociuto o la forza distruttiva del primo, o
la barbarie dei secondi, o la dotta rapina del terzo.
I capelli più sottili
della misera martoriata schiantansi, la pelle stirata distaccasi dalla fronte,
ed anche sopra le guance, tratta violentemente verso le orecchie, minaccia crepare:
le labbra semiaperte parevano ridere, gli occhi allungati a mandorla per le
tempie davano alla donzella la sembianza di fauna. Doloroso a vedersi! troppo
più a patirsi! Il Luciani, sempre le mani appoggiate come le zampe il
mastino in riposo, andava di tratto in tratto abbaiando:
- Confessate la
verità...
- Sono innocente.
- Datele uno squassetto... un
altro... un altro ancora. - Confessate la verità.
- Sono innocente.
- Ah! voi non volete
confessare? Ebbene, a testa di leccio capo di sorbo. - Aggiungete voi altri un
po' di ligatura canubis.
Carlino, obbedendo in un
batter d'occhio all'ordine ricevuto, aiutato dai valletti attortiglia dentro
una matassa di canapa il pugno della mano destra di Beatrice, e torce forte
come costuma la curandaia allorchè strizza il panno bagnato per
ispremerne l'acqua. La mano e il braccio stridono slogandosi, i muscoli si
strappano, la epiderme si lacera con istravaso di sangue e mostruosa
tumefazione. Il presidente Luciani, senza batter palpebra, ad ogni
scontorcimento abbaia:
- Confessate il delitto!
- Oh Dio! Oh Dio!
- Confessate il vostro
delitto, vi dico!
- Oh Dio del cielo... soccorri
la tua creatura innocente!
- Stringete più forte,
e squassate con gagliardia; - così, risoluto... per bene; in un punto
medesimo stretta, e squasso...
- Ahi madre mia! Un sorso di
acqua... mi sento morire... per carità, una stilla di refrigerio...
- Che refrigerio, e non
refrigerio? Confessate.
- Io...
- Giù, via... siete?...
- Sono innocente.
A questo punto il furore del
Luciani non ebbe più modo: cieco di rabbia, tremante per ira, co' denti
della mascella superiore si morse il labbro inferiore per guisa, che ci
rimasero sopra le orme impresse, alcune pagonazze, altre stillanti sangue.
- Stringi... stritola le ossa,
urlava insatanassato il presidente degli assassini, allora chiamati giudici,
finchè non crepi fuori della strozza la confessione del suo delitto.
- Ahimè! che dolori...
che martirii sono questi! Sono cristiana... sono battezzata. - O morte! morte!
- Confessate... con...
Un nodo spaventevole di tosse
sorprese in questo punto il Luciani, e parve dovesse restarne soffocato:
anelavano convulsi la gola e il petto; umore viscoso gli gocciava giù
dalla bocca e dalle narici; gli occhi venati di sangue gli scoppiavano fuori
dai cigli, e ciò nonostante singhiozza ringhioso:
- Con... confe...
confessate... scellerata!
- Sono innocente.
- Qua... tosto le
cordicelle... la tortura delle cordicelle...
Cotesta era una infame
contesa: gli astanti erano sazii dello spettacolo; i carnefici stessi spossati
dalla fatica; Beatrice non dava più segno di vita.
- Le cordicelle, vi dico... le
cordicelle... - tra un nodo e l'altro di tosse singhiozzava il Luciani.
I valletti del boia sbigottiti
stavano inerti, e l'ira strozzava il Luciani, che ormai balbutiva suoni
indistinti. Costoro infatti non potevano immaginare che il presidente avesse il
cervello a segno; imperciocchè il tormento delle cordicelle consistesse
in infinite cordicelle sottili e taglienti, con le quali si avviluppava e
stringeva il martoriato per modo, che recisi i nervi, le vene e le carni, il
corpo di lui diventasse tutta una piaga; e compariva manifesto che non potesse
applicarsi in cotesto stato alla paziente, senza volerla finire.
Sopra il limitare della porta,
dirimpetto al banco dei giudici, ecco si presenta la faccia livida di mastro
Alessandro; si soffermò alquanto, volse uno sguardo tenue sopra cotesta
scena, e sembra, tuttochè boia, che qualche cosa sentisse, avvegnadio
nel volersi abbottonare la sopravvesta vermiglia la mano gli saltasse da un
occhiello all'altro senza poterne venire a capo: da cotesto indizio in fuori
non si palesò altro in lui che desse ad argomentare commozione, e fu
visto accostarsi impassibile alla paziente, guardarla fissa, e toccarle i
polsi; ciò fatto, con quel suo cipiglio, che metteva il ribrezzo addosso
agli stessi giudici, nonchè ai condannati, rivolto al Luciani
favellò in questa sentenza:
- Illustrissimo, spieghiamoci
chiaro; volete voi che la paziente confessi, o che muoia?
- Morire, adesso? - Dio ne
liberi! Bisogna che confessi...
- E allora per oggi, non
può sostenere altri tormenti.
Così a quei tempi il
carnefice insegnava umanità, e convenienza ai giudici: ai tempi nostri
non le insegna loro nessuno; - lo sanno da se.
- Mastro Alessandro, proruppe
il Luciani indispettito, dell'arte vostra io credo intendermene quanto voi,
e...
Il notaro Ribaldella, che si
agguantava alla fortuna del Luciani come all'ancora della speranza, presagendo
imminente qualche grave scandalo, con quella sua fisonomia da tantummergo,
troncò le parole dicendo:
- Illustrissimo signor
Presidente, voi che siete così solenne maestro di proverbii, rammentate
avermi ammonito più volte, che chi troppo l'assottiglia la scavezza: se
la bontà di vostra signoria illustrissima si degnasse concedermelo,
direi, sempre però remissivamente ai lumi superiori di vossignoria
illu...
- Orsù, parlate, con
mal piglio gli rispose il Luciani.
Allora il Ribaldella si
levò agile e presto dal suo scanno, e accostatosi all'orecchio del
Luciani vi sussurrò sommesso un suo concetto. Egli aveva ad essere
infernale davvero; conciosiachè il Luciani, che gli aveva porto ascolto
con torbida faccia, la rasserenò ad un tratto, e quasi sorridendo gli
disse:
- Jacomuzzo andate là,
chè voi farete passata. - Indi rivolto al carnefice: - Sospendete pure i
tormenti, mastro Alessandro, - proseguì a dire, - anzi confortate la
paziente, e ingegnatevi a farla riavere. - Voi altri, prestantissimi signori
colleghi, compiacetevi aspettarmi seduti nei vostri seggi per breve ora di
tempo.
Ciò detto sparì.
Quinci a poco più di
venti minuti, nel corridore dond'erasi allontanato il Luciani fu udito strepito
di catene, e subito dopo dalle aperte imposte comparvero Giacomo, Bernardino
Cènci e Lucrezia Petroni, attriti come gente che abbia fuori di misura
sofferto, e non siasi per anco rimessa dalle angosce durate. Il Luciani li
seguitava come il mandriano caccia dinanzi a se il bestiame, che spinge al
macello.
Dopo la notte dello arresto
Giacomo e Bernardino Cènci non si erano più veduti fra loro, e la
Lucrezia Petroni nemmeno. All'improvviso sentirono aprire l'uscio del carcere,
e si trovarono, senza sapere nè che nè come, l'uno frombolato
nelle braccia dell'altro.
Ognuno pensi come per tutti
cotesti malearrivati fosse pietosissima cosa, e piena a un punto di sollievo e
di affanno, incontrarsi, e piangere, e baciarsi insieme, comecchè le
braccia incatenate ogni altra dimostrazione di affetto non concedessero.
Posciachè la piena
della passione si fu sfogata quattro volte e sei, al Luciani, il quale per
contenere la inquieta impazienza si rodeva le ugna, parve bene richiamarli, ed
ammonirli di quella, ch'ei chiamava invincibile caparbietà della Beatrice.
Cotesta sua riprovevolissima pertinacia, egli aggiungeva, formare ostacolo alla
chiusura del processo, e per conseguenza trattenere la grazia pontificia,
pronta a sgorgare, dopo cotesto atto di umiltà, come le acque
scaturirono sotto la verga del santo patriarca Moisè: in quanto a lui
sentirsi profondamente travagliato per le torture alle quali, così
imponendo i penosi uffici del suo ministero, aveva dovuto sottoporre la
Beatrice; ormai non gli reggere più l'animo di proseguire; venissero eglino
in suo aiuto per vincere cotesta mente ostinata; di ciò supplicarli da
verace amico, e da cristiano; qui il giudice non entrare per nulla: di questo
andassero persuasi, non poter eglino desiderare patrono od avvocato che
più fervorosamente di lui zelasse la causa loro presso Sua
Santità.
Egli è così
lieve ingannare chi si assicura! Riesce tanto gradito prestar fede a quello che
si desidera! Così hanno i miseri sete di conforto, che i fratelli
Cènci e la Lucrezia Petroni si abbandonarono affatto in balìa del
Luciani; il quale, diventato mansueto, promise loro di non farli separare
più mai. Vinti e ingannati, adesso se li spingeva davanti a se; e gli si
leggeva manifesta nel volto la superbia del trionfo.
Le vittorie della forza sono
elleno forse più, o meno gloriose di quelle della frode? Lo ignoro: io
so unicamente, che forza e frode nacquero gemelle nel ventre della ingiustizia.
Quando i due Cènci e la
Petroni videro l'osceno strazio del corpo divino di Beatrice, e lei in
sembianza di morta, proruppero in pianto irrefrenato, e le s'inginocchiarono
dintorno baciandole i lembi delle vesti... non osavano toccarle le mani
lacerate, per tema d'inasprirle i suoi dolori. In verità di Dio
stringeva il cuore contemplare quei derelitti, con le mani legate di catene,
starsene genuflessi intorno alla donzella svenuta tutti in se raccolti, come se
l'adorassero. - Così per lunga ora rimasero: quando Beatrice rinvenne, e
prima assai di riaprire gli occhi alla luce, la percosse un rammarichìo
doloroso, onde tenne per certo di trovarsi colà dove si purga lo spirito
umano, e diventa degno di salire al cielo; la quale opinione tanto più
le venne confermata quando, riacquistato il senso della vista, si vide
circondata dalle care sì, ma squallide sembianze dei suoi diletti. Del
quale successo quasi contenta, esclamò:
- Finalmente, la Dio grazia,
sono morta!
E richiuse gli occhi; ma gli
spasimi, che cocentissimi la travagliavano, l'avvertirono pur troppo com'ella
fosse sempre in vita. Riaperse pertanto le palpebre, e continuò:
- Ahi! diletti miei, come mai
vi riveggo?...
- E noi come rivediamo te,
Beatrice? Ahimè! ahimè!
Decorso alquanto tempo don
Giacomo si levò in piedi, e lo strepito delle catene intorno al suo
corpo servì di esordio lugubre al seguente discorso, ch'egli
indirizzò alla sorella:
- Sorella io ti scongiuro, per
la croce di nostro Signore Gesù Cristo, a non lasciarti fare così
acerbo governo del corpo tuo. Confessa quello che pretendono sia confessato da
noi, come noi abbiamo fatto. Che vuoi tu? Per uscirne men peggio io non ci vedo
altra strada; e, dove non conducesse ad altro, questa pretesa confessione ci
salverà da martirii che non hanno fine, e con un colpo solo ci
troncherà i tormenti e la vita. La ira di Dio passeggia sopra le nostre
teste: ora, pretenderemo noi contrastare a quella forza terribile che svelle le
montagne dai loro fondamenti di granito, e le travolge come fa il turbine i
granelli di arena? Io mi piego alla sferza con la quale Dio mi flagella,
dinanzi a cui io mi atterro; e poichè contendere non giova, io m'ingegno
mitigare la rigidezza del destino con le supplicazioni, la umiltà, e le
lacrime.
Bernardino, fra i singhiozzi
levando supplici le fanciullesche mani, anch'ei raccomandava:
- Confessa per amor mio,
Beatrice; di quello che questi signori vogliono, chè poi il signor
Presidente mi ha promesso farmi sciogliere, e mandarci tutti per le vendemmie a
casa.
Donna Lucrezia rassegnata, a
sua posta:
- Confidate, figliuola mia, le
diceva, nella Madonna santissima dei dolori: ella sola è la consolatrice
degli afflitti: e, a fin di conto, chi di noi può vantarsi incolpevole?
Tutti siamo peccatori...
Beatrice a mano a mano che la
supplicavano volgeva intorno gli sguardi minacciosi. Per sorte i suoi occhi
vennero ad incontrarsi con quelli del Luciani, i quali divampavano maligna
esultanza: ormai sicuro dell'esito del suo nuovo trovato, egli covava la
nidiata dei traditi. Ira, ribrezzo, e soprattutto senso di schifo infinito
agitarono l'anima di Beatrice, che per poco non proruppe: pur si contenne; non
tanto però, che queste diverse passioni non le si vedessero passare per
la fronte, a modo di nuvole traverso il disco della luna. Rimessasi alquanto,
con voce fioca, che poi a mano a mano le crebbe, risoluta e gagliarda prese ad
ammonire i suoi congiunti in questa sentenza:
- Che voi non abbiate potuto
resistere alla prova dei tormenti, e piegato ai primi assalti del dolore, e
fatto gettito della vostra bella fama, come il soldato che abbandona l'arme nel
giorno della battaglia, io intesi con infinita amarezza dell'anima mia, ma mi
astengo di rimproverarvelo: solo mi sia concesso di volgermi severamente a voi,
e domandarvi perchè mi vogliate a parte della vostra ignominia? Due
avevano ad essere le Regine dei dolori; una in cielo, l'altra in terra; ed io
sono la terrena. Non m'invidiate, vi supplico, la mia corona di martirio,
dacchè io la porti più gloriosamente che se fosse di gemme.
Udite! Uomini santi ci hanno ammaestrato come noi non possiamo volgere le mani
micidiali contro il nostro corpo, ch'è fattura di Dio, senza fare
violenza alla volontà suprema: ora, quanto a noi ha da parere maggiore
peccato distruggere con lingua dolosa la propria fama, ch'è la vita
dell'anima? E notate, che la vita sembra più cosa nostra, e però
maggiormente facultati a disfarcene, che non della fama; imperciocchè
questa dobbiamo tramandare ai nostri posteri, e per noi hassi ad aborrire
ch'eglino del proprio nome si vergognino, o vadano soggetti a sentirsi dire:
«il vostro casato rammenta un parricidio». Dunque Roma pagana vide una femmina
di partito durare costantissima inaudite torture, e tagliatasi co' denti la
lingua gittarla in faccia ai carnefici suoi, piuttostochè scuoprire la
congiura alla quale ella aveva partecipato pur troppo([159]); ed io, vergine ingenua
e cristiana, non saprò sopportare i tormenti in testimonio della mia
innocenza? Sciagurati! E che cosa pensate con la vostra viltà
conseguire? Forse di conservare la vita? E non vi accorgete, che la si vuole
spenta non già come fine, bensì come via che conduca a intento
oggimai stabilito; nè a questo pare che basti la nostra morte, la quale
oggimai ci avrebbero dato, ma si richieda eziandio la nostra infamia? Ora,
avete voi pensato qual possa essere questo intento? Chi può lanciare lo
sguardo nello abisso d'iniquità della Corte Romana, e distinguere tutti
i disegni tenebrosi che si ravvolgono là dentro? Nella passata agonia
una larva traversò la caligine della mia mente, e migliaia di voci le
urlavano dietro: avarizia! avarizia! La lupa sacerdotale già assaggiava
la sostanza dei Cènci; e trovatala buona, l'è cresciuta la fame,
col pasto. Molti sono i lupi dal muso affilato venutici da Firenze, che
mostrando le costole ignude, e battendo denti a denti, gridano preda. E il papa
gliela darà... I vostri delitti sono i vostri averi. Voi perderete
tutto; la buona rinomanza, che nessuno al mondo poteva torvi, avete da per voi
stessi gittato via; la vita e la roba, cose caduche ed in potestà
altrui, vi torranno quando loro torni in acconcio. Io, che tronchino i giorni
miei, e con la vita mi rapiscano gli averi, non contrasto; e volendolo ancora,
io non potrei; ma sta nel mio pugno la fama, e questa non perverranno a
rapirmi. Mentre tutto ciò che è della terra mi abbandona, ecco
che più mi si stringono allo spirito due angioli; quello che ha in custodia
la innocenza, e l'altro che premia la costanza; e grande, miei diletti, sento
il potere loro sopra di me, avvegnadio non solo mi sostengano in mezzo
all'atrocità dei miei tormenti, ma mi promettano appena saranno compiti
(il che avverrà presto) di levarmi genuflessa sopra le santissime loro
ale verso il mio Creatore. Addio terra, limo stemperato di pianto e di sangue;
addio turbine di atomi maligni, che vi dite uomini; addio tempo, sfregio
brevissimo sopra la faccia della Eternità: un raggio delle gioie celesti
mi piove sopra la persona, e toglie via ogni pena... come mi sento felice! come
sono contenta! quanto è soave morire!...
E declinato il capo sopra la
sinistra spalla, cadde di nuovo in deliquio.
Il sole, fino a quel momento
coperto dalla nuvole, trasparì in cotesto luogo oscuro da una finestra
alta, e recinse con un raggio languido di autunno il seno e la faccia di
Beatrice. I capelli di oro sparsi per le spalle della vergine, e rimasti irti,
ed attorti sopra la fronte di lei riflettendo quel raggio, la fasciarono intorno
con la corona luminosa, colla quale, costumiamo effigiare la immagine della
Madre di Cristo. Mirabile caso, che dimostrò come la Provvidenza
incominciasse a ricovrare la travagliata sotto il manto della sua misericordia;
imperciocchè nei capelli, adoperati in quel giorno per arnese
dell'osceno martirio. incominciasse ad apparire un segno manifesto della
prossima sua divinità.
Nessuno osava alitare. Il
Luciani era sbigottito, avendo sorpreso l'anima sua in atto d'intenerirsi:
l'abborrita pietà aveva per un momento cagionato in lui lo effetto, che
i Gentili attribuivano al teschio di Medusa. Il Ribaldella, con la faccia
appoggiata sul banco, osservava costretto una specie di tregua di Dio co' suoi
perfidi pensieri; e il notaro Grifo, per non parere, temperava macchinalmente
le penne, ma non vedeva lo spacco, però che una lacrima gli dondolasse
in su e in giù per la curva del ciglio diritto: povera lacrima! stava in
cotesto luogo come uno esiliato in Siberia.
Beatrice con un sospiro
tornò agli uffici della vita, e i suoi congiunti genuflessi innanzi a
lei, presi da ammirazione, da pietà | e da vergogna, esclamarono fra i
singulti:
- Beatrice... angiolo santo...
deh! tu ci addita il sentiero che noi dobbiamo tenere per imitarti.
Beatrice si sollevò
alcun poco, e, raccogliendo quanto potè di spiriti vitali, con voce
forte favellò:
- Sappiate morire!
- E noi morremo - gridò
don Giacomo levandosi in piedi, e scuotendo su la faccia ai giudici le catene
ond'era avvinto - noi siamo innocenti; noi nè uccidemmo, nè facemmo
uccidere il padre nostro: noi confessammo per forza di tormenti, ed in
virtù delle insidie tese alla nostra inesperienza.
E Giacomo Cènci poteva
anch'egli chiamarsi immune della strage paterna, imperciocchè il padre
non fosse rimasto ucciso nel ratto di Tagliacozzo: però la sua coscienza
non era pura davanti agli uomini, molto meno davanti a Dio. Ed invero se il
disegno, o, come dicono i curiali, il conato più o meno prossimo alla
esecuzione meritamente presso i primi si distingue dal delitto consumato, appo
Dio il pensiero criminoso scoccato appena torna indietro di ripicchio a
uccidere l'anima, che non lo seppe trattenere.
Beatrice, quasi trasmutata in
faccia per la interna compiacenza, con suono di voce dolce quanto la
benedizione di una madre concluse:
- Il martirio sopra la terra
si chiama gloria nei cieli: perseverate, e morite come i fedeli di Cristo
morivano.
Il Luciani aveva agevolmente
cacciato da se lo insolito solletico di umanità come una tentazione del
demonio: anzi vedendo che nel nuovo esperimento, invece di aver fatto profitto,
com'egli divisava, era venuto a scapitare non poco, riarse nella sua bile, che
proruppe come acqua bollente fuori del vaso, fragorosa e spumante.
- Con voi rifaremo i conti fra
breve, e staremo a vedere se, come a parole, vi manterrete prodi co' fatti.
Intanto voi, mastro Alessandro, fate di applicare alla esaminata la tortura del
taxillo.
- Ho io bene inteso,
illustrissimo signor Presidente? Avete voi detto il taxillo?
- Il taxillo; per lo
appunto il taxillo: ecci ella qualche nuovità in proposito?
- Nulla, rispose mastro
Alessandro stringendosi nelle spalle: solo dubitava non avere bene inteso.
E andò pel taxillo.
Era il taxillo una
specie di bietta di pino tagliata a modo di cuneo, larga su la base, acuta in
cima, e intrisa di trementina e di pece. Il diavolo trasformato in frate
domenicano inventò nella Spagna cosifatto tomento. Spagna! Infelice
paese dove la superstizione arò così profondo, che, anche in
questo moto maraviglioso dei popoli verso il meglio, gl'Iberi paiono condannati
a rappresentare per lungo tempo nel mondo la parte di centauro, mezzo uomo e
mezzo bestia. Dove sono i figli dei prodi cavalieri, sempre pronti a ferire
torneamenti e a correre giostre in onore delle dame? Dove i discendenti degli avventurosi
baroni, capaci di sostenere mirabili imprese per uno sguardo della bellezza?
Dove i baccellieri di armi, che co' loro gesti famosi somministrarono gentile
argomento ai versi di romanzo? Tacciono le armi e gli armori; gli Arabi
scomparvero sotto le rovine dello Alambra; a questi splendidi cavalieri
subentrarono gl'incappucciati fratelli del Santo Uffizio, nobil gente avvilita,
la quale non trovò mezzo altro più acconcio per ripararsi dai
tormenti, che farsi anch'ella tormentatrice. - Mirate, di grazia, dove l'hanno([160]) condotta i frati:
nuda fino alla cintura, coperta dello scapulare la faccia, con fruste armate di
triboli, stupida e insana si flagella sotto le gelosie delle donne amate,
nè si rimane finchè dalle aperte vene non le sia sgorgata larga
pozza di sangue, e di sangue non abbia resa nera la sferza, che poi
manderà loro in dono come pegno di costanza, che nè per tempo
verrà mai meno, nè per morte. Così, mercè il
governo fratesco, avvinsero insieme le Grazie e le Furie, nodo mostruoso da
disgradarne quello dell'antico Mezenzio([161]). Lo stesso piacere
cospersero di fiele, e, contrariando Dio e la natura, lo mutarono in tormento.
Tanto possono i frati imbestiare gli uomini!
I fratelli Cènci e la
Lucrezia Petroni come smemorati consideravano quanto sotto i loro occhi
avveniva, (mastro Alessandro recatasi in mano la zeppa, scalzò il piede
sinistro di Beatrice. Breve, asciutto e rotondo, egli pareva opera di greco
scalpello condotta in alabastro rosato) e vedono... figgere la parte aguzza
della bietta tra la carne e l'unghia del pollice: bene a quella vista sentivano
raccapriccio, ma qual nuovo modo di tormentare fosse cotesto non bene
comprendevano. In breve saranno chiariti. Mastro Alessandro trasse fuori una
candeletta, e andò ad accenderla alla lampada, che ardeva davanti la
immagine santa del Redentore; poi l'accostò alla scheggia, che subito
crepitando prese fuoco. La fiamma si accosta rapidissima alle dita, e qualche
lingua si avventa precorrendo come famelica di carne e di sangue.
Atrocissimi dolori erano
quelli, che da cotesto tormento derivavano; la natura umana non li poteva
sopportare, molto più se consideriamo lo strazio fatto della misera
fanciulla: e nondimeno Beatrice, temendo da un lato sconfortare i suoi, e
dall'altro desiderando porgere loro lo esempio del come si abbia a soffrire,
domava lo spasimo, e taceva. Taceva, sì; e insinuata la carne delle
guance fra i denti stringeva forte fino ad empirsi la bocca di sangue, per
divertire un'ambascia con l'altra; ma non era potestà in lei d'impedire
il brivido intenso che le increspava la pelle di tutto il corpo, nè lo
stralunamento delle pupille smarrite, nè il mugolìo convulso, che
travaglia la creatura nella suprema ora del transito: - nè fu in lei,
misera! trattenere uno strido disperatamente acuto, nel quale parve le si
troncasse la vita, e declinare la testa giù come morta.
Anche il coniglio, ridotto
alla disperazione, dimentica la naturale timidità, e morde. Don Giacomo
non dubita accostarsi con la faccia al tassillo imfiammato, ed azzannatolo
tenta staccarlo; ma da una scottatura in fuori non ne trasse altro vantaggio.
Allora tutti, non esclusa la mansuetissima donna Lucrezia, spinti da moto
spontaneo si avventarono contro il Luciani, mostrando volerlo stracciare co'
denti: ululavano come bestie feroci, nè il sembiante loro pareva
più umano. Quantunque cotesta fosse ira impotente, però che
tenessero le mani incatenate, e per accostarsi ai giudici gl'impedisse il
cancello, pure il Luciani n'ebbe spavento, e, balzato in piedi, si fece schermo
con la spalliera della seggiola; dietro la quale, come da un baluardo, latrava:
- Badate ch'ei non si
sciolgano! Teneteli! Sono dei Cènci, e sbranano.
Mastro Alessandro, giovandosi
della confusione, aveva fatto cadere il tassillo dal piede della Beatrice.
I Cènci furono di
leggieri trattenuti. Il Luciani sentendosi agitato, e considerando i colleghi
suoi e gli altri assistenti, comecchè per causa diversa, più
atterriti di lui, riputò conveniente sospendere per allora cotesti
strazii, che in quei tempi avevano nome di esami.
- Riportateli, ritto sopra il
limitare della porta abbaiava il Luciani, riportateli in carcere uno diviso
dall'altro. Ministrate loro il vitto di penitenza... bevano il supplizio...
mangino la disperazione.
Beatrice priva di sentimento
fu riportata sopra una sedia in prigione, e quivi affidata alle cure del
medico; il quale fra un sospiro e l'altro osservava, come la detenuta non
potesse essere esposta con efficacia al tormento se non prima decorsa una
settimana intera; ed avrebbe, egli aggiungeva, in caso di bisogno avuto anche
il coraggio di sostenerlo a voce, e in iscritto, perchè innanzi tutto
doveva aversi riguardo alla umanità!...
Non vi par egli, che fosse
caritatevole davvero questo dabbene dottore fisico?
CAPITOLO XXIV
IL SAGRIFIZIO.
Non sentite che
stridìo
Fa quel gufo
colassù?
È
là un'aquila che sgraffia!
Quanti corvi
intorno a lei!
Quanti corvi a
molestarla!
Presto,
indietro, figli miei.
. . . . . . . . . .
Van gl'infanti:
- e don Rodrigo
Ha già
scritto ad Almanzor:
Vengon tutti, e
senza schermo
Tutti a morte
gli hai da por.
I
sette Infanti di Lara,
Romanza
spagnuola.
- Introducetelo
immediatamente.
Così ordinava Cinzio
Passero cardinale di San Giorgio al camerario, ch'era venuto ad annunziargli
come il presidente Luciani, con grandissima istanza, domandasse di favellare a
Sua Eminenza. Il Luciani, mossi alquanti passi, si fermò a mezzo la
stanza curvato profondamente, ed in cotesta attitudine si rimase senza
profferire parola.
Il Cardinale, declinati i
sopraccigli per velare le pupille tremolanti di soddisfazione, domandava con
voce lenta ed ostentata indifferenza, precorritrice di prossima ingratitudine:
- Or bè, a che cosa
siamo noi? Egli è finalmente compito questo magno processo?
- Vostra Eminenza, rispondeva
il Luciani con le braccia giù penzoloni, ravvisa in me rinnuovato il
caso di Sisifo...
Il Cardinale, meglio che dalle
parole, dal sembiante del Luciani sospettando il caso, gittata là la
finta indifferenza come maschera molesta, ardente e iroso soggiunse:
- Che cosa significa questo?
Parlate senza metafore, chè ormai mi han concio.
- Eminentissimo, significa che
noi non abbiamo potuto ottenere dall'accusata Beatrice confessione di sorte; e
gli altri Cènci, mossi dal suo esempio, hanno ritrattato la loro.
- Ma voi... voi vi sarete
lasciato intenerire per avventura anche voi.
- Io! - esclamò il
Luciani, come quando si ode qualche sproposito solenne: - eh giusto! Corda,
Eminentissimo, tortura capillorum, tortura vigilae, canubbiorum,
rudentium, taxilli, tutte le adoperai, e senza intervallo di tempo,
sicchè ne rimasi sbalordito io stesso: poco più che avessi spinto
il tormento dell'accusata, a quest'ora non ne parlavamo più, con danno
inestimabile del processo. Io l'ho costretta a rimanere tre ore intere in
deliquio.
- E neanche col tassillo ha
confessato costei?
- Neppure col tassillo.
- Ma che gli fate adesso, di
burro?
- Eminentissimo noi gli
facciamo di legno di pino, impeciati, e aguzzati per filo e per segno: e tutti
i tormenti io ho ordinato le inasprissero per modo, che lo stesso mastro
Alessandro ha consigliato si sospendesse la tortura, avvegnadio corressimo
pericolo presentissimo di vita.
- Chi è questo mastro
Alessandro?
- Il boia, Eminentissimo.
In verità occorrono in
tutte le lingue taluni composti di certi suoni, che hanno virtù di
scuotere ingratamente i nervi umani; e la parola boia è senza dubbio fra
questi. Il Cardinale arricciò il naso e scosse disdegnoso la testa,
quasi che volesse dire: «E com'entra il boia fra noi?»
Alla quale tacita domanda il
Luciani, a sua posta, tacitamente rispondeva: «Come ci entra? ci entra
benissimo, e la tua collera nasce appunto dal non esserci entrato come
desideri, o uomo rosso, parente del carnefice in troppe più cose, che
nel colore delle vesti».
- E quando vedeste, riprese il
Cardinale, come i rigori non giovassero, o perchè non provaste di
adoperare le piacevolezze?
- Uhm! Io sono da bosco e da
riviera, Eminenza: anzi mi arrisicai fino a promettere (bene inteso però
come cosa mia, onde dar campo a vostra Eminenza ed a Sua Santità di
smentirmi quando tornasse loro comodo) la grazia della vita per tutti; - feci
in modo che i confessi si trovassero con la donzella quando verosimilmente
dovevano averla frollata i tormenti, e lei con pianti e preghiere supplicassero
a confessare, assicurandola com'io avessi loro dato ad intendere esser questo
per essi refrigerio estremo di salvazione. Fiato gittato! La donzella, oltre
ogni credere pervicace, ha disprezzato blandizie e tormenti; e dopo aver
sofferto più che natura umana sembrava potesse sostenere, in mezzo agli
spasimi del tassillo supplicava i congiunti ad imitare la sua costanza
ritrattando la confessione. - Come la sia andata io non so, chè non so
nemmeno io in qual mondo mi trovi; le hanno dato retta, e di confessi,
revocando il detto, sono ridivenuti negativi. La mazza ha percosso i soliti
colpi, anzi maggiori del consueto; ma talora la pietra è più dura
del martello.
- Oh! no, nessuno varrà
a persuadermi che in questa faccenda siasi adoperata la diligenza, che il
negozio e le mie raccomandazioni pareva dovessero meritare.
- In verità,
Eminentissimo, ella mi mortifica a torto. Consideri! Temendo che l'accusata
potesse tenere addosso qualche malìa, ordinai (ed io stesso presenziai
la operazione) che la visitassero diligentemente, per ricercare la macchia
diabolica indicata dai maestri dell'arte.
Il Cardinale di tanto non si
potè contenere, che non iscuotesse fastidiosamente le spalle;
sicchè il Luciani, di nuovo armeggiando col suo cervello, pensava: «sta
a vedere, che un cardinale di santa madre chiesa non crede al diavolo! Morto
lui vedremo chi vi farà le spese».
- Dunque, interrogò
risoluto il Cardinale, in questo frangente che cosa proponete voi?
- Eh! appunto era venuto a
posta per sentire il savio parere di vostra Eminenza, come quella che tutto il
mondo sa ricchissima di partiti.
Si ricambiarono due sguardi
tristi: già si odiavano. La cupidigia e la ferocia compongono un cemento
infernale, che lega indissolubilmente le anime degli scellerati fino alla
consumazione del delitto: compito il misfatto, i complici si dividono a un
punto rapina, odio, e rimorso.
Avvenuta che sia l'opera di
sangue, il Cardinale odierà il Luciani col doppio odio dello ingrato e
del complice che detesta l'altro complice; il Luciani odierà il
Cardinale perchè lo sperimenterà superbo, e lo saprà
scellerato: e non pertanto anco adesso si aborrono, perchè il primo non
cela il suo disprezzo per l'altro, e quest'altro ha paura.
Si ascolta un lieve bussare
alla porta: ottenutane licenza entra un camerario, che ammonisce lo
Eminentissimo essersi presentato alla udienza il signor avvocato Prospero
Farinaccio.
- Farinaccio! - esclamarono a
un punto il Cardinale e il Luciani. Poi il Cardinale soprastette alcun poco a
pensare, ed alla fine disse al camerario:
- Fate passare. Voi, signor
Luciani, compiacetevi attendere in anticamera i nostri comandi.
Se più acerba trafitta
avesse mai potuto lacerare l'anima del Luciani, pensi chi legge. Come! Doveva
egli uscire al cospetto di uno avvocato? Come! Doveva egli aspettare la fine
della udienza in anticamera? Egli! uso a trattare con arroganza i suoi uguali,
con superbia gl'inferiori. In qual concetto lo avrebbero d'ora innanzi tenuto i
camerarii, in mezzo ai quali avrebbe dovuto trattenersi durante il colloquio
del Farinaccio col Cardinale? O andate, via, a dannarvi l'anima per costoro!
No, il Luciani non dannava
l'anima per altrui; ei la dannava per conto suo: per compiacere lo istinto
ferino sortito dalla natura, e sviluppato con l'abito; per satisfare alla
meschina vanità, che non vo' dire ambizione, essendo questa cosa virile,
e per nulla convenevole a cotesta anima bassa. Se a taluno poi venisse fatto di
considerare come il giudice Luciani si assomigli al giudice Valentino Turchi,
al vicario Boccale, ed a mille altri giudici e fiscali, io mi permetto
avvertirlo, e vo' che mi creda dacchè io gli parlo per esperienza, che
ordinariamente cosiffatti giudici e fiscali si assomigliano tutti; e la differenza
unica, che corra fra loro, consista nello avere le unghie un poco più
lunghe, o le orecchie un momentino meno corte.
La immensa voglia che sentiva
il Farinaccio di comparire al cospetto del Cardinale nepote e la preoccupazione
del Luciani nello uscire, furono causa che questi due personaggi si urtassero
malamente nel petto e nel ventre sopra il limitare della stanza; e siccome lo
avvocato era grosso e gagliardo, e il presidente, debile per mal di sciatica,
camminava sciancato e dondolante come fanno le botti rivoltate in piano prima
che si fermino, questo ultimo corse pericolo di rientrare a complire il
cardinale a mo' dei gamberi, se non si fosse con ambe le mani attenuto alle
pettorine della veste dello avvocato. Il Farinaccio poi non era tale, da ridere
per cotesto caso: all'opposto, volendo, com'uomo espertissimo nelle umane
passioni, correggere con la lingua il fallo involontario del corpo,
circondò il presidente Luciani col tuono di uno immenso saluto:
- Meritissimo signor
Presidente, le faccio umile reverenza.
Per la qual cosa il Luciani,
considerando il credito che un saluto così ossequioso di tanto avvocato
stava per procurargli appresso i camerarii, si sentì come raddolcito, e
deliberò rispondergli, come gli rispose, con un terzo meno della rabbia
consueta:
- La reverisco.
- Eminenza, incominciò
Prospero Farinaccio dopo avere inchinato il cardinale Cinzio co' modi sciolti e
sicuri che egregiamente gli si confacevano, io vi esporrò de plano la
causa che mi conduce con tanta pressa ad ossequiare vostra Eminenza. Io vengo a
supplicarla onde mi procuri licenza di assumere la difesa dei prevenuti
Cènci, in compagnia di alcuno dei prestantissimi colleghi miei.
- Signor Avvocato, rispose il
Cardinale aggrottando le sopracciglia, ch'è quello che domandate voi?
Cotesti scellerati vi par egli che meritino l'onore della vostra difesa? La
enormità del delitto gliela vieta; e sarebbe inaudito concederla, ora
che il processo è compito.
- Eminenza, la difesa è
di diritto divino. Il Signore la concesse a Caino, e nessuno, io penso, lo
sapeva colpevole meglio di lui.
- È vero; ma la
prudenza umana oggimai ha stabilito doversi escludere da tanto benefizio i casi
atroci; e il parricidio parmi che tra questi si deva considerare come
principalissimo. Ditemi, signor Avvocato, i truci figli concessero al padre
loro tempo per le difese? Anzi, e questo è troppo più enorme, gli
dettero tanto di tempo ch'egli potesse riconciliarsi con Dio, e salvare l'anima
sua?
- Questo io non vo' negare,
Eminenza; ma mi sia permesso farvi notare reverentemente, come appunto,
trattandosi di caso eccettuato, non si proceda con le regole comuni, e tutto
sia rimesso alla discrezione del giudice.
- Certo, ma in ciò che
spetta alla esasperazione del rigore; conciossiachè se fosse
diversamente (e questo non può sfuggire alla solenne sagacia vostra) il
benefizio crescerebbe in proporzione della gravità del delitto. Vi
parrebbe ella logica questa?
- E tuttavolta nel mondo
governa qualche cosa più potente della logica, ed è la
convenienza. Io non ricorderò, Eminentissimo, per quanti favori mi
chiami legato alla sacra persona di Sua Santità ed alla vostra,
nè con quanto zelo io abbia studiato sempre, e studii promuovere,
secondo le mie deboli forze, la esaltazione della vostra casa nobilissima: in ciò
io adempio un dovere di gratitudine, e basta. Queste cose poi mi piacque
toccare brevemente, onde la Eminenza vostra si persuada, che se potrà
trovare di leggieri un consiglio più autorevole del mio, non
potrà con altrettanta agevolezza trovarne un altro del pari devoto. Or
dunque io vo' che sappiate, Eminenza, correre da parecchi giorni qui in Roma
una voce, e crescere quotidianamente, la quale dice impossibile cosa essere che
Bernardino, giovanetto dodicenne e d'indole mansueta, al parricidio
partecipasse; molto meno la fanciulla (e questo non era vero, anzi era vero il
contrario) a cui procacciano compassione la fama della sua bellezza, che dicono
possedere portentosa, e del valore col quale sostenne i più rigidi
esperimenti della giustizia. La calunnia sussurra sommessa di orecchio in
orecchio volersi tutti i Cènci avviluppati in una medesima accusa, e per
conseguenza nella medesima condanna, perchè s'insidiano gli averi di
cotesta cospicua famiglia: ancora fra i nobili reca amarezza inestimabile vedere
minacciata di completa distruzione una inclita prosapia, che affermano derivata
dai vetustissimi Romani. Adesso io credo, e meco, Eminenza, hanno creduto
molti, che per torre via ogni pretesto alla maldicenza importi largheggiare in
concessioni di difese, di consigli, di tutti, insomma, i sussidii forensi
agl'imputati. E di vero, udite un po' che cosa si attenti vociare la calunnia.
Ella vocia: o come volete voi che possa schermirsi da volpi vecchie del foro un
bambino? Come una giovanetta inesperta? Atterriti da minacce, circondati da
seduzioni...
Il cardinale Cinzio sentiva a
quel dire gonfiarglisi il cuore; ma fino a quel punto, uso com'era a dominare
gl'impeti del suo carattere, ed a dissimulare, veniva assentendo piacevole in
vista allo Avvocato, ed anche talora gli sorrideva: inoltre la timidità,
che rende i sacerdoti spietati, gli fa eziandio irresoluti; onde chiunque
sappia valersi con accorgimento di questo loro vizio, può contare di
riuscire almeno per tutto il tempo che la paura dura. Qui poi non potè
reggersi da esclamare con ira male repressa:
- E come ardite voi sospettare
questi orrori?
- Eh! non sono io, Eminenza,
che sospetto; ella è la calunnia, la quale non si arresta qui; ma va
aggiungendo, che le confessioni spremute dal torchio di torture atrocissime non
si devono attendere; e ch'era più breve farli tutti sparire, notte
tempo, per entro ad un trabocchetto.
Il Cardinale, per contenersi,
masticava della carta; sennonchè sopra gli angoli estremi della bocca,
comparivano alcune bolle bianche di bava maligna. Il Farinaccio, che
astutissimo uomo era, conoscendo avere percosso il colpo più forte,
pensò adesso a blandire il porporato. In simile intento, aggiungeva:
- Io ci patisco, Eminenza,
propriamente ci patisco nell'udir levare i pezzi della reputazione altrui, e
della scienza; dacchè io nei miei volumi abbia salutato, come davvero
ella è, la tortura regina delle prove: nè qui sarei venuto,
laddove io non conoscessi il modo col quale il fatto atroce successe, e non mi
augurassi cavarne dalla bocca degli accusati la confessione ingenua, che, come
confonderà la calunnia, così porgerà al Beatissimo Padre
argomento di fare viepiù rifulgere quella sua innata clemenza, di cui ha
empito il mondo con tanti e tanti fulgidissimi raggi...
- E vi augurate davvero farli
confessare? - interrogò il Cardinale ridivenuto sereno.
- Lo spero.
- Tutti?
- Tutti...
- Voi, signor Prospero,
assumete troppo ardua soma per le vostre spalle; almeno lo temo,
perocchè in costoro si manifesti pervicacia pari alla scelleraggine: e
voi intendete che le porte della misericordia potranno aprirsi alla supplice
preghiera del pentito, non già al superbo bussare dell'ostinato.
D'altronde il processo contiene tanta copia di prove, da vincere i dubbii dello
stesso Pirrone. Noi (e qui gli occhi gli dardeggiarono veleno) noi non siamo
usi a curare i clamori del volgo. Da quando in qua l'aquila ha temuto la
vipera? L'aquila ghermisce negli artigli la vipera e la trasporta nelle nuvole,
per isbatterla poi contro le pietre. Stanno in potestà nostra arnesi capaci
di scorciare le lingue, ed impedire che un labbro si congiunga all'altro
labbro: - noi possediamo, e voi lo sapete, signor Avvocato, istrumenti onde
quelle parole della santa scrittura, che dicono «avranno occhi e non vedranno,
avranno orecchi e non ascolteranno» ricevano litterale applicazione; e noi gli
sappiamo adoperare.
- Oh! quanto a questo l'ho
fatto avvertire ancora io, si affrettò di rispondere l'Avvocato, che,
incominciando a temere di essersi spinto un po' troppo, pensava al mezzo di
operare una ritirata onorevole; anzi chiamato, Dio sa da qual parte, un certo
risolino, e appuntatolo con li spilli sopra le labbra, continuò: - e non
pensate che io mi sia rimasto da farlo capire come merita; però, mosso
dalla cognizione dell'alta magnanimità e dello egregio giudizio vostro,
io tutto deliberai di significarvi apertamente onde si facciano di quieto,
senza strepiti, senza scandalo e pel meglio quelle provvisioni, che pareranno
più acconce ai desiderii ed alla giustizia di vostra signoria eminentissima.
Per cui a tutti quelli che si mostravano peritosi di venire a informare vostra
Eminenza degli umori di questi cervelli romani, io non rifiniva mai di
predicare: «O che temete? Voi non conoscete, ignoranti, quanta bontà si
annidi nell'ottimo cuore del Cardinale di San Giorgio; quanto lo amor suo;
quanto lo zelo per tutto ciò ch'è convenevole e decoroso alla
santa sede cattolica, ed alla dignità della sua inclita casata. E
confermando col fatto le parole, mi sono risoluto di tenervene proposito io
stesso; là onde ora non mi rimane che a supplicare ossequiosamente la
umanità vostra a prendere in buona parte questo mio procedimento; ed
attendendo meglio allo spirito che me le ha fatte dire, che alle parole
com'elle suonano, condonarmi quelle, che, contro la intenzione mia, avessero
per avventura potuto sembrarvi libere di soverchio, e temerarie.
Al Cardinale parve, come
invero egli era, stranissimo il contegno del Farinaccio: distinguerne le cause
interne non sapeva; ed uso a malignare sopra il bene manifesto, pensate un po'
s'ei mulinasse su quel garbuglio misterioso. Non assentì pertanto al
Farinaccio, nè lo respinse: prese tempo a pensarvi su, e gli
somministrò naturalissima scusa allo indugio il pretesto di doverne
conferire insieme a Sua Santità. - Si accomiatarono pertanto l'uno
dall'altro piuttosto soddisfatti, che no; il Farinaccio perchè sperava
riuscire nel suo intento di favellare agli accusati, consigliarli, e dirigerli
nelle difese: il Cardinale perchè contava conseguire, ad intuito del
Farinaccio, la confessione dei prevenuti, ed ovviare così ai sospetti,
ch'egli sentiva meritarsi pur troppo. Ambedue si accorgevano che il giuoco loro
correva tra galeotto e marinaro; ambedue sentivano che s'ingannavano a vicenda;
e nondimeno conoscevano essere l'uno necessario all'altro pel compimento degli
scambievoli disegni.
*
* *
Farinaccio allo svoltare della
via aperse lo sportello di una carrozza, che stava lì ferma ad
aspettarlo; e volgendo il discorso a qualcheduno seduto dentro, favellò:
- Eminentissimi, il disegno
s'incammina a bene. Ora non perdete tempo un minuto, ed andatevene ad abbattere
l'arbore che tentenna. La paura lo tiene pei capelli; se lo lascia, non lo
ripeschiamo più di qui a mille anni.
In questo modo ragionando il
Farinaccio indovinava ad un punto, e sbagliava: indovinava, che la paura
dominasse l'anima del Cardinale nepote; sbagliava, che questa lo rendesse
più mite per gli accusati; imperciocchè avendo mestieri della
confessione loro per procedere con franco piede e capo alto alla truce
conchiusione del suo disegno, e pel colloquio tenuto col Luciani essendo
oggimai disperato di poterla ottenere per via di tormenti, strinse il
Farinaccio come una leva per muovere quel masso che gli si parava davanti al
cammino. Credersi più scaltro che altrui è lo scoglio dentro al
quale per ordinario rompono gli astuti; onde a ragione il proverbio c'insegna,
che in pellicceria vanno più pelli di volpe che di asino.
Prima però di
continuare il mio racconto mi è forza spendere alquante parole intorno a
Prospero Farinaccio, che sta per essere tanta parte nella catastrofe di questa
storia, e dire chi egli si fosse, e quali cagioni lo muovessero a zelare
così le difese dei Cènci.
Prospero Farinaccio nacque di
stirpe popolesca; ma non tanto sprovveduta dei beni della fortuna, che ai suoi
genitori venisse tolta la facultà di farlo educare nelle discipline
liberali: ed in fatti mandato allo Studio di Padova attese ad imparare diritto,
dove riuscì valentissimo. Tornato in patria presto si fece conoscere
eletto ingegno, ed ottenne facilmente la fama di precipuo fra gli avvocati
della Curia Romana. Invero egli possedeva in copia dottrina (che scienza quella
degli avvocati d'allora io non vorrei chiamare), ed aveva raccolto
abbondantissimi materiali che gli valsero poi a fabbricare ben tredici grossi
volumi, i quali anche ai giorni nostri noi vediamo schierati nelle
scansìe dei forensi, quasi leghe quivi dentro ammucchiate per costruirne
le casematte di sofisma, e di errore delle loro biblioteche. Nei libri del
Farinaccio, del Mantica, del Menochio e di altri siffatti scrittori, che gli
furono contemporanei; peggio in coloro che lo precederono; niente meglio negli
altri che lo seguitarono, invano cerchiamo spirito di retta filosofia. Non
sentenza, non, dirò quasi, parola occorre scritta, che non venga
sostenuta dalla testimonianza d'infiniti altri dottori, che la medesima cosa, e
con le medesime frasi affermino: per modo che, ravviluppata con tante fasce,
impiastrata con tanti cerotti addosso, quella ch'essi espongono o non ti par
ragione, o parti ragione malata; anzi in agonìa. Talora in mezzo a
questi salvatici scritti ti capitano citazioni greche o latine degli scrittori
magni, le quali pare che stupiscano di trovarsi là dentro, come succede
ad un galantuomo, preso per isbaglio, di vedersi in prigione fra una geldra di
furfanti. Un meccanismo tutto materiale ha presieduto alla compilazione di
coteste opere; e sovente tu vedi posta a capo del capitolo, o conclusione, o
glossa, od altro simile spartimento del lavoro una sentenza assoluta, dopo la
quale vengono schierate come manipoli in battaglia le tante dichiarazioni, e di
tanto diverso concetto, che invece di chiarirti il pensiero gli calano di mano
in mano una benda su gli occhi, e gli fanno buio: nè basta ancora; ecco
succedere le ampliazioni, le quali tirano coi denti il primo pensiero a
conseguenze così sperticatamente disparate, che ogni memoria del punto
donde hai preso le mosse va perduta. Come se poi tutto questo fosse poco,
esaurite le ampliazioni incominciano ad attelarsi in ordinanza le limitazioni,
di cui lo scopo consiste nel restringere il principio annunziato in tanta
angustia di termini, che oggimai tu ignori qual via tu debba tenere, o a qual
partito appigliarti. Ogni raziocinio è posto in bando: autorità
fa legge; sintesi e dogma ti battono alterni colpi sopra il cranio come due
fabbri il martello su la incudine. Interrogato un giureconsulto, qual
differenza corresse fra legato e fideicommesso, rispondeva: che in quanto a se
ei non la sapeva discernere, ma che ci doveva essere; avvegnadio se non ci
fosse stata lo Imperatore non avria distinto un atto col nome di legato, e
l'altro con quello di fideicommesso! La intelligenza umana intisichita per
difetto di luce, si sgomenta e si accascia sul pavimento, rassegnata a cucciare
sopra la paglia: pervertito così il senso del retto, il torto e la
ragione compaiono accidentalità della forza o della frode,
secondochè trionfano o perdono; e il santo ministero della giustizia e
della difesa diventa un palio di Siena, dove, purchè prima si giunga,
anche le nerbate a traverso la faccia contano. Mentre un curiale con le spalle
gobbe, gli occhiali sul naso, al chiarore di una lucerna sfoglia uno scrittore
in traccia dell'autorità che valga a sostenere il suo assunto, e la
trova; il suo avversario curiale con le spalle gobbe, gli occhiali sul naso, al
chiarore di lucerna va squadernando il medesimo scrittore in traccia della
dottrina contraria, e la trova. Corre nel fòro un dettato che ammonisce,
i dottori aver detto tutto; ed è vero: ma in sofisma, e in errore; e se
avessero detto meno, beati gli uomini! - In paragone a questo rovinare
giù a scavezzacollo del nostro intelletto, navigare senza bussola egli
era andare a nozze; conciossiachè senza bussola si arrivasse tentoni, ma
alla fine si arrivasse, e qualche stella schiariva quasi sempre il cammino; -
qui poi si precipita irrimediabilmente in perdizione. Il contagio dello
intelletto con lieve passaggio si attacca al cuore; la coscienza del forense
diventa atea, e lo studio del diritto si converte in istudio di torturare, e,
potendo, strangolare il diritto; in trovare puntelli alla tirannide, in cucire
al dispotismo una gonnella da prete per farlo comparire galantuomo nella
processione del Corpus Domini. Ai giorni nostri l'avvocheria va a poco a
poco, e, come dicevano i latini, guttatim, riacquistando la pristina
dignità; però rimangono anche troppi curiali che si rotolano nel
fango come in un letto di parata, e togati sofismi si divorano il mondo peggio
delle cavallette di Moisè. Carattere eterno del vero e del bello noi
dobbiamo estimare la semplicità e rammentarci che la verità
incede nuda: badi la eloquenza pertanto, e badi bene, di non avvilupparla in
mantelloni alla Bernini: a lei basta il velo, che un giorno Socrate scultore
ricingeva intorno alle Grazie. La digressione, a vero dire, si produceva
più oltre ch'io non pensava; ma oggimai è fatta, e a cancellarla
l'animo non mi basta: la conchiuderò affermando in coscienza, che colui
il quale si avvisasse di fare della massima parte del libri forensi un
falò in onore della ragione umana, si meriterebbe il nome di Omar
della civiltà([162]).
Il Farinaccio dunque non era
uomo da paragonarsi a Francesco Bacone da Verulamio suo coetaneo; tutt'altro:
però come perito nella dottrina forense lui salutavano principalissimo a
quei tempi. Irrequieto e insistente, spesso a forza d'industria egli seppe
condurre a buon fine difese ritenute disperate; e ciò gli fruttava
amplissima fama di sapere da quei medesimi giudici i quali avevano ceduto
piuttosto alla importunità, che alla persuasione sua, e questo s'intende;
però che volessero confessarsi vinti dalla scienza, non già dal
fastidio. La vitalità, che in lui sovrabbondava, non gli facendo
rinvenire nello esercizio della sua professione fatica sufficiente a stancarlo,
nè i tempi concedendo vacare a pubblici negozii, egli si diede in balia
della crapula e della lussuria...
Il suo temperamento in questo
gli valse per modo, che consumata talora la intera notte nelle lascivie e nel
giuoco, la mattina poi si mostrò pronto, e disposto al travaglio
più che mai fosse stato. Con tanta foga si abbrivò nel mare dei
vizii, che percorso in breve tutto quel tratto ch'è dominio del peccato,
giunse là dove incominciano i confini del delitto; e corre fama eziandio
ch'ei li varcasse; ma per virtù d'ingegno, ed in grazia delle protezioni
che coltivava potentissime in Corte di Roma, gli riuscì sempre a cavarla
netta. Clemente VIII, legale anch'egli, e che per avere appreso diritto a Roma,
a Bologna e in Salamanca si reputava una cima, lo aveva avuto in grandissima, pratica
mentr'era auditore di Ruota, e sovente diceva di lui: egli è un tristo
sacco, pieno di buona farina. Come facile a donare, il Farinaccio si mostrava
anche facile a prendere: costumava creare debiti più che poteva, un po'
per bisogno, e molto più per genio; dacchè estimando poco i
vincoli dell'amicizia, e quelli della parentela ignorando, soleva dire che il
più saldo legame, il quale, secondo lui, tenesse uniti insieme gli
uomini era il debito, concorrendo tre funi a formarne il nodo: la benevolenza del
creditore pel debitore, la speranza di ricavarne un grosso interesse, e la
paura di perdere frutto, e capitale; per la qual cosa egli teneva per fermo,
che anche alla spada di Alessandro Magno sariasi torto il filo, se si fosse
provata a tagliarlo. E nonostante ciò, sotto quel cumulo di vizii si
trovava rannicchiato un ottimo cuore propensissimo ad atti generosi,
purchè brevi, e di sagrifizii, a patto che non lo stogliessero di
soverchio alle sue passioni dominanti. Pronto a sdegnarsi e del pari sollecito
a placarsi, passava dal pianto al riso, e sopra tutto oblioso di qualsivoglia
più lugubre caso; avvantaggiandosi con lo esempio del re David, che
digiunò e pregò finchè il figlio avuto da Bersabea stette
infermo, e morto poi si levò dal pavimento, bevve e mangiò
dicendo: «Salute ai vivi, e buon viaggio ai morti!»
Ora vuolsi sapere come sul
declinare del mese di agosto, certa mattina un carbonaro, fasciando alla porta
dello studio dello avvocato quattro muli carichi di balle di carbone, entrasse
arditamente nell'anticamera con ambe le mani nelle tasche delle brache, e il
cappello piegato sopra un orecchio in sembianza di duca. Gli scrivani, vedutolo
con la coda dell'occhio, non si mossero, e continuarono a scrivere senza mai
levare il capo di sopra la carta.
- Oe! Ci è l'avvocato?
- Qui no... a casa forse...
- Io vi domando se sia qui,
non a casa.
- E se ci fosse! O che volete
che compri carbone nello studio? Ditemi, sareste di quelli che credono che si
arrostiscano i clienti?
- Dio me ne guardi! Solo ho
inteso dire, che qualchevolta si spellino. Ma ciò non monta; -
districhino la lite San Lorenzo e San Bartolommeo fra loro; io non vo' vendere
carbone al signor avvocato, bensì ho da parlargli di un mio
negoziuccio...
- Voi!... propriamente voi?
- Io... propriamente... io. O
che ci è egli di strano? Si parla al Papa che ha gli orecchi nei piedi,
e non potremo parlare all'avvocato Prospero Farinaccio che li porterà,
io mi figuro, attaccati alla testa?
- Ma lo sapete voi chi sia il
clarissimo signore avvocato Farinaccio?
- Sicuro eh! che lo so. Egli
è un uomo come me: sarebbe forse nato dal Colosso del Montecavallo, o si
vanterebbe cugino del re Porsenna? Su, via, andate ad annunziarmi, ch'io so che
è in istudio.
- O il nuovo pesce,
ch'è capitato stamattina!, mormorò sommesso il primo scrivano, e
poi a voce alta soggiunse: «ci ha gente».
- Aspetteremo -
Rispose il carbonaro; e senza
un rispetto al mondo si pose a passeggiare villanamente di su e di giù
per la stanza, con insopportabile fastidio dei copisti; i quali un po' per la
stizza, un po' per lo inusitato schiamazzo sbagliando sovente, lo mandavano
allo inferno, sotto voce però; chè la sembianza traversa, e le
membra gagliarde li persuadevano a procedere con precauzione. Di tratto in
tratto, giusta il costume dei codardi insolenti, si sfogavano alternando
motteggi e scherni.
- Il passo degli allocchi
è anticipato questo anno.
- Vello com'egli è
tondo; e' pare che abbia l'aria di aver beccato più miglio che ginepro.
- Fa' di farti cucire le
fodere nuove alle tasche, per sospetto che non te le sfondi la mancia.
- Avvertirò il sere di
aggiuntare due lenzuola insieme, per farne un sacco capace a contenere li
danari a conto.
Extra jocum: parente del diavolo ha da essere, tanto egli
è nero; e sento dire che il diavolo sia più ricco di Papa Sisto,
che mise dieci milioni di oro in castello([163]).
- E se pagasse con una
cambiale sopra lo inferno, toccherebbe a Tegolino andarla a riscuotere([164]).
- Però tu sei in colpa,
e come primo scrivano la sconterai.
- Qual colpa?
- Di non avere steso gli
arazzi, onde il messere non si conci il calzare di velluto.
E così continuavano
l'alternare di epigrammi, che pareano fuochi artifiziali. Il carbonaro non si
dava per inteso di nulla, e non ismetteva il suo moto ondulatorio, nè il
fischiare, nè il canto. In questa un giovanetto, vero servo dei servi di
Dio, nudrito con le briciole dei bricioli caduti dalla mensa dell'avvocato,
alimento dei copisti, si levò dal banco, e presa una sedia la offerse al
carbonaro, quasi in isconto dei peccati dei suoi colleghi.
Il carbonaro accettò la
sedia, e poi guardò fisso negli occhi il giovanetto, come se volesse
iscrutare la causa che lo muoveva a mostrarsi, fra tanti villani, cortese, e
non potè distinguervi altro che naturale benevolenza; avvegnadio i
clienti costumassero rado donare, o, se donavano, altri denti stavano
apparecchiati ad azzannare: sicchè il giovanetto faceva quel buono
ufficio come il povero usa col povero, senza speranza, ma con carità. E
questo sia detto contro la opinione dei moralisti, i quali pretendono che
l'uomo, onde possa reputarsi perfetto, abbia ad essere ornato di tutte le
virtù corporali e spirituali; mentre io ho provato, che anche qui il
soverchio rompe il coperchio; e quando le sono troppe, una aduggia l'altra come
le rame in arbore frondoso.
Il carbonaro, atteso ch'egli
ebbe lungo spazio di tempo, si accorse di essere stato ingannato, e che il
Farinaccio per quel momento dimorava fuori di studio; per la qual cosa alzatosi
pianamente si accosta allo scrivano, cui, come attempato, incombeva l'obbligo
di avere più giudizio degli altri; e strettagli forte la punta
dell'orecchio, gli dice:
- Compare! Tu mi hai giuntato:
pazienza! Bada, che come so ricompensare un buono ufficio, così mi basta
l'animo di vendicarmi di una ingiuria anche dietro l'altare di San Pietro. A
rivederci a domani...
E vedendo lo scrivano come
basito delle parole altere, e più dell'atto, si affrettò, quasi
per rimedio, di aggiungere: «tu mi hai fatto perdere la occasione di vendere le
mie some di carbone»; e mosse per andarsene; sennonchè passato davanti
al giovanetto, parve tentennasse a volere, e disvolere una cosa; la mano gli
corse su l'orlo della tasca, poi la ritrasse a poco a poco, finalmente ve la
cacciò risoluto, e trattane fuori una moneta, la porse al fanciullo
dicendo:
- To', portala a mamma; - ed
uscì.
- Tegolino, urlarono gli
scrivani, tienti stretto il tesoro: vuoi tu diventare duca? Da' voce di
comprare Benevento: vuoi tu che io ne dica una parola al Papa? Il palazzo
Farnese per magione ti basta? Se no, tu ci farai la giunta come Sisto al
Vaticano... Vediamo un po' quanto ti ha dato il carbonaro.
E il fanciullo, aperta alcun
poco la mano, guardando la moneta rispondeva:
- Non so, io non ne ho mai
viste; di rame non è, come i baiocchi che mi date voi altri; lustra...
ed è gialla.
- Sarà un brincolo...
vediamo... Per gli apostoli Pietro e Paolo, e gli altri dieci di seguito! ella
è una doppia... proprio una doppia di oro! Senza fallo il carbonaro ha
da essere un monetaro falso...
Ma uno scrivano meglio
scaltrito degli altri, guardata prima ben bene la moneta, mormorò sotto
voce all'altro, che la teneva in mano:
- Così tu avessi buona
l'anima, com'è buona cotesta moneta! Ma sostieni tuttavia ch'ella
è falsa, e che bisogna farne rapporto al bargello: in tal guisa la
caviamo di mano a Tegolino, e poi ce la goderemo.
- Questa moneta, non ci ha
rimedio, è falsa falsissima, prese a gridare l'altro; e ci
toccherà a farne una specificazione, come qualmente un monetaro falso
l'abbia donata a Tegolino, depositandola in mano del bargello del rione
perchè non ci caschi su le spalle qualche grosso malanno. Misericordia!
Moneta falsa! Niente di meno che forca e squarto a cui fosse trovata addosso;-e
se la mise in tasca.
Ma a Tegolino garbava poco,
anzi punto, cotesto tramestìo; e rivoleva la moneta perchè fosse
stata donata a lui, e perchè intendeva portarla alla mamma onde se ne
comprasse una gonnella, chè la povera donna si peritava a uscire di casa
con quella che aveva addosso logora, e rattoppata. Fiato perduto! Gli altri per
preci non dimordevano, e per di più lo straziavano con i motteggi;
sicchè il fanciullo prese a piangere ed a strillare per modo, da muovere
a rumore tutto il vicinato.
In questa ecco apparire sopra
la soglia dello studio, sdegnoso in vista, un personaggio abbigliato da prete,
di cui l'aspetto però sembrava in guerra aperta col suo vestito: alto
era e robusto, alquanto calvo sul sommo del capo, ma circondato da uno orecchio
all'altro di capelli neri a zazzera; neri, folti, e dritti aveva i sopraccigli,
allora aggrottati; una ruga sorgendo perpendicolare dalla radice del naso
s'inoltrava per mezzo della fronte; l'occhio di pupilla vivissima, e verdastra;
le narici mobili le labbra tumide e accese in bel vermiglio; le guance, tinte
ordinariamente in isciamito, ora per collera avvampanti di fiamma.
- Che scandalo è
questo? - tuono con voce di rimprovero.
Gli scrivani, come i ranocchi
se odano cosa onde abbiano paura cessano il gracidare importuno, e tuffansi
nell'acqua paludosa, chinato il capo non fiatavano verbo. Tegolino si
rannicchiava presso le gambe dell'avvocato Farinaccio, in quella guisa che i
pittori sogliono dipingere l'aquila ai piedi di Giove. Ma il Farinaccio, per
nulla placato dalla subita sommessione di costoro, interrogò Tegolino
della causa del trambusto, ed egli ingenuo gliela espose; aggiungendo che
rivoleva la moneta per portarla a mamma, che difettava di veste da comparire
alla messa.
- E per qual causa voi altri
avete involata la moneta a questo ragazzo?
La domanda era volta agli
scrivani; ma dimorando a parlare, Tegolino rispose per loro:
- Perchè prima dicevano
ch'ella era falsa; e poi sottovoce avvertì Luparino, che sarebbe stato
meglio comprarne tanto vino di Orvieto, e berselo in compagnia.
Prospero consentendo alla sua
piacevole natura, mutata di subito la collera in riso, riprese:
- Su, presto, rendete a Cesare
quello ch'è di Cesare, voglio dire la doppia a Tegolino; e per bere, a
voi altri, ecco un papetto; chè ne avanza anche per le spugne vostre
dilettissime sorelle in vino. Però, notatelo bene una volta per sempre;
io intendo, e voglio che sieno accolti co' medesimi rispetti così poveri
come ricchi, i nobili come i popolani: io nacqui ignobile, e non sono ricco;
ricordatevene: e di questo ricordatevi ancora. che sono state fatte troppo
più belle e magnifiche cose co' baiocchi del popolo, che con i ducati
dei baroni.
E così favellando
entrò nell'altra stanza. Il giorno successivo il carbonaio si presentò
alla medesima ora, e venne con isquisita urbanità accolto dagli
scrivani, mossi dai due supremi motori dell'anima umana, la speranza e la
paura: però al carbonaio non parve che fosse uscita la stizza di corpo
pel fatto del giorno antecedente, perchè, cacciando indietro uno dei
suoi muli che sporgeva la testa dall'uscio dello studio, punse con questo motto
gli scrivani:
- State all'erta voi altri,
che lì alla porta ci è tale, che v'insidia il vostro posto di
copista.
Ma Andreozzo, mordace secondo
il costume dei romani, non potè stare alle mosse di rendergli pan per
focaccia:
- Oh! in quanto a questo state
sicuro che non ci ha pericolo: ciò potrà accadere quando voi
sarete diventato l'avvocato di studio.
Onde il carbonaio, conoscendo
a prova che quei ribaldi avevano più ritortole ch'egli fastella, e
d'altronde premendolo bene altra cura, andò oltre.
Il Farinaccio appena ebbe
scorto il carbonaio, con modo cortese gli disse:
- Io so che ieri i miei
scrivani vi arrecarono disturbo: ve ne domando scusa per essi: gli ho ammoniti
per guisa, che spero averne loro tolto il ruzzo di ricominciare con altri, e
con voi. Adesso favorite dirmi in che cosa io possa sovvenire ai bisogni
vostri. Parlate, e, se vi piace, sedetevi.
- Parlerò in piedi.
Ditemi, intendeste voi favellare del caso dei Cènci?
- Io? E come volete ch'io non
ne abbia udito parlare? Ella è questa la nuova che tiene tutta Roma
sottosopra.
- E non sentiste mai nessuna
voce in mezzo del cuore, che vi parlasse in benefizio di cotesti infelici?
- Se io l'ho sentita! Ed anche
adesso la sento; - anzi a palesarvi il mio pensiero vi dirò, che la
segretezza del processo; lo insolito apparato; la surroga del giudice Luciani,
uomo più crudo della tortura, al presidente Moscati compassionevole e probo;
la età dei prevenuti, la presumibile inettezza di tutti, o della massima
parte di loro, ed altre più cose, che mi giova tacere, mi percuotono la
mente, e mi fanno sospettare qualche trama abominevole.
- E allora, dite, o
perchè voi, di cui il soccorso non venne mai meno agli uomini più
infami, ve ne mostrate avaro per cotesti poveri malcondotti?
- Perchè, considerando
maturamente la faccenda, ho presentito che a lavorare questo terreno io ci
romperei la vanga. Vel dissi già; temo di segreta persecuzione... e
potente: temo che questo non abbia ad essere giudizio, bensì
assassinamento giuridico; - io vedo, caro mio, o parmi vedere, la giustizia
armata non già della spada della legge, ma dello stiletto del bandito,
e...
- Proseguite, signor Avvocato,
- con voce tremante lo confortava il carbonaio, vedendolo esitante a
continuare.
Prospero si levò dalla
sedia; e, fattosi all'uscio per assicurarsi se fosse ben chiuso, tornò
al suo posto, e riprese:
- Corre voce, quantunque io
per me ne dubiti forte, che essendo i Cènci fuori di misura ricchi, e i
nepoti del Papa fuori di misura poveri ed avari, cerchisi un pretesto che valga
per incamerarne i beni, e trasmetterli poi, mediante un colore di cui in corte
non è penuria, a quel branco di affamati.
- Come! Anco con la strage di
quattro innocentissime creature?
- Portansi dai cardinali cappe
vermiglie perchè il sangue non vi si scorga sopra.
- Ma voi non avete per
istituto di difendere la vedova e il pupillo? E l'avvocatura non reputasi
appunto milizia gloriosissima, per lo pericolo che l'uom corre nel difendere la
causa della innocenza iniquamente perseguitata?
- Anzi per questo la milizia
togata si antepone alla sagata, ed ecci in proposito una legge mirabile
degl'imperatori Leone, ed Antemio... ma carbonaro... ed avrei dovuto domandarvelo
prima... in grazia, chi siete voi?
- Deh! signore Avvocato, non
vi calga saperlo: sono un uomo, - e se questo può commuovervi, - un uomo
che non ha uguale al mondo nella miseria.
- No... confidenza per
confidenza: come volete ch'io mi apra a voi, se voi intendete restarvi chiuso
con me?
- Le parti non sono uguali.
Della discretezza vostra io non dubito; del vostro onore molto meno: non mi
trattiene paura, imperciocchè maggior danno di quello che io patisco
ormai non mi può cascare addosso; e non pertanto io vi supplico in
grazia a lasciarmi il mio segreto...
Suonava in coteste parole
tanta umiltà di preghiera, così elle s'insinuavano dolcemente nel
cuore di Prospero, che a lui parve villania espressa insistere, e si rimase.
- Orsù, dunque, sia
come vi piace; ed io allora vi dirò (e rese la voce più sommessa)
che credo pur troppo la fama pubblica ben si apponga; e tale credendo
fermamente io, come con presagio di buon esito potrei tirarmi sopra le spalle
carico così grave e pericoloso? Voi, mio carbonaro, avete l'aria di
sapere quanto me quello che lasciò scritto Dante Alighieri:
Chè quando l'argomento
della mente Si aggiunge al mal volere ed alla possa, Nessun riparo vi
può far la gente.
- Dunque vi basta il cuore a
lasciar perire senza difesa coteste creature, innocenti quanto nostro Signore
Gesù Cristo?
- In primis voi dovete
sapere che la difesa dei parricidii non viene mica de jure, bensì
concedesi per grazia; in secondo luogo, o ditemi un po' voi come facciate a
sostenerli innocenti?
- Io? - Lo assicuro di
certo... perchè... perchè quegli che uccise Francesco
Cènci... sono io.
- Voi? - E voi chi siete?
- Quegli che già voi,
per somma cortesia, consentiste a rimanersi incognito. Io con queste mani lo
uccisi, e tornerei ad ucciderlo nel punto in cui stava per oltraggiare la
natura...
E qui gli espose a parte a
parte il successo: confidandogli ogni più riposto segreto di famiglia, e
gli atti, le parole, e i costumi del trafitto Cènci, non menochè
la virtù, e la portentosa costanza della sua figliuola Beatrice.
Il Farinaccio a mano a mano
che costui veniva favellando s'industriava ravvisarlo; e non venendone a capo,
gli passò per la mente che potesse essere monsignore Guido Guerra; ma
per la pratica grande che ne aveva, non gli parve che i tratti del volto, i
gesti, e tampoco la voce glielo riportassero. Al fine delle sue parole il
carbonaro levò gli occhi sul Farinaccio per iscrutare lo sguardo di lui;
ma questi teneva impensierito la faccia dimessa. Dopo lunga considerazione
favellò:
- Se io vi dicessi andate, ed
annunziatevi, lo fareste voi?
- Se questo giova farlo subito
non mi parrebbe tosto.
- No, no: voi sareste una
vittima di più, nè torreste lo agnello di bocca al lupo. L'amore
tornò infesto alla infelice fanciulla del pari che l'odio. Il popolo le
appone la strage paterna per darle una corona di gloria, il Papa gliel'appone
per rapirle la sua sostanza... Ardua cosa (e si batteva la fronte tutto
angoscioso) ardua cosa in verità.
- Deh! signor Prospero, non
gli abbandonate, per carità...
- E per di più, sempre
distratto favellava il Farinaccio, in corte mi hanno in uggia; e temo che se
questa volta capita loro il destro, mi conciano e cimano come un panno
francese.
- In corte io conosco tali,
che sicuramente vi darebbero favore; e so che voi trovereste i cardinali
Francesco Sforza e Maffeo Barberini dispostissimi a secondarvi...
- Questo sarebbe qualche
cosa... E come dovrei presentarmi io a cotesti porporati?
- Andate franco; voi li
troverete informati di tutto([165]).
E nonostante questo la mente
del Farinaccio tenzonava fra il sì e il no, e gli si leggeva in volto;
sicchè il carbonaro con voce di pianto insisteva pregando:
- Ed ora che sapete tutto, li
lascerete perire senza aiuto?
- E se io mi perdo con esso
loro?
- Benefizio che si argomenta
non è benefizio.
Questo dialogo era da ambe le
parti favellato con tanta passione, che Guido Guerra, obliandosi,
adoperò la naturale sua voce; però che il Farinaccio non si
potè trattenere dallo esclamare:
- Voi siete monsignor Guerra.
- Io? - Lo fui...
- Heu quantum mutatus ab
illo! - esclamò il Farinaccio porgendogli la mano, che l'altro
strinse affettuosamente dicendo:
- Ed ora che conoscete la mia
miseria... ora che la mia sciagura vi sforza al pianto, mi lascerete voi andar
via disperato?
- Ebbene, alea jacta est.
Però, e non ve lo nascondo, io passo il Rubicone con tale uno
stringimento di cuore, che io non provai mai l'uguale in vita mia. Dio ci
aiuti! Questa volta io temo che il pesce non tiri dietro il pescatore: ma non
è ciò, che maggiormente mi travaglia; - io dubito appigliarmi ad
un partito donde, piuttostochè vantaggio, abbia a nascerne l'ultima
rovina. Comprendo bene, che in istato peggiore di quello nel quale di presente
si trovano non ponno i signori Cènci cascare; e tuttavolta non vorrei
esser io quegli che dà loro la pinta. Voi poi, Monsignore, non vi
sconfortate che per questo io abbia a procedere tepido, o irresoluto: mai no;
anzi prendete coraggio dallo esempio del nostro Redentore, a cui in questo
caso, comecchè indegnissimamente, io mi rassomiglio. Egli pregò
che il calice amaro fosse risparmiato alle sue labbra, ma poi lo accettò
di gran cuore, e lo bevve da valoroso. - Ora andate; e vivete sicuro che quanto
cervello può immaginare e bocca dire, tutto sarà da me messo in
opera per la salute dei vostri raccomandati.
- E a questo mi aspetto: a
caso disperato sovverranno altri partiti. - Voi la vedrete...voi vedrete, dico,
la signora Beatrice... non le parlate di me...in nulla...o piuttosto,
sì, parlategliene... e presentatele questo anello, che vi
acquisterà credito presso di lei. Fra noi sta il sangue di suo
padre...va bene...ma io l'ho sparlo per lei...ed io l'amo...ed ella non
potrà cessare di amarmi: - uno sempre legato all'altro, e non pertanto
perpetuamente divisi; - il nostro affetto è fiore che coglierà la
morte. - Qui sfibbiò la cintura che portava attorno la vita, e gliela
porse: l'avvocato fece atto di ricusare, e le sue guance si accesero; ma il
Guerra insisteva dicendo:
- Già non si crede con
questa o con altra moneta ricompensare degnamente l'opera vostra; io mi vi
professo grato per la vita, e ricusando voi mi affliggereste: ora io di affanni
ho anco troppo, e voi, signor Prospero, lo sapete.
E il signor Prospero riteneva
a tutta possa il proponimento di recusare la moneta; ma sentiva, come neve al
sole, liquefarselo davanti al pensiero, che nel giorno seguente gli scadevano
le usure da pagarsi a Sansone giudeo; quel Sansone a cui il Farinaccio aveva
applicato quel verso di Marziale «Nec tecum possum vivere nec sine te»,
ch'egli avea volgarizzato per suo uso così:
Nè teco posso vivere,
Giudeo, nè senza te.
Il Farinaccio rimasto solo si
trattenne alquanto a meditare intorno alla singolarità de! caso, e lo
infortunio che gravitava sopra la sventurata famiglia dei Cènci: poi
subito volse la mente a completare il concetto della difesa, che prontissimo
pensò aver trovato; incerto, è vero, e pericoloso, ma che a lui
parve unico da abbracciarsi. Peccato grave del Farinaccio fu ancora questo, che
tra per possedere percezione delle cose quanto altro mai veloce, e per la sopravvenienza
delle faccende le quali non gli concedevano tempo di approfondire i giudizii
accoglieva le prime idee che gli si presentavano alla mente, ed in quelle
ostinavasi. Quasi sempre, a vero dire, imbroccava del segno; ma se mai errava,
non ci era più rimedio; conciossiachè facendo seguitare subito la
idea dalla esecuzione, veniva a chiudersi la strada di tornare indietro.
Finalmente, come l'amen in fondo degli oremus, penso anche ai
ducati del Guerra. Avrebbe voluto non averli presi; ma ormai che presi gli
aveva, gli rinchiuse dentro lo scrigno; e subito dopo, pronto e fedele, si mise
in moto conducendosi ai palazzi dei cardinali Sforza e Barberini, i quali
trovò confortatori nell'assunta impresa, ed a sovvenirlo col proprio
credito dispostissimi. Con esso loro concertò il colloquio col cardinal
nepote Cinzio Passero, non menochè le cose opportune a toccarsi in
faccenda così dilicata; ed eglino, studiosi di giovare ai Cènci,
si offersero, come fecero, aspettare alla posta assegnata, dentro una carrozza
senza stemma, lo esito dello abboccamento, per agire poi con ispeditezza a
seconda dei casi.
*
* *
Il Luciani, il quale pel
fastidio dello attendere brontolava come mastino a catena, sentì
chiamarsi allo improvviso per nome; e levate le ciglia in alto, vide apparire
un camerario, che gli disse:
- Signor Giudice, sua Eminenza
vi dà commiato, e vi ordina per ora sospendere ogni procedura: in
seguito ordinerà.
E queste parole il camerario
gli disse superbamente, imperciocchè i servi per ordinario posseggano
l'odorato più sottile dei segugi per distinguere quando una persona
è in fiore, quando è matura, e quanto sta per cascare dalla
grazia del padrone. Il Luciani, offeso di quell'essere buttato là come
un trabiccolo a mezzo luglio, e più trafitto dal modo, guardò in
cagnesco il camerario, quasi gli volesse dire:
- Attendi a starmi lontano,
perchè se mi capiti fra le mani io ti farò vedere che mai cane mi
morse, ch'io non volessi del suo pelo.
Poi taciturno gli volse le
spalle, e se ne andò.
- Avete veduto qual
guardatura? - notò uno staffiere al camerario. - In verità voi
gli avete dimostrato troppo disprezzo.
- Dovevate dire ribrezzo: io
lo avrei volentieri gittate fuori di finestra come una mignatta, per empimento
di sangue resa inabile a succhiare.
- Avvertite non averla gittata
nel sale; imperciocchè allora, vomitato il sangue, torni a pungere
più acuta che mai.
* * *
I cardinali Barberini e Sforza
si presentarono in anticamera per riverire sua eminenza San Giorgio. In un
baleno erano annunziati, ed introdotti con un grande levare di berretta e
profondissimi inchini, dai quali alcuni cortigiani non si rilevarono neppure,
siccome avviene ai giunchi cresciuti in piaggia, che per lo assiduo soffiare
dei venti rimangono curvati. Poichè da una parte e dall'altra si furono
reiterate quattro volte e sei le cordiali accoglienze, e soprattutto sincere: e
poichè in diverse guise i cardinali visitatori ebbero accertato il
cardinale visitato essere venuti unicamente mossi dai desiderio di riverirlo,
questi, parendo avere sfogliato assai il carciofo, prese a tastarli,
così alla lontana, sopra le nuovità che correvano per Roma.
Allora i cardinali Sforza e Barberini, conoscendo dove il falco aveva a
cascare, intenti a tenerlo a loro agio sul vergone, si mostrarono ignari;
sicchè al Cinzio fu di mestieri favellare più aperto. Eglino
affettando di entrare a malincuore sopra un discorso che avevano concertato di
già, ed imparato a mente, ribadirono il chiodo già fitto dal
Farinaccio, aggiungendo parecchie altre invenzioni di loro, le quali, essi
dicevano, palesano come temerarii sieno i pubblici giudizii, e inducono la
necessità, pel decoro del pontificato, di smentirli solennemente; molto
più che correvano tempi calamitosi per la Chiesa, e gli Eretici, non
pure in Francia ma nella Italia eziandio, stavano al varco per accogliere ed
accreditare siffatte calunnie.
Molti furono i ragionari
tenuti in proposito infra cotesti porporati, che qui non importa referire.
Basti sapere che il Barberini e lo Sforza si destreggiarono in guisa, che
lasciarono il cardinal Passero pensoso, e persuaso della necessità di
dovere abbondare in larghezze intorno alla difesa dei Cènci;
conciossiachè da queste oggimai confidava raccogliere più largo
frutto, che non dalle asperità. Ne conferiva pertanto col Papa, che di
leggieri indusse nella medesima sentenza; e il Farinaccio, con mille carezze
blandito, ebbe la soddisfazione di sentirsi dire proprio dalla bocca dei
cardinali nepoti Pietro Aldobrandino e Cinzio Passero, che a riguardo suo
concedevasi quanto aveva supplicato. Da questo primo vantaggio il Farinaccio
ricavava ottimo augurio, e n'esultava. Maleaccorto! I nepoti del Papa vincevano
lui in iscaltrimento, quanto egli vinceva loro in ingegno.
Il Farinaccio, dopo aver reso
ad ambedue quelle grazie che seppe maggiori, si fece a trovare, senza frapporre
dimora, gli avvocati De Angelis ed Altieri, per indurli a comporre con esso lui
il collegio della difesa; e dopo qualche difficoltà li piegò ad
essergli compagni in tal causa, che si attirava gli sguardi non pur di Roma, ma
d'Italia. Nè a conseguire simile intento si era diretto il Farinaccio
senza ragioni potentissime, e queste erano: che oltre a possedere cotesti
avvocati pratica grande dei negozii criminali (siccome a noi posteri fanno fede
certi loro libri in numero più scarsi, ma in merito uguali a quelli del
Farinaccio) il De Angelis, come avvocato dei poveri, godeva di molto credito
fra il popolo; e l'Altieri, come personaggio di alto affare, era eccettissimo
ai nobili romani.
Nella conferenza collegiale il
Farinaccio espose il suo avviso, e parve a loro, come veramente egli era, pieno
di pericolo; ma egli con copia di ragioni ed efficacia di parola li persuase,
la congiuntura non offerirne altro migliore: doversi prendere questa causa a
trattare come i cerusichi i casi morti. Gli avvocati De Angelis ed Altieri,
compresa la gravità del negozio, si pentivano quasi dello impegno
assunto; e, potendolo fare onestamente, avrebbero volentieri tirato addietro la
parola, quando il Farinaccio leggiadramente gli rinfrancò dicendo: che
il cielo spettava alle aquile, e la terra ai lumbrichi; e che se fosse stata
causa vulgare non avrebbero avuto ricorso a loro, orgoglio e lume della Curia
Romana.
E questa era piaggeria così
patente, e soverchia, che pareva non dovesse essere atta a vincere cotesti
uomini, rotti alla pratica del mondo. E pure non fu così; se la bevvero
bravamente, disposti ormai di secondare il collega a tutta lor possa: e
ciò perchè, come altre volte notammo, uomini, pesci, ed uccelli
da Adamo in poi si chiappano con le medesime reti, e non se ne accorgono: ed
ormai penso che non sieno per accorgersene più.
Il Farinaccio pose fine a
tutte coteste faccende mentr'era la notte inoltrata, e veramente per quel giorno
egli aveva operato abbastanza: un altro se ne sarebbe andato a rifare le forze
col sonno; ma egli s'incamminò a trovare i suoi compagnacci, che lo
accolsero a braccia aperte, e il pensiero dei Cènci rimase annegato nel
giuoco e nel vino.
Ma alla dimane, appena il
Farinaccio ebbe aperti gli occhi trovò cotesto pensiero sul capezzale
del letto; e posto in disparte ogni altro affare, impegnò la sua cura
esclusiva alla causa dei Cènci. Abbigliatosi in fretta, si trovò
alle carceri di Corte Savella giusta in quel punto che ne aprivano le porte.
Il Farinaccio, familiare di
cotesti luoghi, non è a dire se incontrasse lieti aspetti; molto
più che, come prigione o come visitatore, da gran tempo aveva ammansito
i cerberi di quello inferno, e li teneva quotidianamente bene edificati. Per
ogni evento veniva munito di un permesso di monsignore Taverna governatore di
Roma, il quale esibì al soprastante, e questi ricusò (dopo averlo
sbirciato di traverso, e ottimamente riconosciuto) allegando che faceva troppa
stima del clarissimo signore avvocato per desiderare altra prova, che la sua
onorata parola. I notari gli mostrarono la procedura, che in breve conobbe;
prima, perchè si trattava di cose consuete in cui si era versato tutta
la sua vita; e poi perchè allora, più che ora, i processi
così criminali come civili, forte si assomigliavano alle ostriche
pescate a luna scema; di cui, gittati via i gusci, egli è bazza se
rimanga tanto da bagnarti la bocca. Sbrigatosi da questo travaglio, chiese di
conferire co' detenuti Giacomo e Bernardino Cènci, e Lucrezia Petroni,
la qual cosa gli venne prestamente concessa.
Beatrice nella sua carcere
solitaria, giacente in letto, non aveva membro che non le recasse acuto dolore,
e tuttavolta assai più le percuotevano la mente gli affanni del cuore.
Ella pensava al suo amante. Certo il destino gli aveva fulminati, e rotti in
due come una rupe: il mare gorgoglia vorticoso e bianco in mezzo allo scoglio
diviso, di cui le cime non si riuniranno più; e pure l'una sta di faccia
all'altra rammentando il mutuo infortunio, e porgendo testimonianza che la
natura le creò unite. La sua vita adesso mancava di scopo; ella era
diventata una esistenza invano: morisse, o vivesse, Guido non poteva più
stenderle la destra neanche per reggerla cadente giù nel precipizio, -
pensa un po' se per esserle sposo; - poichè così, piacque a Dio,
e così sia. I martirii, che innocentissima durava, davanle pegno che la
misericordia Divina la voleva salva, parendole che i suoi peccati potessero
essere scontati da quelli; e, se non era presumere troppo, teneva che ne
avanzassero; ma dove avesse dovuto soffrire anche di più, non le
incresceva per la eterna salute dell'anima sua. Tanto, tormento più
tormento meno, alle torture l'avevano assuefatta! Il dolore le si era attaccato
addosso come una seconda pelle! Di questa vita non parliamo più; - fumo
che ha fatto lacrimare, ed è passato; - non ne parliamo più:
ormai io sono fatta cittadina del sepolcro... Ma lui!... lui perdonerà
Dio? E perchè non lo perdonerà? Il Signore perdona sempre a cui
si pente di cuore. - Ma si pentirà egli? Egli non si pentirà,
perchè fermo in pari caso a ricominciare da capo... e questo è
certo; altrimenti egli non mi avrebbe amato; ed io nei piedi suoi avrei fatto,
e farei come lui. Ahimè! ahimè! O Signore, salvatemelo: dopo
tanto martirio su questa terra, almeno io possa rivederlo in paradiso, e
abbracciarlo, e stringergli la mano. La mano? Sì, perchè la
Provvidenza avrà tolto dalla mia memoria il sangue, che un dì
gliela bagnò... ma tutti questi dubbi mi fanno tremar l'anima, e provare
l'amarezza di una seconda morte... Oh! avessi qui un uomo santo che mi
chiarisse! - Se Dio nella sua bontà me lo mandasse, egli apporterebbe al
travagliato mio spirito maggiore consolazione, che il Luciani non diè
tormento a questo mio corpo...
- Signora Beatrice, -
interruppe la Virginia sporgendo il capo dall'uscio - il clarissimo signor
avvocato Prospero Farinaccio desidera conferire con voi.
- Con me? Che ho a fare io con
questo avvocato? Io non lo conosco. Basta! ne sono venuti tanti! Venga
anch'egli.
- E se voi dicevate,
senz'altri preamboli, l'avvocato Farinaccio, avvertiva alla Virginia Prospero
comparso in questo punto sopra la soglia della prigione, o non avreste
risparmiato tanto fiato per l'ora della vostra morte?
Il Farinaccio s'inoltrò
di alquanti passi nella stanza, poi soprastette alquanto maravigliando;
imperciocchè quantunque avesse udito favellare mirabili cose intorno
alla bellezza di Beatrice, ora gli pareva la fama troppo minore del vero. Cotesto
suo volto divino, adesso afflitto per gli spasimi che pativa, la sembianza
purissima atteggiata ad angoscia facevano parerla uno degli angioli, che
ministrarono al Redentore nelle ore della passione. La petulanza dell'avvocato
venne meno, e le subentrò un peritarsi insolito; ond'egli, muto, e
compreso da senso ineffabile di reverenza, si accostò al letto della
giacente.
- Che volete da me? -
incominciò ella con voce soave, avvegnadio si accorgesse, dopo alcuna
dimora, che il Farinaccio aveva smarrito la parola; ed egli allora a stento
rispose:
- Gentil donzella, io vengo
mosso dalle vostre sventure, e più assai dai preghi di tale, che piange
lacrime amarissime, e irrefrenate... tale, che voi a un punto aborrite forse,
ed amate... tale, insomma, che non fu mai tanto degno di essere vostro come
nello istante in cui vi perdeva per sempre... Il vostro cuore con i suoi
palpiti già vi avrà detto... già vedo che vi ha detto chi
sia quegli che mi manda...
- Egli? - E piange?
- Piange, e vi palesa ch'egli
morrà disperato dove voi non procuriate aiutarvi... Anzi, perchè
poniate in me confidenza assoluta ed intera... egli mi ha commesso che vi
mostri, e lasci questo anello.
Beatrice prese l'anello, e
tenendovi gli occhi fitti sopra riprese:
- Ed egli vi ha messo a parte
di tutto?
- Di tutto.
- Proprio di tutto? - E
siccome il Farinaccio assentiva vivacemente col capo, ella riprese: - E allora,
mio signore, che ne dite? Le mie nozze con lui non vi pare che assomiglino
quelle del Doge di Venezia, quando, gittato l'anello nel mare, egli sposava
l'abisso?
Il Farinaccio non rispose;
bensì, essendosi rimesso dalla commozione, pregò Beatrice a
volerlo ascoltare attentamente, chè la materia importava assai; e
proseguendo nel discorso le disse a parte a parte quanto noi conosciamo, e poi
le parlò dello stato in che si trovava il processo, e per ultimo
concluse: - Ora pei vostri e per voi, io, dopo averci meditato con quella
maturità che il negozio richiede, non vedo altra via di salute se non
questa una, ed è: che voi confessiate liberamente, vostro padre essere
caduto spento dalle vostre mani...
Beatrice lo interruppe con un
grido di sorpresa: ella lo guardava fisso come trasecolata. Se cotesto era
scherzo, il tempo, il luogo e la condizione sua lo rendevano crudele; - se
consiglio, e allora così lo pareva mostruosamente strano, che
pensò davvero, o ella o l'avvocato avere perduto il bene dello
intelletto. Il Farinaccio, dagli atti del sembiante argomentando la sua
stupefazione, soggiunse:
- Comprendo bene che deve
parervi singolare il mio consiglio, e non pertanto io mi chiamo parato a
chiarirvi sopra tutti i vostri dubbi.
- Ora come, interrogò
con voce alquanto alterata la Beatrice, dopo tanti tormenti sofferti per
salvare la mia bella fama, io da me stessa mi lacererò le viscere,
lasciando il mio nome argomento di orrore pei posteri, mentre io divisava
lasciarlo di compassione e di rammarico?
- Gentil donzella, soffrite in
pace ch'io vi dica cosa incredibile, e vera. Tutti credono che voi abbiate
ucciso colui, che ormai vostro padre non può chiamarsi senza oltraggio
della natura; alcuni ciò fanno per un fine loro particolare, e che a
parer mio consiste meno nell'odio ingiusto contro la persona vostra, che
nell'appetito disordinato della vostra sostanza: gli altri poi lo credono perchè
vi vogliono bene, e piace alla immaginativa loro considerarvi come donzella
mirabile, e vi salutano più virtuosa di Lucrezia, più forte di
Virginia. Il popolo vi ha posto prima in questa trinità di fortissime
donne romane, e la sua finzione adora: se alcuno tentasse di sgannarlo adesso,
oltre al non prestargli fede, lo detesterebbe; forse anche trascendendo sarebbe
capace usargli mal tratto, come quello a cui parrebbe essere privato del suo
patrimonio di gloria. Amore di popolo è amore di Giove, che per
soverchia ardenza incenerì Semele. Dove io su questa impugnativa
fondassi la difesa, perderei a un punto me stesso, e voi non salverei. Voi
pertanto negando non arriverete a persuadere nessuno che vi asteneste, dalla
strage paterna, nè preserverete i giorni vostri nè di colui, che
per amarvi altamente vi perdeva; dacchè i giudici considerino le prove
raccolte in processo sufficientissime alla vostra condanna come parricida, e la
pratica dei nostri tribunali conceda facultà, attesa la confessione dei
complici, di sottoporre il prevenuto impugnante allo esperimento della tortura
finchè morte ne segua.
- Amen; e parmi che a
tale mi abbiano condotto, che ormai poco più è il cammino che mi
avanza. Non è poi così doloroso il morire, come per avventura si
crede dagli uomini: posso assicurarvene io; io, a cui davvero parve toccare le
porte della Eternità, - e più di una volta.
- No, povera signora, voi non
dovete morire; ed avvertite, il proponimento vostro, estimato magnanimo presso
i gentili, nella religione cristiana è peccaminoso; imperciocchè
offenda Dio tanto colui che porta le mani violente contra se, quanto l'altro il
quale potendo salvare la sua vita non si aiuta.
- Ed io consentirò a
vivere, e a vedere abbrividire i padri al mio appressarsi! Ed io mi affannerò
a vivere per vedere la gente, curiosa insieme e impaurita, appuntare gli occhi
sopra la mia fronte come se vi fosse scritta la parola «parricida!» Ah! no. -
Così piacesse a Dio farmi scomparire intera da questa terra, e sperderne
perfino la memoria!
- Ma che pensate voi dalla
opinione di avere trafitto vostro padre ve ne sia venuto odio, o ribrezzo? Se
così ritenete, voi v'ingannate. Quando mai, finchè gli uomini
avranno un cuore che palpita al nome di virtù, terranno a vile, o piuttosto
non leveranno a cielo la castissima donzella, che, per amore della pudicizia
diventata eroina, la difese con atto pietosamente crudele? Quanto più
stretto il vincolo tanto era la ingiuria maggiore, e sovveniva più
legittimo il diritto di resistere. Volgete la mente alle antiche e alle moderne
storie, e guardate un po' voi se infami si reputassero o scellerati i
figliuoli, i quali per giusta vendetta trucidarono i propri genitori. Valgami
lo esempio di Oreste: vedete; comecchè la offesa ch'ei vendicava troppo
differisse dalla vostra, nè le circostanze fossero uguali, uccidendo
egli la madre dopo molti anni che la strage di Agamennone era avvenuta, non
già per salvarsi da imminente, e in altra guisa non riparabile danno,
tuttavolta la sapienza antica immaginò che la stessa Minerva scendesse
dal cielo, ed invisibile gittasse nell'urna il voto, il quale, troncando le
dubbiose ambagi dei giudici, lo proclamò innocente.
- Dite, signore, e voi, dopo
il giudizio di Minerva, avreste data la vostra figliuola in isposa ad Oreste? -
Parlatemi in coscienza... talenterebbero a voi le nozze di un vostro figlio con
nuora parricida?
- La mia risposta non
può satisfare questa domanda, avvegnadio io sappia il vostro caso
diverso; e, come a me, confido in breve sarà chiarito anche altrui. La
giustizia non è frutto di tutti i tempi; dovrebbe essere, ma non
è; e la verità nemmeno; entrambi hanno bisogno di fiorire, e
maturare; e chi le coglie acerbe nuoce a loro ed a se. In tempo opportuno le
genti maravigliate sapranno come una donzella sedicenne, dopo avere sofferto
tormenti a cui pazienza nè forza umana avevano potuto durare fin
lì, per amore della propria famiglia non rifuggisse di porre in
compromesso e la vita e la fama. Io per me, quantunque volte me faccio a
ripensarci sopra, non trovo persona che abbia fatto di se così solenne
sagrifizio, e che ne abbia ricavato, non dirò lode, bensì
venerazione affettuosa, se togli questa una; ma egli era Dio, non uomo.
E così favellando
stacca da capo del letto della Beatrice una immagine di Gesù crocifisso,
e, gittatala sopra la coperta, prosegue: «Egli, troppo più che le mie
parole, col suo silenzio v'insegna, sagrifizio che sia; - egli per la
redenzione di coloro che lo avevano offeso, lo offendevano, e l'offenderebbero
accettò lo indegno patibolo; - egli oppose alla giustizia eterna un
riscatto eterno col suo sangue prezioso, - battesimo perenne che ci scorre sul
capo come lavacro di peccato senza fine rinascente...»
- Sì, ma Cristo non
moriva mica infame!...
- E chi fu dunque più
vilipeso di lui? Chi più di lui saturarono di vituperio e d'ignominia? A
lui nella grazia del supplizio anteposero Barabba ladro; a lui sul patibolo
dettero compagni Cisma e Disma ladri: egli poi ottimamente conosceva questo, e
se lo aveva presagito, secondochè apparisce nello Evangelo, là
dove dice: «Per cagione mia voi verrete in abbominazione alle genti; ma voi
prendete la mia croce, e seguitemi: chi si vergogna di me, di me non è
degno».
- Ed io dovrei prendere questo
Dio di verità in testimonio di menzogna?
- Deh! ciò non vi
trattenga punto; dacchè, innanzi tratto, è cosa contro natura
costringere l'accusato a prestare gìuramento, ponendolo nella
necessità o di spergiurare, o di nuocersi; - ma ciò pongo in
disparte. - Come, dico io, lice per legge divina difendere la propria vita
togliendola altrui, e non avremo facoltà di difenderla affermando il
falso per fine santissimo? Forse l'omicidio non supera lo spergiuro? Certo lo
supera: e fossero uguali; se col primo si concede, per universale consenso,
tutelare la vita, per qual ragione non hassi a potere col secondo?
- Signor Avvocato, voi mi
confondete, ma non mi convincete: la mia mente non basta a confutarvi...
però io... qui... dentro al cuore, sento che la verità non
è dalla parte vostra.
Non aveva peranche terminato
di profferire queste parole, che l'uscio del carcere si aperse di nuovo; e
quinci affacciandosi le sembianze dolenti della matrigna e dei fratelli, le si
schierarono intorno del letto. Essi non fecero motto, anzi neppure un atto, e
non pertanto da tutta la persona emanava la preghiera; - uno scongiuro muto -
un pianto del cuore, che le orecchie non raccolgono, ma l'anima tremando sente.
Ormai l'avvocato aveva
esaurita la sua eloquenza; più altre parole anzichè giovare
avriano nociuto, ed ei sel conosceva; onde se ne stava disperato di potere
riuscire nello intento. Il silenzio si produsse lungo, durante il quale
Beatrice tenne sempre fissi gli occhi nel Cristo rimasto sopra la coperta. Allo
improvviso recatasi in mano cotesta immagine, e baciatala fervorosamente, con
voce lugubre, come se recitasse il salmo dei morti, favellò:
- Poichè a voi
così piace, e così sia. Tu, o Signore, queste cose vedi, ed
ascolti; se sono empie perdonale, perchè fatte a fine di bene; se buone,
retribuiscile come meritano. In quanto a me, io so che pei disperati non vi ha
salute oltre quella di non sperare salute. - Il fato, che ci costringe,
cesserà i suoi colpi sopra la lapide dei nostri sepolcri: - egli
volgerà altrove i suoi passi quando avrà letto sul marmo: «Qui
giacciono tutti i Cènci decapitati pei loro delitti». Però a
cagione del mio convincimento io non voglio togliervi l'ultimo raggio della
speranza; e poichè pei morenti è supremo refrigerio bevere col
guardo la fuggente luce, così non parmi essere vittima affatto inutile.
Se io potessi soffrire per tutti voi, ed essere accolta in espiazione, o
piuttosto per placare l'acerbo destino che perseguita la nostra famiglia, lo
avrei fatto; non lo potendo, ecco io mi sagrifico inutilmente: di questo poi ho
voluto ammonirvi, per pietà del dolore che risentireste tornando a
precipitare in fondo della disperazione...
La finestra male assicurata
cedendo in quel punto al vento, che soffiava in cotesto giorno impetuoso, si
aperse, e il lume che ardeva davanti la immagine della Madonna rimase spento.
Beatrice, per questo caso nè più, nè meno mesta di prima,
mormorò due versi del Petrarca, adattandoli al suo stato:
Siccome fiamma, che per forza
è spenta, Se ne andò in pace l'anima contenta.
Il Farinaccio a blandire il
lugubre presentimento si attentò insinuare alcune parole di speranza, ma
gli spirarono sopra le labbra. I Cènci piangevano, e Prospero anch'egli
si trovò la faccia inondata di lacrime: egli con ambedue le mani
sì coperse gli occhi, e, declinato il capo sopra il letto, si pose a pensare
profondamente se lo sovvenisse partito meno periglioso del disegnato per
salvare cotesti miseri, e non lo trovando gemeva. Premendolo altre cure, con
muti saluti si accomiatò da loro; e l'anima sua, quasi baldanzosa quando
entrò in carcere, ora tremava per non mai più sentito sgomento.
- Or via, che cosa vi è
riuscito ottenere da quella dura cervice? - domandò il Luciani al
Farinaccio, in aria di scherno.
- Andate, rispose il
Farinaccio abbattuto; ella confessa - per necessità di difesa - avere
dovuto uccidere Francesco Cènci.
- Davvero? - Caspita! Ma voi
operate miracoli, signor Avvocato meritissimo. Se voi consentite a rimanere in
corte, in verità di Dio io brucio tutti gli arnesi della tortura
ordinaria e straordinaria.
E il Farinaccio, a cui increbbe
nell'anima la gioia di cotesto malnato, quasi rimproverando rispose:
- Signor Presidente,
ricordatevi che i Greci (ed erano pagani) quando riportavano qualche vittoria
contro ai Greci, invece di esultare, ordinavano pubbliche espiazioni.
- Oh! voi siete un solenne
letterato, che ve la camminate per la maggiore; io poi, che vado per le vie
più trite, so che i contadini regalano le uova al cacciatore che ha
ammazzato la volpe. M'era dunque apposto dirittamente io? - Eh! con me non si
canzona; e quel visino di ave maria non mi aveva punto ingannato. Cara
di angel, coraçon de demonio, come dice lo spagnuolo.
E l'altro, in balìa di
uno entusiasmo tanto più fervente in lui quanto più rado, tolse
per un braccio il Luciani, e, trattolo al balcone, gli mostrò il sole
splendido nella pienezza dei suoi raggi, e sì gli disse:
- Se voi poteste staccare
cotesti raggi di lassù, e comporne una corona, voi non fareste cosa
abbastanza degna della virtù di cotesta divina donzella.
Il Luciani non aveva punto
fissato il sole, bensì il volto del Farinaccio; ed ora, tentennando la
testa, in aria grave discorreva:
- Avvocato mio, io considero
cotesta maliarda con occhi troppo diversi dai vostri; e ciò per due
ragioni, una migliore dell'altra: la prima è questa... ( - e qui cavatosi
il berretto mostrò la chioma rara, e canuta - ) la seconda è
quest'altra... ( - ed apertosi il giustacuore gli fece vedere un sacchetto
sospeso al collo, contenente gli esorcismi contro le stregonerie - ).
Il Farinaccio raffreddandosi
pensò, che gittare le perle davanti a costui egli era proprio un far
contro alla legge dello Evangelo; onde, per riparare al tempo perduto, si
restrinse a raccomandargli presto presto di ricevere la confessione della
fanciulla tale e quale gli sarebbe stata dettata da lei, e si allontanò.
Il Luciani, poichè ebbe
tentato invano di far comparire Beatrice davanti al suo tribunale, si
recò in compagnia dei colleghi e notari al carcere della desolata, e ne
raccolse lo esame; col quale, scolpando in tutto e per tutto la matrigna ed i
fratelli, ella attirava sopra di se il misfatto, dichiarando come nulla avesse
in se di premeditato, sibbene avvenisse per moto improvviso dell'animo,
commosso dalla immanità dello attentato paterno: e, sostituendo se a
Guido Guerra, narrò le particolarità del fatto presso a poco nel
modo col quale era accaduto.
Alla domanda del Luciani sul
come si fosse provvista del pugnale, esitò alquanto imbarazzata; poi
rispose costumare da gran tempo portarlo addosso, nella intenzione di uccidersi
prima di patire violenza; ma insistendo il Luciani si contradisse, ed è
verosimile; che se costui si fosse industriato a trovare la verità che
aborriva, come rimase pago del falso che gli piaceva, la Beatrice non avrebbe
potuto sostenere la favola suggerita. Tale non essendo lo scopo del Luciani, ei
bevve grosso, e reputò inutile investigare più oltre,
dacchè il raccolto a parere suo era più che sufficiente per
mandare a morte tutta la famiglia Cènci, giusta l'obbligo assunto. Nella
esultanza di vedere quanto prima giustiziati tutti i Cènci, il Luciani
obliò, o per lo meno fece tregua con l'odio che portava al Cardinale di
San Giorgio; e, prese le carte processali, s'incamminò al palazzo di sua
Eminenza, come la fiera porta la preda nella caverna per divorarsela in
famiglia. - Entrato nella stanza di lui non aspettò di esserne
richiesto; ma ferocemente palpitando,
- Abbiamo, disse,... abbiamo
la sospirata confessione! Habemus pontificem.
Il cardinale Cinzio
contemplando quanta parte di cane presentasse la faccia del presidente Luciani,
trascorse col pensiero a certe immagini di selvaggi cannibali mandategli a
donare dall'America, e si ritrasse involontariamente due o tre passi indietro.
Però, come colui che di
ottima mente era, presa cognizione del processo conobbe subito la inverosimiglianza
dei deposti, e la contrarietà delle circostanze: espresse anche il
dubbio che i difensori non disfacessero cotesto edifizio mal connesso, come al
rompere della olla incantata vanno in fumo le stregonerie dei negromanti. Ma
qui accorreva pronto il Luciani a sciogliere ogni dubbio, avvertendo che le
circostanze particolari dovevano trascurarsi; una cosa aversi a ritenere
unicamente, e questa essere la confessione degli accusati di aver preso parte
al delitto o consentendolo, o commettendolo; riuscire impossibile in
qualsivoglia processo accordare tutte le contradizioni e bugie, mediante le
quali i colpevoli s'industriano sottrarsi alla vendetta della giustizia: non
bisogna in queste faccende andare ricercando il nodo al giunco; e quando, come
ora, il misfatto è patente, e confessato da tutti, non essere punto di
mestieri processi, e nè tampoco difese, come la gloriosa memoria di
Sisto V ammaestrava allorchè, nel caso dello spagnuolo, disse: «Che
processi, e non processi? In simili congiunture i processi sono superflui, e
molto meno abbisognano le difese; tuttavolta arringate quanto volete,
purchè costui sia impiccato prima di desinare; ed attendete a sbrigarvi
perchè stamane abbiamo fame, e vogliamo desinare di buona ora»([166]). Questa si chiama
giustizia! Questo è parlar di oro! Io vorrei vedere un po' se a Papa
Clemente non debba riuscire quello che a Papa Sisto riusciva, e molto mi
piacerebbe guardare in viso chiunque volesse contrastargliene il diritto. Forse
le chiavi della Chiesa, da Sisto in poi, si sono arrugginite? O le mani a cui
le confidava adesso la Provvidenza sono diventate più fiacche? No, viva
Dio; e come non è, così nessuno deve crederlo; e il fatto ha da
chiarire chi lo si pensa, e subito.
Il cardinale Cinzio non aveva
bisogno di eccitamento; e poichè la trista dicacità del Luciani
lusingava la sua passione, a lui parve che il nuovo presidente non avesse
favellato mai con tanto senno, nè con maggiore eloquenza.
Questi successi di tanto non
avevano potuto tenersi celati, che non ne corresse velocissima la fama per
tutta Roma; di modo che il popolo se ne mostrava commosso stupendamente, e su
per le piazze e pei crocicchi delle vie si vedevano i capannelli, e si udiva un
domandare ansioso fra le persone che s'incontravano; dagli sporti delle
officine di tratto in tratto sbucavano genti per ottenerne novelle; le donne
stavano fitte al balcone con l'orecchio all'erta per raccogliere ogni
più lieve sussurro. Io penso che con agonìa punto minore di
quella con la quale gli Ebrei stavano intenti alla cima del monte Sinai pure
aspettando la parola di Dio, i Romani tenessero in questi giorni l'animo volto
al Vaticano in attenzione della parola, che doveva decidere il destino dei
Cènci; - e questa parola si fece sentire in mezzo alla caligine precorsa
da un lampo vermiglio, annunzio di sangue:
«Sieno legati tutti alla coda
di cavalli indomati; strascinati finchè morte ne segua; i cadaveri poi
gittati nel Tevere!»
Così aveva parlato il
Vicario di Cristo Redentore. Scorse per le ossa dei romani il raccapriccio.
Parve loro udire lo squillo della campana, che suonasse pei funerali di Roma.
Molti recusavano fede a tale inaudita immanità; altri poi, e fra questi
coloro che avevano pratica della corte e della spietata cupidità che la
governava, riputavano il Papa capace di questo, e di altro ancora.
La fama pervenne agli orecchi
del Farinaccio, e palpitando cadde nella opinione degli ultimi; onde corse
smanioso a conferirne co' cardinali protettori, e questi con altri del sacro
collegio, i quali comecchè in questo negozio procedessero indifferenti,
tuttavolta vennero di leggieri nel concetto essere il comando papale
esorbitanza enormissima, e tale, da disgradarne quanto di più barbaro
avesse mai osato quel duro frate di Sisto V. In vero, comecchè nove soli
anni corressero dalla morte di cotesto pontefice, i tempi eransi di alcun poco
scrudeliti, nè gli stessi Ecclesiastici andassero persuasi del bene, che
taluni predicavano avere costui procacciato alla Chiesa. Comunemente sapevasi,
che della lettera indiritta da Sisto a Enrico III re di Francia, dove
occorrevano queste precise espressioni «attendesse a purgare col ferro e col
fuoco il sangue incancherito nelle vene dei suoi sudditi»([167]) n'erano rimasti
scandalizzati così i Cattolici come i Protestanti; anzi gli Ugonotti
avevano avuto ardimento di dire a viso aperto del re Enrico «che il Papa, dopo
avere messo su macello di carne umana a Roma, pretendeva aprirne un altro a
Parigi; essere i consigli del Vicario di Gesù Redentore iniqui in Roma,
scellerati da per tutto. Tale operando, e tale consigliando, come presumeva
costui chiamarsi rappresentante di Dio in terra, se di averlo tale si sarebbe
vergognato anche il diavolo?»([168])
Però i cardinali gravi,
cui stava a cuore la decenza del seggio apostolico, s'incamminavano al Vaticano
per distorre il Papa da cotesto avventato provvedimento. Il Farinaccio, cui
pareva essere stato giuntato, corse per altra parte a trovare il cardinale
Cinzio; e siccome gli fu detto dagli staffieri ch'egli era andato a complire
l'Ambasciatore di Spagna, rispose gittandosi sopra una cassapanca
dell'anticamera:
- Aspetterò. - E
all'atto parve, che senza mutar costa vi volesse passare la nottata; ma indi a
breve, agitato dallo interno turbamento si alzò, e si pose a passeggiare
gestendo, e brontolando. Sovente egli guardava con ansietà la porta, e
più spesso asciugavasi il sudore, che copioso gli bagnava la faccia per
la fatica, e per la pena dello inopinato accidente.
Forse tornò, forse non
era vero che il cardinale fosse uscito, dacchè io sappia come nei servi
in generale, ed ho inteso dire in quelli dei prelati romani in particolare, la
bugia è la regola, e la verità la eccezione. Fatto sta, che dopo
spazio convenevole di tempo, - quanto bastasse a far supporre verosimile il
ritorno del cardinale, - avvisarono il Farinaccio che poteva passare. Egli non
se lo lasciò dire due volte; ed affrettandosi concitato trovò sua
Eminenza seduta e tranquilla in vista, come se ricevesse un uomo nuovo.
Però gli fu forza abbandonare presto cotesta finta impassibilità,
avvegnadio il Farinaccio, tremando di commozione, andatogli incontro
audacemente, postergato ogni rispetto, gli favellasse:
- Dunque cosiffatta è,
Eminentissimo, la fede sacerdotale?...
Il Cardinale, argomentando
dallo esordio la perorazione, gli troncava la parola con suono contenuto, ma
turbato:
- Signor Prospero, io potrei
dirvi che la promessa della difesa fu da me fatta sub modo; vale a dire,
che la confessione degli accusati non uscisse così limpida ed esplicita
da rendere qualsivoglia difesa superflua: ancora potrei dirvi onorare io (e non
sono il solo a pensare così, ma altri troppo a me superiore professa
questa opinione) quei pellegrini intelletti, che, come fiaccole inviate da Dio
a illuminarci nelle tenebre del dubbio e dello errore, vengono a incamminarci
su la via della rettitudine; ma per altra parte io ed i miei superiori
disprezzare altamente gli avvocati, i quali, abusando dello intelletto che
certo non sortirono per questo, torcono co' loro sofismi quello ch'è
diritto, rendono, cavillando, imbrogliato quello ch'è piano; intorbidano
le acque chiare per pescarvi...
- E vi par chiara, Eminenza,
la prova del delitto? Da quando in qua della confessione complessa si accetta
la parte che dichiara la colpa, e si respinge quell'altra che la giustifica?
Insidie...
- Ma io, signor Prospero,
tutto questo non voglio dirvi; solo mi piace, e giova dichiararvi quello che
già avrebbe dovuto farvi conoscere la esimia perspicacia vostra. La mia
promessa fu data, e non poteva essere altramente, sub conditione che il
Papa acconsentisse: questa condizione, e voi siete per insegnarmelo, nel
placito dello inferiore, di cui la volontà è sottoposta,
comecchè non espressa devesi sempre intendere compresa virtualmente. Ora
se il sommo Pontefice, fonte di tutta sapienza. e mio signore e vostro,
trovò buono non approvare il mio operato, con quanta giustizia voi, per
ciò che mi sembra, vogliate lamentarvene, lascio considerarlo a voi nel
savissimo vostro intendimento.
- Nacqui in Roma, crebbi nella
curia romana, e voi dovete capire, Eminentissimi, che tutti questi ripieghi
tornano affatto inutili per me: - io li conosco. Voi prometteste; e se non
eravate da tanto da mantenere, non vi dovevate esporre. Ma no; voi prometteste,
e dovete, e potete mantenere. Forse non sa il mondo intero voi essere mente dei
consigli pontificali, voi l'Augusto zio preferire al cardinale Aldobrandino, a
voi, nepote benemerito, nulla ricusare egli amantissimo? Io ottenni la
confessione a patto della difesa, confidando sopra certi argomenti, che or
conosco a prova quanto fossero infelici! Diasi, supplico, la difesa agli
accusati; altrimenti, sapete che cosa si dirà per Roma? Che furono
traditi gl'innocenti, e che nella capitale del mondo cattolico Giuda ha un
compagno...
- Signor Prospero, e voi?...
- Ed io sono quegli.
- La vostra mente, signor
Avocato, parmi accesa oltre al consueto: - calmatevi... questa esaltazione vi
potrebbe nuocere... calmatevi.
Il Farinaccio non era in
istato di sentire il consiglio, e nè la minaccia obliqua compresa in
coteste parole; o, se pure la sentì, e' fu come sprone a cavallo
sfrenato: per la qual cosa, bollente di sdegno e tutto avvampato nel volto,
proseguì:
- E come potrò calmarmi
io? I tempi, e la corruzione universale mi spinsero nel sentiero dei piaceri
sregolati, ch'io percorsi senza decoro, è vero, ma anche senza
viltà; e qui nel petto serbai sacro un luogo dove si fa sentire la voce
di Dio, che mi comanda palesarvi innocenti la Petroni e i Cènci: la
signora Beatrice, innocentissima, confessa a istanza mia, per le supplicazioni
dei suoi, ed in virtù del medesimo amore, che persuase a Cristo
sagrificarsi pel genere umano. Nonostante la confessione della strage dello
scellerato, che la natura stessa si vergogna a chiamar padre, io confido che
nessun giudice cristiano vorrà condannare la figlia che salva
valorosamente la sua onestà. Dove io non ottenga questo, io... io stesso
le ho posto la testa sul ceppo; - su le mie vesti, signor Cardinale, su le mie
mani, se io non riesco, si scorgerà indelebile il sangue innocente;
quindi per me non più quiete, nè pace; nè potrò
piangere tanto che basti, per mondarmi da! rimorso... ed io vi giuro su questo
santo messale, che in espiazione del mio non volontario delitto io
vestirò il saio del pellegrino, e dalla Estremadura fino in Palestina,
da Gerusalemme al Loreto non lascerò dietro a me città, villa, o
casale, dove io non abbia predicato la innocenza della famiglia Cènci, e
il deplorabile errore di cui ella cadde vittima.
- Calmatevi, signor Prospero.
Voi mettete troppo calore in questo negozio; concedete ch'io ve lo dica. Voi
non potete ignorare quale alto concetto si abbia in corte di voi, e quanto ci
torni grato compiacervi, potendo. Questo in segretezza vi confido, che Sua
Santità non ha trasmesso ancora verun comandamento al Governatore di Roma
per la esecuzione della sentenza. Procurerò frattanto di favellargli, e
la supplicherò umilmente a concedere che la difesa abbia luogo,
facendole conoscere essere in ciò impegnata la mia parola. Andate, e
state sicuro di questo, che non sarà mossa foglia senza previo vostro
avviso. - Ora, come amorevole vostro, mi sia permesso avvertirvi, che essendo
da molto tempo fermo in corte di promuovere la persona vostra a carica
cospicua, e giovarci dei preclari vostri talenti in benefizio dello stato, voi
non veniate a rompere il disegno con le vostre mani, - troncandovi la via per
salire; e nel tempo stesso con modi e parole imprudenti non facciate ricordare
certe faccende poste a mezzo in oblìo, e così fabbricarvi con le
vostre mani il precipizio in cui potreste rovinare. In breve avrò gusto
di rivedervi.
E si divisero.
Veramente le parole del
cardinale dettero un po' da pensare al Farinaccio; ma scotendo la testa, le
cacciò via come si costuma dei fiocchi di neve posati sopra i capelli; e
procedendo infaticabilmente nello assunto impegno, radunò i colleghi ed
espose loro il minacciato tradimento, eccitandoli di presentarsi al papa per
far vive le proprie ragioni. A vero dire non ebbe a spendere troppe parole per
renderseli parziali; imperciocchè nei varii componenti un collegio
vediamo prevalere sempre l'amore del corpo; e gli avvocati Altieri e De
Angelis, quantunque di natura dimessa, procedevano tenerissimi delle cose
giuste: incapaci certo a sopportare il martirio, ma neppur tali da disertare,
senza risentita protesta, la causa del diritto. Convennero pertanto di condursi
al Vaticano; e poichè correva notizia che il papa ricusasse ammettere al
suo cospetto chiunque fosse andato a tenergli proposito dei Cènci,
statuirono che si presentasse il De Angelis come avvocato dei poveri, sperando
che il pontefice, ignaro della parte che aveva assunto nella difesa dei
Cènci, lo accoglierebbe; e allora, colto il destro, lo avrebbero
seguitato i colleghi, e, genuflessi tutti ai piedi di Sua Santità, con
gli argomenti che l'occasione avesse persuaso migliori si sarebbero industriati
a farsi confermare la grazia della difesa, già conceduta dal suo nepote
cardinale di San Giorgio.
E come ebbero concertato,
così fecero. Andando al Vaticano essi videro tornare indietro le carrozze
dei principali prelati e baroni romani. Aguzzando gli sguardi taluni
scòrsero nelle sembianze disfatti, tali altri gestivano concitati, e
pareva eziandio che favellassero veementi parole; sennonchè la
lontananza impediva loro di raccoglierne il senso. Malo augurio era quello.
Fatti più cauti dalla necessità divisarono presentarsi
nell'anticamera separati, e confondersi nella folla di coloro che aspettavano
essere ammessi alla udienza; allontanando perfino il sospetto, che gli muovesse
un comune negozio. Riuscì a bene il partito: annunziato il De Angelis,
ottenne licenza di presentarsi; ed aperta dal camerario la porta per lui,
l'Altieri e il Farinaccio, prima ch'egli si riavesse dalla sorpresa, lo
seguitarono, e tutti insieme in diversi atteggiamenti s'inginocchiarono davanti
al pontefice; il quale, cruccioso corrugando la fronte e stringendo i
sopraccigli, interrogò con voce velata:
- Ch'è questo? - Che
cosa vogliono da me le signorie loro illustrissime?
- Santità, rispose il
De Angelis levando supplichevoli le mani, noi non ci alzeremo dai vostri
beatissimi piedi se prima non ci venga confermata la grazia, già
promessa dallo Eminentissimo di San Giorgio, di potere difendere la causa di
quei meschini dei Cènci.
Clemente VIII violentato, per
così dire, contro ogni sua previsione, dissimulava la collera che gli
bolliva nelle viscere: solo, con voce anche più velata, favellò:
- Dunque noi serbava la
Provvidenza a contemplare come in Roma non pure trovinsi scellerati che
ammazzino il proprio padre, ma avvocati altresì, i quali non rifuggano
dalla difesa dei parricidi?
Il De Angelis sbigottito
lasciò cadersi giù le braccia, non osando riaprire la bocca. Lo
Altieri, cui parvero, come veramente erano, strane le parole del papa, stava
per dargli convenevole risposta; quando lo prevenne il Farinaccio, che ardito e
franco così incominciò a dire:
- Beatissimo Padre, è
nuovo udire da cui fu orgoglio e lume della curia Romana salutati i difensori
come campioni del delitto. Noi non venimmo qui per difendere parricidi, ma ci
siamo venuti per supplicare il mantenimento di una promessa, ch'è sacra;
però che noi confidiamo potere, mercè la difesa, dimostrare come
taluno degli accusati sia innocenti, tale altro scusabile; tutti poi meritevoli
della commiserazione di vostra santità. Voi, Beatissimo Padre, li
reputate colpevoli, e noi c'inchiniamo davanti la vostra convinzione; noi li
teniamo innocenti, e chiediamo, come di diritto, sia rispettata la nostra; -
conciossiachè la voce della coscienza ci venga da Dio, e nelle bilance dell'Eterno
pesino tutte ugualmente le coscienze degli uomini.
Il Farinaccio pronunziava
coteste parole con modo solenne; sicchè, comunque genuflesso col corpo,
per virtù dell'anima pareva che, seduto egli nella cattedra dello
Apostolo di Cristo, ragionasse col papa umiliato per terra. Il Papa rimase
percosso; nè gli sovvenendo in quel punto altro partito alla mente,
quasi per acquistar tempo, rispose:
- Alzatevi! - Poi, levati gli
occhi sospettosi sul Farinaccio lo fissò uno istante, e gli
domandò:
- E voi siete il signore
avvocato Prespero Farinaccio?
- Sono Prospero Farinaccio,
indegnissimo figlio e suddito di vostra santità.
- E sua eminenza il cardinale
San Giorgio ha veramente promesso a voi la grazia della difesa dei
Cènci?
- A me, Beatissimo Padre.
- Il cardinale San Giorgio
manterrà quanto ha promesso. Andate in pace.
La voce del pontefice per
essere velata non suonava meno minacciosa, come tuono, che per venire di
lontano non cessa di annunziare la tempesta; per la quale considerazione
l'Altieri, dubbioso di essersi pregiudicato nella estimativa di lui, appena i
suoi colleghi ebbero varcato la soglia della porta, che, tornato addietro, si
gettò di nuovo in ginocchioni davanti al papa, e gli disse:
- Beatissimo Padre, degnate
aver mente che essendo ascritto ancora io al collegio degli avvocati dei
poveri, non poteva in veruna maniera negare il ministero della difesa a
chiunque me ne avesse richiesto.
Ma il Papa, simulatore e
dissimulatore solennissimo, avendo ormai recuperato intera la sua
impassibilità, rispose mansueto, e soave:
- Noi non ci siamo
maravigliati di voi, ma degli altri; - però, ripensandovi sopra, ho
conosciuto come sieno anch'essi uomini valorosi, e zelatori del nobile loro
ministero.
Quando l'Altieri raggiunse i
suoi colleghi gli trovò stretti alla vita del cardinal Passero, che
avevano incontrato per via, ed abbordandolo senza cerimonie gli dicevano:
tornare da conferire con Sua Santità; avere ricavato da segni non dubbii
la sua ottima mente; volere che Sua Eminenza, se aveva dato parola, che la
mantenesse. Andasse egli pertanto, il benefizio compisse; eglino starebbero in
anticamera ad aspettare lo esito del colloquio.
- Non sembra che voi pecchiate
di troppa confidenza? notò il Cardinale al Farinaccio ghignandogli d'un
suo sorriso alla trista.
- More romano,
Eminenza, more romano. Gli antichi nostri chiamarono il pegno da pugno,
non si reputando sicuri se non tenevano la guarentia nelle mani; e nè
manco fidavansi a citazioni, bensì strascinavano il testimonio in
giudizio per le orecchia.
Il Cardinale aggrinzò
vie più le gote, e stese le labbra; ed inchinata alquanto la persona,
entrò nella stanza del papa. Colà rimase quanto gli parve
persuadergli la decenza, e poi ne uscì fingendo allegrezza grandissima
per avere, in virtù delle umili sue supplicazioni, ottenuto dal sommo
gerarca facoltà che la promessa data da lui si osservasse, e la proroga
di giorni venticinque, affinchè i signori avvocati con tutto comodo alle
difese si apparecchiassero.
CAPITOLO XXV.
IL GIUDIZIO.
Leo rugiens, ursus esuriens, princeps impius
super populum pauperem.... multos opprimet
per calumniam.
Prov.
C. 28. v. 15.
Aperta è
la gran sala ove le sorti
Fur decise dei
re, quando ancor Roma
Fu astuta, se
non forte.
Anfossi, Beatrice Cènci.
Questa è la sala che
vede i dipinti di Raffaello, ed ascolta le consulte dei sacerdoti: - questa
è la sala dove si discussero, e sovente ancora si decisero, i destini
dei Re del mondo; però che la forza, prima di spengersi, consegnasse la
fiaccola all'astutezza, siccome i servi costumavano fare nei giuochi lupercali;
e questa si affrettò a mettere in fiamma i quattro canti della terra.
Quando i popoli, rotte ad una
ad una le penne della grande aquila che ecclissava il sole della
libertà, sperarono de riscaldarsi ai raggi de quello, ecco altre ombre
si posero fra mezzo all'uomo e alla libertà, e le mandavano le chiavi di
San Pietro - il pescatore ebreo. - Ma la forza si consuma, e l'astutezza
altresì; e se il pomo del brando romano non giunse a conficcare il
chiodo alla ruota della fortuna, molto meno poteva farlo il pastorale del
chierico. La vendetta rode di nascosto, ma inevitabilmente, a guisa di vena di
acque sotterranee, la forza. Dietro un tronco di albero, dietro l'ara di un
nume, da per tutto e sempre tiene teso l'arco, e presto o tardi saetterà
il tendine d'Achille; ma la frode si logora coll'uso delle sue stesse malizie,
come l'orologio a polvere si vuota lasciando cadere i grani della sabbia che
misurano il tempo.
*
* *
Il Papa siede sublime sopra il
capo di tutti, sotto un baldacchino di velluto cremisi ornato di frange di oro.
Sceso un gradino, gli seggono sopra sgabelli attorno quattro cardinali: da un
lato Cinzio Passero cardinale di San Giorgio, nepote per parte della sorella
Giulia, e Francesco Sforza cardinale di San Gregorio in Velatro; dall'altro
Pietro Aldobrandino cardinale di San Niccolò alle Carceri, nepote per
parte del fratello Pietro, e Cesare Baronio cardinale dei santi Nereo ed
Achilleo, avvolti nei magnifici loro paludamenti di porpora: poi, in un ricinto
più vasto, su stalli onorevoli, e cardinali, e vescovi, e di ogni
maniera prelati, cospicui per cappe o pagonazze o vermiglie.
In mezzo, alla destra del
trono, un banco coperto di panno scuro per gli auditori di Palazzo e della
sacra Ruota criminale presieduti da straordinario presidente, sendo caduto
infermo il Luciani: dalla parte opposta un banco pari pel procuratore fiscale,
con parecchi cancellieri e notari: per traverso un terzo banco destinato pei
difensori.
I lanzi dalla barbuta e dalla
corazza di ferro, l'alabarda sopra le spalle vigilavano la sala, e respingevano
addietro i curiosi con brutte parole, e peggio fatti: orgoglio ad un punto ed
umiliazione antica della gente itala, appo cui è mestieri tirare dal
settentrione queste bestie dalla faccia umana per esercitare la forza brutale.
Nè mancarono dame e cavalieri attillati, come se intervenissero a
qualche festino; ed è fama eziandio, che con i nastri neri pendenti
giù dai cartolari del processo fosse in cotesto giorno annodato
più di un laccio d'amore.
Ognuno seduto al suo posto.
Intimato, secondo il solito, dagli uscieri il silenzio, il Presidente, ottenuta
licenza dal sommo Pontefice, accennava con la destra al Procuratore fiscale,
ch'egli poteva incominciare.
Questi si levò. Intanto
ch'ei si forbisce col fazzoletto la faccia, compone la chioma e fa altre simili
smancerìe, tratteniamoci un momento a considerarlo. È del colore
degli antichi Cristi di avorio: l'occhio ha spento, opalino come quello del
pesce fradicio; i capelli tiene giù ripresi, e lisci da una tempia, e
paiono un salice che gli pianga su la testa il cuore e il cervello da gran
tempo defunti: muove le braccia come i telegrafi marini: ora si rannicchia con
la persona, ora sbalza su, come un serpente di filo di ferro dalle scatole da
tabacco. Solo a vederlo di leggieri si comprende come al nascer suo la
petulanza, la presunzione e la stupidità menassero un ballotondo intorno
alla sua culla, e gli facessero un presente, cui egli poi aumentò
mettendoci di suo la ipocrisia.
Il nostro procuratore fiscale
ecco si rovescia con molta solennità le maniche della toga, e poi con
una vocina, che va di mano in mano rinforzando, dopo avere assicurato che per
lui non si era omessa diligenza veruna nello esame del processo, ed invocato
l'aiuto di Quello che non n'è mai avaro per chi lo sollecita di cuore,
raccontò come, a persuasione del diavolo e da cupidità
abbominevole spinti, persone non nemiche, non estranee, ma parenti, ma moglie e
figli macchinassero la strage del conte Francesco Cènci, uomo per
pietà insigne; per lignaggio chiarissimo, per dottrina preclaro: disse
del mandato conferito ai sicarii Olimpio e Marzio; del sonno traditore, del
differito parricidio a cagione della festa della Beata Vergine: dipinse l'orrore
degli assassini, le truci minacce della donzella per vincerne la repugnanza; il
chiodo confitto e riconfitto; il cadavere tratto pei capelli sul pavimento, e
poi con barbara immanità precipitato giù dal balcone:
favellò della prova, che in grazia delle salutari torture emanava
limpidissima dalla concorde confessione dei rei: si diffuse intorno allo
spavento del mondo inorridito a sentire come in Roma, nell'alma sede della
religione santissima, accanto al soglio dell'ottimo fra i vicarii di Cristo siffatte
scelleratezze si commettessero. - Che più? - Il secolo corrotto
consentendo quelle licenze, che in breve toccarono l'estremo, egli
raccontò come il sole si fosse per la paura oscurato; mentre,
all'opposto, non era mai apparso chiaro come in quei giorni: - e come le acque
del Tevere, sgomentate, avessero retroceduto alla sorgente; malgrado che a
vista di tutti i Romani avessero continuato a scorrere tranquillamente sino ad
Ostia: finalmente, apostrofando il Crocifisso pendente alle pareti, confortò
i giudici a richiamare alla mente i suoi divini precetti allorchè
comanda, che l'albero incapace a produrre frutti buoni sia reciso, ed arso:
nè qui trattarsi già di frutti buoni, sibbene di pessimi, e
scellerati. Tentasi, egli soggiunse, di sorprendere la religione vostra, o
Signori della Ruota, col farvi considerare la giovanezza di taluni fra i
colpevoli, come se questo, invece di attenuare il delitto, non somministrasse
plausibile fondamento a procedere con asprezza maggiore. Se di queste
abbominazioni mostraronsi capaci gli accusati o non tocca ancora la
pubertà, o a quella giunti appena, che cosa mai ci dovremmo aspettare da
loro, diventati adulti? Correremmo il rischio che la famiglia di Atreo
sembrasse un convento di cappuccini! Concluse finalmente con certa ipotiposi da
lui con somma diligenza elaborata, la quale descriveva l'anima dello
illustrissimo signor conte Francesco Cènci spinta con violenza fuori di
questa vita senza il conforto dei sacramenti, e condannata, per avventura, al
fuoco penace, soffermarsi sopra la soglia dello inferno, scuotere i bianchi
capelli intrisi di sangue, e, sollevate le mani verso i giudici, gridare
disperatamente: «Vendetta! vendetta!»
Oh, fra i tristissimi, egli
è pure il tristo mestiere quello del procuratore fiscale! Ed anche
questo perchè mai esercitato? Per un tozzo di pane. Ma quanto più
onorato il pane molle di sudore dello artigiano! Quanto meno reo quello intriso
dalle lacrime del servo della pena! Essendo costoro provvisionieri del
patibolo, dovrebbero cibarsi co' rilievi del supplizio. Qual differenza sovente
corre fra essi e il carnefice? Certo, se ve ne ha, torna in vantaggio del
carnefice: senza odio come senza viltà egli tronca col ferro i meschini,
cui il procuratore fiscale ha già assassinato con la parola. Un giorno
Dio li giudicherà; ed io per me penso, che la misura del primo
sarà trovata a paragone più lieve. Ma le parole che montano?
Cotesti maladetti dal Signore, co' presagi del vituperio in questa vita e della
dannazione nell'altra si fregano i denti bianchi di pesce-cane come con una
rappetta di finocchio, e tirano innanzi, fischiando, a rigare il mondo con una
traccia di sangue.
Dei difensori fu primo ad
arringare l'Altieri per Lucrezia Petroni, il quale con graziosa gravità
favellò in questa sentenza: molto col suo ministero e con se stesso
rallegrarsi, per non dovere spaventare i suoi giudici con immagini ricavate
dallo inferno; bensì corrergli obbligo di supplicarli a volgere lo
sguardo sopra una matrona pia e mansueta, e di levare un grido, di vendetta non
già, riprovatissimo in ogni luogo, e davanti ogni consesso di cristiani;
davanti poi il Vicario di Gesù Redentore e giudici piissimi
abbominevole; bensì grido, che unico possa suonare degnamente nei
tribunali, ed è: «Giustizia! giustizia!»
Ricercando in processo le
cause muoventi al delitto, dimostrò come veruna di quelle accennate dal
fisco convenisse a Lucrezia Petroni. Non la cupidità,
conciossiachè nulla ella avesse a sperare dalla morte del marito
Cènci, succedendo il coniuge all'altro coniuge intestato in esclusione
del fisco soltanto; e qui invece essere conosciuto da tutti come il Conte
Cènci avesse fatto testamento per diseredare chiunque con vincolo di
parentela gli appartenesse: per la qual cosa ad appagare l'empie voglie della sua
cupidità, quando mai l'avesse concepita, ostavano gli eredi necessarii e
il testamento. Non può averla mossa il rancore, avvegnadio ingiurie ed
offese ella avesse sofferto ben molte per la parte dello efferato marito; ma
non essendosi fatta viva mentre tuttavia giovane e bella se ne sente angoscia
in ragione del diritto che la donna crede di possedere a non doverle
sopportare, era, non che inverosimile, assurdo ch'ella agognasse vendicarle
dopo tanto spazio di tempo, e quando erano cessate, ed allorchè gli anni
volgendo a vecchiezza, il sangue scorre più languido nelle vene, e
l'animo, anco nelle nature irrequiete, assume più miti consigli;
specialmente poi vendicarle con partite così atroce ad un punto, e
pericoloso. Se le sevizie (le ingiurie alla fede coniugale io metto da parte)
avessero perdurato, donna Lucrezia ricorrendo ai tribunali avrebbe ottenuto la
separazione dal marito; la quale in quanto al vincolo non concedesi, ma in
quanto al domicilio, o toro, sì: nè a lei mancavano aiuti di
parentado potentissimo, nè, provveduta di larga dote, le era mestieri
starsi presso al marito per timore di pecunia, o di scarsi alimenti. - Molto
meno aversi a credere le tentazioni diaboliche; imperciocchè, sebbene
alle tentazioni del maligno andiamo tutti soggetti, pure, è la nostra
santa religione lo insegna, o ne vanno immuni, o le superano le anime zelatrici
della pietà. Ora, qual donna si mostrò più devota di
Lucrezia nostra? Il Fisco stesso, quantunque poi lo ritorca in nostro danno, fa
fede della pietà di donna Lucrezia allorquando finge, che la strage di
Francesco Cènci fosse differita per reverenza della festa della Beata
Vergine: ma io vo' che il Fisco sappia, come una femmina penetrata da tanto
zelo di religione non offenderà, nè il giorno della sua festa,
nè mai, la Madre di ogni misericordia, la mediatrice di ogni perdono.
E qui l'avvocato o
s'ingannava, o tentava ingannare altrui, imperciocchè la esperienza
abbia dimostrato e dimostri, come la devozione sincera (di quella ostentata per
ipocrisia non è da parlare) vadano congiunti i consigli più
tristi. Basti rammentare per tutti Giacomo Clemente, uccisore di Enrico III, il
quale si apparecchiò alla strage col conforto del pane eucaristico, e
con le discipline più solenni della nostra religione. Certo egli
è duro avere a chiamare devozione sensi sì iniqui; ma ciò
giovi ad ammonirci, come anche delle devozioni se ne dieno di più
maniere: quella che circonda la morale con una corona di opere pie e generose,
e questa come santa deve riverirsi; e l'altra che, ammogliatasi col delitto, si
avviticchia com'erba velenosa intorno alla croce, ed hassi a considerare come
scellerata; e di questa ce ne ha molta, anzi troppa; e i sacerdoti, non che
sbarbarla, la fecondano a tutt'uomo per ignoranza, per errore, e per interesse.
E s'io dica il vero lo chiarisca l'antica tariffa della Curia Romana, che
indica il prezzo col quale il malfattore può ottenere l'assoluzione di
qualsivoglia delitto.
Continuando lo avvocato prese
ad esaminare atto per atto il processo, affaticandosi con sottile industria a
rilevarne le irregolarità, e le contradizioni dei deposti, la debolezza
delle prove. Alla fine concluse supplicando la coscienza dei giudici a non
consentire che matrona così universalmente reputata, dei poveri
soccorritrice benefica, fosse sospinta per sentiero d'infamia e di ferro nel
sepolcro: ormai la sua favilla mortale toccare il verde; non adunassero tanta
procella per ispegnerla... Anche uno istante... un solo istante, per dio, ed il
dolore e gli anni la cuopriranno di tenebre eterne... Deh! lasciate ch'ella si
spenga in pace...
Accorse secondo il De Angelis
in pro di don Giacomo, ed anch'egli si affaticò ad escludere la causa di
delinquere supposta dal fisco, e mostrò come non lo potesse muovere
attuale angustia di pecunia, avvegnachè il padre suo, per giusto
comandamento del sommo Pontefice, gli pagasse onesta provvisione, e di
più i frutti della dote della propria moglie godesse, i quali uniti alla
provvisione della consorte non erano così scarsi, che alle spese domestiche
sopperire non potessero: molto meno doveva muoverlo a commettere l'atroce
parricidio la speranza di redare intero il patrimonio paterno,
imperciocchè corresse comunemente il grido, e lo stesso Francesco
Cènci lo andava predicando senza ambage, dei beni liberi averlo
diseredato, la qual cosa il fatto ha chiarito vera pur troppo, e dei
fidecommissarii non lo poteva privare. Vecchio essere il Conte Cènci, ed
ormai giunto con gli anni a quella estrema parte della vita, dove ogni lieve
spinta precipita nel sepolcro; laonde dovrebbe estimarsi non solo empio, ma
folle Giacomo Cènci, se con tanta scelleraggine e tanto suo pericolo
avesse affrettato quel caso, che in breve con sicurezza, e senza rimorso gli
avrebbe procurato la natura. Or come è verosimile questo, che il figlio
si mostrasse pazientissimo ad aspettare allorquando il padre era lieto di
prosperevole salute, ed entrava in verde vecchiezza, e fosse poi intollerante
d'indugio allorchè quegli diventa decrepito e malescio? Don Giacomo,
alieno da lussuriosi sollazzi, dai vizii che contaminano il mondo aborrente,
incolpevole gentiluomo, buon marito, buon padre, come allo improvviso svela
così efferata indole, che vince ogni belva più cruda? Come, nato
appena al delitto, doventa gigante, e con un passo solo ne percorre intera la
carriera, che i più perversi non toccano che con i passi ultimi? Questo
non consente la natura; e tutto quello che si oppone alle leggi eterne del vero
o devesi addirittura rigettare, o per lo meno ammettersi con molta
difficoltà. E qui, riprendendo con più veemenza l'avvocato, io
considero, diceva, nell'amaritudine dell'animo mio seguitarsi una ragione
affatto contraria, la colpa; e le circostanze della colpa quanto più
procedono opposte al discorso naturale, tanto più volentieri si
accettano; quanto più avverse allo regole della umanità e del
diritto, tanto più facilmente si accolgono. Così non va bene. Don
Giacomo, e questo secondo che merita non avvertiva il fisco, mentre si
perpetrava il delitto non si trovava già alla Rocca Petrella,
bensì dimorava in Roma. Dunque è chiarito, che con la sua opera
immediata non potè partecipare alla strage. Se poi il fisco sospetta che
vi concorresse mediatamente per via di lettere o di messaggi, ma dove sono
queste lettere e questi messaggi? perchè non li produce, anzi neppure li
ricorda? E sì ch'ei dovrebbe avvertire come a lui incomba il carico
della prova, e a noi basti difenderci. - Il fondamento dell'accusa sta nella
confessione dei prevenuti. Io per me, spesse volte meco considerando, son
venuto nella sentenza che la confessione dello imputato, come cosa indegna
della morale e contraria alla natura, non debba pesare sopra la bilancia della
giustizia. Invero; con quale carità, o senno possiamo costringere un
uomo ad accusare se stesso? L'uomo che si affatica ai suoi danni fu sempre
reputato privo del bene dello intelletto; e se la Chiesa concede sepoltura in
sacris ai miseri che contro se stessi portarono le mani violente,
ciò appunto fa perchè crede che abbiano perduto il senno. Ora,
dico io, accusare se medesimo di delitto che importa pena capitale, non
partorisce forse il medesimo effetto? Maisì che lo partorisce; e la
lingua uccide al pari, e meglio, delle mani. Però, qui mi si obietta,
noi non abbiamo confessione spontanea, ma estorta per virtù di tormenti.
Bontà di Dio! Egregia risposta invero! Verrà un tempo in cui i
posteri maraviglieranno come noi, loro padri, siamo stati o così stupidi
o così barbari, da accettare quale argomento di verità quello,
che per propria natura è segno manifesto di ferocia e di errore...
Un mormorio di disapprovazione
si sparse per tutta la sala; e il Farinaccio stesso, tirata al collega la toga,
lo ammoniva sommessamente a tagliar corto sopra quel tasto. Il cardinale
Baronio, che fu uomo dottissimo per quei tempi, piegato il capo sussurrò
nell'orecchio del cardinale Aldobrandino, il quale si mostrava nel sembiante
soprammodo scandalizzato:
- Questi benedetti avvocati,
quando hanno preso l'abbrivio, ne piantano di quelle che non istanno in cielo
nè in terra!
- E senza corda, rispondeva
quell'altro, io vorrei un po' che m'insegnassero come faremmo a sapere una
verità. A che monta, di grazia, la facoltà concessa a cotesti
parabolani, di oltraggiare tanto impudentemente la sapienza dei sommi dottori?
Procedendo di questo passo, io vi domando, Eminentissimo, che cosa stia per
diventare l'autorità? Perchè i giudici non gli hanno imposto
silenzio?
- Eminenza, lasciamoli dire
finchè ci lasciano fare: quando presumeranno tarparci le ale, on
avisera; come dicono i Re di Francia allorchè i Parlamenti rifiutano
registrarne gli editti.
Lo avvocato De Angelis
girò il timone, e, come l'Altieri, si fece con arguta dialettica a
demolire lo sformato edifizio del processo ingolfandosi in un tritume di
osservazioni, le quali stancarono la mente degli uditori, e nocquero non poco
alla efficacia dell'arringa. Finalmente dette termine alla difesa rammentando
l'antichità della prosapia, e la chiarezza del sangue Cincio, e poi, con
migliore consiglio, la moglie e i figli desolati di don Giacomo: andassero cauti,
egli diceva, i giudici, ma cauti bene, a imprimere tanta nota d'infamia sopra
così nobile casato: pensassero, al figlio del parricida veruna donzella
stendere la mano; nessuno aprirgli il cuore: fatto, senza sua colpa, oggetto
piuttosto di raccapriccio che di pietà sopra la terra, cuoprirlo di
vituperio non pare villania, bensì diritto, e dovere: veruno lo chiama a
mensa; in chiesa lo fuggono... Che più? a male in cuore sopportano
comune con lui il raggio del sole, nè la terra, che tutti accoglie nel suo
seno dopo morte. Ed anche a voi, Padre ottimo massimo degli universi fedeli,
concedete che io presenti la miseria di una moglie, il lutto dei figli: nelle
mani, che io supplichevole inalzo al vostro soglio augustissimo, piacciavi
contemplare le mani di quattro fanciulli e di una donna; nella mia voce udire
le strida di cinque innocenti, che con lacrime e singulti, dopo Dio, da voi
sperano, ed attendono misericordia.
- Eminenza, favellò il
cardinale Sforza al cardinal Cinzio, eccovi il vostro fazzoletto, che vi ho
raccolto per terra; ne avrete bisogno per asciugarvi le lacrime.
- Io? - Io non patisco di
pianto.
- Però l'arringa dello
avvocato Niccolò mi è parsa concludente assai; la perorazione poi
senza dubbio felice.
- Eh! secondo i gusti,
Eminenza. Per me, se la raffronto co' precetti di Aristotele e di Quintiliano,
parmi la più meschina delle amplificazioni di uno scolare di rettorica;
senza contare l'eresie giuridiche ch'egli ha detto, segnatamente la famosa
contro la confessione ottenuta per vim torturae. Ma silenzio; ecco che
si leva il Farinaccio. Stiamo a veder correre questo barbero; il palio è
di quattro teste. Quanto vogliamo giuocare, ch'egli lo perderà?
- Quando lo dite voi,
Eminenza, non ci ha luogo scommessa; come potrei avere io convinzione diversa
dalla vostra?
Il cardinal Cinzio
sogguardò sospettoso in faccia lo Sforza; ma questi, arnese vecchio di
corte, gli mostrò la fisonomia aperta quanto lo scrigno di uno avaro.
Si levò il Farinaccio
crollando la testa; e, fulminato con uno sguardo d'inesprimibile disprezzo il
Procuratore fiscale, che ineccitabile lo riceve come il serpe che ha ingolato
lo scoiattolo, con gran voce prese a dire:
- Assista Dio! Non so,
incominciando la presente orazione, se in me sia maggiore la maraviglia, o il
rammarico, ma certamente mi perturbano gravissimi ambedue; imperciocchè,
prima di esercitare lo ufficio della difesa, mi trovi costretto a richiamarmi
alla mente il ministero dell'accusa. Il procuratore fiscale, se l'antica
dottrina oggi non è venuta meno, come difensore della legge preordinata
alla sicurezza di questo umano consorzio, deve procedere nelle sue conclusioni
severo, ma senza acerbità; solerte, ma senza furore; arguto, ma senza
perfidia; e chiunque altramente costuma, a viso aperto gliel dico, le parti
usurpa del carnefice, e forse fa peggio. Come pertanto ho potuto ravvisare io
il difensore della legge nel magistrato, smanioso come la pitonessa sul
tripode, invaso dal demone che l'agitava? E fu mala cosa. Come riconoscerlo io,
quando ricavò dai fatti conseguenze malignamente sofistiche? E questa fu
più brutta ancora. Come raffigurarlo allorchè udii storcergli i
fatti, alterarli, e, quasi ciò gli paresse poco, supporne dei falsi, o
immaginarne dei non veri? La quale, a parere mio, fu bruttissima. Non vi
commuovete, signor fiscale, sul vostro seggio, perchè io quanto dico
intendo provarvelo...
E questo il Farinaccio diceva
per figura rettorica davvero, imperciocchè ei se ne stesse
tranquillissimo; anzi si guardasse le unghia delle mani, per vedere se le fossero
ben nette. Il Farinaccio continua:
- Voi ardiste descriverci il
conte Francesco Cènci come un modello rimasto, mercè di Dio,
sopra la terra per far fede della età dell'oro, e scorazzaste i
classici, così greci come latini, per foraggiarvi gemme buone a comporne
il diadema di virtù, che poneste sul capo al vostro eroe. O pudore! Religioso Francesco
Cènci? Certo inauguratore ei fu di
sante immagini, ma per bestemmiarle; edificatore e restauratore di templi, ma
per profanarli; apparecchiatore di avelli, ma per seppellirvi, siccome egli
andava empiamente ogni giorno supplicando Dio, tutti i suoi figliuoli prima di
morire. Pietoso Francesco Cènci? Certo piissimo uomo fu egli quando
imbandì il convito, nel dì che gli pervenne notizia della strage
dei figli suoi; piissimo quando, propinando col bicchiere colmo di vino a Dio,
bandiva che dove fosse stato pieno del sangue dei suoi figliuoli, ei lo avrebbe
bevuto con maggior devozione del liquore della santissima eucarestia. Queste
mostruosità poi non sono immaginate da me, bensì corrono per le
bocche degli uomini, e vengono attestate da prelati e baroni di tutto onore
degni, che all'orribile festino, convitati, assisterono. A cui era ignoto
l'uomo? Voi tutti lo conosceste, e sapete quali e quanti gli si apponessero
delitti: forse taluni fra voi lo condannarono; chè il piissimo uomo
dell'accusa si trovò a sopportare parecchie condanne, componendo la pena
con la Camera Apostolica mercè inestimabile quantità di pecunia.
Venite meco, Signori; vediamo un po' questo uomo, per dottrina preclaro, quali
volumi, frutto di notti vigilate, egli lasci a edificazione ed ammaestramento
dei posteri. Eccoli; il libro delle sue effemeridi, dov'egli, non so se con
maggiore inverecondia, o nequizia, andava notando giorno per giorno i suoi
delitti. Nè i misfatti di sangue, parlo cose a tutti note, furono in lui
i più nefandi. I vincoli che il cuore umano desidera in questo terreno
pellegrinaggio per sollievo allo squallor della vita, egli ebbe tutti: amico fu
per diventare traditore: si finse amante per sedurre la innocenza, e poi
lasciarla in balìa della disperazione: diventò marito per
adulterare, padre per commettere incesto. Questi vincoli ei strinse pel talento
di calpestarli; prese cognizione delle leggi romane per trasgredirle; le divine
conobbe per romperle. Se Francesco Cènci non era, avremmo creduto che
Tranquillo Svetonio temperasse lo stile nella calunnia allorquando ci lasciava
scritti la vita e i costumi di Tiberio imperatore. Spettava al Cènci di
fare agli uomini palese come le immanità di Caligola, di Nerone, di
Domiziano, di Caracalla, e di quanti altri mostri Iddio mandò nel suo
furore a flagellare la terra, cumulate insieme, potessero superarsi. Tale fu
Francesco Cènci; e se io ho calunniato la sua memoria, possa la sua
anima in questo momento affacciarsi sopra la soglia del tribunale, e gridarmi:
«tu mentisci». O anima sciagurata, dovunque tu sii ascoltami. Lasciando ad
altri la cura di rinfacciartelo al cospetto di Dio, io qui, davanti al suo
Vicario santissimo, ti proclamo il più perfido e il più infame di
quanti scellerati apparvero nel mondo...
Il Procuratore fiscale, come
se non fosse fatto suo, attendeva sempre a guardarsi le ugna; non così
il cardinale Sforza, che sommesso diceva al San Giorgio:
- E' par che buone mosse abbia
preso il barbero.
Ma l'altro non lo ascoltava,
che in cotesto punto concludeva certi suoi pensieri con la seguente formula:
egli bisogna che sia con noi, o contro noi. Intanto il Farinaccio prosegue:
- Qui noi vediamo un cadavere,
la gola squarciata da larga ferita. Chi è egli? Un padre. Chi lo ha
trucidato? Sua figlia: ella senza impallidire lo dichiara; senza rimorso il
confessa; anzi, se non lo avesse fatto, bandisce che tornerebbe a farlo. E chi
è questa femmina dai truci pensieri, e dai fatti più truci?
Eccola; una fanciulla di cui il sembiante par formato dalla mano degli angioli,
onde quaggiù si mantenga il tipo della celeste purità. La
Innocenza può baciarla in bocca, e dirlo: ave, sorella. La Mansuetudine
parla come lei, come lei sorride. Non vi ha persona che lei non esalti, e levi
a cielo; di molti ha sollevato i dolori, ha pianto alle angosce di tutti. Che
cosa mai può avere sospinto la egregia donzella allo esecrando
attentato? Domandatelo al Fisco, ed egli ve lo dirà. È stato il
diavolo. Oh! il diavolo, se l'avesse veduta, l'avrebbe tolta in iscambio di un
angiolo, e l'avrebbe adorata; e noi sappiamo che il diavolo sopra gli angioli
non ha potenza: i procuratori fiscali poi non vanno immuni da siffatto pericolo
perchè nessuno li estima angioli, nè anche se stessi. Lasciamo
pertanto il diavolo a casa sua, e discorriamo di cause più umane. Forse
la cupidità del danaro? A sedici anni la gentil donzella pensa al danaro
quanto lo usignuolo, ch'empie delle sue melodie le valli in una bella notte di
estate; vi pensa quanto la farfalla, che tuffa le ale nel raggio del sole di
maggio. A sedici anni la fanciulla è tutta amore pel cielo e per la
terra: questi due amori si confondono in lei, sicchè il suo primo amore
per oggetto terreno ritrae sempre in se qualche cosa di divino. Ma poniamo,
via, che in lei allignasse vaghezza di pecunia; come mai poteva questa condurla
allo abbominevole misfatto? Il censo, ch'ella redava copiosissimo dalla madre,
il padre non poteva menomarle, nè torle: folle consiglio saria stato in
lei la fiducia di ottenere o tutto o parte del paterno retaggio libero dai
fideicommissi, avvegnachè Francesco Cènci, il quale non si era
proposto altro fine che quello di spogliare i suoi figliuoli degli averi, della
fama, e, se avesse potuto, della vita, non si sa come si sarebbe mostrato
pietoso unicamente con lei; e peggio che follia sarebbe stato per la signora
Beatrice sperare nei beni fideicommissarii di casa sua (e qui levò la
voce più sonora che mai) chè i beni fideicommissarii per comune
consentimento dei dottori non possono per veruna causa o pretesto, neppure per
fellonia, alto tradimento, o parricidio di taluno dei chiamati, esser tolti ai
legittimi suoi successori maschi di maschio...
Il vecchio pontefice a queste
parole declinò la testa, e le sue pupille traverso i sopraccigli irsuti
parvero fiamme dietro una siepe di rovi; il cardinale di San Giorgio
levò la sua, e con l'angolo esterno dell'occhio sbirciò il papa.
I due sguardi parve si cambiassero una parola, e questa per certo fu:
- Costui bisogna che sia dei
nostri...
- Felice Olimpia! - riprende a
dire l'avvocato - felice, che rinvenisti orecchio per ascoltarti benigno, ed
incontrasti il Padre dei fedeli sollecito a sottrarti agli empi disegni del
genitore, mercè onorevole parentado. I cieli non concessero alla signora
Beatrice siffatta ventura; la sua voce, fra il trambusto di tempi agitati, in
mezzo al fragore delle armi, e alle grida di trionfo per la recuperata Ferrara,
non venne intesa. Del suo memoriale, che dal profondo della miseria ella
rivolse allo eccelso Vicario di Cristo, non occorre più traccia nella
cancelleria, se togli l'appunto del giorno in cui fu consegnato, e la
testimonianza dell'ufficiale che lo ricevè. In questo modo si chiudevano
a lei quelle vie, che si apersero altrui; solo egli era destino che rimanesse
la misera abbandonata da tutti, esposta, novella Andromeda, sopra lo scoglio
della necessità ad essere divorata da mostri più crudi di quello
che superò Perseo!
A me prende ribrezzo
raccontare le atrocità commesse dal conte Cènci contro la sua
figliuola Beatrice. Ah! perchè la natura mi fu avara di un cuore e di un
ingegno pari a quelli che prodigò al fisco, ond'io mi compiacessi a
esporre le parole piene di vergogna con le quali il tristo vecchio
contaminò le orecchie castissime di Beatrice, e l'empietà con le
quali ingegnavasi depravarne la virginea intelligenza? Nè gli giovarono
le lusinghe, le inverecondie, le cieche ire, le insanie trucissime, le carceri
disoneste, le lunghe fami, i sonni spaventati, le affannose vigilie, i colpi,
le ferite, e il sangue co' quali egli tentò superarla. - Noi vediamo un
cadavere con la gola squarciata; noi raccapricciamo a mirarlo... è un
vecchio... è un padre trafitto dalla propria figliuola: nessuno lo
nega... ella il confessa: - oh! anche a me il freddo penetra le ossa, e i denti
battono per orrore; ma via, facciamoci coraggio; osiamo investigare qual fosse,
prima di diventar cadavere, costui. Schiusa, come ladro notturno, pianamente la
porta della stanza ove gemeva la sua desolata figliuola, avvolto le nude membra
dentro una zimarra, si accosta al letto della giacente: ella dorme e piange,
perchè alla infelice non sono amici nè anche i sonni. Egli, il
sacrilego, velata prima la lampada che la vergine teneva accesa davanti la
immagine della Madre della purità, rimuove le coltri e nuda le membra,
che natura fa sacre agli occhi dei genitori. - chiunque è qui, che abbia
viscere di padre, venga meco a vedere il vecchio empio, con la bocca contratta
verso le orecchie come un satiro, gli occhi avvampanti dinanzi ai quali
è passato il fumo dello inferno, tremante, fremente, curvarsi stendendo
le mani, toccare il corpo della vergine, e... Beatrice si sente strisciare
sopra la persona la pelle lurida e diaccia del rettile... si sveglia... che mai
farà?
Che farà? - Se empia
ella fosse stata al pari del padre suo, o abietta, voi allora avreste udito
come altramente si sarebbero ecclissati i soli del fisco; in bene altra guisa
avrebbe il Tevere del fisco ritorto le corna verso la sua sorgente. - Io, o
padri, vi ho tratto davanti a questo spettacolo, e non vi ci ho tratto
invano... Rispondetemi, dite, in cotesto momento quale avreste desiderato voi
Beatrice... empia... abietta come non fu la Romana vergine, o miserissima com'ella
di presente si trova? - Beatrice vide faccia a faccia la sventura, e
l'abbracciò come messaggera di Dio... avventò il ferro, e
sottrasse il suo nome alla infamia. Noi, deplorando questa suprema
necessità, dobbiamo ammirare la fanciulla valorosa, che in altri tempi
Roma le avrebbe tributato gli onori del trionfo, ed oggi la straziò co'
tormenti, e adesso le minaccia la morte ignominiosa.
Il divo imperatore Adriano
ordinò non farsi luogo alla pena del parricidio quantevolte il figlio
uccidesse il padre, o questi quello, per una delle quattordici cause contenute
nell'Autentica Ut cum appellatione cognoscitur. Bene è vero che
l'imperatore Adriano considera la strage del figlio adoperata dal padre a
cagione dello stupro della matrigna o concubina; ma per consenso dei dottori il
disposto di cotesta legge si estende eziandio a qualsivogiia altro caso
d'ingratitudine, non già perchè proceda affatto impunito, ma con
qualche pena più mite della capitale si vendichi.
Ora sarò io forse
costretto ad affaticarmi davanti a voi per dimostrare quale, e quanto reato sia
lo incesto contro la propria creatura? Pare a voi che gli si possa paragonare
lo stupro della matrigna, o della concubina paterna? Parvi ch'ei sia da
agguagliarsi con le altre cause d'ingratitudine, come, a modo di esempio, se il
figlio non riscattò il padre schiavo, o, se povero, non lo sovvenne?
Lascio l'ecclissi al fisco, e il torcere dei fiumi alla sorgente; ed in prova
della enormità del misfatto io vi rammento come il divino Aristotile, nella
Storia degli Animali, racconti di un cavallo, il quale fatto accorto di essersi
mescolato inavvertentemente con la madre sua, venne soprappreso da così
insanabile dolore, che non gli parendo ormai di potere più vivere si
lasciò scoscendere giù da una rupe, punendo così da se
stesso la involontaria empietà, e liberando il mondo da un tristo
oggetto dell'odio degli Dei.
Fino dalla più rimota
antichità, in ogni periodo del vivere comune fra gli uomini andò
impunito lo sventurato, più che colpevole, che per evitare lo incesto
trafisse il suo parente, come si legge di Semiramide uccisa dal suo figliuolo
Nino mentre lo ricercava di scellerato abbracciamento; di Ciane figlia, la
quale ammazzò il padre Cianno che l'aveva stuprata; di Medulina, che,
deflorata dal padre ebbro, quello senza misericordia condusse a morte; e, per
causa meno iniqua delle rammentate, Oreste, trucidata la madre, mentre da una
metà dei giudici vien condannato e dall'altra assoluto, Minerva, dea
della Sapienza, scende invisibile a depositare nell'urna il voto assolutorio,
per la qual cosa il figliuolo di Agamennone ne usciva impunito. Questo esempio
a me piacque referire non perchè si abbia a credere come buono
litteralmente; ma per dimostrare come quel popolo civilissimo della Grecia non
dubitasse immaginare che la suprema intelligenza, uscita adulta e armata dalla
mente di Giove, concorresse a bandire degno più di pietà che di
castigo il figlio spinto a trucidare la madre, per vendetta, comecchè
tarda, della strage paterna.
La legge prima, al paragrafo
finale del Digesto de sicariis, ammonisce espressamente andare immune
dal rigore della legge chiunque uccida per causa di stupro violento, a se od ai
suoi arrecato; e contemplando caso meno duro, la legge Isti quidem, quod
metus causa ci fa scorti che dal timore dello stupro, come quello che
percuote più veemente assai del timor della morte, possiamo a diritto
liberarci trafiggendo colui che lo incute, quando non ci sovvenga altro partito
migliore. A me, la Dio grazia, non manca copia di esempii i quali chiariscono
scusabili coloro che ammazzano il violento commettitore dello stupro. Leggesi
in Valerio Massimo come Caio Mario sentenziasse equamente ucciso Caio Lucio
nepote da Caio Plozio Mancipulano per liberarsi dallo stupro; e Virginio era
dichiarato incolpevole della strage della figlia, però che in questo
modo operando egli la sottraesse alla libidine di Appio. Quindi a maggior
ragione deve reputarsi scusabile Beatrice Cènci condotta a più
estrema necessità. Insania, per non dir peggio, parmi ed è la
pretensione del fisco, che vuole Beatrice non dovesse spengere, bensì
accusare il padre suo. Io già vi esposi com'ella, mediante epistole, a
personaggi di molto credito si raccomandasse, onde dagl'imminenti acerbissimi
casi procurassero preservarla. Nel giorno del convito, di cui vi tenni parola,
con accese supplicazioni n'esortò i convitati atterriti dalla ferocia
del Cènci; alfine indiresse memoriali al soglio pontificio. Se
più alto, misera!, ella non potè levare la voce, la vorrete voi
incolpare perchè la chiudevano troppo spesse le mura, i sotterranei
profondi, resistenti le porte, la custodia rigidamente sospettosa? Dunque
incolperete la supplichevole se i vostri orecchi, assordati dai tripudii della
vittoria, non poterono ascoltare il gemito della sventura? Ci assista Dio!
Tanto varrebbe di ora in poi mandare assoluto il ladro, e punire il derubato
perchè le cose sue con sufficienti serrami non assicurò; non
più il feritore, ma il ferito deve inviarsi all'ergastolo perchè
si lasciava cogliere inerme dalle insidie, che gli tendeva proditoriamente il
suo nemico.
E fosse, anche per ipotesi,
che la bisogna andasse come il fisco suppone; la signora Beatrice avendo
ucciso, e non accusato, meriterebbe la pena della deportazione soltanto,
secondo il precetto della legge del divo Adriano, e non quella dell'ultimo
supplizio.
Il fisco erra eziandio quando
sostiene che le cagioni addotte da me valgano in caso di attuale, ed impendente
violenza, e non quando tra la violenza e la strage corra certo spazio di tempo,
ed allorchè la morte sia stata data di mano propria, non già
procurata per mezzo di sicarii.
Va errato, io dico,
imperciocchè la signora Beatrice confessi ben ella avere ucciso il padre
di propria mano, però nell'atto stesso che stava per consumare la
violenza; ed avvertite che, desta a forza, tra lo spavento e l'ira fors'ella
non ravvisò, anzi non riconobbe di certo, il padre suo. E poniamo ancora
che lo avesse riconosciuto... Ma sapete, o Signori, che io, non me ne
accorgendo, ho profanato fin qui un nome santissimo; imperciocchè
può egli darsi, senza offesa manifesta della natura e senza ingiuria di
coloro che ne sono meritevoli, questo titolo a Francesco Cènci? Quando
uno sciagurato rompe il confino che la natura e Dio posero fra padre e figlio;
quando egli nè protegge nè ama la sua creatura, all'opposto la
perseguita e l'odia, il corpo ne calpesta e lo spirito, quegli non è
più padre; anzi tanto è più scellerato, e meritevole di
morte, quanto erano maggiori in lui gli obblighi di proteggere e di amare.
E fosse anche, per ipotesi
ch'io nego, che la signora Beatrice uccidesse lo sciagurato non mica su l'atto,
ma dopo, sarebbe da irrogarsi non già la pena dello estremo supplizio,
bensì della deportazione. La legge del divo Adriano si versa appunto sul
caso di figlio spento dal padre suo, non colto su l'atto, anzi dopo certo
intervallo di tempo, mentre si aggiravano insieme per le selve cacciando. Dove
il padre lo avesse sorpreso sul fatto, allora non lo avrebbero dichiarato
meritevole della deportazione per la strage del figlio, sibbene lo avrebbero
dimesso. Tutti i dottori ci ammaestrano come il giusto dolore della offesa
diminuisca la pena anche quando sia trascorso molto tempo fra la ingiuria e la
morte.
E nella città nostra,
in questa curia stessa occorrono esempii di pene mitigate per la
fragilità del sesso, senzachè giusta causa, o pretesto si sapesse
dedurre per attenuare il delitto; e non volgono adesso molti anni che questo
avvenne in causa di parricidio, dove alla figlia ed alla madre colpevoli si
ebbe benigno riguardo. Ed io dovrò credere che si deva adoperare
spietato rigore a danno di una leggiadra, e, quello che importa più,
innocentissima fanciulla?
Ma deh! con la innocenza sua
le valga la età breve di tre lustri appena compiti, che non consente le
truci cose concepiscansi, nonchè commettansi; le valga la stupenda
bellezza, per cui è maraviglia di quanti la mirano. L'oratore Ipperide
svelate ai giudici le grazie dell'accusata difesa da lui, così ne
inteneriva i cuori, che quelli non si attentarono a condannarla. Ed oh!
perchè non è qui presente la signora Beatrice? che io vorrei
mostrarvi quella fronte distesa dalle dita di Dio, tutta candore, tutta
soavità, messa nel mondo a far fede quale sia il sembiante della
innocenza nei cieli, e dirvi: Orsù; segnatevi, se ardite, una nota
d'infamia!
Ma dove sono io trascorso? E
dove mi ha tratto la soverchia ansietà di veder salva ad ogni costo la
egregia donzella? Ritorno sul cammino percorso; mi pento di avere implorato
pietà; mi condanno per avere chiesto misericordia: non perchè
sconvenga ricorrere in verun caso mai ai benevoli affetti dell'uomo, che sono
sempre i migliori; ma perchè mi sembra che di questi possa fare a meno
la signora Beatrice nel duro passo in cui l'ha travolta la fortuna. - Quando
noi tutti saremo morti, e delle nostre ossa non si troverà neppure la
cenere: - quando i nostri tempi e le nostre cose andranno obliati, il nome di
Beatrice Cènci farà palpitare il cuore di quelli che allora
vivranno: - come il segnale galleggiante sul mare avverte che nel profondo
delle acque giace l'ancora, così Beatrice Cènci, a noi sola
superstite nella fama, ricorderà questi anni ingloriosi caduti
irrevocabilmente dentro lo abisso del passato. Poichè da lei avrà
titolo e nome il secolo, sta a voi, o giudici, a fare in modo che ne torni ai
posteri o sempre gradita, o sempre abbominevole la ricordanza.
Deh! non si dica che qui in
Roma, nella sede del mondo cattolico, imperio, la cortigiana ebbe simulacro nel
Panteon; e Beatrice, la vergine fortissima, il supplizio: la impudicizia
trovò onori divini, la castità la morte. Oh! potessi avere io
l'autorità di Scipione, che, imitandone lo esempio, esclamerei adesso:
«In questo mese, in questi giorni, nel decorso anno una vergine romana,
superata la debolezza del sesso, vinta ogni viltà, seppe difendere
valorosamente la sua pudicizia: più virtuosa di Lucrezia, meno infelice
di Virginia, il suo nome e il suo esempio durino orgoglio delle donne latine.
Che ci tratteniamo ora più a discutere s'ella sia colpevole, o
innocente? Andiamo, giudici, difensori e popolo al Vaticano, per ringraziare
Dio di avere riserbata la inclita donzella ai giorni nostri».
Poi favellò succinto
anco di Bernardino, e disse:
- In verità di Dio io
stava per dimenticarlo; ed infatti l'accusa contro di lui non vale il pregio
della difesa. Bontà di Dio! E come supporre un garzoncello di dodici
anni complice del parricidio? O sia che si ritenga l'asserto del fisco,
ch'è falso, o sì veramente si accetti la confessione della
signora Beatrice, ch'è vera, noi troveremo sempre assurda l'accusa. Se
la Beatrice spinta da improvviso moto dell'animo trafisse lo scellerato
attentatore, e allora non le furono mestieri consultori, nè complici.
Se, all'opposto, come finge il fisco, fu da sicarii perpetrata la strage del
Conte Cènci, e allora a qual pro metterne a parte Bernardino? Forse per
consiglio? Davvero dodici anni non paiono età conveniente a
somministrare consigli in materia di parricidio! Certo il magnifico Pico della
Mirandola, per la portentosa dottrina, al diciottesimo anno salutarono la fenice
degl'ingegni; ma nel dodicesimo essere reputato, ed essere capace di sedere
a consulta per commettere un tanto misfatto, la è cosa da far tremare
Satana stesso per lo suo trono infernale. O piuttosto, invece di consiglio, ricercarono
Bernardino di aiuto? Oh! al braccio di due sicarii cresciuti sopra i monti
dello Abruzzo poca forza poteva aggiungere un fanciullo dodicenne. Orsù,
via, io temerei recarvi oltraggio se mi fermassi più oltre a favellarvi
del garzoncello: torni l'accusa di lui fra le mostruose visioni che l'uomo,
inebriato dallo spettacolo degli umani delitti, sogna talvolta, chiudendo gli
occhi sul seggio della giustizia. -
E fece fine. - O fosse la
efficacia delle parole del Farinaccio, o, come si ha da credere, piuttosto
l'audacia del volto, la voce sonora e il bel garbo del porgere, gli astanti
rimasero percossi da questa orazione, che io, riportando, ho scevrato dal
troppo e dal vano, in ispecie da tutte le metafore, se togli una o due, per dar
saggio del gusto del tempo ormai declinato a corruzione. Un mormorio spesso e
profondo volò di bocca in bocca; e se non fosse stato il rispetto per la
presenza del Papa, e troppo più verosimilmente la paura delle alabarde
dei lanzi, la sala avrebbe rimbombato di applausi. I giudici si ritirarono per
sentenziare.
Dopo lungo aspettare corse
voce, non si sa donde mossa, il decreto non sarebbe stato profferito che a
notte inoltrata. Allora gli astanti si ritirarono, alcuni sperando, altri
temendo, a seconda della varietà degl'ingegni e degli affetti; tutti
però supplicando la Madonna del Buonconsiglio, che ispirasse diritta la
mente dei giudici.
Il Farinaccio, inebbriato dal
rumore della propria facondia non meno che dagli elogi che da ogni lato gli
piovevano addosso, e confidando, se ragione valeva, nello esito della causa, si
dette buon tempo, secondo il suo costume, fino a notte avanzata fra i consueti
compagnacci, e femmine di partito, non rifinendo di levare a cielo la
castità, la fortezza e la leggiadria della vergine latina; e (quello che
a prima giunta sembrerebbe strano, e poi ripensandovi sopra riesce consentaneo
alla natura dell'uomo) cotesti scapestrati e coteste male donne celebravano, e
si onoravano della virtù di Beatrice come se la avessero costituita
depositaria della fama, che ognuno di loro avrebbe dovuto presso sè
gelosamente custodire. Tornato Prospero tardissimo a casa, un famiglio gli
consegnò un piego con le armi papali, che disse essere stato portato da
uno staffiere di palazzo verso la mezzanotte. Appunto a quella ora il destino
della famiglia Cènci era stato deciso: egli lo aperse palpitando, nella
fiducia di trovarvi l'assoluzione dei prevenuti; ma s'ingannò. Era un
breve del Papa, che lo creava consultore della sacra Ruota Romana, con le prerogative,
onorificenze e stipendii annessi a cotesta carica. Il breve, dettato nella
vacua magniloquenza, e con le decrepite leziosaggini della curia, vantava la
prestanza, ed anche le virtù del nuovo consultore.
- Meglio così,
esclamò il Farinaccio; non è quello ch'io sperava, ma par che
metta bene. Se gli fossi riuscito fastidioso, Sua Santità non avrebbe
atteso a darmi questo splendido segno del suo gradimento.
In cosiffatta fiducia egli
dormiva sopra le piume desiderate un sonno di oro.
*
* *
A tre ore di notte, i giudici
si erano adunati nella medesima sala dove avevano arringato i difensori. Un
solo candelabro, velato da un cerchio di seta oscura, arde nel mezzo della
tavola: tutti siedono, ed incominciano a mettere parole sommessamente fra loro.
Il chiarore velato illumina a un punto, ed adombra uno affetto che temono, e
che, insinuatosi peritoso negli animi loro, sbigottiscono al pensiero che
scivoli a trasparire nel volto; e non pertanto l'ora, il luogo, tuttavia vocale
delle parole del Farinaccio, e la coscienza che si faceva sentire come suono
lontano per acqua cheta, li disponeva a pietà. Di repente al preside
venne fatto di gittare gli occhi sopra un volume da lui non avvertito fin
lì, riputandolo parte del processo: egli lo aperse, lo lesse, e il suo
volto di pallido diventò livido: lo prese con mano tremante, e lo
passò al collega che gli sedeva al fianco, e questi ad un altro, e
così di seguito finchè, fatto il giro della tavola, non fu
tornato davanti al presidente. Il tremito e il pallore di lui nelle vene e pei
volti dei colleghi si trasfusero a modo di favilla elettrica: ormai tutti
costoro, con la fronte china e gli occhi intenti sopra il tappeto rosso,
stavano assorti in un medesimo pensiero: pareva che un giogo di ferro gravasse
loro sul collo. Tale, io penso, avessero a rappresentare aspetto i convitati
alle mense dei re di Persia, dove un arciere in capo tavola, con la corda su la
noce della balestra, stava pronto a saettare chiunque avesse ardito di sollevar
anco di un pelo la testa. Cotesto foglio aveva avuto la virtù che gli
antichi novellieri attribuiscono al teschio di Medusa; gli aveva impietriti
tutti. - Di vero egli era tale da convertire in sasso ogni cuore di carne;
però che contenesse ricopiata e corretta la sentenza, che condannava a
morte la intera famiglia dei Cènci. Lucrezia, Beatrice e Bernardino
avessero mozza la testa; Giacomo fosse mazzolato; tutti poi attanagliati e
squartati: ancora perdessero i beni, confiscati a profitto della Camera
Apostolica.
Lungo, alto, terribile fu il
silenzio. Si udiva distinto lo schioppettio delle candele, che si consumavano
ardendo: l'arena dell'orologio a polvere si faceva sentire rovesciare i
granelli sopra i granelli: il rodere della tignuola i travi della sala feriva
l'orecchio: - silenzio di morte.
- Dunque sono vili i miei
giudici?
Questa voce improvvisa
conturbò fin dentro le viscere quei pallidi venduti. Donde mosse ella? Gli
occhi non possono distinguere nè da qual parte venne, nè da cui.
I labbri che la profferirono schifano la luce: fra le ombre, in alto della
sala, s'intende un uomo agitare le membra gravi. Da lui per certo si partiva
cotesta voce, e i giudici lo hanno pensato; sicchè tutti assorgendo in
piedi da quella parte hanno appuntato lo sguardo. E chi è colui, che
anche in Roma ha comando? Egli è il sacerdote scettrato, il Vicario di
Cristo Redentore, quegli che faccia a faccia favella con l'Agnello di Dio, che
immolò se stesso alla salute degli uomini... E chi altri, tranne che
lui, avrebbe osato in Roma favellare di morte?
Disperatamente il preside
afferrò la penna: abbrividendo la intrise nello inchiostro, che gli
parve sangue; abbrividendo firmò... ma pure firmò; e poi, senza
piegare il collo, così obliquamente con la mano sospinse il foglio al
suo collega, e questi firmò, e fece come quegli, e così gli
altri. Se gli Angioli videro cotesta infamia, certo piangendo si copersero gli
occhi con le ale. Ma essi firmarono, poi uscirono. Clemente VIII scese con
pesanti passi dal trono, si accostò alla tavola, stese a stento la mano
trafitta dalla podagra alla sentenza, e poi gemendo di angoscia se la ripose
nel seno, come un pugnale.
I giudici si separarono muti,
ognuno detestando se stesso e gli altri. Nel buio della notte, chi qua chi
là andò studiando il passo, a mo' di ladri paurosi di essere
incontrati dal bargello. Tutti riceverono il prezzo del sangue: promossi a
carica più eminente, ebbero stipendio maggiore: nessuno sentì la
verecondia di Giuda, riportando i danari al sacerdote; nessuno il rimorso di
lui, impiccandosi al primo albero che si parò loro davanti per la via:
vissero, e morirono disprezzati e aborriti per di dentro; piaggiati, da cui ne
aveva bisogno, per di fuori; e venuti a morte, con meno di uno scudo i parenti
comprarono un epitaffio da dozzina, il quale, inciso sopra una lapide quattro
volte più grande di quella che per molto spazio di tempo coperse in Roma
le ossa di Torquato Tasso, faceva fede cotesto carcame essere appartenuto a
magistrati integerrimi, della patria e della umanità benemerentissimi.
Ma l'artiglio, che gli straziava fra la camicia ed il petto, non compariva di
fuori; i loro tormenti non ebbero, e non potevano avere consolatore: soffrirono
muti, nè osarono levare neppure un gemito per sospetto che l'eco lo
raccogliesse, e lo rincacciasse loro nel volto come un'accusa. Adesso cotesti
giudici da secoli furono giudicati. Torciamo lo sguardo dal loro destino,
imperciocchè quei ribaldi non meritino nè anco una maladizione.
CAPITOLO XXVI.
LA CONFESSIONE
Di sante preci
il frate soccorrea
La
derelitta alla tremenda andata;
E levata la
mano la sciogliea
Benedicendo,
dalle sue peccata.
Grossi, Ildegarda
Il Papa si era riposto nel
seno la sentenza come un pugnale, e, a modo di sicario, luogo e tempo studia
per adoperarla. Il compianto del popolo gli giungeva al Vaticano come il fiotto
della marea in tempesta, ed egli aspetta che quei cavalloni dello impeto
popolare posino alquanto per condurre a fine lo immutabile proponimento.
Mentr'ei così
speculando attende la occasione, ecco la fortuna mettergliene una nelle mani,
ch'egli stesso non avrebbe potuto immaginare più tempestiva, o migliore.
Francesco Cènci, come sovente a se medesimo augurava, fu fatale alla sua
famiglia non pure in vita, ma parve davvero che anche dopo morto stendesse la
destra fuori del sepolcro per afferrare i suoi parenti, e cacciarveli dentro
insieme con lui. Quel Paolo Santa Croce parente delta famiglia Cènci, di
cui fu tenuto proposito sul principio di questa storia dolorosa, sempre fisso
nel proponimento di ammazzare sua madre donna Costanza, non aveva fino allora
rinvenuto modo per poterlo fare senza suo manifesto pericolo. Ora accadde che
cotesta sciagurata signora si recasse a Subiaco, per curare col vivido aere
della campagna la declinata salute. Don Paolo, avvertito di ciò, si conduceva
di celato in quelle parti, e presentatolesi dinanzi la uccise senza
misericordia a colpi di stile: poi, fatta raccolta del meglio si trovava nel
feudo dell'Oriuolo, fuggì la giustizia del mondo, non quella di Dio;
conciossiachè si ricavi dalla storia del signor Novaes, come indi a
breve egli si conducesse a fare tristissima fine. Per questo caso si sparse per
Roma maraviglioso terrore; e il Papa, usufruttandolo in pro suo, si dispose a
spiegare rigidezza. Pertanto ordinava si arrestasse don Onofrio marchese
dell'Oriuolo fratello di don Paolo, indiziato di complicità con lui. Il
bargello eseguì il comando mentre questo povero signore tornava a casa,
dopo aver giuocato una partita al pallone nel palazzo Orsini a Montegiordano; e
comecchè dal processo non si ricavasse altra prova, oltre quella di
avere scritto al fratello che se le turpitudini materne affermategli da lui
fossero vere si comportasse da cavaliere, fu condannato a morte. La casa
Orsina, potentissima di aderenze e di credito, a cui per la morte naturale e
civile dei Santa Croce ricadeva il feudo dell'Oriuolo, si mise a celebrare a
piena gola le lodi del papa pel salutare rigore, e trasse seco buona parte
della nobiltà. Questi elogi poi crebbero smodati quando la Camera, senza
contrasto, acconsentì che il feudo mentovato si devolvesse a casa
Orsina; e ciò fu fatto col sottile accorgimento di fuggir faccia di
cupidigia, ed appianarsi la strada a ingoiare i beni di casa Cincia, a cui
miravano gli Aldobrandini: ancora il cardinale San Giorgio aguzzando il
cervello faceva foco nell'orcio, spargendo ad arte discorsi dattorno per
impaurire i già troppo atterriti cittadini. Non padre, non madre, diceva
la gente sobillata, essere ormai più sicuri nelle domestiche pareti;
ogni vincolo di natura disciogliersi; pericolo procreare figliuoli, pericolo
allevarli lattanti, più imminente pericolo tenerli in casa adulti. Lo
sgomento universale prendeva mille voci e mille aspetti, senza trascurare, come
sempre avviene, anche il grottesco; dacchè padre Zanobi, maestro dei novizii
nel collegio dei Padri Gesuiti, levando gli occhi al cielo con un grosso
sospiro affermava, che ai giorni nostri i poveri genitori correvano pericolo di
addormentarsi vivi, e di svegliarsi ammazzati.
Il popolo, seguendo l'antico
costume, dopo avere gonfiato il flutto della sua passione fino all'altezza
jemale andava di mano in mano decrescendolo, per quietarlo finalmente nella
inerzia. La compassione popolare aveva accompagnato Beatrice fino alla soglia
del carcere: colà essendole state chiuse le porte in faccia si pose in
sentinella, e vigilò tutto quel giorno e buona parte anche della notte:
finalmente si sentì stanca, e digiuna; il sonno le prese gli occhi, la
fame i visceri: aggiungi che la notte si faceva buia, e nessuno la vedeva. Ora
la compassione, sia pur della buona, se non è vista si scolora; e per di
più la notte stringeva fredda; ond'ella, dopo avere tentennato un pezzo
fra il sì e il no, decise ridursi a casa per tornare il giorno appresso
per tempo. Colà giunta ella bevve, mangiò, e giacque nel letto:
quando la mattina si levò aveva quasi dimenticato la Beatrice, e una
volta che fu per la strada le occorse un caso che la fece piangere, e quello
che cadde sotto i suoi sensi ebbe virtù di farle obliare quanto aveva
raccomandato alla memoria. Il cuore del popolo deve bastare per tante sciagure,
che non può affannarsi lungamente ed intero per taluna di quelle.
Beatrice si rimase sola co'
suoi dolori. Oh! questi, sì, ci rimangono fedeli, e non ci abbandonano
mai finchè non ci abbiano consegnato alla morte in proprie mani. Gli
uomini costumano dire: fedele come un cane. S'ingannano; e' dovrieno dire:
fedele come il dolore, e direbbero meglio.
Quando al Papa parve tempo di
muovere l'antenna e sciogliere la vela, chiamato a se monsignore Ferdinando
Taverna, che stava in agonia del cardinalato conferitogli più tardi
sotto il titolo di Santo Eusebio, gli consegnò la sentenza dicendogli:
- Vi renuncio la causa dei
Cènci, acciò quanto prima ne facciate la debita giustizia.
E subito dopo, per sottrarsi alle
molestie, ed alla paura di doventare pietoso, se ne andava a Montecavallo,
sotto pretesto di trovarsi più sollecito la mattina seguente a
consacrare monsignore Drikestein, vescovo di Ulma nella Svevia; in
verità poi affinchè gli ordini dati sortissero tostano, e pieno
compimento.
Monsignor Taverna, arnese
docilissimo delle volontà papali, si ridusse di corsa al palazzo, dove,
adunata senza indugio la congregazione dei giudici criminali, divisarono
insieme il modo di dare esecuzione la mattina veniente alla senitenza.
Nello aulico estratto del Giornale
della confraternita di San Giovanni decollato in Roma, l. 16. carte 66,
leggiamo:
«Venerdì ai 10
settembre 1599 a due hore di notte fu fatto intendere che la mattina seguente
si doveva fare giustizia di alcuni nella Torre di Nona, e di Carcere Savella,
et però a cinque hore di notte adunai la confraternita, cappellano,
sagrestano, e fattore, et andati alle carceri di Torre di Nona, et fatte le
horationi ci furono consegnati gl'infrascritti a morte condannati, il signore
Jacomo Cènci et il signor Bernardino Cènci fratelli, del quondam
signor Francesco Cènci. In Corte Savella alla medesima hora andata una
parte dei confratelli, et entrati nella nostra cappella, et fatte le solite
horationi ci furono consegnate le infrascritte a morte condannate, la signora
Beatrice Cènci figlia del quondam signore Francesco Cènci,
e la signora Lucrezia Petroni moglie del quondam Francesco Cènci
gentildonne romane».
E poichè mi par debito,
dopo due secoli e mezzo, rammentare ai presenti il nome di coloro che
assisterono alla miserabile tragedia, non mi fie grave trascriverli qui come io
li trovo registrati nel medesimo estratto.
«Alle predette carceri di
Torre di Nona furono presenti messere Giovanni Aldobrandini, messere Aurelio
del Migliore, messere Cammillo Moretti, messere Francesco Vai, e messere
Migliore Guidotti; chiamati in supplemento Domenico Sogliani segretario, e
l'illustrissimo Cappellano. A quelle di Corte Savella andarono Anton Maria
Corazza, Horatio Ansaldi, Anton Coppoli, Ruggiero Ruggieri confortatore,
Giovambattista Nannoni sagrestano, Pierino fattore et il nostro Cappellano, et
io Santi Vannini, che scrissi».
Intanto che questa mano di
pietosi toscani si affatica a renderle meno amara la morte, Beatrice che fa?
Ella dorme come nella notte in
che fu desta dal singulto di un moribondo, e questo moribondo era suo padre a
piè del letto ammazzato. - Non la svegliamo; solo accostatevi taciti a
contemplarne anche una volta la divina bellezza. Non vi pare ella davvero creatura
celeste? Guardate le guance polite, che non poterono perdere tutto il roseo
della vergine anima sua; il sonno tranquillo gliele dipinge di una tinta
più vermiglia, e le lumeggia col riflesso dell'ale candide, che le
distende su tutta la persona. Mirate i labbri; essi bevvero molte, ahi! troppe,
delle sue lacrime, e non pertanto mezzo schiusi sorridono un mesto, eppure
dolcissimo sorriso: - una volta questo sorriso apparve raggio di stella
traverso la rugiada di una rosa; adesso potrebbe rassomigliarsi alla luce
sinistra, che il sole all'occaso manda alla nuvola pregna della procella.
Più tardi verrà la procella; più tardi scoppierà
l'affannosa passione; adesso il raggio par tutto porpora ed oro; adesso quel
sorriso sembra posato sopra cotesti labbri dall'angiolo custode di Beatrice.
Guardate... no, non le
guardiamo gli occhi: un dì, quando ella girava gli occhi dintorno,
l'aere si faceva più chiaro, il raggio del sole raddoppiava di
splendore, vinceva le fiammelle del giocondo festino; adesso il pianto gli ha
oscurati; per essi solo si comprende quanta mole di miseria siasi aggravata
sopra di lei. Deh! non l'abbandoni il sonno; - potesse essere eterno! Invero, e
qual sarebbe pietà desiderarle di riaprire le pupille alla luce? Luce, e
dolore non sono la stessa cosa per lei? Se si svegliasse nello amplesso di Dio,
pei campi eterni, lontano lontano dalle angosce di questa terra maledetta...
quanta sarebbe misericordia per lei! Signore, non farla ridestare mai
più; ritira a te il tuo fiato, col quale animasti un giorno questa cara
fanciulla; mesci nella tua grande anima la scintilla spirituale, che in lei
sente e ragiona: la farfalletta leggiadra e passeggera ebbe le ale infrante; -
non imporle nuovo volo, o chiamala piuttosto al volo immortale. Invano! Dio tiene
il dito fisso inesorabilmente sopra la fronte di ogni creatura, ed i fati forza
è che si compiano. Le sue pupille devono aprirsi a nuove, e più
tremende visioni; le fibre del suo cuore hanno a stridere per lo strazio di
più pungenti sensazioni, e poi morrà: vuole Dio che la sua vita
si consumi al fuoco del dolore, e la fiamma ne duri finchè la possa
alimentare frammento di osso, o filo di nervo.
Ella dorme ancora; ma il
sorriso svanisce dai suoi labbri, e le si contraggono i sopraccigli. Sopra
cotesta fronte così liscia, così piana, in breve ora col vomere
di fuoco tracciò profondo il suo solco la sventura. A che pensa? Le si
avvolgono per la mente i ricordi ultimi dello amore, che però sono
divini? O rammenta piuttosto le furie paterne, e il lampo del ferro che gli
squarciò la gola, o le patite torture? - Udiamo; ella parla.
- Ma perchè mi sei
così nemico, Dio? Che cosa ti ho fatto?
E sollevata con violenza la
destra, le catene di cui l'avevano avvinta da pochi giorni a questa parte
mandarono un suono che percosse acuto, e si disperse lento per l'aere cieco del
carcere: pure non valse a destarla; ella geme, e dorme. - Però di un
tratto le stette davanti una larva, che vestì intera la sembianza del
suo fratello don Giacomo; la quale essendosi pianamente accostata al letto, le
disse: «Su, levati, è l'ora». Al che avendo ella risposto interrogando:
«dove abbiamo ad andare?» la larva si curvò, quasi volesse
sussurrarglielo negli orecchi, e la testa con un profluvio di sangue le
cascò giù dalle spalle rotolando sopra il lenzuolo. Allora
Beatrice proruppe in un grido disperato, e si svegliò.
Si svegliò; e sollevato
risoluta il fianco, lanciò intorno a se le pupille atterrite. Nulla
appariva mutato: la lampada ardeva a capo del letto davanti la immagine della
Vergine; oltre il letto discerneva poco; il silenzio profondissimo occupava la
prigione, e non pertanto in un angolo di quella, ed essa non gli aveva veduti,
due genuflessi oravano mentalmente il Signore per l'anima di lei.
Ella sentì un passo,
poi due. Alfine si staccò dalle ombre un'ombra meno fosca, che
inoltrandosi lenta lenta dentro la zona dei raggi tramandati dalla lampada
rivelò il venerando aspetto di un cappuccino, attrito dal digiuno e
dagli anni. Gli sguardi smarriti Beatrice posa intenti sopra quella pallida
faccia, e non pronunzia parola. Il vecchio leva la mano benedicendo; e recita
la orazione che ha virtù di scacciare, nel nome del Padre, del Figliuolo
e dello Spiritossanto, lo spirito maligno dal corpo degli ossessi. Ella lasciò
che fluisse la orazione, poi dolce in atto gli disse:
- Padre! meco non ha abitato
il demonio mai.
- Così sia, figlia; ma
egli ci gira sempre dintorno come lione che rugge, epperò giova starci
apparecchiati a sostenerne l'assalto. Volete, figlia mia, accostarvi al tribunale
della penitenza? Io sono qui disposto ad ascoltarvi.
- Domani.
- Domani! E perchè
vogliamo rimandare a domani quello che possiamo fare adesso? L'uomo è
egli padrone del domani?
- Così impreparata, -
colta alla sprovvista, - svegliata a forza da un sogno di terrore!
- E la morte ci assegna forse
un'ora per sorprenderci? Non giunge ella inaspettata come il ladro fra le
tenebre? Cristo lo ha detto...
In questa la porta del carcere
stridendo sopra i suoi cardini si aperse, ed al chiarore di una torcia furono
visti entrare il sostituto dell'avvocato fiscale accompagnato da alcuni
cursori, i quali con volto cupo, ma senza amarezza, come senza benevolenza, si
accostarono al letto di Beatrice. Il signor Ventura, che tale era il nome del
sostituto, così incominciò:
- Se differendone la notizia
potessi, gentil donzella, mutare il vostro destino, volentieri io lo farei. Il
mio penoso ufficio mi obbliga leggervi la sentenza...
- Di morte? - esclamò
Beatrice.
Il cappuccino si coperse la
faccia con ambedue le mani; gli altri la declinarono. Beatrice si
aggrappò smaniosa al mantello del padre, e gemè dal profondo del
cuore:
- Oh Dio! Dio!, ella gridava,
com'è possibile che io, così giovane, abbia a morire? Nata
appena, perchè vogliono in modo tanto acerbo cacciarmi via dalla vita?
Signore... Signore, qual colpa ho io commesso? - La vita! Ma sapete voi, la
vita a quindici anni che sia?...
- La vita, le risponde il
cappuccino, è soma che va crescendo con gli anni. Felici i non nati a
portarla! Dopo loro, felici quelli a cui Dio concede di deporla presto! Che
cosa trovi, o figliuola, nei tuoi giorni decorsi, che t'invogli a prolungarne
la trama?
- Nulla, - replica precipitosa
Beatrice; poi si ferma sopra un punto, che la memoria parve presentarle
luminoso; ma fissatolo appena, si ecclissò; ond'ella umiliata, a voce
via via più spenta aggiunse:
- Nulla... nulla...
- Ebbene, dunque, animo!
leviamoci presto da questa mensa dove i cibi sono cenere, e bevanda le
lacrime...
- Ma il modo, Padre mio, ma il
modo... oh!
- Mille vie, e tu lo vedi o
figliuola, appresta la Provvidenza per uscire di vita; una sola per entrarvi:
la più sollecita è la migliore; ma benedette tutte, purchè
conducano al paradiso.
- E la infamia, Padre,
l'obbrobrio rovesciato sopra la mia memoria?
- Questi sono i pensieri della
polvere. Davanti al giudizio di Dio, il giudizio degli uomini che cosa importa?
Che sono i secoli davanti al soffio del Signore? La fama passa, e il tempo che
seco se la porta. Sopra la soglia dello Infinito gli anni non si distinguono neanche
come polvere. Volgi, o figlia, il tuo sguardo al cielo, e dimentica le cose
terrene.
- Ah! la morte... -
mormorò Beatrice, e la funesta parola passando per le labbra vermiglie,
le ghiacciò, le imbianchì; subito dopo il freddo sudore le
cosperse la fronte, raccapricciò per tutte le membra, e i sopraccigli
declinando gravi le adombrarono le pupille smarrite.
- Soccorso! - gridò
Virginia; e già muoveva in traccia di spirito e sale per farla
rinvenire, quando Beatrice ricuperando i sensi disse:
- È passato; - e con le
mani si spartì sopra la fronte i capelli bagnati di sudore. Poi, rivolta
agli astanti, riprese: - Perdono, signori, e' fu un momento di debolezza. Lo
ebbe anche Gesù... scusatelo dunque in me, che sono una grande
peccatrice. Adesso, signore, potete adempire il vostro ufficio: io vi ascolto.
Il clarissimo signor Ventura
allora lesse la sentenza, non omettendo clausula e nè un eccetera, con
voce lenta, monotona, lugubre come i tocchi della campana che suona per gli
agonizzanti. Quando ebbe finito levò gli occhi verso Beatrice,
perchè aveva già ritrovato nella sua memoria certo discorsetto
intorno alla virtù della pazienza, altre volte in pari occasioni da lui
favellato, e, per quanto glien'era parso, con moltissimo frutto; ond'ei, mutatis
mutandis, si accingeva applicarlo al caso; ma vistala inconcussa, non
è da dire se rimanesse contento di risparmiarselo. Inchinata pertanto la
persona, usciva co' suoi cursori incamminandosi a rinnuovare lo ufficio con gli
altri condannati. «Il discorso, pensava fra se, mi gioverà con quelli
che parranno averne bisogno: niente di troppo!»
- Virginia, soggiunse Beatrice
prendendo per mano la fanciulla, di grazia esci per un momento. Il tempo, come
sai, stringe; domani... e prima di morire ho da confessarmi, ed assettare le
cose dell'anima. Va, sorella mia, ti chiamerò...
Virginia si sentiva scoppiare
il cuore; partì senza aprir bocca, e quando avesse voluto farlo non le
sarebbe riuscito. Beatrice avendo avvezzato il guardo alla scarsa luce, vede
nello angolo della prigione un genuflesso che teneva il volto nascosto nelle
mani: anche lui cuopre un cappuccio, nè trapela parte alcuna delle sue
sembianze: sta immoto così, che non rassembra animato. Perchè si
trattiene costui? E chi è egli, che presumerebbe essere messo a parte
dei segreti del cielo? La confessione non può ascoltarsi se non da uno
solo: così è sacramento; in diverso modo sarebbe sacrilegio.
Ella tace esitante; il
cappuccino, anch'egli esitante, non sa schiudere il labbro. Beatrice guarda ora
l'uno, ora l'altro; nè capace a penetrare quel mistero, prolunga il
silenzio.
Quel prostrato è Guido
Guerra, l'amante disperato di Beatrice. E a che vien egli in cotesta ora
solenne? Perchè si attenta a contristarle i suoi estremi momenti? Non
gli basta ancora? A nessuna creatura l'odio altrui tornò così
funesto, come lo amore suo a Beatrice. Fu egli che suscitò in quel cuore
di vergine uno affetto, che poi spense nel sangue. Fu egli che intendendo, mal
cauto, a salvarla, oltre la vita le tolse la fama, reliquia ultima degli
infelici traditi. Sia pago a tanto, e si allontani. Viene egli forse a tentare
se in lei duri tuttavia amore? A che monta ciò? Se cotesta fiamma arde
pur sempre, ahimè! come la lampada della Vestale sepolta, arde per
morire, arde per illuminare il sepolcro. O forse viene egli a bere l'ultima
lagrima della desolata? - Addietro; cotesta sarebbe voluttà di vampiro.
O piuttosto viene a ravvivare nell'anima di lei speranze ch'ella depose
già, nella guisa stessa con la quale le antiche vergini della Grecia si recidevano
le chiome sopra le tombe dei trapassati? La lasci morire in pace: tanto, anco
vivendo, entrambi sarebbero divisi (ed ella non glielo tacque) da una fiumana
di sangue, e lungo le sponde vagolerebbero perpetuamente senza poterla,
nè volerla valicare giammai. Quando il destino mette in moto la ruota
dello infortunio a frantumare la umana creatura, o che cosa è l'uomo per
presumere di porsi tra mezzo la macina e il macinato? Lo ufficio supremo ed
unico, che rimanga allo amico dello sventurato, consiste nello applicare un
bacio su le commessure della lapide sepolcrale come il suggello di una epistola
finita. Il Signore, che vede cotesto atto, romperà fra breve quel
suggello, e riparerà nella pace eterna il superstite inconsolabile.
Ma Guido ormai penetrò
nella prigione di Beatrice. Se un Dio o un demonio lo abbia spinto, egli non
attese, nè sa. Vedere volle Beatrice, e la vede adesso: ogni altro
ignora; e adesso sente eziandio che stringerebbe volentieri la mano della
fanciulla, dove le fosse stesa, quando anco in quel punto cadendo una scure le
recidesse, così intrecciate, ambedue. - Sente che vorrebbe la sua testa
posata accanto alla testa di lei, le sue labbra incollate alle sue labbra,
fosse pure giù dentro la cesta che raccoglie i capi mozzi dal carnefice.
Ed ella quando, gittato il cappuccio sopra le spalle, avrà riconosciuto
colui che fu prima radice di ogni suo male, come sosterrà il suo
sguardo? Quali parole profferirà?
Guido si leva in piedi, muta
alcuni passi vacillando; poi sta, e piange. La fanciulla udiva scenderle sopra
l'anima quelle lacrime, soavi come il pianto della sua genitrice.
- Chi è che piange? -
ella disse; - io non avrei creduto che in questo luogo si chiudessero anime
più desolate della mia.
E guardando il cielo
sospirò mestamente.
Cotesta voce, che si
partì dalle labbra affettuose di Beatrice, suonò all'orecchio di
Guido armonia di paradiso. Quello che non avrebbe osato la sua passione, egli
fece vinto dalla virtù della voce: superata la paura tirò addietro
precipitoso il cappuccio, ed ecco appare la faccia di Guido, parlante e bella
come una testa del Correggio. Tacito e tremante si accosta a Beatrice: Beatrice
lo ravvisa, e indietreggia tremando; allora anche Guido dà indietro un
passo: nè quel misero amante, nè la donzella ardivano, non che
profferire parole, alitare; solo in quel silenzio si udiva il cigolìo
delle catene, scosse dai polsi convulsi di Beatrice.
Come uccelli non ancora
pennuti, levata appena l'ala l'abbassono affaticati, così costoro alzano
appena gli occhi per declinarli subito al pavimento. Ella, Beatrice, fuggendo,
e cercando lo sguardo di Guido, avviene alfine che posi i suoi occhi sopra i
mestissimi occhi di lui. L'anima trabocca tutta dalle loro pupille: dalle loro
labbra, strette come il cuore, non muove nè anche un sospiro. La bocca
di Beatrice non parlerà; assai hanno favellato i suoi occhi; però
che lo spirito dello amore passandole davanti come quello di Dio, le abbia
detto: «E tu presso di lui accusasti tuo padre; e tu nel petto gli rovesciasti
una furia implacabile; s'egli ti amava meno non sarebbe diventato omicida: egli
ti fece palese amarti di amore supremo allorquando recise a un punto la vita
altrui, e la propria speranza; Guido ti amò piuttosto santa, che sua». -
E lo spirito dello amore balenò dai suoi occhi amore e perdono. -
Guido... fate di ricordarvi le teste di San Francesco che riceve le stimate,
dipinte da Andrea del Sarto, dal Ghirlandaio, e dagli altri gloriosi maestri
dell'arte, - tale Guido inebbriato di passione adorava. Beatrice, cedendo allo
impeto che la strascina, muove per abbracciarlo; poi si trattiene vereconda, e
piange, e al suo pianto gli altri piangevano.
I suoi labbri, rinfrescati da
cotesta rugiada di lacrime, forse si sarebbero aperti ad una voce, quando il
frate, che presso loro spiava i dubbiosi desiri, mettendo la sua in mezzo alle
loro teste, ed adombrandole in parte con la barba canuta che gli pendeva in
copia giù dal mento, con voce sommessa così favellò:
- Silenzio! Una parola uscita
dai vostri labbri sarebbe morte a qualche altro di voi, e vituperio a me. Voi
siete congiunti in matrimonio. Quello che Dio lega lassù, l'uomo
può separare, non sciogliere. Ora basti, figliuoli...
E con fermo braccio gli
separava. Mansueta Beatrice, di leggieri acconsente alla preghiera; ma Guido,
iroso, respinge il frate; onde questi con dolce rimprovero così lo
raumilia:
- Dunque tu vuoi spargere la
vergogna sopra i miei capelli canuti perchè ti fui pietoso?
Guido piegò la testa, e
baciò la manetta di ferro che serrava il polso destro di Beatrice; vide
l'anello di oro ch'egli le aveva mandato per mezzo del Farinaccio, e
sospirò una parola, che Beatrice o non intese, o non curò. Il
frate intanto acconcia il cappuccio sul capo a Guido, e ricingendolo col
braccio a mezza vita lo trae verso la porta. Il frate disse ai sospettosi
custodi che il suo compagno, estenuato dalle vigilie, non aveva potuto reggere
al desolante spettacolo, e lo commise alla carità dei fratelli della
Misericordia; i quali accoltolo con ogni maniera di benevolenza, lo scortarono
fuori della prigione. Egli scendendo le scale tortuose bagnava ogni scalino di
lacrime.
Beatrice, come impietrita,
stava fissa sopra la porta donde era scomparso Guido; le pareva sognare;
senonchè le catene, scosse di tratto in tratto, la rendevano avvertita
ch'ella vegliava pur troppo. Involontaria guardò la manetta baciata da
Guido, e vide le sue lacrime decomporre, a modo d'iride, la luce della lampada
che in quelle si rifletteva; parevano gemme, e tali sembrarono anche a lei,
dacchè sospirando esclamasse:
- Ecco le gioie nuziali, che
mi ha donato il mio sposo.
Quando Padre Angelico
tornò nel carcere, ella tutta carezzevole lo interrogò:
- Ed ora dove è andato?
- Al convento.
- Ah com'è misero!..
- Misero assai. Non sempre
alberga in convento; però spesso, nel fitto della notte, si ode bussare
un lieve tocco alle porte, e Guido si presenta. I frati lo accolgono, e lo
nascondono per carità e per gratitudine, a cagione delle molte elemosine
di cui egli ed i suoi antenati furono larghi al convento. Non domanda cibo, o
riposo, nè vuole: va in chiesa, s'inginocchia davanti l'altare maggiore,
e passa ore ed ore sopra i freddi scaglioni come rapito in estasi; e se non
fosse il pianto, non parrebbe vivo. Grande è la miseria dell'uomo per cui
il pianto diventò unica testimonianza di vita. Io per me credo che
s'egli avesse qualche nemico, vedendolo ridotto a tale ne sentirebbe
pietà.
Così favellava il
frate, e le sue parole cancellavano dallo spirito di Beatrice le ultime orme
della notte funesta, in cui vide a piè del suo letto trucidato il padre
per la mano dello amante.
- Ma negli altri giorni dove
si nasconde egli? Padre mio, quando lo rivedrete, vi raccomando dirgli che si
allontani da Roma; quest'aria è funesta per lui; qui vivono uomini
implacabili, ed io lo so. Sapete voi chi sente un po' di misericordia in Roma
sacerdotale? - Il carnefice.
- Glielo dirò...
- E s'ei tentennasse,
aggiungerete che di ciò lo pregate da parte mia.
- Sta bene. Orsù
dunque, figliuola mia, adesso è tempo di volgere il pensiero al cielo:
prostratevi a terra; chè quanto vi umiliate, tanto sarete esaltata. La
contrizione è gemella della misericordia; e quando esse si presentano
unite al trono di Dio, di rado avviene che la giustizia non deponga la spada.
Beatrice genuflessa apre al
confessore i penetrali dell'anima: lievi falli, tenui colpe, e ch'ella pure
reputa gravissime, dimostrano quale e quanta sia la innocenza di quel suo
spirito fiero e gentile. Il frate nello udirla imprecava alla dura
necessità, che l'aveva condotta a spingere le mani nel sangue paterno. -
Intanto Beatrice tace, e non si è ancora accusata di parricidio. Il
padre, esperto delle passioni umane, attribuisce il silenzio a vergogna, e di
questo, invece di adontarsene, la pregia; onde la sollecita discretamente a
svelare le sue colpe intere, confortandola a rompere ogni ritegno; ma ella
ingenua gli risponde:
- Le mie colpe, per quanto ho
potuto rammentarmi, ho confessato tutte; per quelle che omisi involontaria,
voglia la Bontà divina usarmi la sua misericordia.
- Pure, cercate...
- Ricercherò da capo: e
postasi sul meditare, prolungava il silenzio oltre l'aspettativa del padre; al
quale sembrando adesso dissimulazione quanto prima reputò vergogna, non
senza un cotal poco di asprezza le domandò:
- E Francesco Cènci,
dite, da qual mano cadde trucidato?
- Io non devo confessarmi dei
peccati degli altri. E queste parole pronunziò con tale candore, che il
cappuccino ne rimase sbalordito.
- E non lo ammazzaste voi?
- Io? - Io non lo uccisi.
- E come dunque ve ne siete accusata?
- Io, padre, ho sopportato
tormenti così angosciosi, che a ripensarvi sopra mi si agghiacciano le
carni, e duro fatica a credere che il mio corpo abbia retto senza disfarsi; e
nondimeno io mi era al tutto disposta di morire fra le torture in testimonio
del vero; ma con infinite preghiere i parenti, gli amici e i difensori mi
supplicarono, e con abbondanza di ragioni mi convinsero ad assumere sopra di me
tutta la colpa; imperciocchè in questo modo, essi speravano, avrei
salvato la signora madre e i fratelli. Quanto a me poi, sarebbe stato agevole
farmi dichiarare scusabile a cagione delle sevizie e degli attentati del Conte
Cènci. Veramente le ragioni non mi persuasero troppo, e neanche le
preghiere mi avrebbero vinto; sennonchè parendomi mostrare troppa
durezza contro i miei, piegai la testa, ed offersi il sagrifizio della mia vita
e della mia fama per tentar di salvare quella della signora Lucrezia e dei
fratelli. Io presentiva che avrei perduto me senza giovare a loro, e lo dissi:
il fatto ha dimostrato che io ben mi apponeva. Pazienza! A Dio piacque
così, e così sia; - per me non istette, che i miei cari non
andassero assoluti.
- Ma non affermaste voi la
vostra colpa con giuramento?
- Gli avvocati mi
cerziorarono, come davanti la legge divina ed umana non essendo peccato la
difesa della propria vita mediante la morte altrui, molto meno poteva
offendersi Dio, che noi la tutelassimo col giurare il falso; ed io giurai...
- O sofisti! O sofisti! E
quando mai nella verità vi è perdizione?
- Pareva anche a me; ma egli
mi raccomandava che io confidassi pienamente in lui; e tanta è la
reputazione di dottrina, che gode, che temei comparire fuori di misura
presuntuosa anteponendo il mio al consiglio di lui...
- E chi è quegli che ve
lo raccomandava?
- Egli. - Guido, che mi
mandò questo anello qui... l'anello che doveva essere benedetto alle
nostre nozze. - E mentre così favellava, la faccia per pudore l'era
diventata di fiamma. E il frate instava:
- Esponete partitamente,
figliuola mia, lo intero successo; forse voi avete peccato, più che non
credete, contro voi stessa...
- Ma i segreti di Dio?...
- I segreti di Dio, rispose
severo il cappuccino, stanno sepolti nel cuore dell'uomo; e all'uomo, voi lo
sapete, puossi bene strappare il cuore, il segreto no.
Allora Beatrice espose
distesamente tutto il fatto, senza ometterne la più lieve
particolarità. Il frate, che incredulo aveva incominciato a prestare
l'orecchio, a mano a mano ebbe a credere alla sembianza ingenua, alla parola
pacata, e al candore della vergine magnanima; ond'è, che mentr'ella
favellava tuttavia, il frate si desse della mano nella fronte esclamando:
- Signore! Signore! anima
più benedetta di questa quando mai fu veduta quaggiù?
E posto ch'ebbe fine la
Beatrice alla confessione, il frate sbigottito favellò:
- Anima santa, io ti assolvo
dacchè questo sia lo ufficio del ministero; ma io protesto che dovrei
prostrarmi davanti a te, e pregarti che tu mi raccomandi a Dio. Da quali labbra
potranno giungergli più accette le preghiere, che da queste purissime ed
innocentissime tue? Prega da te stessa Dio; io unirò le mie preci alle
tue, che certamente giungeranno in paradiso; - nè io già
pregherò per te, che non ne hai di bisogno; bensì per questa
sventurata città, e per la salute di coloro che ti condannarono.
La fanciulla si prostrò
davanti alle sacre Immagini che pendevano dalle pareti; e rivolgendosi,
secondochè le donne costumano fare più particolarmente, alla
Beata Vergine, la ringraziava di chiamarla così presto da questa vita, e
soprattutto di averle fatto grazia di vedere anche una volta quel caro Guido,
il quale non le potendo essere compagno in terra, sperava le sarebbe unito
eternamente in paradiso...
Ma qui si fermò, quasi
avesse tocco del piè la vipera, e sbigottita domandò:
- Padre, ditemi, in carità;
ma Guido mio sarà perdonato? Sarà fatto egli degno della
salvazione eterna? Potrò io non tremare al suo cospetto? Mi verrà
concesso di stringere quella mano che ha trucidato mio padre?
- E pensi tu, figlia mia, che
potremmo noi godere le gioie del paradiso se non obliassimo gli affanni
terreni? All'anima immortale la memoria di essere rimasta prigioniera dentro il
viluppo di creta tornerebbe non solo di gravezza, ma di vergogna.
- Ah! - rispose Beatrice
sospirando, - eppure io avrei non voluto dimenticare l'amor mio, - quantunque
pieno di affanni...
Allora riprese a pregare
fervorosamente Dio; e il frate accanto lo supplicava tacito, affinchè su
quella cara innocente non facesse mai venir meno la costanza.
Un confortatore essendosi in
quel punto affacciato sopra la soglia della carcere, chiamò col cenno il
frate e gli sussurrò a voce bassa una parola; questi avendola raccolta
tornava presso alla Beatrice, e sì le diceva:
- Figlia, se desideraste
trovarvi insieme con la vostra signora madre vi sarebbe concesso.
- Venga... oh! venga, povera
signora madre,... ci consoleremo insieme.
CAPITOLO XXVII.
LE VESTI.
Mi vestirai di
quella veste nera,
Ch'io stessa di
mia mano ho trapuntita.
Grossi, Ildegonda.
Le parole hanno un confine, e
più angusto di assai che altri non immagina: la penna non è, come
pensano, il miglior conduttore della elettricità dell'anima. Quante
sensazioni, scintillate potentissime dal cuore, vanno a morire languide sopra
la carta! La carta sovente è il lenzuolo sepolcrale dei pensieri:
però io non descrivo la ebbrezza dello amplesso di Beatrice con la
matrigna Petroni, non l'amaritudine di toccarsi guancia con guancia, bocca con
bocca, e sopra i volti confondere le mutue lacrime.
Si gittarono bramose le
braccia al collo: - ahimè, le catene impedirono di stringerselo
liberamente. Tralascio i singhiozzi convulsi, le parole desolate, i sospiri
lunghi di fuoco; - tanto mi avanza a raccontare di queste miserie tuttavia, che
a pur pensarvi l'anima affaticata trema.
Ma tutto ha fine
quaggiù; anche il pianto, quantunque egli sia il più copioso dei
retaggi lasciati dal vecchio Adamo ai suoi figliuoli: onde per ultimo entrambe
si tacquero. Il cuore di coteste donne ha bisogno di riposo per sentire un
nuovo dolore.
Beatrice osservando la
matrigna donna Lucrezia con abito sfoggiato di stoffa a fiorami, guarnito di
trina di Digione, le venne fatto di guardare anche il suo; e con somma
maraviglia notò come, senza avvertirlo, anch'ella andasse abbigliata di
un abito verde con lavorii a spinapesce di oro, ch'ella costumava, ai tempi
della vita serena, portare a preferenza degli altri.
La memoria, amica troppo
spesso importuna, le ricordava com'ella andasse di cotesta veste ornata quando
prima vide Guido, e fu veduta da lui; e le ricordò eziandio come questi
(pieno la mente giovanile dei canti del Petrarca) le dicesse sovente, che al
primo comparirle davanti le parve Laura giovanotta.
Ma non correva stagione di
accarezzare coteste liete rimembranze: onde cacciatele via da se, si pose a
considerare quanto fosse sconvenevole cosa andare a morte con siffatti
abbigliamenti sfarzosi. E pensando, come pur troppo era vero, che donna
Lucrezia, immersa nel dolore, non vi avesse nè anche ella Badato.
- Signora madre, le disse,
quando noi altre donne imprendiamo il viaggio della vita, i nostri censori
dicono che per viatico prendiamo la vanità; e se il pericolo ci coglie,
lasciamo anzi perire la nave, che gittar via il carico. E veramente affatto
torto essi non hanno. Degli altri vizii le donne possono, volendo, emendarsi;
della vanità no; perchè quelli si conoscono, ma la vanità
difficilmente, o non mai; e neanche si può combattere perchè non
sostiene punto l'assalto; ma cede, e fugge, e fuggendo si rimpiatta sotto la
nostra persona come l'ombra a mezzogiorno.
- Beatrice non vi comprendo;
per me queste le sono cose troppo astruse.
- Ve le renderà
più piane uno sguardo che gittiate sopra di voi; vedete un po' come
senza porvi mente vi siate abbigliata?
- O gran Madre delle
misericordie, esclamò donna Lucrezia spaventata, vedendosi in cotesto
arnese; - si direbbe che ho perduto la testa!
Beatrice notò le
ingenue parole, e quasi sorrise; ma subito dopo contegnosa soggiunse:
- E poi mostrarci così,
sarebbe per la parte nostra una jattanza a sfidare la morte, la quale è
lontana dai nostri cuori. Noi la subiamo con rassegnazione poichè Dio ce
la manda; non è vero, madre mia?
- Voi parlate da quella savia,
e costumata fanciulla ch'io vi ho sempre conosciuta.
- Orsù dunque,
Virginia, proseguì Beatrice: tu fa di provvederci una stoffa qualunque,
che basti a formare due cappe; una per me, e l'altra per la signora madre: due
funi, e due veli... Virginia, o che non mi rispondi?
Virginia si sentiva un peso
sul petto, che non le dava balìa di formare parola; a singulti, dopo
molto spazio di tempo, favellò:
- Ho un taglio di tela
bambagina di colore scuro, ed un altro di taffettà pavonazzo, che mi
comperò mio padre alla fiera di Viterbo; - ma non me ne feci mai
vestiti... perchè il meglio per me è non essere osservata... nè
conosciuta... se li volete?...
- Certamente; e ti darò
da comperarne altri meno lugubri, dacchè una fanciulla da pari tuo non
ha da usare colori foschi, nè neri; - lo vedi, io, quando vissi, li
costumava verdi... E per le funi come si fa?
- Mio padre ne tiene...
- E i veli?
- Vengono somministrati dai
fratelli della Misericordia... e qui Virginia proruppe in uno scoppio di
pianto.
Beatrice si posò la
mano sul seno, come per comprimere l'affetto che ne prorompeva, e disse:
- Bene; così avremo a
pensare a meno cose ch'io non temeva. Va, affrettati, Virginia, chè le
ore ci sono misurate.
Virginia tornò co'
panni, e Beatrice senza frapporre indugio si mise a tagliare la tela. Ella ne
teneva un lembo, Virginia l'altro, e le forbici scivolavano con maravigliosa
celerità rompendo i fili.
- Osserva, Virginia, come si
taglia agevolmente questo filo di tela... la vita anch'ella è un filo. -
Ora, vieni qua, aiutami un po' a cucire, - a filzetta lunga, s'intende: tanto
per quello che ha da durare, basterà. Se io dovessi vivere quanto durerà
il punto, ch'io sto per cucire, in verità non lo farei.
E le donne si misero in giro a
cucire; ma Lucrezia e Virginia poco frutto facevano, avvegnachè
versassero più lacrime che non mettessero punti. Beatrice con dolce
rimprovero le ammoniva:
- Perchè piangete nello
apparecchiarmi questo camice, che mi deve accompagnare nel sepolcro? Qui, in
Roma, Papa Giulio piangeva quando allogava la opera del suo sepolcro a
Michelangiolo Buonarroti? E dunque perchè piangeremo noi? Certo egli se
la ordinava troppo più magnifica che queste cappe non sono; però
ei non la vide terminare, nè all'ultimo ei la ebbe conforme al suo
desiderio; mentre noi avremo la consolazione di terminarcele con le nostre
mani, ed a seconda del nostro disegno.
E la Virginia raddoppiava il
pianto.
- Credi, fanciulla mia, quello
che ci rende amara la morte è la paura di morire: la morte in se io non
reputa affanno, o almeno ella è breve affanno. I nostri vecchi, nei
tempi antichi, per assuefarsi a considerarla come cosa ordinaria ornavano di
sepolcri le pubbliche strade, e sovente i giovanetti sopra le tombe dei padri
convenivano a favellare di amore. La morte tiene per mano la vita, e
così in giro muovono alternativamente dinanzi al tempo. Anche nel
discorso dimostravano la morte essere condizione di vita; conciossiachè
eglino non dicevano mai: Caio è morto; ma Caio visse, Caio ha concluso
il suo giorno supremo, Caio fu. Mi sovviene adesso aver letto come taluno, per
tedio di malattia, avendo deliberato morire, astenutosi dal cibo venisse a sanare:
non per questo però consentiva a rimanersi in vita; e fatta, secondo
ch'egli diceva agli amici, i quali con preghiere si adoperavano ritrarlo dal
suo proponimento, ormai tanta via verso la morte, non gli sembrava che la vita
valesse il pregio di ritornare sopra i suoi passi. - Se la mia memoria non
m'inganna, costui si chiamava Tito Pomponio Attico, ed era amico di Cicerone.
- E perchè dunque,
interrogò Lucrezia, sentiamo dentro noi così veemente lo istinto
della vita?
- Questo, a parere mio, fu
provvidenza della natura; imperciocchè diversamente la creatura umana
tanto proverebbe bisogno di disfarsi, che il fine della creazione andrebbe
fallito. Vinta che abbiamo la paura, la morte scende sopra i nostri occhi come
un sonno allo affaticato. E qual è lo stanco, che non desidera il
riposo? Quale il travagliato, che non volesse addormentarsi per sempre?
- Ma invece di mettere tanta
paura nella morte, non era meglio rallegrare con un poco più di
contentezza la vita? Sempre terrore, sempre paura, e amore mai...
Queste parole favellò
Virginia, la miseranda figlia di mastro Alessandro. La Beatrice la fisso dentro
gli occhi. I predestinati si conoscono: anch'ella teneva su la faccia impressa
l'orma della mano del fato. - Beatrice, rimastasi alquanto pensosa, le
rispondeva:
- Il nostro intelletto,
Virginia, non arriva a comprendere la ragione di tutte le cose; dov'egli manca
aggiuntiamogli la fede, è allora giungeremo a toccare il paradiso. - Qui
tirando il filo, le si ruppe; ond'ella, mostratolo così tronco a Virginia,
soggiunse: - questo io so dirti, che in qualunque parte si tronchi il filo
diventa capo di gugliata. Signora madre, avvertite che le cappe dalla cima
hanno ad essere scollate; e se mostreremo il collo, ed in parte le spalle
denudate, io spero che i discreti non ci vorranno tacciare d'inverecondia,
pensando al festino a cui siamo convitate. Festino, sì, che Dio ne
aiuti, dove il rinfresco sarà di capi recisi, e di bicchieri di
sangue...
- Ed oh! fosse bastato il mio,
che ormai sono vecchia, o sopra la terra più poco ho da stare; ma il
tuo, povera figliuola, ma quello dello innocente fanciullo... ahimè!
ahimè!...
E il pianto incominciava
più procelloso di prima. Tanto soppraggiunse inopinato e nuovo cotesto
assalto di dolore, che Beatrice si sentì sgomenta. La costanza, di cui
ella aveva fatto procaccio mercè gli esempii e gl'insegnamenti dei
filosofi, già stava per venire meno; allorchè, piegando la testa,
la percosse il raggio della lampada accesa davanti la immagine della Madonna. Allora
ella esclamò:
- Ah! è vero, ed io me
ne scordava; quando manca ogni altro conforto, tu sei la stella di tutte le
tempeste. La fede o la ragione delle sostanze spirituali, e noi oggimai
tocchiamo la porta della Eternità.
E tutte quelle donne di subito
levandosi, quasi spinte da un medesimo spirito, rifuggirono alla Immagine
celeste come i cigni volano sotto l'ale materne, se gli atterriva lo strido del
fulmine: e da quella sorgente inesausta avendo attinto acqua di consolazione,
tornarono da capo ad apparecchiarsi le vesti funerarie.
Ecco le donne alternando preci
e ragionamenti giungono all'alba del giorno supremo. Dalla plaga di oriente un
chiarore roseo e diafano prometteva ai Romani una mattinata dorata e azzurra; -
unico vanto, e forse ultima sciagura rimasta alla nostra terra senza fine
sconsolata.
Adesso si presenta uno
aiutante di mastro Alessandro; questi si astenne, o non potè venire. Lo
aiutante era giovane di anni, e di sembiante duro, non però
disaggradevole: costui aveva già da qualche tempo sollevato uno sguardo
di amore verso Virginia, nè la lingua si era taciuta a domandare
corrispondenza: ella gli aveva risposto abbrividendo da capo alle piante,
ond'ei veduto ogni tentativo invano, si era rimasto... per allora,
dacchè non aveva potuto abbandonare la sua speranza. Di fatti, egli
pensò, quale uomo, per abiettissimo che fosse, avrebbe ardito salutarla
col nome di sposa? Quale ostello ricovrarla amica? Quale convento monaca? E
morto il padre, qual tenore l'avrebbe difesa dalla pubblica ingiuria, e dalla
persecuzione della plebe? La infamia diventava pronuba necessaria a coteste
nozze.
Lo aiutante stringeva nelle
mani un rasoio. Egli guardò lei, e rimase come abbagliato da tanta
bellezza; ella guardò lui, e sentì freddo; pure assicuratasi,
incominciò a pensare: Una voce di misericordia avrebbe tocco per
avventura le viscere del pontefice? Forse alla belva plebea si toglie lo
spettacolo del sangue, che vale a renderla sempre più feroce? -
Parlate!... Indi rivolta allo aiutante, gli favellò: - A che vi rimanete
costà come trasognato? Perchè ci costringete a così lunghi
discorsi, quando ci sono contati i momenti per vivere? Noi ci stiamo
apparecchiate a tutto.
E l'altro, esitando,
- Illustrissima... lo sa...
è costume... i capelli...
- I capelli! - ella
esclamò, - e portandosi pronta la mano sul capo ne cavò il
pettine, e la magnifica chioma d'oro le scese giù come un'onda per tutta
la persona. Ora, ecco, questi sono i miei capelli; e voi che cosa volete farne?
Ma il valletto del carnefice,
imbarazzato più di prima, taceva; però che ella riprese:
- Ogni forza ha il suo
diritto; - il diritto della scure è non rimanere impedita nel taglio: -
ho capito - fa presto, - e taglia...
E la chioma cadde recisa.
Beatrice rimase stupida a
contemplarla sparsa sul pavimento; le lacrime le si affacciarono agli occhi,
nè tanto valse a trattenerle, che non le sgorgassero per la faccia e pel
seno. Fin qui nessun dolore le aveva passato l'anima come quello, dacchè
nessuno tanto l'avesse umiliata. Quando anche adesso le concedessero la vita,
come ricomparirebbe fra le gentili donzelle sue compagne, ella così
tosata dalle mani del carnefice? Priva dei capelli, suo decoro e suo vanto, le
avevano (si perdoni la stranezza della espressione in grazia della efficacia a
manifestare il sentimento, che in quel punto assalse Beatrice) decapitato la
testa.
Eccola in mezzo alle sue
chiome splendide, come l'Angiolo della luce, nel giorno della maladizione, vide
il serto di raggi che gl'incoronava la fronte disperso ai suoi piedi. Quante
cure, o dalle sue mani stesse, o dalle altrui avevano ricevuto cotesti capelli?
Come, ed in quante diverse guise, non sapeva ella acconciarsegli intorno alla
testa? I poeti celebrando quella chioma nei loro canti, l'avevano detta
più degna assai che quella di Berenice di splendere tramutata in astri
per le volte dell'empireo. I più bei fiori la inghirlandarono, contenti
di alitarvi sopra l'ultimo sospiro di profumo. Le gemme, forse esultando nel
premerla, scintillarono più luminose. Amore pareva averla lisciata con
le sue ale... E tutto questo dove aveva da finire? Per essere recisa dalla mano
del carnefice. - Fatalità!
Beatrice raccolse la chioma
recisa, e non le bastò a stringerla una mano. Guatolla un pezzo, e poi
così, come se fosse persona, le rivolse la parola:
- Compagna fedele di ogni mia
sventura! io avrei sperato che tu meco fossi discesa dentro al sepolcro.
Dappoichè questo non ha concesso Dio, e tu nemmeno mi rimarrai
superstite nel mondo, forse a celare la calvizie della età matura, o a
crescere la lusinga della lascivia: nata, e cresciuta sopra capo di vergine, tu
non diventerai arnese di menzogna... e poi tutto in te è pregno di
disgrazia, e porteresti teco lo infortunio a cui ti usasse. Giova pertanto che
tu ti disfaccia, come me, negli elementi che ci compongono; le nostre
particelle fatali si sperperino nella immensa fatalità del mondo:
insieme unite hanno fatto, e forse tornerebbero a fare prova troppo dolente.
Solo ne separo questa ciocca, e tu ti consuma...
E la gittò nel fuoco
che ardeva dentro al cammino. In breve della chioma magnifica avanza un pugillo
di cenere bianca.
- A te, Virginia, prosegue
Beatrice; io parto questa ciocca dei miei capelli in due, ed a te la consegno.
Se un giorno mai tu incontrassi un uomo alto e bello, di capello biondo, col
segno della fatalità marcato tra ciglio e ciglio... tu lo ravviserai
perchè tutti gli sventurati presentano in volto certa rassomiglianza di
famiglia; ed io, vedi, quando prima mi ti presentasti davanti ti riconobbi per
mia sorella di dolore; e poi, senti... ( - e le sussurrò vergognosa una
parola negli orecchi - ) tu gli darai questa ciocca qui: quest'altra serberai
per te. Io posso lasciarti danari e robe e gioie, e te le lascerò; ma
queste non fanno parte di me; col recarti addosso i miei capelli avrai sempre
teco un frammento del mio ente... finchè dura almeno... poichè
anche i morti si disfanno, e le reliquie non si trovano più. A te
infortunio non possono recare davvero, perchè, poveretta! tu sei per
disperazione fatta sicura. Se potessi mutare il tuo stato, Dio sa se lo farei;
- comunque sia, ti desidero ogni bene: - chè se, come sembra pur troppo,
anche tu ti debba struggere in giorni pieni di amarezza, ti giunga dolce la
morte come questo ultimo bacio, che ti do sopra le labbra.
CAPITOLO XXVIII.
LA FIGLIA DEL CARNEFICE.
E cortesia fu
lui esser villano.
Dante, Inferno.
Virginia sentiva morirsi
dentro; parlare non osava, e dal piangere quanto più poteva frenavasi.
Per non caderle morta ai piedi, colto il destro che Beatrice si fece a mutare
alquante parole col cappuccino, uscì pianamente di carcere. Appena le fu
dietro le spalle chiusa la porta, l'aria fresca la colpì nel mezzo della
fronte come il taglio di una mannaia: vacillò; la colse un fierissimo
capogiro, le mancarono sotto le gambe, ed una languidezza ghiacciata le strinse
il cuore: volle aiutarsi appoggiandosi al muro con ambe le mani aperte, ma non
potè, e cadde giù con un singulto lungo la parete.
I fratelli della Misericordia,
i quali vigilavano solertissimi per adempire ogni più lieve desiderio
dei condannati, la rilevarono da terra; ed avendola riconosciuta per la
figliuola del carnefice, la posero su di una seggiola e la portarono nella sua
stanza, immaginando che per dimorare lunga pezza in luogo chiuso l'aria le
avesse fatto male. In vero, chi di loro avrebbe dubitato che la figlia del
carnefice avesse racchiuso un cuore capace di rompersi per la pietà?
Il padre era già in
piedi, ed occupato, in fede di Dio, in piacevole studio: egli attendeva a dare
il filo alla mannaia. Quando i fratelli della Misericordia entrarono egli stava
giù curvo, e lo guardava tentando con l'ugna se fosse riuscito a dovere.
- Mastro Alessandro, gli
dissero gl'incappucciati, mirate qua; è venuto male alla vostra
figliuola: mettetela a letto, e procurate di farla rinvenire.
E pronunziate appena queste
parole se ne andarono via; imperciocchè chi di loro avrebbe voluto
prodigare le sue cure al sangue del carnefice? La gente di giustizia pagasi, ed
odiasi, sia alta o bassa: le gittiamo l'osso, e le diamo una pedata; e quei
medesimi che hanno per istituto esercitare atti di carità credono
avertene praticata abbastanza quando la raccattano caduta. - Alessandro tolse
di peso la sua figliuola, la scinse; e persuaso che fosse una mancanza,
appoggiata in un canto la mannaia, si dette a cercare penne di gallina per
abbrustolirgliele sotto il naso: riuscito questo esperimento invano, prese
aceto e glielo spruzzò sopra la fronte. La fanciulla non rinveniva; il
padre incominciò a spaventarsi: la guardò meglio in faccia...
quelle bolle vermiglie, quella bava sanguigna che il boia aveva osservato sopra
la bocca di Marzio morto nei tormenti, adesso il padre osserva sopra la faccia
della sua figliuola. Si diè di un pugno nel capo, e corse all'uscio
mugolando: aiuto! aiuto!
Appena egli ebbe messo il
piede nel pianerottolo, una voce da basso sinistramente roca lo chiamò:
- Oe! mastro Alessandro...
avacciatevi; prendete la mannaia, e correte a Torre di Nona, che colà vi
aspettano.
- Non posso.
- O bella questa! Vale un
ducato nuovo di zecca! O che voi avete facoltà di dire: posso, o non
posso? Anima e corpo voi siete venduto agl'Illustrissimi che vi comandano...
- Non posso... non posso:
sgombrami la scala, chè ho bisogno di andare pel medico...
- Che medico, e non medico?
Dove ci siete voi non vi ha mestiero medico... voi avete a venire a tagliare
quattro teste...
- E se io non voglio venire? -
E se io butto là la mia vita e la mia scure dicendovi: Infami quanto me;
più di me, perchè alla malvagità accoppiate la ipocrisia;
ammazzate da per voi col ferro coloro, che avete prima assassinato con la
penna. Mi muore la figlia, e m'impedite di andare a cercarle soccorso! Io non
ho nulla, assolutamente nulla, che mi rammenti nel mondo di essere uomo, tranne
questa misera, e cara figliuola; e mi contrastate il diritto di porgerle aiuto?
Se ella, la Virginia, è morta, e che cosa importa a me essere
giustiziato, piuttostochè giustiziare? Se posso salvare Virginia io me
ne andrò con lei in un deserto, in una isola disabitata, lontano lontano
da voi: - meglio mangiare corbezzole salvatiche, che il vostro pane fatto di
veleno e di farina d'ossa di morto...
E rientrato in casa afferra
furiosamente la mannaia, e la scaglia giù per la scala imprecando:
- Va, uomo dabbene, porta la
mannaia al tuo padrone, e digli che d'ora in poi scriva con questa penna i suoi
atti di accusa. Io renuncio alla mia carica; il procuratore fiscale ne
può fare tutt'una colla sua, com'era prima che la Ipocrisia lo dividesse
in procuratore, ed in carnefice - va...
- Mastro Alessandro ha dato di
volta alle girelle, esclamò messere Ventura levando un salto
maraviglioso; e ben ei seppe esser destro, che la scure balzando giù
precipitosa mandò faville su gli scalini, e dove mai lo avesse colto gli
avrebbe tagliato le gambe nette come giunchi: poi, trattosi prudentemente da
parte, commise alla squadra degli sbirri, che gli faceva corteggio, salisse; a
forza lo traesse, e se bisognasse si adoperassero le funi. Ieri aveva il
furfante ricevuto la paga, e più cento ducati per lo apparecchio del
palco, le carrozze, le tanaglie, il fuoco, la segatura, spugne eccetera;
epperò, che va egli fantasticando di figliuola, e non figliuola? Se
sarà morta gliela seppelliranno, e per boia non sarà poco:
intanto l'esecutore della legge obbedisca prima alla legge. Fortuna fu che
mastro Alessandro si fosse disarmato della mannaia, altrimenti giù per
cotesta scala sarebbe corso un fiume di sangue: pure sul pianerottolo accadde
una fiera baruffa, in cui da un lato e dall'altro si avvicendarono colpi tremendi.
Il carnefice, schermendosi da un nugolo di sbirri, ruggiva, pregava, e tuttavia
percuoteva.
- Lasciatemi prima aiutare
Virginia, e poi ritaglio il capo anche a San Paolo... La figlia!... la figlia
mia! Ma che siete peggio dei lupi? Ve lo domando in carità! Quando mi
capiterete sotto, vi leverò la testa senza che ve ne accorgiate... fede
di boia onorato!
- È matto. - Ti
è morta la figliuola? Allegri! Meno galline, manco pipite! O che la
serbavi perchè te la sposasse un marchese? O che hai paura che delle
baldracche vada sperso il seme?
Così gli rispondeva la
sbirraglia, a cui, vinto dal numero, cesse mastro Alessandro. Stretto nelle
braccia, lo spinsero per le spalle giù nella scala accompagnandolo con
schiamazzi e grida oscene, le quali irridevano cotesta sua nuova tenerezza
paterna.
Mastro Alessandro superato
dalla forza troncò di un tratto le querele, e tacque.
Volgendo però la faccia
alla stanza dove lasciava la figlia, anzi l'anima sua, senza poterla aiutare
nè vedere fino a sera, dacchè tutti andavano seco lui,
scoppiò in un gemito, e forse scoppiava anche in pianto; ma lo
trattenne, udendo moltiplicare le scede degli sbirri non solo, ma di quanti
altri ancora l'accompagnavano. Certo i suoi labbri non proffersero il voto di
Caligola, ma il suo cuore desiderò che il popolo romano avesse un capo
solo per troncarglielo di un colpo. Mentre così da Corte Savella lo
traevano a Tordinona, fortuna volle che s'imbattesse in un fratello della
Misericordia fuori di servizio, il quale sovente aveva veduto ed udito esercitare
con carità veramente cristiana lo ufficio di confortatore. Laonde
chiamatolo col cenno, così gli si raccomandava:
- Cristiano, per quanto amore
portate a Gesù Cristo, vi supplico di recarvi a casa mia, in Corte
Bavella, ad aiutare la mia figliuola che si muore.
- Caro mio oggi non sono di
guardia, ed ho negozii da sbrigare in Banchi; incombenzatene qualche altro.
E passò via.
Poco dopo occorse in un prete:
era il priore di San Simone, e con voce sempre più umile lo
supplicò:
- Uomo del Signore, ho la mia
figliuola... la mia unica figliuola, che mi muore. Deh! per le piaghe di
Gesù Cristo, fatemi la carità di arrivare fino a casa mia, e
datele soccorso.
Il Priore lo guardò in
cagnesco, come se egli lo avesse ricercato di andare ad amministrare la
eucarestia a un lupo; poi ipocritamente soave gli rispose:
- Figliuolo mio, vi pare?...
Coteste le son faccende da donna.
- Ebbene, fate di mandarci una
donna... io le darò dieci... venti scudi... il guadagno della
giornata...
Il prete aveva svoltato il
canto.
Finalmente gli venne incontro
una specie di bruto, scalzo, coi piedi imbrattati di fango fino oltre la noce;
della brache portava una parte rovesciata sopra il ginocchio, l'altra cascante
per terra, e strette sopra i fianchi con una sozza corda; il rimanente nudo, se
togli uno straccio di tela sopra le spalle, ed un berretto, che una volta fu
rosso, tirato su gli occhi: era colore di rame, camminava a gambe larghe, e
tentennava: in quel punto destavasi da una ubbriachezza, che lo aveva tenuto
per morto da bene ventotto ore. Il popolo lo chiamava Otre. Se qualche
borghese tornando tardi a casa veniva, nel buio della notte, tra la mota e il
letamaio ad inciampare dentro qualche corpo morvido che rispondesse alla pedata
con un grugnito, tirava innanzi senza darsi un pensiero al mondo, dicendo:
è Otre. Tanta era la tristizia ed abiettezza sua, che sarebbesi creduto
far torto al più immondo animale paragonandolo con lui! A questo
pertanto si volse il derelitto Alessandro con la solita preghiera; ma Otre
lo squadrò in faccia fra stupido e spaventato, e gli rispose grugnando:
- Vino! vino!
- Fratello, va a dare aiuto
alla mia figliuola, e ti rivestirò di nuovo da capo a piedi...
- Vino! vino!...
- Sì, ti darò
vino quanto ne vuoi: anzi va a casa, e, dopo avermi soccorso Virginia, bevi
tutto il mio vino che trovi.
- Il tuo vino? No... è
mescolato col sangue. Io non voglio del tuo vino.
E si allontanò con un
grugnito.
CAPITOLO XXIX
LA GRAZIA
Onde tanta
pietade in voi si alligna,
Sacerdoti
crudeli.
Alfieri, Saulle.
Beatrice accostandosi a Padre
Angelico, che genuflesso col volto celato fra le mani stavasene a pregare ed a
piangere davanti la immagine della Madonna, lo toccò pianamente sopra la
spalla, e gli disse:
- Padre mio, vorreste, di
grazia, chiamarmi i fratelli della Misericordia? chè ad essi e a voi
desidero commettere certe mie novissime preghiere.
- Volentieri, figliuola; e il
frate andando, tornava presto in compagnia dei fratelli incappati. Essi
tenevano il cappuccio tirato sul volto, sicchè di loro non apparivano
altro che gli occhi, bastevoli a svelare le passioni dell'anima. Invano da
cotesti fori sariasi senza fallo riconosciuto il fratello Aldobrandino,
intervenuto costà meno per confortare, che per ispiare: i suoi sguardi
si aggiravano attorno aridi, curiosi, micanti, e nondimeno inquieti.
Quando le si furono schierati
dintorno, la Beatrice così favellò:
- Fratelli in Cristo! Dello
ufficio caritatevole, che voi mi prestate, vi rendo col cuore quelle grazie che
il mio labbro non può pronunziare, e prego Dio che vi retribuisca
secondo i meriti vostri. Tanto più io mi sento poi penetrata di
tenerezza per voi, in quanto che standovi incappucciati, epperò a me
ignoti, volete significare con questo, che voi non sovvenite alla persona, bensì
alla creatura che soffre. Ma io ho bisogno di maggiore aiuto da voi, che voi
per ordinario non pratichiate dispensare; ed io ardisco supplicarne sì
voi, che questo piissimo padre spirituale. La nuova mia inchiesta sia, io
prego, argomento non d'indiscretezza per mia parte, bensì del bisogno.
Mediante il notaro della Compagnia dello Sacre Stimate ho fatto il mio
testamento. Ora dubitando che i tribunali vogliano mettere qualche ostacolo
alla sua esecuzione, supplico voi affinchè v'interponiate con tutti i
nervi presso Papa Clemente, e lo induciate a contentarsi che la mia dote venga
impiegata nel modo che sta scritto là dentro. - Voi procurerete eziandio
farmi celebrare in suffragio dell'anima mia duegento messe, delle quali cento
prima di essere seppellita, e cento dopo: a tal fine piacciavi ricevere questi
quarantacinque ducati, che mi trovo ad avere addosso, e pel di più che
potesse abbisognare piacciavi farne ricerca a messere Francesco Scartesio mio
procuratore, che ve lo darà. Desidero che Andrea, Ludovico ed Ascanio,
soldati che durante la mia prigionia ebbero per me viscere di carità,
sieno ricompensati largamente, onde imparino che la misericordia adoperata
verso i miseri, come sempre riceve la sua mercede nell'altro, così
talvolta la trova anche in questo mondo; e ciò li conforti a continuare
ad usarla anche a coloro, i quali mi succederanno in questo luogo di angosce.
Rendansi a messere Carlo da Bertinoro quaranta ducati che m'imprestò. A
Virginia, la quale con affetto più che fraterno mi ha servito, e sollevato
nei giorni dolentissimi della mia tribolazione, oltre quanto le lascio nel mio
testamento abbiasi tutti i miei panni lini, lani, e serici, ed ornamenti di
oro, che si troveranno in questa carcere. Ma dov'è Virginia? Che fa
ella, che non si vede?
E girati gli occhi intorno a
se, poichè non la scòrse, continuò:
- Infelice! A lei non resse il
cuore di contemplare quello che io sono destinata a soffrire. Povera fanciulla!
degna in tutto che il cielo le desse o un'altra anima, od un altro stato! Non
so se io deva, o no, desiderare di rivederla; ma nel caso ch'io non la
rivedessi, salutatemela caramente per me, e ditele che spero rivederla su in
paradiso dove gli angioli sono tutti uguali, e traggono origine unica, santa,
ed immediata dal Sommo Dio. Quando - e si portò la mano al petto -
quando questo cuore avrà cessato di battere, voi mi seppellirete nella
chiesa di San Pietro in Montorio: colà il sole, sorgendo dalle cime di
Montecavi, manda il primo saluto; e quantunque i morti non sentano calore, nè
vedano la luce, purtuttavia consola, nella ora della morte, sapere che la tua
tomba sarà visitata dai luminari del cielo. Sopra le medesime colline,
più verso il mare, or fa quattro anni seppellirono Torquato Tasso. In
San Pietro in Montorio si ammira la Trasfigurazione, ultimo quadro di
Raffaello, che la morte gl'impedì condurre a fine. Io ben posso starmi
con loro, perocchè essi fossero grandi per fama, e per isventura; ed io,
nulla per ingegno, mi sia poi per isventura grandissima. Quando il tempo avrà
logorato i dipinti di Raffaello, e fatto obliare i versi del Tasso, i nostri
nomi non andranno dimenticati per virtù di amore, ed ogni anima vedova
di felicità muoverà il passo per questi colli come in
pellegrinaggio di passione. Raffaello, a modo dello antico Aci, annegò
immaturo e glorioso nell'onda dell'amore; il Tasso venne respinto quasi nemico
dal cuore superbo di donna reale, che senza cotesta ingiuria noi ignoreremmo
perfino che fosse nata. Per me, amaro caso!, lo Amore invece di ferirmi il seno
con i suoi strali, che i poeti dicono di oro, mi è venuto alle spalle
come un traditore armato di scure. Ma questo non monta; e' sono favellii
di femmina; perdonateli. Nè già crediate che io il faccia per
rammarico di vita: mai no, vedete; chè se ad acquistarmela ora bastasse
il solo voltarmi addietro, io non mi ci volterei. Intanto che io torno a
ragionare con Dio, concedete, carissimi fratelli in Cristo, ch'io mi confidi
nell'assistenza delle vostre orazioni.
Lucrezia, imitando lo esempio
della figliastra, dispose anch'ella di parecchie cose in beneficio dell'anima
sua non meno che dei parenti, come si legge nello estratto del Giornale
della confraternita di San Giovanni decollato in Roma.
*
* *
Prospero Farinaccio dormiva di
un profondissimo sonno, rallegrato da gaie immagini di trionfi, di onori e di
dovizie; e tutta questa piramide di rosee visioni gli appariva incoronata da un
magnifico cappello da cardinale, ch'egli, per vezzo, scherzando depositava
sopra le bionde trecce d'una femmina, la quale arieggiava nel sembiante il
volto della Beatrice. Allo improvviso venne svegliato di soprassalto dal
fragore di vetri stritolati, e da un picchio di sasso nelle finestre della sua
camera. Al punto stesso una voce lugubre urlava giù per la strada:
- A che stai? A che stai?
Mentre tu dormi, tutti i Cènci vengono menati a guastarsi.
Si precipita di letto, e
spalanca la finestra. L'alba appena spuntava: tese gli occhi, ma non gli
riuscì scorgere persona; la voce in lontananza tornò a ripetere
la novella desolata:
- Tutti i Cènci vengono
tratti al patibolo, e tu dormi?
Si veste smanioso; gittasi in
carrozza, e, volato alla prigione di Corte Savella, udiva confermarsi la cosa:
rientra in carrozza e si affretta al palazzo Quirinale. Ascende gli scalini a
due, a tre per volta affannoso, e arriva nell'anticamera del papa. Qui giunto
domanda con ansietà ai camerarii gli procurino accesso al sommo
Pontefice per negozio urgentissimo; andarne di morte, e di vita: per amore di
Dio facciano presto. E non sono partiti ancora?
Un camerario con molta pausa
prendendolo per le braccia, e tenendolo fermo davanti a se in aria beffarda, ma
perfettamente garbata, gli dice:
- Chiarissimo signore
Avvocato, ella ha da sapere come qualmente Sua Santità tuttavia riposi.
- Ma io so che il Santo Padre
si alza di buonissima ora.
In questa un altro camerario,
tolto il Farinaccio pel braccio sinistro, gli faceva fare un quarto di cerchio
a mancina favellandogli:
- Ma si assicuri,
illustrissimo, che il Papa dorme sempre.
Un terzo camerario, stretto a
sua posta per l'altro braccio Prospero, lo girava a destra, ed anch'egli lo
cerziorava:
- Capisce, degnissimo signore
Avvocato, Sua Santità vuol dormire - perchè non ha chiuso occhio
tutta la nottata.
Per questo modo il Farinaccio,
ora aggirato da quello or da quell'altro, si trovò ad avere descritto un
cerchio intero con la propria persona, e, tranne un profluvio di melliflue
parole, non avere ottenuto cosa che valesse. Tale correva allora il costume in
corte di Roma, ed anche di presente credo che si usi così. - La fortuna
volendo dare una mentita a cotesti nuovi farisei, fece che in quel punto il
coppiere del papa si presentasse in anticamera con una tazza spumante di
cioccolatte apprestato pel suo padrone, e se ne andava diritto verso la stanza
cubicolare per ministrarglielo.
I camerarii, per non
iscomparire così alla spiattellata, gli ammiccavano a sostare; ma quegli
ingenuo disse:
- Io non vi capisco; dianzi mi
avete chiamato come se fosse il finimondo, onde portassi il cioccolatte a Sua
Santità, che da un bel pezzo era desta, ed ora volete ch'io mi fermi.
- Tu trasecoli; noi non gli
abbiamo sentito suonare il campanello. Sua Santità dorme di certo.
- Se non udiste voi da vicino,
o come va che lo sentii io da lontano? Voi m'incominciate a doventare di
quelli, di cui dice il Vangelo: habeant aures, et non audiant.
In questa ecco udirsi
squillante il tintinno del campanello, come agitato da persona spazientita di
aspettare.
- Ve lo aveva pure avvertito,
che siate benedetti! - Largo, proseguì il coppiero, che Sua
Santità facilmente va in bestia, ed a me toccherebbe la prima lavata.
E si fece più oltre per
sospingere gl'importuni, e passare.
Il Farinaccio allora,
prontissimo imitando lo esempio del coppiero, in danno di questo gli tolse il
bacile di mano, aperse la porta, e penetrò audace nella camera del
pontefice. Il coppiere stette lì per gridare: al ladro! Ma subito dopo,
non gli parendo verosimile che un ladro di tanto fosse ardito di penetrare
là dentro, e molto meno poi da rifugiarsi nelle medesime stanze del
pontefice, rimase lì sbigottito; tanto più che il Papa stesso gli
accennò con la mano si allontanasse.
Prospero, deposti sopra la
tavola guantiera e tazza, si prostrava ai piedi di Papa Clemente dicendo:
- Non mi sia ascritto a colpa,
Beatissimo Padre, io ve ne supplico in ginocchioni, di assumere le parti per me
onoratissime del più umile fra i vostri servitori.
- Alzatevi...
- Deh no! Santità,
lasciatemi così col capo nella polvere, tale dovendo essere lo
atteggiamento di cui supplica sconsolato; e me adesso opprime inestimabile
amarezza...
Ed aspettava che il Papa lo
interrogasse intorno alla causa della sua venula, intendendo spiare dal suono
della voce di lui che cosa fosse da sperarsi, e che da temersi; ma il sacerdote
stava lì chiuso, e impenetrabile come sfinge di granito; per lo che
Prospero ebbe a continuare con la più pietosa voce, che mai fosse udita
nel mondo:
- Un grido, e in fede di
cristiano vel giuro, un grido sinistro mi ha desto a l'orza gridando:
Sciagurato! tu dormi, mentre tutta la famiglia dei Cènci sta per essere
tratta al patibolo? - Io poi non saprei dirvi, Beatissimo Padre, se questa voce
muovesse dal paradiso, o piuttosto dallo spirito delle tenebre.
- Perchè temete che
uscisse dal maligno? Nella bocca del diavolo non riposa la verità.
- Ah! dunque la voce fu vera?
E allora, Santità, grazia, grazia per tanto sangue innocente, che va a
spargersi. Roma non avrebbe mai veduto, dacchè fu fondata, così
spaventevole tragedia.
- Come innocenti? E non
confessarono tutti il commesso misfatto?
- Mea culpa, prosegue
il Farinaccio forte percuotendosi del pugno chiuso il petto; mea culpa, mea
maxima culpa. Dio ha voluto umiliarmi. Dio ha voluto mandarmi causa di
piangere, finchè, come a San Pietro, le lacrime non mi abbiano fatto il
solco per le guance. Il senno dell'uomo presuntuoso della sua scienza, a
paragone dello intelletto di amore della vergine è stato rinvenuto
insania, e laccio di morte, Io fui quegli, Santità, che persuasi la
gentil donzella Beatrice Cènci a confessarsi, comecchè
innocentissima, colpevole del parricidio: ella era prossima, e disposta a
morire fra i tormenti per testimonio del vero; fui io che la ritrassi dal suo
proponimento; io che le promisi come, se incolpando ed escusando gli altri,
avrebbe di leggieri procurato salvezza a se ed a loro: a quelli, come
inconsapevoli del parricidio; a se, come da suprema necessità costretta
a difendersi dalla incestuosa violenza. Ella contrastava; ella sosteneva la
difesa migliore per la innocenza consistere nel dire la verità, e niente
altro che la verità! O parole santissime, inspiratele da Dio! Ma io la
scongiurai; con le lacrime agli occhi le feci forza; vi adoperai lo assalto dei
domestici affetti, la generosità del sagrifizio, la virtù della
carità; ed io ed i suoi parenti, genuflessi intorno al letto dove
giaceva con le ossa rotte, e le carni straziate per l'atrocità delle
sofferte torture, tese supplici le mani non la lasciammo finchè, vinta,
ella suo malgrado e nonostante i sinistri presagi, non ebbe promesso di
confessarsi rea nel modo che ha fatto, e nella guisa che alla tradita fanciulla
io stesso dettai. Grazia dunque, Padre santo, pietà. Oh! s'ella avesse a
morire così per mia colpa, l'anima mia desolata dispererebbe della sua
eterna salute.
- Non vi sgomentate per
questo; troveremo ben noi la via di mandarvi in paradiso.
- E dalla mia coscienza, chi
mai mi salverà?
- La vostra coscienza.
Queste parole, profferite con
senso inenarrabile di scherno, caddero sul capo del Farinaccio come una falda
di fuoco infernale: levò gli occhi per fissare in volto Papa Clemente: e
il volto di Papa Clemente gli apparve di pietra:
- La mia coscienza, riprese
Prospero avvilito, mi dice che non avrò più pace.
- L'avrete, - credete a me,
che me ne intendo - l'avrete. Meritissimo signor Consultore, io vi conosco per
uomo di molta perspicacia, e nella professione vostra singolare. Voi, e di
ciò vi tributo la lode meritata, adempieste il nobile ufficio vostro con
zelo e perseveranza, che appena potevano rinvenirsi uguali, maggiori non mai.
Ora, poichè tanto sapete fare il vostro dovere, soffrite in pace che
altri faccia il suo.
- E appunto, Santo Padre,
perchè non solo il sentimento del dovere, ma l'affetto, la
necessità della vostra angusta natura vi persuadano la giustizia, io mi
feci ardito ammonirvi di tutto quanto vi ho esposto, onde con eterno carico del
vostro nome poniate mente a non isbagliare la strada.
- Noi abbiamo rispettato (e
qui la voce del papa si fece sentire un cotal poco tremante) in voi lo ufficio
dell'avvocato; adesso rispettate in noi quello di giudice.
Il Farinaccio, prostrato
sempre ai piedi del pontefice, aveva sembianza di uno di quegl'isdraeliti, che
a piè del monte Sinai stavano in aspettazione della parola di Dio, e,
come loro, egli udiva formarsi sopra il suo capo la parola in mezzo a fulmini
ed a tuoni. Però non si dette anche per vinto, e tentando uno sforzo
disperalo insistè:
- Dove non giunge la giustizia
arrivi la misericordia...
- Bisogna che muoiano!... -
concludeva tagliente il pontefice, e col piè premeva il pulvinare di
velluto.
- Bisogna! - esclamò il
Farinaccio levandosi in piedi. Ah! se bisogna, allora la faccenda è
diversa. Perdonate, Beatissimo Padre, se per me siffatta necessità
s'ignorava, e concedete ch'io mi allontani con la morte nel cuore.
Il Papa si accorse aver detto
troppo, e conobbe essere mestieri emendare, come meglio potesse, la incauta
parola.
- Sì; - certamente, mio
malgrado, - bisogna, Il genio del popolo, la fama di Roma. la sicurezza dei
cittadini, la religione del papale ammanto impongono a chiudere le orecchie
alla misericordia...
- Impongono che tutti muoiano
attanagliati, mazzolati, e squartati?
- Voi, come uomo di molta
dottrina, sapete, signor Consultore, come gli Egizii condannassero il figlio
parricida ad essere trafitto da infiniti taglientissimi stecchi, e poi arso
sopra un mucchio di spine: il padre che uccideva il figlio, a guardare per tre
giorni continui il cadavere dell'ammazzato. - Qui in Roma, nei primi tempi del
paganesimo, non si conobbe legge contro i parricidi: crescendo poi la malizia
degli uomini a tanto eccesso, il supplizio orribile della legge Pompea parve
mite a punirlo. Ai tempi nostri piacciavi volgere lo sguardo ai reami di
Spagna, Francia, ed Inghilterra, e voi non troverete pene punto più
dolci. Se noi facciamo mozzare la testa al semplice omicida, ragion vuole che
corra divario di pena fra il parricida e lui. Tuttavolta, in grazia vostra, noi
assolveremo le donne dall'attanagliatura e dallo squarto; ferma stante
però la decapitazione.
- Anche il putto ha da avere
mozza la testa?
- Qual putto?
- Bernardino Cènci,
Santo Padre; voi lo sapete, non tocca eziandio il suo dodicesimo anno, e
anch'egli dovrà subire la pena dei parricidi? Io lo difesi appena,
pensando che il migliore avvocato per lui fosse la fede di battesimo; e
m'ingannai.
- Ma o che forse non
confessò anch'egli avere partecipalo al misfatto?
- Confessò, certo,
confessò; ma a cotesta età può egli sapersi parricidio che
sia, e confessione che importi? Non confessò egli perchè i
tormenti cessassero, e dopo la promessa che lo avrebbero salvo? Padre santo!
anche una volta porgete ascolto alla voce del cuore, che vi persuade a
misericordia; porgetele ascollo: anche noi un giorno avremo bisogno di
pietà.
- Voi mi mettete uno scrupolo
circa a Bernardino Cènci. E il Papa declinò il capo in atto di
meditare. Poichè si fu rimasto alquanto in cotesta positura, proseguiva:
- Ordinariamente la tristizia
non supera la età; qualche volta anche si, e di questo se ne leggono
esempii; nè la età salva nei delitti atrocissimi; - tuttavolta,
dacchè da questa parte mi viene scrupolo, e potendo vorrei satisfarvi,
meritissimo signor Prospero; onde non ve ne andiate sconsolato, anzi rimaniate
persuaso del molto conto che facciamo di voi, intendiamo, e vogliamo graziare
della vita Bernardino Cènci. Adesso andate in pace, e lasciateci a
stendere e spedire il placet, affinchè non arrivi tardi. Ora voi
vedete, signor Prospero, che per noi istà, che voi non abbiate a
chiamarvi contento.. Andate in pace.
A Farinaccio pareva di vedere
rinnuovato in se il caso del patriarca Giacobbe, quando i figli traditori gli
posero nelle mani la vesta insanguinata di Giuseppe, ed egli ebbe a dir loro:
grazie! Partiva col cuore lacero, e il prete mascagno presumeva avergli dato ad
intendere che lo aveva vinto. A capo basso, con voce fioca rese grazie al
Pontefice per la sua degnazione, mentre questi, in sembianza di affettuosa
premura, gli andava ripetendo:
- Ora subito vi spediremo il placet,
e vi autorizziamo ad annunziare spacciatamente averlo noi concesso ai meriti di
vostra signoria...
- Ex ore leonis -
mormorava il Farinaccio scendendo dal palazzo Quirinale: - i nostri antichi
consacravano agli Dei i lacerti dell'agnello riscattato di bocca al lupo.
E così allora
pensò; molto più dopo, quando conobbe di qual sorte grazia avesse
fatto al garzoncello Bernardino il Papa Clemente. Tuttavolta, coll'andare del
tempo, col sentirselo ripetere dallo universale, e col riceverne grazie
fervidissime, non che da altri, dallo stesso Bernardino, e trovando inoltre il
suo tornaconto a credere così, terminò col credere davvero di
aver sottratto cotesto fanciullo alla morte. I facili amori, le alterne vicende
del giuoco, la plebea gozzoviglia lenirono in prima, poi resero ottuso affatto
in lui il senso del rammarico. L'agiatezza che ricavava dallo ufficio di
consultore, il credito grande che godeva in corte lo persuasero più
tardi ad astenersi dalla difesa dei Cènci per la rivendicazione dei beni
fidecommissarii infeudati in benefizio della Camera Apostolica. Si scusava col
dire che egli, in quanto a se, aveva fatto assai: adesso altri si provasse:
anche Gesù Cristo aver chiamato il Cireneo a sollevarlo dal peso della
croce.
Queste ed altre cose diceva
con sembiante di vero, ma ell'erano false. Vero unicamente l'atroce presagio
del sacerdote scettrato, quando a Prospero Farinaccio, che lo interrogava chi
lo avrebbe salvato dalla propria coscienza, rispose: «la vostra coscienza!»
CAPITOLO XXX.
LA MOGLIE.
Mulier diligens
est corona viro suo.
Proverbii.
Ma l'amore non dorme. Guido
aveva avuto modo di sapere la sentenza funesta appena segnata. Non la temendo
così imminente, rimase colto quasi alla sprovvista: non per questo
sbigottivasi punto dell'animo, e, ricorso ai banditi suoi novelli amici,
mandò sollecito per essi pregando, e quasi ordinando
(imperciocchè la sua autorità di giorno in giorno appo loro fosse
venuta crescendo) che travestiti di varie maniere si avessero a trovare
adunati, senza frapporre indugio, nello Anfiteatro Flavio.
Infatti due ore prima che
l'alba spuntasse incominciarono i masnadieri a riunirsi in drappelletti di due,
di tre, di quattro, quale abbigliato da abbate, tale altro da frate: parecchi
mantennero le vesti rusticane, nè mancarono di quelli che comparvero con
abito da gentiluomo; e tanto è falso il proverbio «la tonaca non fa il
monaco», che i nostri banditi incamuffati da gentiluomini non si sarieno
distinti in cento volte co' veri gentiluomini bagnati e cimati. Però,
fatto il conto, i raccolti non si trovarono a superare i quaranta, numero
troppo piccolo per cimentarsi in impresa di rilievo. Guido e gli altri
però non erano uomini da peritarsi per questo a mettersi allo sbaraglio;
in ispecie Guido, il quale vi si sarebbe cacciato anche solo. Udite le opinioni
di tutti, Guido ordinò prendessero per segnale un pampano di vite, e se
lo mettessero al cappello, ovvero al cappuccio, e provvisti di armi corte si
frapponessero nella processione mentr'essa accostavasi al palco. Colà
sbarattati i fratelli della Misericordia, e sbirri, e soldati, levassero di peso
la Beatrice e la trasportassero dov'egli, salito su di un polledro che
fulminava, l'avrebbe tolta in groppa, e menatala fuori delle mura alla dirotta:
eglino poi in mezzo alla baruffa, giovandosi del trambusto, si sbandassero, e
procurassero guadagnare Tivoli, ov'esso gli avrebbe aspettati. I masnadieri
concorsero tutti di gran cuore in cotesta sentenza, come quelli che per natura
propendevano a cotesti fatti arrisicati; e poi, conoscendo lo affetto smisurato
che la universa Roma portava alla Beatrice, fidavano procacciarsi grandissima
rinomanza, della quale pure erano teneri: per ultimo il premio promesso, se
giungevano a salvare la fanciulla, era veramente da Cesare, com'eglino stessi
ebbero luogo in seguito di dire più volte.
Cosa stupenda, e nonpertanto
riportata dai ricordi del tempo: poca ora dopo, nella stessa Roma, altri
meditava la medesima impresa! Fu creduto che questi fossero mossi segretamente
da Maffeo Barberini col mezzo dei suoi fidati: forse non era vero, ma egli
procedeva molto acceso in questo negozio. Il fato della Beatrice, e la sua
inclita bellezza lo avevano tocco profondamente. La diligenza ch'egli pose a
procurarsene il ritratto, di cui parlerò fra poco, e gli onori che
ottenne si rendessero alla salma della gentil donzella, assai aperto il dimostrano.
Forse fu bontà somma in lui, educato alle ottime discipline e cultore
non infelice della poesia; forse amicizia fervente per Guido, e potrebbe darsi
anco amore per la Beatrice; avvegnadio nè porpora cardinalizia,
nè rispetto di amico possano impedire amore d'insinuarsi nel seno degli
uomini, ma solo che, prorompendo, trapassi i confini dell'onesto: questo solo
possono, e qualche volta facciano.
Se Guido avesse le proprie
congiunto con le forze di Maffeo avrebbero per avventura conseguito lo intento;
ma parendogli di essersi prevalso anche troppo del suo amico, non volle, per
intempestiva discretezza, impegnarlo in nuove fortune difficili, e piene di
pericolo.
Questa seconda congiura per
salvare Beatrice si componeva di Artisti, i quali comecchè sieno usi ad
effigiare la bellezza fisica, tuttavolta, per quel secreto vincolo di parentela
che stringe fra loro tutte le cose buone e leggiadre, agevolmente s'innamorano
anche della bellezza morale. Quando ti senti l'occhio afflitto dalla diuturna
contemplazione della turpitudine umana, volgilo sopra gli Artisti, in ispecie
giovani, e lo riposerai.
A questa schiera di giovani
facevano capo molti familiari delle più cospicue casate di Roma, messi
su sotto mano dai loro patroni, ai quali pareva ricevere gravissimo torto in
cotesta strage Cinciana. Su tutti gli altri, ci raccontano le storie del tempo,
sentivasi agitato da smania irrequieta Ubaldino Ubaldini, giovane fiorentino
artista di grandi speranze, che sarebbe salito in alta fama se la morte non lo
coglieva immaturamente: egli fu il pittore che disegnò la testa di
Beatrice come amore disperato gliela impresse nel cuore, nell'atto di essere
condotta al supplizio. Guido Reni in quel tempo non si era anche mosso da
Bologna, sua patria, a Roma: vi andò sul finire dell'anno 1599, o su i
primi del 1600, come si ricava apertamente dalla sua vita stampata nella Felsina
pittrice. La tradizione pietosa narra avere Guido Reni dipinto il ritratto
della Beatrice nella vigilia della sua morte: però, come erronea, vuolsi
emendare; imperciocchè se il caso fosse vero, tornerebbe in massimo
disdoro così della vergine come del pittore. Della Beatrice,
perchè si tirerebbe addosso la taccia di biasimevole vanità,
dovendo l'anima sua in cotesti solenni momenti stare, siccome veramente stette,
assorbita nel pensiero di Dio, e negli affetti più puri: del Reni,
però che la mano del pittore che vale a dipingere, senza tremito, un
caro infelice prossimo ad esser tratto a morte immeritata, svela un cuore
stupido, o perverso. - Questo ritratto dipinto da Guido Reni, ai giorni nostri
conservasi a Roma nel palazzo dei Principi Barberini, e va attorno inciso dal
Volpato, e meglio dal Morghen.
Anche di questi congiurati era
disegno fare impeto nella processione, rapire Beatrice, e gli altri condannati;
riporli dentro una carrozza attaccata a poderosi cavalli, e trasportarli al
mare. In numero costoro sorpassavano i compagni di Guido, ma n'erano superati
per valore, e per abito di mettersi allo sbaraglio nelle più sanguinose
baruffe. Per segno fu destinato un tassello bianco sul capo. L'Ubaldini
terrebbe lo sportello della carrozza apparecchiata, le redini dei cavalli certo
artista francese, il quale si era vantato capace di condurre il carro del Sole
senza rischio di fare il tuffo nel Po.
- Per dio! - gridava lo
Ubaldini percuotendo forte del pugno la tavola, non ha da morire... e non ha da
morire;... meglio sarebbe...
E siccome esitava a compire il
suo concetto, un compagno lo veniva stimolando:
- Meglio, che cosa?
- Meglio rompere l'Apollo di
Belvedere, o il Laocoonte...
- E la cupola del Vaticano la
do per giunta, arrose un terzo.
- Molto più che queste
cose noi le possiamo rifare, osservò il francese offertosi a sostenere
le parti di Automedonte; ma l'Ubaldino, sbirciatolo di traverso, tra la rabbia
e il riso gli disse:
- No, francese proprio di
Francia, coteste cose non si rifanno; ma è meglio periscano esse, che
una creatura innocente.
- O preti! - esclamò un
giovane artista, e tacque. Poi, dopo essersi soffermato alquanto per trovare
nella sua mente convenevole epiteto, soggiunse: - O preti, preti! Chè ho
detto tutto, e a dire più di così io ve lo do per bazza; voi ci
volete assassinare i nostri modelli. E tolti essi di mezzo, cui ci
rimarrà a studiare per farci onore? Forse voi altri? Oh! non capita
tutti i giorni dipingere su le mura di qualche camposanto l'Arca di Noè.
- Ah! se la Beatrice fosse
nata nei tuoi panni, buon per lei! che adesso non si troverebbe al duro passo a
cui l'hanno condotta.
- E questo come ci entra?
- Ci entra benissimo,
perchè e' dicono che l'ammazzano per carpirle i suoi scudi. Ora a te
possono bene strappare i denti; ma in quanto scudi, gli è tempo perso.
- Silenzio voi altri! La
bellezza, che noi vagheggiamo, ricordate che non è di cortigiana,
bensì bellezza purissima, celeste; però ond'ella discenda sopra i
nostri cuori, come lo Spiritossanto nel giorno della Pentecoste, ed infonda in
loro virtù di operare magnanimamente, importa mantenerli disposti con
gravi, e religiose meditazioni.
Questo discorso, favellato dal
giovane Ubaldini salito su di un trespolo, troncò in un attimo le
arguzie intempestive; e tutti cotesti strepitosi, e svagati artisti diventarono
serii quanto i Padri del Concilio di Trento.
Il primo raggio di sole che
spuntò dai colli di Roma rischiarava nella prigione di Torre di Nona un
molto lacrimevole spettacolo. Giacomo e Bernardino incontratisi, corsero ad
abbracciarsi; onde poter confondere insieme lacrime e baci, si erano provati a
entrare l'uno fra le catene dell'altro; ed essendovi riusciti, si vedevano
ricingersi scambievolmente con bracci, e catene.
- Vieni, caro, stringimi... mi
pare stringere i miei figliuoli. Te beato, Bernardino, che non hai figliuoli!
Tu senti men che mezzo l'affanno della morte.
- E non ho nepoti?
- Ahimè! I miei figli...
orfani... figli di parricida, perseguitati da un uomo maligno che può
tutto quello che vuole, e che vuole la loro sostanza! Tutti, per piacere al
potente, ammantano la viltà con la sembianza di santa abbominazione, e
cacciano via i maladetti. Dove sono gli amici? Diventarono nemici, e fanno
scontare ai figliuoli la vergogna di averne conosciuto il padre. - Contendono
ai loro petti affamati il pane; chi li difende? Gli percuotono; essi piangono,
e perchè tacciano li percuotono da capo... La madre, rifinita anch'essa,
si adonta che il suo seno sia diventato nido di vipere... Ah! no, no, Luisa, la
mia Luisa non abbandonerà i miei figliuoli; e quando le verrà
meno il latte, gli nudrirà di sangue.
- Poveretti! E li priveranno
proprio di tutto? Anche della roba mia? Ma io non so niente di tutte queste
diavolerie, e l'ho assicurato poc'anzi al padre confessore, che non ci voleva
credere. Egli caparbio urlava: no; ed io fermo gridava più di lui:
sì; finchè sono venuti a prendermi.
- E che innocentissimo tu sia,
fratel mio, chi lo sa meglio di me? Tu almeno conservi una consolazione, ed
è che da questa vita trapasserai alle gioie celesti. A me poi dubito
forte che questo mi venga concesso; perocchè, quantunque io non abbia
parte nella morte di Francesco Cènci, pure mi è forza rendermi in
colpa per avere altra volta macchinato contro la sua vita, ed acconsentito che
lo uccidessero.
- E non pertanto ci siamo
accusati di averlo trafitto noi stessi! Io ammazzare il signor padre, che al
solo vederlo mi metteva i brividi addosso?... Ma, comecchè fanciullo, io
mi sono troppo bene accorto, sai, che anche negando ci avrebbero fatti morire
fra mille strazii; così, confessando, almeno ci daranno morte ad un
tratto, e mi pare un bel guadagno. Dimmi, fratello, tu che sei uso a vivere nel
mondo, la giustizia è sempre fatta così?
- Giacomo rispose co' sospiri;
- ma il fanciullo, tendendo le orecchie, prosegue:
- Senti! Giacomo, senti! Che
cos'è questa campana che ci piange sul capo?
E Giacomo allora, stringendosi
al seno più forte Bernardino, gli domandò tutto smarrito:
- Come ti senti, Bernardino?
- Io? Bene.
- E di morire ti rincresce?
- Mi pare di sì,
perchè mi piacciono gli uccelli, e le farfalle, e i fiori pei quali esse
svolazzano, e veder correre in giù il Tevere quando è grosso; - e
tutto, in somma, mi piace. Qui saluto il sole, che è chiaro e caldo; e
di là sento che fa buio, e freddo. Qui, dove sono io so; dove vado me lo
dicono, e sarà; ma non lo so di certo.
- Ebbene; or sappi, questa
campana suonare l'agonìa di noi altri, che ci sentiamo pieni di vita...
Questa campana annunzia che dobbiamo partire, a noi che vorremmo rimanere...
Quasi in conferma delle sue
sinistre parole, ecco riaffacciarsi improvvisi sopra la porta del carcere i
confessori, e i fratelli della Misericordia.
- Su; coraggio, fratelli,
l'ora si approssima; disse una voce lugubre.
- Sia fatta la volontà
di Dio, rispose don Giacomo; ma lo interruppe Bernardino:
- E sia proprio questa la
volontà di Dio Gicomo?
- Sì certo,
poichè nulla accada senzachè Dio lo permetta; - e voi a dubitarne
peccate gravemente, rispose il confessore in vece di don Giacomo.
- Se così è,
padre, me ne pento; e onde acquistarmi merito in paradiso, crederò che
per volontà di Dio vengo mandato a morte innocentissimo.
- Chi di noi è incolpevole?
Tutti siamo rei al cospetto dei Signore.
- Ma non tutti sono tratti a
morte di dodici anni.
- Dio prova chi ama; e voi,
figliuolo, ringraziatelo con tutte le viscere per avere tra mille scelto voi a
sperimentare la sua bontà infinita.
- Padre, riprese ingenuo il
fanciullo, se vorreste prendere il mio posto...
E il frate con atto di
compunzione, strette le mani e levati gli occhi al cielo, interruppe:
- Con tutto il cuore,
figliuolo mio, se potesse farsi; ma non si può fare.
Mastro Alessandro con la sua
faccia di bronzo ruppe gl'indugi. Pareva impossibile, eppure da cotesta sua
faccia traspariva una immensità di dolore, - feroce, - minaccevole a
coloro cui fortuna gli avesse cacciato tra le mani, e tuttavia dolore. Egli
vestì i pazienti di due cappe nere somministrategli dalla fraternita
della Misericordia; anzi quella indossata da Giacomo fu già di Francesco
Cènci, il quale finchè visse era stato ascritto al pio istituto.
Poi tutti a passo lento
incamminaronsi fuori del carcere. Don Giacomo si fermò sopra la soglia
della stanza, che abbandonava, testimonio delle sue inenarrabili angosce, e
profferì queste parole:
- Settantasette volte
maladetto l'uomo, che condanna l'uomo a disperarsi l'anima dentro cotesto
avello; quegli che con una spinta lo precipita nel sepolcro, sia maladetto
sette volte soltanto.
Le campane continuano lo
squillo degli agonizzanti; i tamburi suonano scordati; il cielo e la terra
pareva che con quei suoni si scambiassero l'annunzio che la strage stava per
compirsi, e ne rimanessero sbigottiti. Giù nel cortile stavano attelati
parecchi squadroni di micheletti a cavallo, e un nugolo di sbirri a piedi, e
poi i fratelli della Misericordia, e il carnefice, e i valletti del carnefice,
e tutto insomma il desolante apparecchio di forza, del quale ha bisogno di
circondarsi la giustizia, - quando non è giustizia.
Bernardino guardava tutti
cotesti oggetti a modo di smemorato, ma più particolarmente fissò
due carrette, dov'entro fornelli di carboni ardenti si arroventavano tanaglie
di ferro; e curioso, secondo la indole dei fanciulli, domandava:
- Giacomo, e coteste tanaglie
a che devono servire?
Giacomo non rispondeva, e la
più parte dei fratelli della Misericordia sotto il cappuccio lacrimava;
ma il giovanetto insisteva inquieto:
- Io lo vo' sapere; dimmelo,
su, Giacomo: non creder mica di farmi paura; tanto, che io devo morire lo so.
- E' sono per noi, - rispose
Giacomo; e più non potè dire.
- Oh! Io non credeva mai che
meco ci fosse bisogno di tanti arnesi; con me è presto fatto; lo vedi,
ho il collo sottile come un giunco: il boia non avrà a durare molta
fatica, io penso.
Ancora guardò un
chiodo, un mazzuolo, ed un tabarro rosso trinato di oro, oggetti tutti che,
come corpi di delitto, venivano trasportati sopra una delle carrette per essere
esposti al pubblico.
- Giacomo, o non ti par egli
cotesto tabarro quel desso che adoperava il nostro signor padre? Decisamente il
mantello rosso ci perseguita.
I confortatori, a impedire che
l'attenzione del fanciullo vagasse dalla meditazione religiosa, posero a lui
come al le tavolette, ch'erano una maniera di cassette di legno in cui
intoducevano il capo dei pazienti, tenendone obbligata la vista sulla immagine
del Crocifisso, e sopra certe devote orazioni fatte al caso da un dotto e pio
cappuccino, incollate dintorno alle pareti. Il fanciullo strillava urlando gli
togliessero cotesto ingombro, non gli rapissero quello che Dio solo può
dare, la vista del cielo. In questa si notò alla porta del cortile uno
agitarsi di gente, uno scansarsi di soldati, e lenta procedere in mezzo a loro
una carrozza. Le voci del popolo percuotevano turbinose le mura del carcere
come ondate di mare in burrasca:
- Grazia! Grazia!
Un lampo di vita passò
dinanzi agli occhi di Giacomo, e la sua testa si sollevò a guisa della
cima del pioppo quando è passato il turbine. Dalla carrozza scese
l'illustrissimo signor Ventura, il quale presentatosi al cospetto dei
condannati, trasse una carta dal seno, e favellò:
- Don Bernardo Cènci,
nostro Signore vi fa grazia della vita. Compiacetevi però fare compagnia
alli vostri parenti, e pregate Dio per le anime loro([169]).
Compiacetevi. Tu nota, lettore, la parola, e ti apparecchia a
vedere pietà di sacerdote che sia. Neanche il demonio, allevato in
collegio dai reverendi Padri della Compagnia di Gesù, avrebbe saputo o
voluto adoperare parola così satanicamente beffarda, e ipocritamente
crudele.
I confortatori allora trassero
a don Bernardino le tavolette, chiamate ancora pietà; ed il carnefice
riscontrato il placet del Papa, lo liberò dalle manette: e non sapendo
con che vestirlo, per torgli l'apparenza di condannato, prese il mantello rosso
del Conte Cènci, ed in quello lo avviluppò. Così il destino
ordinava, che gli ultimi figli di cotesto scellerato uomo si accostassero al
patibolo uno vestito della cappa nera con la quale costui tradì Iddio, e
l'altro del tabarro rosso col quale aveva tentato tradire Marzio. Fino le sue
spoglie riuscivano funeste alla propria famiglia: come Nesso, tramandava ai
suoi impregnata di odio anche la camicia.
Bernardino riveduto il sole
aperto, e sentendosi salvo, battè palma a palma, saltò,
gridò per allegrezza, chè lo istinto di vita prevalse in quel
punto potentissimo sopra ogni altra passione; ma subito dopo si accorse quanta
gli rimanesse causa di pianto, e come fosse turpe cosa mostrarsi esultante:
rannicchiavasi pertanto ai piedi di Giacomo, e supplice gli chiedeva perdono.
In Giacomo al lampo di vita
era subentrata l'ombra della morte; aveva già l'occhio vitreo, e
smarrito; tuttavolta dalla gola estenuata profferì a stento queste
parole:
- Giubbila, fratel mio; se tu
potessi vedermi il cuore, conosceresti come io n'esulti più di te. Il
Signore incomincia a placarsi meco, poichè si degna mandare un altro
padre ai miei figliuoli. Prendili dunque in custodia, giacchè tu li puoi
ricevere: io raccomando a te il sangue mio col medesimo affetto col quale
raccomando al Creatore l'anima mia.
- Giacomo, rispose Bernardino
abbracciando le ginocchia del fratello, io ti giuro di far voto di
castità, onde altri amori non mi disturbino dallo avere pei figliuoli,
che mi lasci, viscere di padre.
- Ed ora sia benedetto Dio.
Signori, possiamo andare.
Uscita fuori del cortile la
processione s'incamminò verso Santa Maria in Posterula, dove allora
restauravano il collegio dei Celestini, chiamato poi, dal nome del papa
regnante, Clementino. A mezzo la strada dell'Orso il carnefice sbarrò la
cappa a don Giacomo, facendolo rimanere ignudo fino alla cintura: poi, dato di
piglio alle tanaglie roventi, strappò un lembo della carne di don
Giacomo...
Le carni sotto l'ardore del
ferro si aggricciarono; il ferro fumò, una piaga atrocemente dolorosa si
aperse, e mandò leppo insopportabile. Cuore, vista, udito, odorato
rimanevano del pari feriti.
Bernardino balzò in
piedi furioso, e tentò con le nude mani afferrare le tanaglie infuocate;
ma il carnefice le trasse indietro: allora egli, compresa la inanità dei
suoi conati, girandosi in ginocchioni con le mani giunte supplicava:
- O, per pietà, non lo
toccate; basta; troppo a lui... per le piaghe di Gesù, qualche cosa date
anche a me.
E siccome mastro Alessandro,
coteste preghiere non badando, tornava a rinnuovare lo strazio, Bernardino
gridò:
- Per pietà, signori
fratelli, mi ridieno le tavolette... che io non vegga... non senta... oh! oh!
mi si spezza il cuore...
E il fanciullo cadde svenuto.
Don Giacomo stringeva quanto
più gli era dato le labbra, e la pelle delle guance insinuava fra i
denti, sicchè ne aveva la bocca piena di sangue; e ciò faceva per
non gemere. Ma giù dalla fronte grondava il sudore a pioggia, i capelli
dritti come istrice, convulso tutto, singhiozzava talvolta, ma non gemeva. In questo
modo lacerato oscenamente, il misero procedeva per le piazze di Nicosia e
Palomba fino alla chiesa di Santo Apollinare; donde piegarono a Piazza Navona,
anticamente Circolo Agonale, e quinci per San Pantaleo, li Pollacchi, e piazza
delle Pallottole fino a Campo di Fiore, mercato dei rigattieri, dove per
privilegio si giustiziavano i condannati dal tribunale del Santo Ufficio.
In questo modo i potenti della
terra, ma in ispecie i Pontefici, costumarono un giorno partecipare alla
infamia sembianza d'onore, e tuttavia costumano. Freme il mondo, o sibila, o
ride; ed ei lo lasciano fremere, ridere, e sibilare, continuando a crear nobili
le spie, e concedere indulgenze e croci ai traditori.
Adesso la processione traversa
un suolo che arde: egli è la piazza dei Cènci. Giacomo sbalordito
dal dolore, in qual luogo lo avessero tratto o non badava, o non sapeva. Giunto
a piè dell'arco dove incomincia la cordonata la quale conduce alla
chiesa di San Tommaso dei Cènci, caddero sopra il suo capo grida
strazianti, ch'ebbero virtù con la tremenda vibrazione loro di superare
perfino l'acuto senso di dolore, che trapassava il cervello del derelitto cerne
un chiodo. Leva gli occhi, e traverso un velo pargli ravvisare, e ravvisa
certo, dalla terrazza che sormonta l'arco dei Cènci, le braccia sporgenti
della moglie e dei figli.
La idea di mostrarsi in tale
stato di abiettezza e di miseria alla sua famiglia rimescolò tutto il
sangue nelle vene di Giacomo, e glielo spinse poi così impetuoso al
cuore, che traballò per cadere. Ma l'affetto vinse la vergogna, ond'ei
con voce piena di amore esclamò:
- I figli! Oh! i miei figli...
datemi i miei figliuoli...
Gli ufficiali preposti alla
esecuzione della giustizia intendevano andare oltre; ma il popolo commosso
urlò con un grido solo:
- Dategli i figliuoli.
E siccome gli ufficiali
nicchiavano ad obbedire, un maroso popolare sbarattò la processione, e
mugghiando arrivò fin presso al carro; per la qual cosa gli ufficiali,
ammiccatisi coll'occhio, trovarono giustissimo il desiderio del popolo, e bandirono
ad alta voce niente star loro più a cuore quanto appagare il voto
universale. Fatto pertanto scendere prestamente don Giacomo giù dal
carro, e gittatagli sopra le spalle la cappa onde rimanessero coperte le
ferite, lo trassero su per la cordonata nel cortile del palazzo. Quali spasimi
recasse allo infelice cotesta tela, che confricando inaspriva le carni arse,
non è da dire; ma egli divorava i gemiti per pietà dei suoi.
Giù per le ampie scale
Luisa, con le chiome sciolte, fu vista precipitarsi tenendo un figliuoletto in
collo, ed un altro per mano. La seguitava Angiolina recando seco altri figli, e
presto lo ebbero raggiunto giù nel piazzale. Luisa gittò al collo
del marito un figliuolo, il quale vi si apprese con atto disperato: ella poi
volle prostrarsi, ed abbracciargli le ginocchia; sennonchè al primo
muovere che Giacomo fece dei labbri le membra le si prosciolsero; tanta
pietà la strinse, che cadde priva di sentimenti ai suoi piedi. Giacomo
non la vide, chè il fanciullo pendente dal collo glielo impediva; onde
con voce abbastanza ferma favellò:
- Figli miei, fra breve ora un
colpo torrà a voi un padre; a vostra madre un marito. Io vi lascio un
ben tristo retaggio, e questo pensiero mi tormenta, ahi! più del mio
supplizio. Quando mi avranno sepolto qui in questa chiesa di San Tommaso, voi
abbiatevi in mente che se sarete cacciati dalla vostra magione, nessuno
potrà chiudervi in faccia le porte della chiesa edificata dai vostri
maggiori. Venite di notte, procurate che nessuno vi veda, e pregate per l'anima
del povero vostro padre. Luisa, io non ti raccomando i tuoi figliuoli, e miei;
io so... io so, che prima di giungere a loro bisognerà passarti sul
petto. Luisa mia, dove sei?...
Non udendo risposta
piegò la persona, e depose in quel modo il figliuolino sul pavimento,
dacchè con le braccia non si poteva aitare. Allora la vide stesa priva
di sensi; però che levati gli occhi al cielo continuò:
- Signore ti ringrazio, che
avendomi dato la contentezza di rivederla prima di morire, hai tolto a lei il
dolore di questa ultima separazione. Poi, anch'egli prosteso al suolo, la
baciò in volto, e glielo bagnò di lacrime e di sangue. Quindi
baciò i figli ad uno ad uno, che gli si strinsero addosso cercando
ritenerlo con le infantili loro mani, e mettendo guai così pietosi, che spezzavano
il cuore.
- Addio... figli miei, -
diceva il misero tra un singulto e l'altro - addio; ci rivedremo in paradiso.
Bernardino, adesso sono figliuoli tuoi... rammentalo.
E Bernardino si dava tutto
smanioso ad abbracciare, e a baciare quelle creaturine, e come poteva
acquetavale, promettendo loro che presto egli sarebbe tornato a casa. Ed essi:
- Ma il babbo, dì, ce
lo rimenerai?
- Io no... ma ve lo
riporteranno, non dubitate... Addio.
Piangevano tutti, e si udiva
alto dintorno un suono di gemiti, un singhiozzare irrefrenato, come se a
ciascheduno degli astanti fosse tratto a morte o figlio, o fratello.
Si riprende la via della
passione. Chi si sentiva fra gli spettatori affaticato delle sofferte
sensazioni, chi procedeva cupido di nuove più acute... Anime dure!
Angiolina rimasta sola presso
la desolata Luisa, si trovava sgomenta a trasportarla nelle sue stanze. - Non
uno dei tanti servi, non uno dei tanti clienti, ed amici della famiglia
Cènci si trovava costà per sovvenirla nello ufficio pietoso. Uomini
ed animali si allontanano dalla casa che minaccia rovina. Ella si fece fin
presso la strada pure aspettando che qualcheduno passasse. Alla fine gli
occorse il vecchio Giacobbe ebreo, che poco oltre il palazzo Cènci
teneva bottega di rigattiere (dacchè parmi avere avvertito, che cotesto
palazzo si trovasse in vicinanza del Ghetto). Su le prime Angiolina
sentì ribrezzo valersi della opera di tale che, secondo le opinioni del
tempo, stimavasi men di un cane; ma vinta dal bisogno, così alla trista,
lo richiese a darle una mano per portare in casa la povera gentildonna. E
Giacobbe, a cui non erano sfuggiti la superbia delle parole, nè l'atto
acerbo, tentennando il capo rispose:
- Volentieri, donna mia. Il
Signore nella via sua ha visitato questa casa, e tutti i miseri hanno da essere
fratelli.
Giacobbe entrò in mezzo
ai fanciulli, i quali in ginocchioni stavano piangendo intorno alla caduta
reputandola morta, e si recò in collo la Luisa consolando tuttavia i
fanciulli, ed assicurandoli che la mamma era viva. Ei la depose sul letto, le
sottomise al capo gli origlieri, e per ultimo, tenendosi lì ritto ed
ossequioso, disse ad Angiolina:
- Nati a soffrire e a morire,
anche noi, che voi maledite, abbiamo un cuore qui dentro. Se più volete
da me, domandate, vi prego, e le creature di Dio divise dalla ingiustizia sieno
almeno riunite dal dolore. Angiolina lo accomiatava, attentandosi per fino a
stringergli la mano. Luisa dopo lunga ora rinvenne: girando attorno al letto
gli occhi smarriti vide i figliuoli, come Niobe un giorno contemplò i
suoi, trafitti dalle saette della sventura. Si appoggiò sopra un gomito
sollevando alquanto la persona, e con voce languida disse loro queste parole:
- Noi non lo rivedremo
più! In breve, fanciulli, noi non avremo più tetto che ci
ricovri: - tutto perderemo in un punto; padre, congiunti, amici, fama, e
sostanze. Dimenticate chi foste, per rammentarvi quello che siete. Quando gli
amici di vostro padre fingeranno di non riconoscervi, non ve ne adontate: i
servi vi hanno abbandonato, compatiteli; essi stanno attaccati al pane, e voi
non avete più pane: i figli dei gentiluomini si vergogneranno di voi;
bastate a voi stessi: i figli del popolo vi fuggiranno; riconduceteli a voi con
lo affetto: la mano di tutti sarà contro voi, la mano vostra non si alzi
contro nessuno. Non maledite al padre vostro però che egli fosse misero,
non colpevole; e fosse stato anche reo, non istà ai figliuoli giudicare
dei proprii genitori: ma io vi affermo ch'ei fu infelice, e innocente;
però pregate che se egli non può più venire verso di noi,
a Dio piaccia ricondurci tosto presso di lui. Siamo soli; raddoppiamo fra noi i
vincoli dello amore, e noi non ci accorgeremo della nostra solitudine...
A questo punto degli accenti
desolati fu udito dietro di loro un rammarichìo, che gli accompagnava.
Luisa piegata la faccia conobbe essere Angiolina, la quale a rispettosa
distanza genuflessa aveva giunto le manine al suo pargolo, e quelle levate con
le proprie verso il cielo plorando pregava. In cotesto modo la gentile
intendeva significare alla Luisa Cènci, che non tutti i cuori l'avevano
disertata; e gliene avanzava sempre qualcheduno il quale parteciperebbe alle
sciagure della sua famiglia, e piangerebbe con lei.
Comprese la Luisa la rampogna
amorosa, e chiamata a se Angiolina le cinse di un braccio il collo, e baciatala
riprese:
- Sorella, ti domando perdono;
e levati gli occhi al cielo soggiunse: Signore, ti prenda pietà di due
vedove desolate; - se tu non ci sovvieni, noi non ne possiamo più.
E chinata la testa stette
alquanto in silenzio. Poi continuò:
- Ecco, figliuoli, voi non
sarete soli: adesso avete acquistato due creature dalle quali sarete amati. Dio
vi toglie un padre, e vi manda una seconda madre: ultima a perdersi è la
speranza, ma finalmente anch'essa si perde; una amica provata dalla sventura
non si perde mai.
Le donne continuarono a
piangere; però da quel punto in poi sentirono sgorgar meno amare le
lacrime. Quando Dio dall'alto dei cieli contempla l'amico che si stringe
all'amico nel giorno del dolore, si compiace aver creato l'uomo; ed allora
soltanto si rammenta averlo creato ad immagine sua.
CAPITOLO XXXI.
L'ULTIMA ORA.
Il bellissimo
collo al ferro offerse.
Massini([170])
O mia Francia!
Nobil terra,
O mio sangue di
Borbon!
Sol compiei
diciasette anni,
Nei diciotto
appena or son.
Dal Re ancor
non conosciuta,
Con le vergini
men vo.
Quanto fei per
te, Castiglia,
Tradimento non
ci entrò.
Le corone, che
mi hai dato,
Son di sangue e
di dolor;
Ma ne
avrò su in cielo un'altra,
Che ben fia di
più valor.
Alla fin delle
parole
Il mazzier la
mazzicò,
Le cervella del
bel capo
Per la sala
sparpagliò.([171])
La processione che conduce al
patibolo i fratelli Cènci, dopo avere percorso diverse strade, giunse
alla fine in via Giulia, dove sostò davanti la carcere di Corte Savella.
Beatrice e Lucrezia meditano
in silenzio. Padre Angelico anch'esso prega; ma vigilando attento egli ascolta
un rumore, che sempre, e più sempre si avvicina. Alza le ciglia, e vede
traverso il pertugio della porta del carcere balenare una figura che gli
accenna della mano, ed egli comprende quel cenno. Oh Dio! comecchè da
lungo tempo ei logorasse la vita nella opera senza fine amara di porgere
conforto ai miseri ridotti ai supremi infortunii, non gli bastava l'anima per
avvertire Beatrice, che era forza andare. Mentre ei stava improvvido di quello
che si avesse a fare, la fanciulla gliene offerse il modo nelle preci che
indirizzava a Dio.
- E se, ella diceva, questa
immensa voglia che mi spinge fuori della vita verso le tue braccia, o Signore,
è peccato, e tu me lo perdona. Quanto mi tarda aspettare! Io sono quasi
un esule, che sopra la spiaggia riarsa dal sole affretta col desiderio la nave
che deve ricondurlo in patria. O cielo, patria veramente pia di tutti quelli
che soffrono!
- Figlia, se ti senti
così gagliarda, il Signore già viene... è venuto a
pigliarti. Andiamo.
E levatosi in piè
sommette la sua mano venosa alla mano candidissima di Beatrice, la quale,
anch'essa di subito alzatasi, esclamò:
- Quaggiù il soffrire
è martirio; in paradiso è gloria... Andiamo... andiamo.
Qui, o curiosità o
pietà che si fosse, in maggior copia si radunava la gente; la quale
stipata per la via, appena dava adito per muoversi al sinistro corteo. Uomini e
fanciulli vedeansi appollaiati, a mo' di uccelli, su per le cornici e i
remenati delle finestre, o rannicchiati in forma di grottesche cariatidi per le
bozze dei muri, pei soprapporti, e perfino ai bracci di ferro da sostenere i
lampioni. Cotesta era plebe o lacrimosa senza pietà, o stupida senza
ferocia, tutta lamentante un fato, che nessuno fra lei avrebbe steso un braccio
per mutare: all'opposto lo avrebbe trattenuto; imperciocchè quelle sieno
feste per la plebe tanto più accette quanto più acri di
commozioni, ed apprestate a lei senza spesa.
Comparve prima donna Lucrezia
col velo nero avviluppato intorno al capo, e poi cascantele fino alla cintura:
con la cappa nera di tela di cotone di maniche ampissime, ed aperte: con la
camicia di tela eletta piegata in righe minutissime, e chiusa ai polsi, siccome
allora ne correva l'andazzo. Intorno alla vita non portava la fascia bianca che
a quei tempi costumavano le vedove in Roma, bensì una corda, entro la
quale le stavano costrette le braccia; non tanto però, che con la destra
non potesse recarsi davanti agli occhi un Crocifisso, e con la manca asciugare
il sudore che le grondava dalla fronte: calzava pianelle basse di velluto nero,
con fiocconi di seta dello stesso colore.
L'affanno lungo non aveva
potuto appassire la divina bellezza di Beatrice. A guisa di fiamma vicina a
spegnersi, parve raccogliere tutto il suo splendore per iscintillare più
vivace. Il patimento l'aveva spruzzata con la rugiada che stilla in cielo dalle
palme dei martiri: ella sta tuttavia sopra la terra, ma come un angiolo che
apre l'ale per librare il volo al trono di Dio. Beatrice comparve assettata in
modo alquanto diverso dalla matrigna: il velo aveva bianco; sopra le spalle un
drappo di argento; la vesta di taffettà color di viola; le scarpe alte
di velluto bianco con fiocconi, trine, e tacchi cremesini.
- Eccola! Eccola! Come balena
corre questa parola di bocca in bocca dai prossimi ai lontani; e, quasi che non
serbassero cuore ed occhi tranne per lei, intesero tutti alacremente lo sguardo
per contemplarla.
Mosso ch'ella ebbe un piede
fuori della porta le andò incontro il Crocifisso della Misericordia a
mezzo involto dentro un velo nero lungo e pendente, che, ventilato dal soffio
del vento settembrino, pareva una vela gonfia dall'aura propizia alla partenza.
Il Crocifisso le
s'inchinò davanti come per salutarla, ed ambe le donne si prostrarono.
Beatrice, adorando, con voce alta così parlò:
- Poichè tu vieni a me
con le braccia aperte, piacciati, Cristo Redentore, ricevermi col medesimo
affetto col quale io vengo a te.
Dall'alto della carretta
Giacomo e Bernardino avendo veduto la bella innocente, rimorsi nella coscienza
per averla costretta a confessarsi colpevole in grazia di salvarli da morte,
parendo loro esser causa del supplizio di lei, e sospinti da un medesimo
affetto, prima che li potessero impedire precipitarono giù dal carro; e,
gittatisile ai piedi, gridando mercede dicevano:
- Perdono, sorella; tu vai
innocente, per colpa nostra, alla morte.
Beatrice visto l'osceno
scempio delle carni del suo fratello abbrividì, e si sostenne sul
braccio del padre cappuccino; ma tosto, ripreso animo, con serena faccia
rispose:
- Che cosa ho io da
perdonarvi, fratelli miei? Nè la vostra, nè la mia confessione ci
manda a morte, bensì la sostanza; e di questo ormai avreste dovuto
accorgervi. Di che dunque avrei a perdonarvi io? Forse di avermi fatto
abilità di abbandonare per tempo questa macchia piena di fiere col
sembiante umano? Ma a me tarda di uscirne. Forse per andarmi colà dove
non sono oppressori, nè oppressi? Ma se fosse subito, non mi parrebbe
presto abbastanza. Su via, coraggio, Giacomo; ormai possono farti un male grave,
ma breve. Chè stiamo noi qui? Affrettiamoci a riparare nel seno del
Consolatore, che ci aspetta... alla pace eterna... alla pace.
Pieni di nuovo conforto, che
infuse nell'animo loro la mirabile costanza della vergine, risalirono il carro,
e imperturbati soffersero il proseguimento della passione.
Beatrice camminava presta e
leggiera, come persona cui premesse arrivare in tempo al convegno assegnato; e
passando dinanzi alle chiese, che molte le occorsero per istrada, come Santa
Maria in Campitelli, San Carlo dei Catenai, Santo Stefano in Pesciaiola, Santa
Caterina dei Lotaringi, Santa Lucia della Chiavica, e Santi Gelso e Giuliano in
Banchi, si prostrava, e pregava con tante affettuose preghiere, che quelli che
la udirono ebbero a dire non avere mai provato in tempo di vita loro una
passione al cuore così dolorosa, e desiderarono che Dio li gratificasse
in punto di morte a uscire con fede, e giubbilo pari al suo da questa vita.
Uno degl'incappucciati
però sembrava ricavare inestimabile fastidio dalle frequenti proteste emesse
da Beatrice intorno alla sua innocenza, e col tentennare del capo, e lo
storcere della persona irrequieto lo manifestava turpemente. Per ultimo,
essendo egli dei confortatori, che procedevano al fianco della Beatrice, spinse
la temerità sua fino a sussurrarle dentro le orecchie:
- Ma cui vi avvisate ingannare
voi, col chiamarvi con tanta pertinacia innocente? La giustizia umana non
poteste deludere: o che pensate riuscire meglio con la divina?
Beatrice sentì nel
profondo l'oltraggio; ma ormai non la toccando più cosa terrena, invece
di adontarsene, rispose con voce pacata:
- E perchè parlo a Dio,
al quale nulla è nascosto, io favello parole di verità.
- Ma voi avete confessato
fuori dei tormenti.
- Così mi persuasero a
fare per la salute dei miei; e se questa confessione fosse stata causa della
mia morte, io avrei a pentirmene come di un peccato grave; ma la nostra morte
era stabilita prima del processo. In mano ai giudici fummo consegnati non
perchè ci giudicassero, bensì perchè ci ammazzassero; e
commetterci addirittura in mano al boia sarieno stati tempo e spese
risparmiati.
- No, voi siete colpevole; ed
io vi dico che la porta della salute è chiusa per voi, se voi,
umiliandovi, non confermate coram populo la vostra confessione.
- Sono questi i conforti co'
quali mi consolate? Ricominciano adesso i tormenti del Luciani? La mia salvezza
non dipende da voi, nè da qualsivoglia mortale sopra la terra. Tacete.
- Non tacerò. Voi siete
rea, voi dovete rendervi in colpa di parricidio...
In questa un vaso di fiori
caduto dall'alto, a bella posta o per caso, percosse sopra la spalla dello
incappato: il colpo stritolategli le ossa, lo stramazzò a rotolarsi per
terra con angosciosi guai. Accorsero i fratelli a rilevarlo, e trattogli il
cappuccio, lui riconobbero essere Giovanni Aldobrandino, nepote del papa. I
suoi parenti lo avevano mandato confortatore non già, bensì
testimone della strage. La strage fu compita, ma egli non la vide.
Dalla via di San Paolino
sboccano sopra la piazza del Castello Sant'Angiolo, altramente detto Mole
Adriana. I riti funebri dei pagani furono aboliti da Cristo, e non pertanto i
suoi sacerdoti continuano a svenare sopra cotesto sepolcro vittime di schiavi,
che intendono riscattarsi dalla servitù. Un giorno la vittima
sagrificherà il sacerdote, ma rimarrà illeso il Dio.
In mezzo alla piazza sorge il
palco, e quivi sopra una panca e un ceppo; sul ceppo una mannaia. I raggi del
sole declinante illuminano il ferro forbito, che par di fuoco; gli occhi di
quelli che lo guardano ne rimangono feriti. Il popolo denso e stipato ondeggia
come campo di biada matura battuto dal vento della canicola: per cotesto moto
si comprendeva quello essere il regno delle tempeste, ma in quel momento la
procella taceva. Arrivata la processione presso la cappella di San Gelso, dove
stava esposto il Venerabile, (stazione ultima dei condannati che qui dentro,
adorando, dovevano aspettare di venir tratti di mano in mano al supplizio) ecco
cotesta massa di popolo incomincia a infuocarsi, ed a ribollire a mo' di bronzo
liquefatto per fondere campana, o cannone; chè gl'istrumenti di morte, o
di pietà si compongono dagli uomini col medesimo metallo! - Dall'alto si
vedeva la gente fuggire qual da un lato, qual dall'altro, e respinta
respingere; sicchè il moto si propagava lontano.
Un pugno di uomini, distinto
col pampano al cappello, si avanzava chiuso e taciturno, menando colpi di stile
a diritta e a manca. Quanta, e quale si spargesse dintorno la paura, quanto lo
scompiglio, e come alte e disperate rimbombassero le grida, non sono cose che
le si possano convenientemente con parole significare. Gli scudieri tentavano
sospingere i cavalli, ma questi spaventati ricalcitravano: gli sbirri, come
coloro che sanno quanto peso di odio si aggravi sopra lo infame loro capo,
attendevano a mettersi in salvo. Fratelli della Misericordia, sacerdoti,
torcie, Cristo, gonfaloni, ogni cosa a rifascio.
Mastro Alessandro, ritto su la
carretta, si teneva sempre sotto mano Giacomo e Bernardino Cènci, come
falco che stringa due passeri fra gli artigli. Mirabili gli atteggiamenti ed i
segni della passione, così degli uomini come delle donne, dai veroni,
dai tetti e dai palchi; pietosissimi i guai della gente sbattuta su la piazza:
alcuni calpestati, altri soffocati morirono; donne gravide si sconciarono:
parecchi perfino, o per lo spavento, o pel calore del sole che picchiava loro
sul capo intensissimo, o per ambedue queste cause, ammattirono. Per arroto al
tramestio alcuni palchi, tra per essere abborracciati, tra per andare
stracarichi di persone, si fracassarono con orribile rovina; e dei caduti qual
si ebbe o gamba, o testa, o braccio rotti, e nessuno rimase senza ammaccatura.
Guido sopra il suo focoso
cavallo queste cose vedeva, e sentiva struggersi l'anima dentro nella esitanza
del fine. Ecco i suoi compagni procedendo si accostano a Beatrice; ecco
l'ultimo ostacolo è remosso: ora la prendono... l'hanno presa, la
sollevano, la traggono via. Ella è salva. Il popolo scoppia in immenso
grido di gioia; anch'egli fa spalla ai rapitori; e se nei proprii moti non
s'invescasse, gli sovverebbe con più fruttuosi conati.
Guido non si potendo
padroneggiare stende le braccia, quasi intendesse accertare lo spazio che lui
separa dalla sua Beatrice. Come ventura volle, nella smaniosa movenza della
persona stretta la gamba destra venne a ferire dello sprone il polledro, che,
già da tanto trambusto spaventato, sbuffa feroce; e come se questo non
bastasse a concitarlo, allo improvviso davanti a lui si scoscende fragoroso un
palco, dove i casi lamentati poco anzi si rinnuovarono. Il polledro allora
invaso da rabbia irrefrenabile, sciolto dalle redini, si avventa come fulmine;
e rompendo la calca col petto, mordendola e calpestandola, trasporta seco in
sua balìa il misero amante.
Malgrado simile infortunio i
compagni di Guido avrebbero condotto in salvo la Beatrice, avvegnachè
non fossero gente da smarrirsi, e, impadronitisi della prima carrozza fosse
loro capitata davanti, avrebbero fatto prova di trasportarla con quella: ma lo
intoppo venne da altra parte, essendo stato fatale per Beatrice che lo affetto
degli uomini le nuocesse più, e peggio dell'odio.
Il popolo, arricciandosi come
l'acqua che rompa nei frangenti, storna impetuoso, rincalzato da una squadra di
armati distinti col tassello bianco su la berretta: anche questi dicevano
davvero, dacchè menassero fendenti da recidere teste, o punte da
traforare parte parte chiunque fosse stato tardo a cansarli.
Beatrice per entro a questo
contrasto sembrava navicella in mezzo al mare in burrasca. Ora appariva su
l'onda delle teste popolesche, ora spariva, ora avanzava, ora indietreggiava; -
un passo alla fuga, - un passo al patibolo.
Il giovane Ubaldini, che dalla
staffa della carrozza apparecchiata a ricevere la Beatrice vedeva tutto,
conobbe come altri si affaticasse a salvarla, e, per difetto di accordo, invece
di aiutarsi s'impedissero, con rovina manifesta della impresa. Atterrito dal
pericolo presentissimo, precipitò giù per correre ad ammonire i
suoi cessassero di spingere avanti; al contrario voltassero faccia, se non volevano
perdere la Beatrice. Ma il dabben giovane tra lo scompiglio, le ferite e le
strida non giunse a farsi intendere da tutti; e i pochi che lo intesero non
sapendo quello ch'egli volesse, e vedendolo disertato dal suo posto, tennero
per disperata la faccenda, ed invilirono nell'animo.
Intanto i cavalieri sgominati
prevalendosi del terreno sgombro si raggranellavano, e si stringevano: dietro
ad essi anche gli sbirri si riunivano. Ricomposta la squadra, il capitano
ordinò la carica; la quale riuscì molto agevolmente, dando dentro
a gente scomposta. Il giovane Ubaldini, come lo consiglia amore, si attenta
solo a far testa agl'irrompenti cavalli, e ficca fino all'elsa la spada nel
collo al primo che gli si para davanti; ma gli altri oltrepassando gli menarono
due fendenti, uno dei quali gli spaccò il cranio, e l'altro gli recise
la spalla; cosicchè ei cadde in terra per morto. La milizia a piedi
serratasi in quadrato, presentava una massa a scompaginarsi impossibile. In
questo modo da tergo incalzati, e di faccia respinti, ai compagni di Guido non
rimase altro scampo che salvarsi dai lati, la qual cosa essi fecero con
incredibile ferocia allorquando conobbero la impresa rovinata. La Beatrice,
appunto come la navicella dopo essere stata lungamente sbattuta viene gittata
dalla crescente procella a rompere fra gli scogli, dai moti diversi e contrarii
dei suoi medesimi salvatori è sospinta ai piedi del patibolo.
Qual cuore fu il suo in mezzo
a coteste vicende? Riaperse Beatrice il petto alla speranza? Accarezzò
le liete immagini della vita? Le sorrise amore? Le sorrise amore; ma tanto ella
non desiderò più la vita. Troppo camino ella aveva percorso verso
il sepolcro per tornarsene indietro, e ricominciare da capo; però che
tutto quello che aveva detto intorno a questo argomento le fosse uscito proprio
dal cuore. Lei oggimai invadeva, non dirò smania, ma desiderio sincero
di riposare il suo capo nel seno di Dio: e nonostante questo le sorrise amore,
chè anche su l'orlo del sepolcro la creatura umana, in ispecie la donna,
si talenta del sapersi amata. Errano poi quando scolpiscono Amore lacrimante
sopra la tomba della vergine innamorata: egli vi scende insieme con lei, e vi
dimora; avvegnachè anche le nude ossa tremino di amore quando l'amico si
volga alla cara defunta con un ricordo, o con un sospiro. Beatrice vide Guido,
e gli mandò lontano l'ultimo addio. Guido vide lei, e, malgrado lo
spazio, si baciarono col guardo.
Si baciarono! A piè del
patibolo, o dopo la estrema unzione, anche una santa può soffrire essere
baciata dall'uomo che di lei s'innamorò. Non si registra fra le colpe in
cielo il penultimo bacio di amore, purchè l'ultimo sia quello della
morte. Anche Michelangiolo baciò Vittoria Colonna mentr'ella spirava.
Questi affetti non possono comprendersi dai vulgari, bensì da menti use
a disvelarsi nel raggio della divinità; da anime, che nascendo abbiano
sortito intelletto di amore. E Beatrice, come se fosse presente, come se gli
tenesse le dita fra i ricci delle chiome bionde, in armonia di musica favella al
suo amatore queste parole:
- Ah! Guido, amor mio, sta
lieto; Dio non vorrà tenerti a tribolare quaggiù. Guido,
piangi... pentiti; ogni lacrima ti darà una penna per salire al sommo
Bene: non si vola al cielo che con ale di dolore.
Il Padre Angelico stava
atterrito; e maledicendo allo spirito maligno che suscitava in lei cotesti
pensieri terrestri, la chiamava fortemente a nome, e la scongiurava di tenere
lo intelletto intero appuntato in Dio.
- Beatrice sgombra dall'anima
ogni ardore, che non sia celeste. Non ti voltare addietro sopra la soglia della
Eternità a contemplare la vita.
E Beatrice, sorridendo:
- Padre, gli rispondeva, io
sono una povera femmina peccatrice, e voi santo maestro di divinità; e
tuttavolta io vi assicuro, che non commetto peccato pensando al mio amore. Io
aspiro a nozze spirituali; il mio desiderio si volge al connubio delle anime.
Io sposerò il mio Guido in paradiso; fra le braccia del nostro Creatore
ci abbracceremo. Amore è Dio, e Dio è Amore...
Il buon cappuccino non andava
gran fatto persuaso di quella maniera di teologia, ma conosceva non esser
tempo, nè luogo cotesti per disputare; onde si contentò
ammonirla:
- Figlia... ecco il vostro
sposo Gesù... in questo affissatevi... questo con tutta l'anima
baciate...
- Oh! sì, con tutta
l'anima, perocchè egli fosse tutto amore per noi.
E così i condannati si
raccoglievano dentro la cappella. Passato il tempo che concedevasi
all'adorazione del Sacramento, onde per loro potessero conseguirsi le
indulgenze a larga mano prodigate dal pontefice, la Misericordia col Crocifisso
parato a lutto venne per Bernardino. Il povero fanciullo andò più
morto che vivo; e quando, giunto a piè della scala, gli comandarono che
salisse.
- Oh Dio! Oh Dio! -
esclamò affannoso - di quante morti ho io da morire? Due volte mi avete
promesso la vita, e due volte mi tradite. Ahimè, che strazio è
questo?
Nè le parole valsero a
persuaderlo del contrario, ch'egli si tenne spacciato: e giunto che fu in cima
al palco, alla vista della mannaia deposta sul ceppo gli si drizzarono i
capelli.
Allora svenne la seconda
volta.
I fratelli della Misericordia
gli furono attorno con acque stillate per farlo risensare, e tornato in se lo
accomodarono accanto al ceppo, assicurandolo ch'egli non doveva morire;
soltanto starsi a contemplare il supplizio dei suoi!
La Misericordia, con le solite
cerimonie, andò per la Lucrezia Petroni. La piissima gentildonna
considerando Beatrice assorta nella sua meditazione si levò pian piano,
e giunse quasi fino alla porta senza che la figliastra si accorgesse della sua
partenza. Allora però Beatrice levati gli occhi, non la vide più;
per la qual cosa le venne fatto esclamare:
- Ah! signora madre,
perchè mi avete voi abbandonato?
Lucrezia, circondata dai
fratelli della Misericordia che le celavano la vista della fanciulla, nel
varcare la soglia della cappella rispose alla pietosa domanda:
- Non ti abbandono, no. Io ti
precedo a mostrarti la via.
Lucrezia, come colei che di
persona era grave, male riusciva a salire la scala; però che le
ordinarono, e non si comprende la causa, lasciasse le pianelle a piè del
palco, e così ella fece: poi si erpicò come poteva, ed alla fine,
quantunque a stento, giunse sul ripiano del palco. Il carnefice allora le tolse
il velo di capo, e il panno dalle spalle. La donna nel vedersi così nuda
il petto alla presenza del popolo, diventò per verecondia vermiglia fino
alla radice dei capelli. Fissò la mannaia, tremò, e con molte
lacrime disse:
- Signore, abbiate
pietà dell'anima mia, che ora viene al giudizio; - e voltatasi al popolo,
continuò: «E voi, fratelli, pregate tutti Dio per me».
Poi domandò al boia
quello ch'ella dovesse fare, ed egli le rispose s'ingegnasse accomodarsi a
cavalcare la tavola del ceppo, e vi si stendesse sopra bocconi. Lucrezia
pudibonda esitò alquanto a traversare con la gamba la tavola; pure alla
fine vi si adattò: più doloroso intoppo rinvenne nello assettarsi
col capo, avvegnachè la tavola fosse angusta ed aspra, onde le mammelle
nello agitarsi le uscirono fuori della cappa, e le si stiacciarono con molta
sua angoscia.
- Oh! quanto è duro
accomodarsi qui sopra!
E queste furono le parole
estreme di lei. Bernardino si coperse gli occhi col tabarro rosso. Un colpo
sordo fece rintronare il palco, e traballare il fanciullo. La testa della
Lucrezia era recisa. Il carnefice con una mano la strinse pei capelli, con
l'altra sottopose al collo tagliato una spugna; e così mostratala al
popolo, gridò:
- Questa è la testa di
donna Lucrezia Petroni Cènci...
Quel corpo rimase immobile;
non così il capo, che aperse e chiuse gli occhi più volte, e
più volte, torcendo i muscoli della bocca, borbottò interrotte
parole. Mastro Alessandro ravviluppato il capo dentro il velo nero, calò
mediante una corda a piè del palco, il capo e il corpo. I fratelli della
Misericordia ricomposero le membra nel cataletto, e le portarono a San Gelso
finchè la giustizia avesse compimento.
La opera ferve. Il carnefice e
i suoi valletti forbiscono le tavole dal sangue; assestano gli arnesi; la
mannaia si chiama pronta, e il braccio disposto a tagliare.
I fratelli s'incamminano alla
volta di Beatrice: appena ella li vide domandò loro:
- La signora madre è
morta bene?
- Ha fatto buona morte; ed
ora, le risposero, ella vi attende in cielo.
- E così sia.
Allorchè rivide il
Crocifisso della Confraternita proferì soavissimamente queste parole,
raccolte, e con religione tramandateci da cui le ascoltò:
- «Mio buon Gesù! se tu
versasti il tuo sangue preziosissimo per la salute del genere umano, confido
che anche una goccia sarà stata per me. Se tu, innocentissimo, fosti con
tanti oltraggi vituperato, e con tanti tormenti morto, perchè ho a
dolermi di morire io che sì lungamente ti offesi? Aprimi, per la tua
infinita bontà, le porte del cielo, o almeno mi manda in luogo di
salvazione».
Un valletto del boia si
accosta alla gentildonzella per legarle le mani dopo le spalle; ma ella, dando
indietro di un passo, gli disse:
- Non fa mestieri.
Ammonita che patisse anche
quell'ultima umiliazione, con lieto animo rispose:
- Orsù, dunque, lega
questo mio corpo alla corruzione; ma affrettati a sciogliere l'anima alla
immortalità.
Uscita all'aria aperta
trovò su la porta sette vergini vestite di bianco, che l'aspettavano per
accompagnarla. Queste nessuno inviò. Udendo come Beatrice avesse testato
tutta la sua dote in favore delle figlie del popolo romano, esse eransi mosse
spontanee a darle questa prova estrema di gratitudine. Volevano licenziarle, ma
non vollero intendere, e si ostinarono a seguirla. Allora un banditore trasse
di tasca una carta, e lesse a voce alta:
- Per parte dello
illustrissimo monsignore Ferdinando Taverna governatore di Roma: - Saranno
applicati tre tratti di corda, senza pregiudizio delle altre pene ad arbitrio,
a chiunque, sia con parole sia con fatti, si attentasse a mettere impedimento
alla gran giustizia, che si fa della scelleratissima casa Cènci.
E perchè mai fino a
quel punto i banditori non avevano avuto voce, ed eransi tenuti nascosti?
Ranocchie maligne, non sanno gracidare se non quando il cielo è
tranquillo, ed ogni cosa dintorno cade sepolta nel silenzio.
E le fanciulle, udita la
grida, stettero più salde di prima, osservando:
- Noi non veniamo a impedire,
bensì a consolare; se avremo peccato ci puniranno.
- Deh! non togliete a me
nè a loro questa dolente dolcezza, - disse interponendosi Beatrice; e i
fratelli della Misericordia tolsero sopra di loro il pericolo del
concederglielo.
Tutti insieme si avviano.
Beatrice intuona con voce sonora le litanie della Beata Vergine, e le fanciulle
seguaci le vanno rispondendo molto devotamente: Ora pro nobis.
Eccola sul palco. Senza
viltà come senza jattanza ella si volge alle vergini, le bacia in volto,
e poi così favella:
- Sorelle! della carità
vostra vi renda Dio quel rimerito, che per me non si può. Io vi lasciai
la mia dota, ma ciò non vale il pregio che mi diciate grazie;
perchè, vedete, alle nozze a cui vado, lo Sposo si contenta di un cuore
contrito ed umiliato. Io vorrei lasciarvi gli anni che avrei dovuto vivere, per
aggiuntarli ai vostri; e meglio le contentezze che avrei dovuto godere. Sia per
voi lo amore fonte di gioie, come a me lo fu pur troppo di affanni senza fine
amari! Voi diventerete madri: amate i vostri figli, e questi sieno la corona
della vostra vita. Raccomandovi la mia memoria: serbatela cara; e quando taluno
vi domanderà di me, ditegli con fronte secura: Beatrice Cènci
morì innocente... innocente per quello onnipotente Dio, al cospetto del
quale sto per comparire; non immune certo dal peccato, perchè davanti al
Signore chi senza colpa? Ma del delitto pel quale vengo sospinta a morte,
innocentissima. Giudici mi condannarono. Storici scriveranno del misfatto
appostomi come di cosa dubbia; ma vostra mercè si manterrà
incancellabile nella mente del popolo il ricordo della mia innocenza. Quando la
ingiustizia avrà consumato il suo regno, ch'è breve, la
pietà eterna forbirà la nota d'ignominia stesa sopra il mio nome,
ed io sarò il sospiro di quante vivranno in questa terra vergini belle,
ed infelici. Addio.
Il sogno di Giacobbe adesso si
rinnuova agli occhi del popolo romano. Un angiolo ascende su per una scala al
paradiso. Ai più lontani apparisce il suo capo velato, poi le spalle,
poi i fianchi; adesso è sorta tutta in piedi sul palco.
- Tu hai promesso toccarmi
soltanto col ferro, parla al carnefice; tu almeno mantieni la fede, e m'insegna
quello che io mi debba fare.
Ed egli glielo disse.
Bernardino teneva sempre il
volto turato col tabarro rosso: ella gli si accostò cauta e leggiera, e
depose sopra i suoi capelli un bacio a fior di labbra. Un tremito corse per le
ossa al garzoncello, che, remosso alquanto il tabarro, guardò, e vide la
bellissima faccia della cara innocente.
E svenne per la terza volta.
Beatrice agile cavalca la
panca, e si distende prona sopra la tavola. Il molle di cotesto atto, che Amore
illeggiadrì con le grazie pudiche, percosse anche la mente del
carnefice, il quale pensando alia figlia, esita a disfare quell'amabile forma;
ond'essa, accortasi di alcuna dimora, comandò:
- Ferisci.
E il braccio scese. Tutti
chiusero gli occhi; e l'aere battuto eccheggiò di un solo, lacerante, e
lunghissimo grido.
Il capo spiccato non
agitò fibra: vi rimase fisso il sorriso col quale moriva, lusingata
dalle visioni di una vita migliore; all'opposto il corpo si ritirò
meglio di quattro dita, e si dibattè tremendamente convulso; poi tacque.
Il carnefice stende la mano
mal ferma a quel capo, per darlo in mostra al popolo; ma Padre Angelico ed i
Confortatori lo trattennero: uno di loro vi pose sopra una corona di rose, e
dopo averlo avviluppato dentro il velo bianco, gridò alla gente:
- Questo è il capo di
Beatrice Cènci vergine romana!
Guido poichè ebbe
adoperati tutti gli argomenti per vincere lo spaventato cavallo, ricorse
all'estremo partito. Abbandona le redini, e, prosteso giù lungo il
collo, con ambe le mani gli tura le narici fumanti. Il polledro, impedito nella
respirazione, si ferma; egli lo stazzona alquanto, poi di un subito datogli un
tratto con la briglia a sinistra, ed una spronata a destra, lo avvolge, lo
avvibra per la strada percorsa, e tempestando ritorna sopra la piazza del
castello.
Egli vi giunge allorchè
il confortatore, sollevato il capo di Beatrice, gridava: «Questo è il
capo di Beatrice Cènci vergine romana!»
*
* *
I fratelli della Misericordia
quando ebbero composto anco quel corpo dentro il cataletto, lo portarono a San
Gelso. Quivi toltale la corona dal capo, gliela cinsero intorno al collo. Il
taglio, che separava il capo dal busto, era nascosto da quel serto di rose
fresche e odorose colte sul mattino: qualcheduna appariva più rossa che
per ordinario le rose non paiono; - era intinta di sangue.
I fratelli, rifiniti di
ambascia, presero un poco di riposo.
Il palco è forbito; gli
ordigni di nuovo apparecchiati. La bocca del sepolcro non dice mai: basta. Il
patibolo aspetta la terza vittima.
Dovrà la mia storia
funestare le sue ultime pagine col racconto di un supplizio, che vince in
orrore ogni più truce immaginazione? Lo racconterò; però
che scempii siffatti durino tuttavia in parecchie parti di Europa, che pur si
vantano civili; e non corrono molti anni che gli udimmo praticati. Certo chi
gli subì colpevole era; ma la morte del reo dovrebbe bastare alla
vendetta della legge, o allo esempio degli uomini. Che Dio vi danni, anche i
supplizii hanno a pompeggiare di lusso? La immanità, che passa il fine
della pena, giova a suscitare in benefizio dello scellerato la misericordia che
dovrebbe riserbarsi unicamente pel misero.
I fratelli della Misericordia,
rinfrancata alquanto la lena, muovono per prendere don Giacomo. Lacero,
grondante sangue, trafitto di piaghe e di spasimi, che noi non possiamo
immaginare, non che descrivere, oh! questo sì che desiderava la morte,
come il cervo assetato la fonte delle acque. Egli andò con passi veloci
coperto della cappa e del cappello della Misericordia; salì presto la
scala funesta; cappa e cappello gli tolsero, ed ei rimase nudo fino alla
cintura, mostrando le turpissime piaghe. A cui lo vide non parve natural cosa
ch'egli conservasse in quello stato la vita, ma i sensi altresì e la
favella. Si approssima a Bernardino, il quale tornato in se forte batteva i
denti, e gli occhi fissava, immemori di quello che vedevano. Certo il fanciullo
somministrava materia di pianto infinito, ma le lacrime erano esauste nella
fronte di Giacomo; le aveva ormai versate tutte: adesso non gli rimane a
versare altro che sangue, - e di questo anche poco. Egli pose la mano sul capo
al fratello, e, voltata la faccia verso Banchi, a voce alta esclamò:
- Io per l'ultima volta
protesto, don Bernardino mio fratello essere incolpevole di tutto misfatto; e
s'egli confessò altramente, ciò fece per forza delle torture.
Pregate per me.
Il carnefice gli lega le gambe
ad uno anello fitto nello intavolato; gli benda gli occhi, e presa la mazzuola
a mani sciolte gliela vibra nella tempia sinistra. Egli stramazza di un tratto
come bove al macello. Il boia raddoppia altri sei colpi pel petto, e pel tergo
del caduto. Le ossa stritolandosi stridono: schizzano dintorno sangue, lacerti
di carne, e frantumi di costole: poi il boia si curva, e gli pone sotto il collo
la mazza, sopra la fronte un piede, sopra il seno un ginocchio, e gli sbarra la
pancia, dove, tuffando il braccio fino al gomito, lo ritrae imbrattato di
sangue, con le viscere fumanti del giustiziato in mano, le quali mostrò
al popolo urlando:
- Questa è la corata di
Giacomo Cènci.
E la gittò in un canto;
poi a colpi di accetta lo squartò. Uno sprillo di quella onda di sangue,
che allagava il palco, e gorgogliando grondava giù da più lati,
zampillò su la faccia a Bernardino, cui quel tepido lavacro partecipò
tanto di conoscenza quanto bastasse a comprendere il truce scempio fraterno.
E svenne per la quarta volta.
Ora poi il popolo credè
morto anco lui. Condottolo subito in prigione, a grande stento lo riebbero; ma
svagellando del continuo, e travagliato da grossissima febbre. Per molti giorni
giacque della vita in forse, finchè, in virtù dell'assistenza dei
meglio celebrati fisici di Roma, dopo molti mesi di malattia scampò.
La gente pendeva dubbia
allora, oggi è chiarita - se a pena maggiore avesse condannato il Papa
Bernardino, o i suoi parenti. -
Il placet di Clemente
dichiarava: - graziarsi don Bernardino Cènci della vita, commutandogli
la pena di morte con l'altra della galera a perpetuità, e a condizione
che stesse presente alla giustizia dei suoi congiunti.
Clemente papa nell'anima sua,
se pure non è peccato grande contro Dio chiamare anima la sostanza
infernale capace di questi pensieri, meditava così:
- O Bernardino alla vista
della strage vien meno, ed ho nel punto stesso conseguito il benefizio della
sua morte, e la fama di clemenza: - o le sue fibre resistono alla scossa, e
allora la morte civile partorisce i medesimi effetti, in quanto alla confisca
dei beni, che lo estremo supplizio.
In questo modo perdonavano i
Preti in Roma allora...
Alle ore ventidue era compita
la strage.
Mastro Alessandro, circondato
da gente a cavallo e dai birri per salvarsi dalla furia del popolo, il quale,
giusta il suo costume di prendersela col sasso, e non con la mano che lo
scaglia, lo avrebbe in quel momento sbranato, s'incamminò alla sua
stanza di Corte Savella. Mentr'egli stava per farsi aprire la porta bassa donde
entrava a mo' di lupo nella tana, la imposta si spalanca improvvisa, e ne viene
sospinta una bara da mani invisibili. E' bisognò a mastro Alessandro spiccare
un salto per non rimanerne offeso nelle gambe. Non era cosa fuori del consueto,
all'opposto ordinarissima, che quinci fossero tratti in quella guisa i miseri
consunti dal duolo, o laceri dai tormenti; e non pertanto gli sguardi del boia
rimasero per uno istante abbarbagliati da un turbine di fuoco. Dopo la bara,
curvi sul dorso sbucarono fuori quelli che l'avevano sospinta, e fra questi
uno, il quale, come se non pregiasse, o avesse in uggia la facoltà data
all'uomo di stare dritto su i piedi con la faccia volta al firmamento, a mo' di
bestia camminava carpone. Egli era Otre, lo stupido ubbriaco. Uscito
fuori torse la faccia, e con occhio sanguigno fissando il boia, aperse la
immensa sua bocca, e disse:
- Prendi! Dio non aspetta il
sabato; ti paga subito.
E levato il tappeto mortuario,
scoperse il corpo inanimato della povera Virginia. - Poi alzatosi su dritto, e
mostratigli i denti nella guisa che le scimmie, dispettando, costumano fare,
soggiunse:
- La giunta vale la carne...
to'... to'...
E barcollando si allontanava.
Il giovane Ubaldino Ubaldini
fu trasportato con molto riguardo in casa la bella Renza sua sorella, che fu
moglie del signor Renzi; e quivi, con quanta maggiore secretezza fu potuto,
attesero a curarlo; sennonchè lo affetto paterno e lo zelo dei medici
gli tornarono invano per la furiosa febbre accompagnata da delirio, che di
subito lo assalì. I medici ristrettisi con la signora Renza, con le
lacrime agli occhi le dettero il povero giovane come spacciato; ammonendola per
di più, che se passava la nottata non sarebbe giunto a terza del giorno
veniente. In vero su lo spuntare dell'alba il male si aggravò, e
così com'era delirante chiese carta, e matita. Per acquetarlo glieli
dettero, ed egli con la benda agli occhi, e vagellante schizzò il
ritratto della Beatrice, maraviglioso a vedersi per purità di contorno,
e per somiglianza; e fu questo il disegno che, pervenuto nelle mani a Maffeo
Barberini, servì di scorta a Guido Reni per condurvi sopra lo egregio
ritratto, del quale abbiamo già tenuto proposito.
Se taluno dubitasse della
verità del fatto com'io l'ho narrato, io vo' che sappia, cotesto essere
stato miracolo di amore nè nuovo nè unico. Trentun anno dopo la
morte di Beatrice, Giovanni Gonnelli di Gambassi in Toscana, scultore rimasto
cieco di venti anni, condusse in creta il ritratto della donna che lo
innamorò, prima di perdere la luce degli occhi; il quale riuscì
in ogni sua parte perfetto, in ispecie poi per la somiglianza: onde
maravigliando ognuno. Giovanbattista Pallotta cardinale di San Silvestro, che
ricordava il fatto dell'Ubaldino, volendoli rendere capaci come questo potesse
avvenire naturalmente per virtù di amore, recitò i due versi che
seguono:
Giovàn, ch'è
cieco, e Lisabetta amò,
La scolpì nella idea,
che Amor formò([172]).
La musa per questi versi non
esulta, ma il cuore gli approva.
Monsignor Taverna avendo
intanto scoperto lo asilo dov'erasi ricoverato lo Ubaldino, mandò gente
ad arrestarlo. Invano lo avvertirono trovarsi il povero giovane in extremis;
gli sbirri vollero entrare in camera: l'Ubaldino gli udì venire, e gli
riconobbe in grazia del lucido momento, il quale per consueto precede la
estinzione della creatura. Per la qual cosa volgendosi loro, con voce spenta
favellò:
- Dite al Governatore Taverna
che avete trovato un morto, il quale non muterebbe la propria sorte con quella
di lui.
E abbandonatosi sul guanciale
rese l'anima al Creatore.
In quei tempi correva in Roma
l'andazzo, che l'associazione dei morti al sepolcro si facesse in tre tempi
diversi, secondo la qualità e condizione loro. I cittadini trasportavansi
sul calare del sole; i nobili, i chierici e i curiali alla una ora di notte; i
cardinali, i principi e i baroni romani alle due e mezzo di notte.
I cadaveri di Beatrice e di
Lucrezia, e le miserande reliquie di don Giacomo rimasero esposti fino a
ventuna ora a piè della statua colossale di San Paolo, inalzata a capo
del ponte Santo Angiolo: quinci remossi, erano traslocati prima al Consolato
dei Fiorentini, poi alla Misericordia. Alle ore tre di notte il corpo di donna
Lucrezia veniva consegnato a don Lelio suo fratello, che, a seconda del
desiderio della defunta, gli diè sepoltura nella chiesa di San Gregorio.
Gli amici di casa Cènci
procurarono che le membra di don Giacomo fossero tumulate in uno dei sepolcri,
che aveva apparecchiato ai suoi figliuoli la immanità di Francesco
Cènci.
Le sette vergini non
abbandonarono Beatrice poichè fu morta; ma vinto in esse il ribrezzo
della carità, le resero gli ultimi uffici lavandola diligentemente,
vestendola di splendidi abbigliamenti, aspergendola di acque nanfe, e tutta
circondandola di freschi fiori: la ghirlanda di rose le riposero in capo, ed
un'altra di rose bianche le cinsero intorno al collo, dividendosi fra loro le
prime tinte nel sangue della cara fanciulla.
Da tutte parti furono veduti
convenire nuovi drappelletti di fanciulle biancovestite, per rendere onore alla
sventurata sorella; gli orfani, e tutti gli ordini della religione francescana.
Cinquanta torcie circondavano la bara; e tanti furono i lumi accesi alle
finestre nelle strade per le quali passava la processione funebre, così
copioso il nembo dei fiori piovuto sopra la bara, che il popolo minuto
paragonandola con quella del Corpus Domini, ebbe a dire averla superata
di due cotanti.
Alternando meste salmodie la
processione pervenne sul monte Gianicolo alla chiesa di San Pietro Montorio,
dove stava apparecchiato un feretro, e quivi la deposero. Allora più
dolenti rinnuovaronsi i canti; aspersero di acqua benedetta il corpo infelice,
e con molti gemiti le mandarono l'ultimo addio. Però la folla non
isgombrò di subito la chiesa: a coloro che uscivano altri succedevano,
come i cattolici costumano il giovedì santo per la visita del Santo
Sepolcro; e così la notte si produsse fino alla ora sesta.
A questa ora infrequenti i
passi calpestano il pavimento della chiesa. L'ostiario annunzia che la chiesa
sta per chiudersi, e, lasciato trascorrere altro breve spazio di tempo,
parendogli che fossero usciti tutti, girò la grave porta sopra i
cardini, e con vigorosa spinta la chiuse.
Cotesto fragore echeggiando di
arcata in arcata, scosse per ogni angolo della casa di Dio le antiche
sepolture; - poi di mano in mano sfumò, e fu fatto silenzio.
Delle torcie una sola rimase
accesa, a rischiarare pochi passi del pavimento attorno al feretro. Le lampade,
che ardono fioche a grandi intervalli davanti gli altari dei santi, fanno
più solenne e paurosa la oscurità del luogo.
CAPITOLO XXXII.
IL SEPOLCRO.
Ove riposa il
tuo capo caduto,
Che raccolto, e
da man pia ricongiunto
Al virgineo tuo
collo, ebbe ghirlanda,
Simbolo dei
dolenti anni recisi
Sul mattin
della vita?
Anfossi, Beatrice Cènci
Si ode un'orma: si ripete.
È passo di vivente, che muove verso il feretro. Al chiarore della torcia
si svelano le sembianze di Padre Angelico, bianche come la cera della torcia
che arde. A che viene il povero frate?
Si pone a sedere sul gradino
del feretro presso al candeliere; si abbraccia le gambe, la fronte appoggia
sopra le ginocchia, e così rimane immobile a piangere e a pregare.
Da un remoto angolo della
chiesa ecco si stacca un'altra ombra. I suoi passi non s'intendono, tanto
posano lievi sul marmo del pavimento; però sono lunghi, e vacillano. Le
varie lampade pendenti giù dalla volta delle navate riflettono in
più di un lato su le pareti e sul suolo diverse ombre lunghe; sicchè
pare che colà sia convenuta una mano di gente, forse per compire qualche
tenebroso disegno. Ma cotesta è vana apparenza; l'ombra muove da un
solo... solo, se togli la compagnia della sua disperazione. Il petto di costui
si alza e si abbassa ansando tremendamente; ma lo anelito egli comprime per
modo, che appena si sente l'alito. I piedi ha ignudi, gli occhi fissi, e
sbarrati in molto terribile guisa.
Egli è Guido Guerra.
Qual pensiero colà lo sospinga si palesa dal pugnale, che stringe nella
destra: quello stesso pugnale con cui egli squarciò la gola al padre di
Beatrice, giustiziata per parricidio; - quel pugnale che, prima del ferro del
carnefice, troncò il filo dei giovanili anni di lei.
Egli già tocca il lembo
del tappeto, e già lo rovescia...
- Io ti aspettava.
Dritto allo improvviso su i
piedi gli disse Padre Angelico, ponendogli ambo le mani sopra le spalle.
E lunghi durarono il silenzio
e la immobilità loro accanto alla bara della decollata. Padre Angelico
ruppe alfine cotesto silenzio favellando:
- Beatrice t'impone vivere. Il
suo ultimo, ah! il suo ultimo pensiero non fu di Dio... e' fu di te! Ella
moriva lieta nella speranza di rivederti in paradiso, e tanto m'impose dirti: e
più mi ordinava rammentarti te aver commesso peccati gravi, che la giustizia
divina, senza lungo pentimento, non ti può rimettere. Vorrai tu tradire
la speranza della vergine innamorata? Vuoi tu chiuderti, sciagurato!, per
sempre la via di riunirti a lei nello amplesso del Signore? - Da' qua quel
ferro, ch'io lo deponga dentro al suo sepolcro, e tu vivi. Invece prendi
questi... sono i suoi capelli, che la infelice ti manda perchè tu li
porti sul cuore; e questa immagine della Madonna davanti alla quale ella
pregò le preghiere estreme, onde tu pure davanti ad essa preghi, e sua
mercede ottenga il perdono, che la tua sposa... Beatrice, a questa ora
t'impetra al trono di Dio. Adesso va, figliuolo, ritirati: - non turbare la
pace dei morti. Beatrice non è qui... alza gli occhi al cielo, e
là la rivedrai.
La destra di Guido si aperse,
e lasciò cadere il pugnale. Prese i capelli, e se li ripose in seno:
prese anche la Immagine, e declinato il capo sul petto si disciolse in pianto.
Il frate allora, sempre e
più sempre sospingendo il desolato amante per una spalla, lo tolse a
quel feretro per sempre.
Guido mutava i passi tardi, e
spensieratamente allontanandosi dalla bara si accostava alla porta della
chiesa. Il frate la schiuse, e uscito all'aria aperta con Guido prese a
raumiliarlo con blandi sermoni; ma quegli infuriando allo improvviso lo
respinse, e muto si cacciò per la campagna là dove il raggio
obliquo della luna declinante faceva più spaventevoli le ombre.
Narra la tradizione lontana,
che col rinascere del sole si ravvivassero a mille doppii più atroci le
smanie nel suo petto, e maledicesse l'ora in cui gli fu impedito recare a fine
il suo proponimento; e poichè gli era stato tolto di versare il proprio
sangue sopra la tomba dell'amata fanciulla, giurasse propiziare la sua ombra
col sangue altrui: immane voto, ch'egli troppo bene mantenne. Fattosi capo di
masnada non diventò terribile nella campagna romana soltanto, ma con
sottile ingegno insidiò e spense parecchie vite nella stessa Roma, in
mezzo a guardie, e perfino nella sicurezza delle domestiche pareti.
Venuto a morte nel 1605 papa
Clemente VIII, e succedutogli, dopo il brevissimo pontificato di Lione XI, il
cardinale Cammillo Borghese col nome di Paolo V, partecipe delle spoglie della
casa Cènci, e da Guido Guerra supposto eziandio complice della strage,
gli fece assapere che dettasse il testamento, perchè in un modo o
nell'altro per le sue mani aveva a morire. E, come se questo non fosse
abbastanza, per rovesciare immensa formidine nell'animo del pontefice si
aggiunse il vaticinio di certo astrologo, il quale gli prognosticava vita di
breve durata. Ond'egli, dimessi cuoco e scalco, stavasi intanato nel Vaticano,
non osando comparire in pubblico; o se talvolta usciva, stallieri armati lo
circondavano per dinanzi e di dietro. Se taluno gli porgeva carta o memoriale,
ei, per sospetto che fossero avvelenati, lasciavali cadere in terra([173]).
Un giorno Guido, contemplando
i capelli di Beatrice, vergognò della vita abiettissima che conduceva;
ed aspirando a maggiore vendetta, toltosi allo improvviso da Roma si condusse
in Fiandra ove durava tuttavia feroce la guerra, che cotesti popoli sostenevano
per la independenza e per la libertà, Ma arrivò tardi; e la
guerra traendo al termine, dopo il suo arrivo non successe cosa di momento;
sicchè in breve si trovò, con inestimabile rammarico, ad essere
presente alla pace. Allora si volse a guardare la vita passata, e
considerò come tutti i suoi passi lo avessero sempre più
allontanato dal sentiero, che pria di morire le raccomandava la donna dell'anima
sua. Nè poco valse a mutargli l'animo anche una lettera, che gli scrisse
l'antica madre chiamata a miglior vita dalla Provvidenza, la quale, in mercede
dell'amarezza di cui aveva contristato il suo cuore materno, lo scongiurava di
rendersi a Dio, ed ottenere il perdono dei suoi peccati. Accogliendo coteste
voci della coscienza, a lui parve bene non ridursi a poltrire in qualche
chiostro annegando il pensiero nella pinguedine e nell'ozio; e pur volendo
gratificarsi la Misericordia divina, si recò sull'alpe di San Bernardo,
dove per la cura indefessa, e stupendo coraggio mostrati a porsi ad ogni
più fiero cimento per la salute dei miseri sepolti dalle lavine, venne
in fama di pio come d'imperterrito; e giova sperare che la giutizia placata gli
abbia consentito di rivedere, colei, che tanto amava, nella dimora dei giusti.
Dove riposa adesso il corpo di
Beatrice? Dalla chiesa di San Pietro in Montorio è scomparsa la
Trasfigurazione di Raffaello e con essa la lapide della Vergine tradita.
Però il quadro della Trasfigurazione, collocato in sede più
degna, riceve tuttavia gli omaggi della posterità; mentre il pellegrino
devoto ricerca invano la sepoltura della Beatrice. I frati, come il buon figlio
di Noè, affannosi a velare le vergogne della Corte dei Papi, hanno
voltato sotto sopra la pietra, e la iscrizione è scomparsa Poveri frati!
Troppo gran manto ci vuole per cuoprire i peccati empii, e rei dell'avara
Babilonia([174]);
nè le memorie cancellansi come le vite, e i marmi. Il pellegrino, cui
punge amore, vada a San Pietro in Montorio; si fermi davanti l'altare maggiore
oltre la balaustrata. Costà, in cornu epistolae, a piè dei
gradini dell'altare guardi la lastra di marmo pentelico, che fa angolo con le
lastre laterali: quivi sotto dormono in pace le ossa di Beatrice Cènci
vergine sedicenne, condannata da Clemente VIII vicario di Cristo a morte
ignominiosa, per parricidio da lei non commesso.
Tanto basterà pel
pellegrino devoto, onde ravvisi il luogo ove giace la donzella; ma se non gli
fosse sufficiente, aguzzi bene lo sguardo, e leggerà sopra la pietra
questo epitaffio, che, sostituito dalla mano di Dio a quello che v'incisero gli
uomini, non si cancellerà più mai fino alla consumazione dei
secoli:
«L'avara crudeltà dei
Sacerdoti ha bevuto il sangue e divorato gli averi della tradita, che giace qui
sotto».
*
* *
Il martedì seguente,
che cadde il 14 settembre 1599, la Compagnia di San Martello, godendo il
privilegio di liberare un prigione per la festa di Santa Croce, ottenne si
rendesse alla libertà don Bernardino Cènci, a patto, che dentro
lo spazio di un anno pagasse scudi venticinquemila alla Compagnia della Santissima
Trinità di Ponte Sisto. Come Bernardino, spogliato d'ogni sua sostanza,
potesse pagare questi venticinquemila scudi, davvero non si sapeva comprendere;
ma la Curia, ingorda sempre, tese uno archetto per tentare di spremere danaro
dalla pietà dei parenti, che casa Cènci in Roma ed altrove
annoverava nobilissimi, e potentissimi. Fatto sta, che questi venticinquemila
scudi non furono pagati; anzi crescendo ogni giorno l'abbominazione nel
pubblico per vedere la massima parte dei beni di casa Cènci arraffata
dalla famiglia Aldobrandina, il Papa con atto del 9 luglio 1600 ebbe a
restituire i figli di don Giacomo nel possesso di parecchi beni confiscati,
come quelli che andavano sottoposti a vincolo di fideicommisso, non senza
però il compenso di buona somma di danaro, come si rileva dal mandato
per transigere conferito a monsignore Ferdinando Taverna, nel quale occorrono
le seguenti parole: «Pro aliqua condecentiori Camerae pecuniaria summa per
eosdem Iacobi filios persolvenda transigas». Nel luglio poi del 1601,
instando più urgente assai la medesima causa, e' fu mestieri aprir di
nuovo la mascella al mastino e rendere tutti gli altri predii, tranne lo
immenso feudo di Casale di Torre Nova, di cui il Papa era stato sollecito a
investire Giovanfrancesco Aldobrandini pel prezzo simulato di scudi
novantunmila. Morti Clemente VIII e Paolo V, Luisa Vellia, la valorosa vedova
di don Giacomo, alacre a recuperare la mal tolta sostanza dei figli, dimostrata
la iniquità di cotesta vendita richiamandosi di notoria ingiustizia
sofferta, domanda la restituzione, o la facoltà di dimostrare la frode,
e la lesione enormissima dello istrumento contro Pupissa Aldobrandina, Paolo
Borghese, ed altri mentovati nella supplica umiliata a Gregorio XV. Altre
memorie di queste contestazioni non mi è riuscito trovare; ma le liti
fra gli eredi Cènci, Aldobrandini, e Borghese durarono secoli; e non
sono bene quaranta anni, che i tribunali di Roma udirono rinnuovarsi l'antica
querela fra il Principe Borghese, e il Conte Bolognetti Cènci.
Laddove poi sembrasse a taluno
avere io proceduto con leggerezza incolpando di tanta infamia la memoria di
questo Pontefice, io vo' ch'egli ponga il pensiero principalmente a due cose,
ed è: la prima, che nè nuove nè rare apparirono siffatte
infamie nella Corte Romana; la seconda, che quando l'oro del condannato si
versa nell'arca del giudice, a questi sta con prove limpidissime chiarire le
genti, ch'egli non fece causa comune col boia.
([2]) «La nostra pelle è divenuta bruna come un forno per l'arsura della fame.» Geremia Lamentaz. V. n. 10.
([4]) Eduardo III, dopo
aver preso la corona, fece trasportare suo padre Eduardo II al castello di
Corff, e quinci a Bristol; ma i cittadini avendo fatto vista di volerlo
liberare, Maltraverse e Gournay segretamente, nella notte, lo traslocarono al
castello di Berkley. Considerando che le asprezze di ogni maniera non bastavano
al vecchio Re, il Vescovo di Hereford, d'accordo con la Regina, mandò ai
custodi un ordine sibillino, da interpretarsi in due maniere. Ecco l'ordine: Edwardum
occidere nolite timere bonum est; il quale, giusta la diversa ortografia,
poteva dire: Non temete uccidere Eduardo, ch'è buon partito; - ovvero:
Non vogliate uccidere Eduardo, che la è cosa da temersi. - I custodi,
secondo che naturale talento e diuturna pratica di ogni maniera di bassezza e
d'infamia sogliono mai sempre in siffatti casi persuadere, intesero il peggio
punto; quindi sorpreso il vecchio Re giacente nel letto, gli forarono
gl'intestini con un ferro rovente passato traverso un corno bugio introdotto
nell'ano. Il Vescovo e la Regina s'infiammarono in grandissima ira pel piacere
di essere stati intesi per filo e per segno: i sicarii fuggirono. Uno di loro,
il men destro, arrestato subito a Marsiglia, per non parere, ebbe ad essere
impiccato: l'altro poi, più svelto, si ridusse in Germania, donde in
capo a qualche tempo potè ottenere di ridursi incolume a casa sua.
Chroniques di Froissart. L. I. c. 23.
([5]) Tennemi Amore anni
ventuno ardendo
Lieto nel foco, e nel duol pien di speme:
Poichè Madonna, e il mio cor seco insieme
Salirò insiem dieci altri anni piangendo.
Petrarca.
([6]) Se io avessi
pensato, che sì care
Fossin le voci dei sospir miei in rima,
Fatte io le avrei dal sospirar mio prima
In numero più spesse, in stil più rare.
Petrarca.
([7]) Durante la
sommossa avvenuta in Inghilterra volgendo l'anno 1378 della Era volgare,
Giovanni Ball predicava: gli uomini tutti discendere da uno stipite comune;
uguali essere i diritti loro alla libertà, ed ai beni della terra; arnese
di tirannide ogni maniera di distinzioni. La plebe infuriando cantava la
canzone, di cui il concetto corrisponde alle parole del testo:
When Adam delv'd, and Eve span
Where was then the gentleman?
La pratica del comunismo ha preceduto di gran lunga la teoria. Il popolo in cotesta occasione, come sempre, chiese troppo; i possidenti, rappresentati allora dal Re, concessero quanto ei volle; e se più domandava, e più gli davano, rilasciando delle concessioni fatte patenti solennissime. Passata la burrasca il Re, ricercate in prima diligentemente le carte delle patenti le abolì, e ritolse ogni cosa; e quello, che parve duro in quel tempo, e non pertanto si è veduto ripetere perpetuamente, ricercò, e spense di mala morte i miseri popolani, che fidandosi in lui avevano posate le armi. Per modo che sembra oggimai doventato assioma nei rivolgimenti umani: chiedere troppo, e male; promettere tutto, e attender nulla; donde la necessità di nuove agitazioni. Vicenda perpetua di violenza, e di frode! E quando il popolo torna alla catena, se Salomone lo percuoteva co' flagelli Roboamo lo strazierà con li scorpioni. Tuttavolta varia apparve la ragione dei tempi: nei barbari, come vedete, i possidenti o privilegiati attesero a raccogliere i documenti, e distrussero questi molesti testimoni della frode: negli altri, celebrati civili, carte, documenti e giuramenti lasciansi stare: invece di sgombrarne la strada, par cosa più spacciativa saltarci sopra a piè pari, e tirare innanzi pel suo cammino. Se veramente siasi progredito, lascio che altri giudichi; però, in fatto di pudore, lo scapito è sicuro.
([8]) Nel così detto Album di certa Marchesa Pallavicini di Genova io lessi scritto dalla mano della Marchesa du Devant, conosciuta nel mondo letterario col nome di Giorgio Sand, questo concetto: «Fumo di gloria non vale fumo di pipa.» Le pipe ed il tabacco, nei tempi della storia che raccontiamo, erano diventati assai comuni. Francesco Hernandez, medico e naturalista spagnuolo, lo introdusse primo in Europa. Dicono che Francesco Drake lo portasse in Inghilterra ai tempi del Cromwello; ma si trova eziandio, che il famoso cavaliere sir Riccardo Raleigh fumasse tabacco fino dal regno della Regina Elisabetta; e si aggiunge la storia del servo, il quale temendo prendesse fuoco il padrone mentre gittava fumo dalla bocca, andò cheto cheto per un bugliolo di acqua, e glielo rovesciò sul capo. Nicot, ai tempi di Caterina, ne portò la pianta in Francia; donde chiamasi nicotina il veleno, che se n'estrae, e figurò tanto funestamente nel processo Bocarmè. La pianta stessa nicoziana ebbe anche nome di erba tornabuona, perchè Niccolo Tornabuoni ne introdusse la coltivazione in Toscana nel 1570; ed erba della Regina, perchè Caterina dei Medici incominciò ad usarne la polvere: ma il nome rimastole è tabacco, da Tobasco paese ove prima la osservò l'Hernandez.
([9]) «... il matrimonio
deriva dallo amore, come l'aceto dal vino:
bevanda sobria, acida, e dispiacevole». Byron, Don Giovanni. Canto III.
([10]) Questi versi, e
taluni altri dei quali la citazione si omette, pronunziati da Francesco
Cènci nel corso di questo Capitolo, appartengono a certo sonetto di
Francesco Berni canonico fiorentino. Le anime timorate dei Gesuiti, per evitare
gli scandali, provvidero che fossero applicate ai Luterani le sentenze dette
dal Berni contra i Preti, conciando il sonetto così:
Piangete, Luteran, chè il nostro Christo
Cotanto vi odia, che non più si offende
Del Turco, e l'errar vostro ognor si estende
Per far lo stato vostro empio e tristo: ec.
Questa mirifica trasformazione (d'altronde ordinaria nella fabbrica dei Gesuiti) occorre nella edizione delle Rime del Berni, fatta a Venezia nel 1627.
([12]) La inondazione del Tevere, a cui si allude, accadde al ritorno di Clemente VIII da Ferrara, ch'egli aggiunse ai dominii della Chiesa, il 23 dicembre 1598.
([13]) Veramente io per me penso che pochi uomini al mondo sieno degni del vituperio e dello abbominio dei posteri quanto Tito, con quella maschera di umanità sul volto, e con la fama usurpata di benigno. Io desidererei che i miei compatriotti tutti leggessero la Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio, onde imparassero, non dico a rispettare, ma ad ammirare i Giudei, combattenti per la indipendenza della patria contro la tremenda forza di Roma. Intanto mi sia lecito riportar qui una prova, dimostrativa quale e quanta fosse la umanità di Tito: «I soldati, per isdegno o per odio inchiodavano i dati loro nelle mani, e ciò in diverse maniere, per beffa; e attesa la moltitudine, ch'essi erano, mancava il terreno alle croci, e le croci ai corpi» (l. 5 c. 6). «I Romani tanta strage fanno nella presa di Gerusalemme, che allagarono di sangue tutta quanta la città fino ad ammorzarne molti luoghi compresi dal fuoco» (l. 6. c. 8). «Ora perchè i Romani erano stanchi di trucidare, e tuttavia compariva moltissima gente, Tito manda un bando, i soli armati e restii si uccidano, il rimanente si pigli vivo: - tutto il fiore cacciato nel tempio, e rinchiuso nel ricinto assegnato alle donne: per guardia vi pone i suoi liberti, e Frontone suo amico perchè sentenziasse di quale castigo fosse meritevole ciascuno. Egli dunque, i sediziosi tutti danna alla morte; i giovani, fatta una scelta fra i più grandi e avvenenti, li destina al trionfo; della moltitudine, i di là dai 18 anni inviolli per lavoranti in Egitto; ma li più furono da Tito stesso distribuiti per le provincie ad esservi nei teatri disfatti dalle bestie o dal ferro. Quelli che non varcavano la detta età furono venduti. Ma in quei giorni medesimi, in cui Frontone ne faceva la cerna, ne morirono undicimila di fame» (l. 6. c. 9). «Mentre Tito dimorava a Cesarea celebrò con gran pompa il giorno natale di suo fratello, aggiungendovi in onore di lui il supplizio di una gran quantità di Giudei; perciocchè il numero dei periti tra nel pugnare con le fiere, e di fuoco, e nel battersi insieme, sorpassò i duemila cinquecento!.. Indi Cesare venne a Berito, e qui ancora come innanzi disertò buon numero di prigioni.» (l. 7. c. 7). Ecco qual era il fratello di Domiziano, che la buona anima dello abate Pietro Metastasio ci dipinge nella Clemenza di Tito tenero così, da far piangere di passione quante femmine odono, o leggono. Io poi ho voluto riportare questi brani di Giuseppe Flavio, onde i poco versati nelle storie non si lascino sorprendere dalla reputazione di tali tiranni della umanità, e stieno in guardia contro le ipocrisie vecchie e nuove. Le parole nulla contano, e i fatti poco, dove non sieno continui, diuturni, e non diversi mai.
([16]) Le donne ricordate sono note abbastanza, tranne Eponina ed Arria. Eponina fu moglie di Giulio Sabino. Ribellatosi costui contro Vespasiano Imperatore, fu vinto, e riparò dentro un sotterraneo; con lui si chiuse la consorte fedele, e quivi stettero dieci anni interi procreando ed allevando figliuoli. Scoperti, e tratti davanti a Vespasiano, non trovarono misericordia, al cospetto dello imperatore crudissimo, tanta fede e tanta miseria. Dione Cassio, Stor. l. 66. - Arria ebbe a marito Cecina Peto, uomo consolare. Questi essendo caduto prigione nella sconfitta che toccò Scriboniano, non osava darsi la morte, che Claudio imperatore gli aveva ordinato: allora la valorosa femmina, dopo avere tenuto al suo consorte discorsi adattati a ingagliardirgli il cuore, gli tolse dal fianco il pugnale, e quello appuntandosi al petto, con lieta faccia gli disse: «Mira, Peto, si fa così», e se lo immerse dentro; quindi subito estraendolo tutto fumante di sangue, glielo porse con dolce parlare: «Peto, non fa male! Non dolet, Pete!»; e così favellando moriva. Il marito, senza porre tempo fra mezzo, la forte moglie seguitava nella morte. Plinio Jun. III. 16.
([17]) Filippo Valesio minacciò far condannare come eretico dalla Università di Parigi Giovanni XXII. Benedetto XII piangendo confidava agli ambasciatori di Ludovico il Bavaro imperatore, che il medesimo Re Filippo gli aveva promesso fargli anche peggio che non fu fatto a Bonifazio VIII, se si fosse attentato a sciogliere dalla scomunica il Bavaro. Michelet, Hist. de France, t. 3. - Più tardi forse, se me ne prende vaghezza, dimostrerò storicamente gli aiuti francesi sul Papato di qual gusto essi sappiano.
([19]) Due scrittori contemporanei, l'uno di maggior fama che merito (Thiers) l'altro di maggior merito che fama (Foscolo) hanno discorso, quegli nella Storia del Consolato e dello Impero, questi nei suoi Scritti politici, delle ragioni che persuasero a Napoleone il concordato con la Santa Sede. Chiunque ami conoscere a prova senno italiano a paragone di senno francese che cosa sia, può confrontare le considerazioni dell'uno e dell'altro scrittore. Thiers riporta come eco quanto piacque allo Imperatore dare ad intendere a cui ci volle credere. Il Foscolo penetra dentro al cervello del solenne e dissimulato politico, e mette in luce le vere ragioni che lo condussero a quel passo.
([20]) Di voi pastor
s'accorse il Vangelista,
Quando
colei, che siede sovra l'acque,
Puttaneggiar
co' regi un dì fu vista.
Dante, Inferno, C. XIX;
e Apocalisse,
Cap. 17.
([21]) Il signore Stehndall ha scritto, o piuttosto tradotto, un racconto volgare, che corre intorno ai casi della famiglia Cènci, aggiungendovi parecchie osservazioni di suo. Nel presentare, per così dire, la psicologia di questo immane uomo di Francesco Cènci, in qualche parte io me ne sono giovato; e ciò tanto più dichiaro volentieri, in quanto che noi altri italiani andiamo lieti palesare animo grato a cui mostra amare le cose nostre, e noi; come di altissimo disprezzo proseguiamo cui per maligna ignoranza si fa nostro detrattore. E veramente duole, ma duole assai, che la maggior copia di fatti alterati e di giudizii falsi e ridicoli intorno alle cose e agli uomini italiani muova di Francia. I tedeschi (e possano vergognarsene i francesi) come meglio informati, così procedono più giusti verso noi altri italiani.
([22]) Io non mi posso astenere dal riportare qui un frammento della Storia della Scultura del Conte Cicognara, sia perchè in se stesso merita considerazione, sia perchè si versi appunto intorno alle arti dei tempi, nei quali successero i casi che noi raccontiamo: «La storia di queste arti presenta un convincimento di tale verità nella bellissima figura scolpita da Stefano da Maderno per la chiesa di Santa Cecilia in Trastevere; opera elegantissima, riuscita a quel modo malgrado la corruzione dei tempi, e che nessuno potrebbe mai credere eseguita dallo stesso artefice, che nella Cappella di Paolo V scolpì poi la storia di una battaglia.... Questa graziosa statua giacente rappresenta un corpo morto, come se allora fosse caduto mollemente sul terreno, con l'estremità bene disposte, e con tutta la decenza nello assetto dei panneggiamenti, tenendo la testa rivolta allo ingiù e avviluppata in una benda, senza che inopportunamente si scorga lo irrigidire dei corpi freddi per morte. Le pieghe vi sono facili, e tutta la grazia spira dalla persona, che si vede esser giovane e gentile, quantunque asconda la faccia; le forme generali e le belle estremità che si mostrano, danno a vedere con quanta grazia e con quanta scelta sia stata imitata la natura in quel posare sì dolcemente. Or dunque come poteva ciò farsi, se di tutti gli artefici, che abbiamo qui nominati, nessuno mai scolpì cosa che con questa potesse venire al confronto?.... Due ragioni evidentemente spiegano questo fenomeno nella storia dell'arte. La prima, che essendo stato trovato in quel tempo il corpo di santa Cecilia intatto in una cassa, ed atteggiato tal come si vede la statua, venne ordinato per buona ventura che lo artefice imitasse la giacitura del medesimo, cosicchè ponendosi il guardo al monumento, si vedesse tutta la somiglianza al corpo della vergine incorrotta, che Clemente VIII nell'anno 1599 fece riporre in una magnifica cassa di argento, dopo la miracolosa sua liberazione dalla podagra». Vol. VI. C. 2. - Così il corpo di santa Cecilia con la testa mozza fu trovato precisamente nell'anno in cui Beatrice Cènci ebbe recisa la sua.
Che la delizia fea già degli Amori,
Che con le rosee dita all'aura spesso
Spargeanla, allor che Beatrice lieta
Nei più bei dì di sua bellezza, ai raggi
La apponeva del Sole, e lo vincea.
Anfossi, Beatrice Cènci.]
([26]) Il testo allude ad un fatto narrato da parecchi scrittori dell'antichità. Intorno alla fede ch'ei merita lasciamo che ogni uomo leggendo ne giudichi. La verità è, che Tiberio intendeva riporre Gesù Cristo fra li Dei, e ne mosse proposta in senato; e fu ventura che non ce lo volessero. Intorno al fatto lo riporteremo tal come lo racconta Plutarco, nell'opuscolo - degli Oracoli già cessati: - «Trovandosi il vascello del pilota Jamo presso alcune isole del mare Egèo, improvvisamente cessò il vento. Tutte le persone della nave erano ben deste e quasi tutte se la passavano bevendo insieme, allorchè tutto ad un tratto udirono una voce, che veniva dalle isole, e chiamava Jamo. Questi si lasciò due volle chiamare senza rispondere, ma alla terza finalmente non potè più resistere. Quella voce gli comandò, che appena foss'egli arrivato ad un certo luogo dovesse ad alta voce gridare, che il gran Pane era morto. Non vi fu alcuno che non rimanesse colto dallo spavento. Stavasi deliberando se Jamo dovesse obbedire; ma egli stesso conchiuse, che allorquando fossero giunti al luogo indicato, se eravi vento bastante per proseguire il cammino non era necessario dir nulla; ma che se fossero stati ivi trattenuti da troppa calma, era d'uopo eseguire l'ordine ricevuto. Non mancò infatti di sopraggiungere la calma nell'accennato luogo: ond'egli tostamente si diede a gridare ad alta voce esser morto il gran Pane. Appena ebbe terminato di parlare, da tutte le parti udironsi gemiti e pianti come di un gran numero di persone da tal nuova sorprese, ed afflitte. Tutti coloro ch'erano in nave furono testimoni di tale avventura: a poco a poco se ne sparsero le voci fino a Roma; e avendo lo imperatore Tiberio voluto vedere Jamo in persona, unì alcuni dotti per apprendere da loro chi fosse.»... Che poi il gran Pane fosse Gesù Cristo, vedilo in Boccaccio, Genealogia degli Dei, là dove parla del dio Pane.
([27]) Francesco Cènci, figliuolo di Cristofano, attese a terminare questo tempio e corredarlo delle cose necessarie all'ornato ed al culto divino, come colui che n'era diventato il patrono. In memoria eterna del fatto. L'anno del Giubbileo 1575.
([28]) Questi miracoli leggemmo riportati nelle gazzette dei nostri tempi: però mentre la fama di quelli operati dalla Madonna di Rimini si mantiene e si spande, si dilegua l'altra della Madonna di Tredozio. Io mi guarderò bene d'ingolfarmi in siffatte materie; e protestandomi parato sempre a ritrattarmi da qualunque opinione mal sonante, non posso astenermi da confessare, che talora sono venuto pensando tra me e me: «Dacchè alla Beata Vergine ha preso vaghezza di operare un miracolo, o non era meglio mandare qualche quattrino a Sua Santità, che ne ha tanto e poi tanto bisogno?» Capisco ottimamente anch'io, che in questi negozii non si può mettere mica la legge in mano ai santi; tuttavolta, favellando umanamente, bisogna convenire, che sarebbe stato più utile per gl'interessi della Chiesa avere scudi, che lacrime. Basta, speriamo sempre: quod differtur non aufertur.
([30]) Durante la mia prigionia l'arte di mutare vestito ha fatto notabilissimi progressi, e non poteva essere a meno. I sarti, per accomodarsi ai bisogni dei tempi, hanno inventato un vestito che si mette da due parti, ed è diverso il colore: così, laddove prima per mutare casacca bisognava almeno tornare a casa, adesso si può entrare nero nel primo uscio che si para davanti, ed uscirne rosso scarlatto. I sarti, nel presagio dei tempi, hanno fatto quanto Carlo in Francia: il punto sta nel vedere se il giuoco duri.
([32]) Lettera di Cristoforo Colombo a Ferdinando ed Isabella, dopo il suo quarto viaggio in America. Navarette citato dal Michelet, Storia dei Francesi, t. III. p. 106.
([33]) Hume, Storia d'Inghilterra, t. I. p. 64. Thierry, Storia della Conquista de' Normanni, t. I. p. 63.
([35]) Se grazia tu cerchi e carità, le troverai qui dentro. Francesco Cènci, non ingrato padrone, procurò si ponesse questa memoria al benemerente suo cane Nerone.
([36]) Fu sparsa voce, che Lord Byron si comportasse verso la sua moglie Mibbank presso a poco come il Conte Cènci con la Lucrezia Peroni. Nelle Conversazioni del capitano Medwin Lord Byron così si esprime intorno a questo argomento: «Mi accusano averle detto, salendo in carrozza, ch'io l'aveva sposata per dispetto, e perchè ella mi aveva rifiutato due volte. Comecchè io rimanessi, anzichè no, impermalito della sua repugnanza, o come meglio vi piaccia chiamarla, sono convinto che se avessi adoperato seco lei un linguaggio così poco gentile, per non dire brutale, Lady Byron mi avrebbe piantato in carrozza con la cameriera; ella non è donna da sopportare simili affronti». Lady Byron gode una triste celebrità per le angustie arrecate al suo inclito sposo: possano le mogli buone aborrire da questa sorta di fama! - La figlia di Lord Byron, viaggiando in Italia, visitò tutti i luoghi dove aveva albergato suo padre. Mi narrano ch'ella si recasse a Montenero, dov'egli stette prima di andare a Genova: vi si portò sola, accompagnata dalla sua pietà. Sua madre non le permetteva guardare il ritratto di suo padre, che teneva coperto di un velo nero come quello di Marino Faliero decapitato pro criminibus. La figlia si mostrò degna della magnifica invocazione dello Child-Harold, e la madre dell'allusione del personaggio Inez nel Don Giovanni. La figlia di Lord Byron presto moriva, la moglie tuttavia vive, ed è ragione; avvegnachè a viver molto, ammoniva certo Vescovo di buono umore, si richiedano principalmente due cose: stomaco buono, e cuor cattivo.
([37]) «Mi chiedete se Lady Byron mi abbia mai amato? Ho già risposto a questa interrogazione. No: era di moda quando ella apparve nel mondo, ed io aveva fama di rompicollo, e di vagheggino: ora le femmine amano molto queste due maniere di uomini; ella mi sposò per vanità, e con la speranza di convertirmi, e d'incatenarmi ai suoi piedi». Medwin, Conversazioni di Lord Byron, p. 50.
([38]) Fatto noto, che se ti piace puoi leggere in Svetonio, e lo merita perchè è bellissimo, come quello che dimostra lo stupore affannoso dell'ambizione resa sterminatamente presuntuosa dalla fortuna. I Tedeschi sterminarono due legioni di Romani ladroni antichi del mondo, che andarono ad opprimerli in casa loro, e fecero bene. Arminio, o Herman, uomo di guerra (donde il nome di Germani) generoso capo del popolo dei Cheruschi, a buon diritto forma adesso altero vanto della Germania. Popoli e re gli eressero statue, e di recente il Re di Baviera collocò la sua immagine nel Vaux-hall: poeti illustri lo celebrarono; Klopstock, il cantore della Messiade, fra gli altri (e veramente chi cantò le glorie del divino Redentore meritava dire le lodi dello eroe della indipendenza della patria): nè il prode Tedesco mancò d'illustrazione fra noi, che il gentilissimo Ippolito Pindemonte lo tolse a soggetto di nobile tragedia.
([39]) La dote di Luisa Vellia, moglie di don Giacomo Cènci, fu di scudi diecimila, come si ricava dal chirografo del luglio 1600 col quale Clemente VIII conferisce facoltà a Monsignore Taverna di transigere le liti dei Cènci: et præsertim quod ejus dotem scutorum 10m. eidem Jacobo præsolutam usque modo recuperare minime potuit.
([40]) Riccardo Cuore di Leone della iniqua sua stirpe diceva: «Non esse mirandum si de tali genere procedentes mutuo se infestent tanquam de diabolo revertentes, et ad diabolum transeuntes. BROMTON apud MICHELET, Storia dei Francesi, t. III p. 379. - Le infamie della famiglia dei Cènci, pur troppo in cotesti tempi comuni a parecchie famiglie d'Italia, assai si rassomigliano a quelle dei Plantageneti. La barbarie, o la società corrotta sogliono partorire i medesimi frutti. Onde non paia, che per noi la malvagità umana venga esagerata, leggasi la famiglia Plantageneta qual fosse, secondo che ci racconta il medesimo Michelet nel luogo citato: «Fu casa piena di sangue, e di perfidia. Certa volta, che il re Enrico venne a conferenza co' figli suoi, i soldati loro trassero le armi contro di lui. I figli di Guglielmo il Conquistatore più di una volta nel paterno petto puntarono la spada. Folco aveva messo il piè sul collo al figlio debellato. La gelosa Eleonora, veemente e vendicativa come donna di paese meridionale, coltivò la turbolenza e la ribellione dei figli educandoli al parricidio. Questi figli, nei quali si mescolava il sangue di tante diverse razze normanna, aquitana e sassone, pareva riunissero, oltre l'orgoglio dei Folchi di Angiò e dei Guglielmi d'Inghilterra, tutte le opposizioni, gli odii e le discordie delle razze donde uscivano. Non seppero mai se derivassero da mezzogiorno, o da tramontana: quello che sapevano si era, che uno odiava l'altro, e il padre odiavano più di tutti. Riandando la genealogia loro incontravano in qualunque grado o stupro, o ratto, o incesto, o parricidio. Un santo uomo profetò all'avo di costoro, quando certa femmina rapita al suo consorte gli partorì Eleonora: «da voi non può nascere nulla di buono». Eleonora fu druda del padre di Enrico III, e i figli ch'ella ebbe da questo correvano pericolo di trovarsi fratelli del proprio padre. Intorno a lui citavano il detto di santo Bernardo: «dal diavolo viene, al diavolo ritornerà.» Riccardo, uno di questa stirpe, affermava altrettanto. Quando un Chierico con la croce in mano andò a scongiurare Goffredo di riconciliarsi col padre, e non imitare Assalonne: «E che? rispose il giovane, vorresti tu ch'io mi spogliassi del mio diritto di nascita?» A Dio non piaccia, signor mio, rispose il Sacerdote; io non voglio cosa, che vi apporti danno. «Tu non comprendi le mie parole, soggiunse il Conte di Brettagna; è destino della nostra stirpe odiarci, e veruno di noi renunzierà a questo retaggio». Correva certa tradizione popolare intorno ad una antica contessa di Angiò ava dei Plantageneti, la quale era questa: suo marito, dicevano, aveva notato che di rado andava a messa, e sempre usciva alle segrete: deliberò pertanto di farla tenere in quel punto da quattro scudieri: ma ella lasciò loro il mantello nelle mani, e volò via dalla finestra senza comparire più». Nei tempi in cui visse Francesco Cènci, per tacere di moltissimi fatti, Darnley re di Scozia ammazza Riccio in camera di sua moglie Maria Stuarda la quale adultera con Bothwell, e fa ammazzare il marito Darnley. Elisabetta commette ad Amia Paulet avvelenare Maria Stuarda; questa consente, che Elisabetta venga trucidata da Sauvage, ed altri sei gentiluomini. Enrico III fa scannare a tradimento il Duca, e il Cardinale di Guisa. Filippo II commetteva ad Antonio Perez suo ministro l'omicidio di Escovedo segretario di Don Giovanni di Austria; e basta. Ora quando i principi sono violenti, traditori, fedifraghi, qual maraviglia è mai che i sudditi gl'imitino? Il pesce incomincia a infracidire dal capo, dice il proverbio greco, e due esempii buoni fanno più profitto di una dozzina di ammonimenti.
([41]) La empietà dei Cènci non era derivata da una sola setta, bensì partecipava di tutte, e ne aggiungeva di suo. Lo spregio dell'ostia sembra che lo imparasse dagli Albigesi, specie di Manichei di Linguadoca, i quali «annullavano i sacramenti della Chiesa così alla ricisa, che pubblicamente insegnassero: non correre divario alcuno fra l'acqua del battesimo, e quella del fiume; l'ostia del santissimo corpo di Gesù Cristo pane comune, insinuando alle orecchie dei semplici questa bestemmia orribile: che quando ancora il corpo di Gesù Cristo fosse stato grande come le Alpi, da lungo tempo l'avriano logoro tutti quelli che ne avevano mangiato ec. Estratto di un antico registro della Inquisizione di Carcassona apud Michelet, Op. cit. t. III, p. 417. - Ma figlia del perverso pensiero del Conte Cènci era la empietà, che si affaticava stillare nell'animo di Beatrice, per vincere il suo errore da commettere incesto, come dal connubio del padre con la figliuola nascessero santi; anzi i maggiori santi, che sieno vissuti nel mondo, avere avuto per padre il proprio nonno. Manoscritto intorno alla scellerata vita, e miserabile morte del conte Francesco Cènci - presso di me - p. 2.
([42]) Estratti dello
Evangelo di san Matteo:
«Or quivi erano molte donne riguardando da lontano, le
quali avevano seguitato Gesù nella Galilea ministrandogli». Cap. 27.
n. 55.
«Fra le quali erano Maria Maddalena, e Maria madre d'Jacobo, e
d'Jose, e la madre, e i figliuoli di Zebedeo». Cap. 27. n. 56.
«Or Maria Maddalena, e l'altra Maria erano quivi sedendo di
rincontro al sepolcro». Cap. 27. n. 61.
«Or finita la settimana, quando il primo giorno della settimana
incominciava a schiarire, Maria Maddalena e l'altra Maria vennero a vedere
il sepolcro». Cap. 28. n. 1.
«Ma l'Angiolo fece motto alle donne, e disse loro: Voi non
temiate, perchè so che voi cercate Gesù il quale è stato
crocifisso». Cap. 28. n. 3.
«E andate prestamente ai suoi discepoli, e dite loro, ch'egli
è resuscitato dai morti. Cap. 28. n. 7.
«Ed ecco Gesù venne loro incontro dicendo: bene state. Ed esse accostatesi gli presero i piedi e lo adorarono». Cap. 28. n. 9.
([43]) Il Signore Dio disse ancora: E' non è bene, che l'uomo sia solo: io gli farò uno aiuto convenevole a lui». Genesi, C. II. n. 18.
([44]) Oltre le urbanità riferite nel testo, san Piero Damiano favellando delle donne in generale, aggiunse: «Venite itaque, audite me scorta, postribula, volutabra porcorum pinguium, cubilia spirituum immundorum ec.» Si vede chiaro, che tra san Pier Damiano e monsignore Giovanni della Casa corre il tratto di parecchi secoli. E pare, che san Piero Damiano si reputasse nato da una zucca; non già da una donna. Le Signore, che avessero talento di sapere quello che le parole del Santo significhino, se le facciano volgarizzare da qualche studente tornato per le vacanze a casa.
([45]) Nella Storia della Inghilterra di David Hume (T. I. pag. 143 e seg.) leggiamo questo fatto atrocissimo, raccontato così: «Edvigo figlio di Edmondo, malgrado l'affinità, e senza ottenerne dispensa dalla Chiesa, sposa Elgiva. Di qui le sacerdotali ire. San Dunstano seduto al banchetto nuziale, visto il Re scomparire da mensa, gli corre dietro; e trovatolo ridotto nella segreta stanza con lei gli muove amaro rabbuffo, e lo rimanda a bere. - Dunstano per la temerità sua è sbandito. Odone arcivescovo di Cantorbery invade armata mano il palazzo reale, e sfregia con un ferro rovente il volto di Elgiva. Il Re, superato dalle mene pretesche, è costretto a divorziare la moglie. Elgiva risanata dalle ferite in guisa, che non le lasciarono traccia veruna, torna in Inghilterra. Odono arcivescovo le va incontro, la sorprende, e le taglia i garetti, onde in mezzo ad atrocissimi spasimi dopo alquanti giorni muore a Glocester. - Così avveniva ai Re poco obbedienti alla Chiesa: pei Re devoti e benigni la faccenda procedeva altrimenti. Edgardo rapisce, e viola Edita monaca. I Monaci se la passarono di leggieri; lo assolverono, imponendogli per penitenza di non mettersi in capo la corona durante lo spazio di sette anni.
([46]) Alessandro II eccitando Guglielmo il Conquistatore alla impresa contro i Sassoni d'Inghilterra, gli mandò unitamente alla bolla d'investitura la bandiera benedetta, e l'anello di oro con un capello di san Pietro. Thierry, Storia della Conquista d'Inghilterra, T. I. p. 269.
([47]) Callisto papa invia in Inghilterra il Cardinale di Crema per bandire la necessità del celibato dei preti. Il Cardinale, convocato il Sinodo, fra le altre bellissime cose diceva: «essere empietà esecrabile che un sacerdote fosse tanto temerario di toccare il corpo di Gesù Cristo, uscendo dal lato di una bagascia (così egli chiamava, senza cerimonie, le mogli dei preti). Gli uffiziali di giustizia, mossi dalle istanze di alcuni ecclesiastici, ch'erano andati vigilando le azioni del predicatore, ruppero nella notte vegnente le porte dell'albergo del buon Cardinale, e lo trovarono giacente a letto con una femmina di partito. Hume, Storia d'Inghilterra, T. I. p. 368.
([48]) «I figliuoli di Dio veggendo che le figliuole degli uomini erano belle, si presero per mogli quelle, che si scelsero d'infra tutte». Genesi, C. VI. v. 2.
([49]) La Chiesa di Lione instituì il dogma della Immaculata Concezione nel 1134. San Bernardo le mandò una epistola, severamente ammonendola contro coteste nuovità (epistola 174). Il Concilio di Oxford, nel 1222, lo condannò. I Domenicani parteggiarono per San Bernardo, furono contrarii i Francescani. Giovanni XXII, sotto pena di scomunica, vietò a tutti i fedeli trattenersi in simile controversia.
([50]) Raccolta di Sonetti col titolo: Per donne romane, rime di diversi - stampata in Bologna a quel tempo
([51]) Voi che portaste
già spada, e pugnale,
Stocco, daga, verduco, e costolieri. - Berni.
È voce affatto spagnuola. Verdugo in Ispagnuolo
significa Carnefice]
([52]) Il Cardinale Dubois, ministro di Filippo d'Orleans durante la minorità di Luigi XV, vero tipo di dissolutezza e di furberia, aveva preso ai suoi stipendii certo cocchiere, il quale una volta si vantò, che quando il suo padrone usciva da qualche palazzo, egli, fissandolo in volto, dalla fisonomia di lui era capace indovinare se il Cardinale avesse causa di tenersi malcontento, o soddisfatto; e giuocava di più, di cogliere nell'argomento di cui egli avesse potuto tenere colloquio. Il padrone, saputo il vanto del cocchiere, lo mise alla prova; ed avendo trovato che più spesso che ei non avrebbe voluto costui dava nel segno, chiamatolo a se molto lo commendò della perspicacia sua; ma donatagli buona somma di danari, gli ordinò che uscisse più presto che di passo fuori di casa sua. - Racconta questo fatto, con altri curiosissimi, il sig. Gioia nel suo Galateo.
([53]) Quantunque la morte di Filippo II si prevedesse imminente, tuttavolta visse più di Francesco Cènci; conciosiachè questi venisse ammazzato nella notte dell'11 al 12 settembre 1598, e quegli morisse il 13 dei medesimi mese ed anno alle cinque di sera. Orribili furono i patimenti dello scelleratissimo re; egli di per se stesso, scrivendo al suo figliuolo Filippo III, li racconta: importerebbe assai che li conoscesse la gente; ma superando il documento lo spazio discreto d'una nota, è mestiero riservarlo a qualche altra opportunità.
([54]) La diseredazione di Giacomo, ordinata dal padre suo Francesco Cènci, è cosa fuori di dubbio; avvegnadio si ricavi dal chirografo spedito da Clemente VIII a Monsignor Taverna, rammentato nelle note precedenti: «Francisci testamentum in quo Jacobum...... exeredavit, sive ejus successione privavit».
([55]) Plutarco narra diversamente il caso di Timone il Misantropo. «Un giorno, egli dice, Timone si presentò alla bigoncia. Il popolo trasse ad ascoltarlo, ed egli favellò così: «Ateniesi, io possiedo un campo; adesso sto per fabbricarvi sopra una casa; in mezzo a quello sorge un fico bellissimo, dove parecchi dei miei concittadini presero la lodevole usanza di andarsi ad impiccare: ond'io (non volendo così repentinamente privarvi di un tanto benefizio) vi avviso, che se qualcheduno avesse voglia di fare questa faccenda si affretti perchè, da quanto avete sentito, non ha tempo da perdere».
([56]) Nel maggio del 1849, quando venni trasportato a Volterra, mi furono cortesi di offerirmi di logorare la mia vita a scelta; o nel maschio, dimora del Conte Felicini di scellerata memoria, o nell'ospedale dei condannati: scelsi l'ospedale. Un lieve assito, divideva le mie dalle celle degl'infermi, sicchè le notti mi riescivano fuori di modo affannose pei rammarichii, e pei gemiti dei giacenti; spesso anche pel rantolo degli agonizzanti. Una volta il moribondo, dibattendosi nelle estreme convulsioni, precipitò giù dal letto con orribile fracasso; al rumore del tracollo si svegliò la guardia che dormiva, e andò per dargli aiuto ... ma il meschino di aiuto non aveva più bisogno: egli era spirato!
([60]) Il signore De Genè, trattando degli errori popolari che corrono intorno gli animali, deplora meritamente che la Chiesa abbia tolto per simbolo di cosa tanto solenne uno errore popolare. Di vero il Pellicano ha sortito dalla natura una specie di tasca appesa sotto il collo, nella quale ripone, e conserva i pesci che pesca: quando egli nudrisce i suoi piccoli figli se gli mette tutti dintorno al seno spingendo fuori della tasca il cibo in cima del becco, ch'è di colore vermiglio, ed in questo modo gl'imbocca: di qui l'errore popolare.
([61]) Così narra la tradizione, che i figli di Francesco Cènci, Cristofano e Rocco, rimanessero spenti a Salamanca; ma a vero dire qui la tradizione va errata. A Salamanca furono mandati a studio, donde tornarono poveri, e male in arnese, avendoli il padre fatti rimanere privi di ogni provvisione. I Manoscritti ch'io possiedo insegnano, che Rocco rimase ucciso da un Norcino: altrove leggo Orsino, e Cristofano da un Paolo Corso. È notabile, e vuolsi ritenere per sicuro, quanto leggiamo nel Giornale dell'Arciconfraternita di San Giovanni decollato in Roma, libr. 16. car. 66. «I signori «Jacomo, e Bernardo dissero, che avendo inteso, che nella querela, o processo di homicidio commesso già nella persona del quondam Rocco loro fratello è imputato il nominato Emilio Bartolini alias Charagone gli danno la pace, e consentono per ogni loro interesse alla cassazione di detta querela... e tutto dissero fare per amore di Dio, et vogliono, che detta pace sia in tutto e per tutto nel modo, che l'hanno data a Paolo Bruno, et Amileone.»
([62]) Nel refettorio del convento dei frati Domenicani in Milano, scrive l'Eustace, fu già il celebre Cenacolo di Lionardo da Vinci, considerato come suo capo d'opera. Soppresso il convento, la sala fu convertita in deposito di artiglieria, e la pittura diventò bersaglio dei soldati francesi per esercitarsi al tiro! Che di peggio avriano potuto fare i Croati? Miravano principalmente al capo del nostro Redentore, a preferenza degli altri. Lady Morgan, nel suo viaggio in Italia, smentisce questo fatto, assicurando avere ella cercato indarno traccia di simile profanazione: però poco oltre afferma, una porta essere stata praticata fra le gambe del Salvatore; ed ecco come andò la cosa. E' bisognava trasportare pei chiostri dalla cucina al refettorio la vivanda ai frati, e nel trasporto freddava. Per riparare a tanto disordine in pieno Capitolo venne maturamente deliberato si aprisse una porta, che metteva il refettorio in comunicazione con la cucina, la quale si trovava per l'appunto dietro la pittura di Lionardo. In questa guisa la Cena di Cristo venne guasta per amore del Desinare dei frati. - Lady Morgan, L'Italia, T. I. p. 134.
([63]) Costume antico degli ospiti, i quali al termine della festa o del convito donavano loro veste e pallafreno, e talvolta ancora danari; e riponevano in loro facultà restare, o andare; e questa era gentile formula di complimento.
([64]) Domiziano invitò a cena i principali senatori e cavalieri di Roma, e gli accolse dentro una sala per le pareti, al soffitto, e sul pavimento parata tutta di nero. Nella sala sorgevano colonne funerarie, chiamate cippi, col nome impresso di ogni convitato, e sorreggenti fiaccole funerarie. Nè qui rimase il crudele giuoco. I padroni erano separati dai proprii servi, e invece loro comparvero giovani ignudi anneriti a modo di Etiopi; e tenendo in mano una spada sfoderata si posero silenziosi e terribili a intrecciare un ballo tondo intorno ai convitati, e poi ognuno di loro si recò presso al letto di un commensale per ministrargli. I cibi furono in tutto simili ai consueti a imbandirsi ai defunti nei funerali. Grande fu, ed è da credersi, la paura dei convitati; e Domiziano, per accrescerne lo spavento, favellava di gente trucidata e di stragi commesse per sollazzo del signore. Terminato il pranzo, con lieta cera accomiatò quegli sciagurati più morti, che vivi. - Dione Cassio in Cuvier. Storia degl'Imperatori Romani, lib. 17. § 2. Evidentemente questo racconto somministrava a Vittore Ugo la idea della scena dei cataletti nella Lucrezia Borgia.
([65]) Fuori le frutta nei tempi passati
significò ordine, di strage a tradimento, ed eccone il perchè.
Alberigo dei Manfredi, Signori di Faenza, nella sua ultima età si rese frate
Gaudente: egli fu tanto crudele e dispietato uomo, che venuto in discordia co'
consorti, cupido di levarli di terra finse volere riconciliarsi con loro; e
dopo la pace fatta li convitò magnificamente, e nella fine del convito
comandò venissero fuori le frutta, le quali erano il segno dato a
coloro, che gli avevano a trucidare. Adunque di subito saltarono dentro, e
uccisero tutti quelli che frate Alberigo volle che morissero. Landino. - Una nota del Cod. Cass. ci
fa sapere, che gli uccisi a tradimento furono due fratelli, Manfredo ed
Alberghetto, nipoti del frate. Il Boccaccio
ci afferma Alberghetto essere stato figlio di Manfredo, ed aggiunge, che,
fanciullo com'egli era, assalito che vide il padre, corse a nascondersi fra la
cappa di Alberigo, sotto la quale fu ucciso. Il DANTE nel Canto XXXIII
dell'Inferno così ragiona di questo iniquo frate:
........Io son frate Alberigo,
Io son quel dalle frutta del mal'orto,
Che qui riprendo dattero per figo.
([66]) Suum unicuique tribuere. Parecchie idee dei discorsi tenuti nel presente capitolo da Francesco Cènci furono tratte dalla Beatrice Cènci di Shelley. Questo scrittore è mal noto in Italia: amico fu a Lord Byron: annegò nel Tirreno, recandosi a Genova su barca senza ponte: ne arsero il cadavere sulla spiaggia a Bocca d'Arno, presente Byron. Io lo conobbi; fu magro e piccolo, e dava nell'etico: metafisico, più che poeta; ma poeta ancora d'infinito valore.
([67]) Questi sintomi angosciosi dell'asfissia io descrivo non già per sentito dire, bensì per averli provati. Ciò avvenne quando il signor marchese Cosimo Ridolfi, iniziatore in Toscana del reggimento costituzionale, investito di pieni poteri per sedare in Livorno una cospirazione, che non era mai stata, ordinò mi traessero a Portoferrajo con le mani incatenate nella notte dell'8 al 9 gennaio 1818, e quivi mi gittassero entro un sotterraneo del forte Falcone. Il sotterraneo era umido e freddo: io poi infermo gravemente di male d'intestini, ed estenuato di forze; sicchè mi lasciai andare semivivo sopra un lurido letto da soldato, che rinvenni in cotesta lurida buca. Il carceriere, o di proprio moto o per commissione altrui, mi portò un focone di brace accesa, ed uscì chiudendo la porta del sotterraneo, e la finestra munita di due inferriate, due graticole ed una impannata. Appena chiusi gli occhi incominciarono a travagliarmi i sintomi descritti nel testo: allora con ineffabili sforzi scesi dal letto, e strascinandomi carpone giunsi alla finestra, apersi la impannata, e sporsi la bocca tra i ferri per bere un sorso di aria pura... cioè quale poteva aversi traverso due inferriate e due graticole e piovuta dentro una chiostruccia che mi stava davanti. E poichè i posteri sappiano chente si fossero i Conti, i Baroni, e i Marchesi promotori delle libertà politiche in Toscana, e giudichino, dirò (cosa incredibile, e non pertanto vera): quattordici dei miei compagni d'infortunio furono gli uni sopra gli altri accatastati dentro un altro sotterraneo sterrato, che prendeva aria da un pertugio nel soffitto; un altro certa notte gridava dal sotterraneo, dov'era stato posto solo, lo salvassero perchè in procinto di affogare a cagione dei torrenti di pioggia che colà rovesciavansi; nè quinci venne remosso se prima il suo corpo non gli si gonfiò mostruosamente. Tale provai il signor Marchese Ridolfi: qual egli provasse me quando il popolo, contro lui infellonito, lo vituperava con ogni maniera di oltraggi, tentava appiccargli fuoco alla casa, e lo minacciava di peggio, ne porgono testimonianza i documenti ricavati dagli archivii dello Stato, e che appartengono al mio ministero. Io li ho pubblicati, e chi ne avesse talento può consultarli: a me basti dirne questo, che seppi e volli, assumendo il maestrato, attaccare qualunque passione privata al cappellinaio, e procedere con tutti imparziale; anzi se taluna parzialità mostrai, fu nel difendere coloro che più mi avevano offeso in generale, e il signor Marchese Ridolfi in particolare. Se io mi sia stato degnamente corrisposto, i discreti decidano. Piacemi unicamente avvertire, come allorquando i Signori del Municipio fiorentino, e la Commissione aggiunta si posero a capo della reazione, che confidarono governare, il mentovato signor Marchese scriveva lettere dalla Spezia, che intercettate furono rese pubbliche a Livorno, con le quali egli reputava onesto aizzarli contro di me; e quivi notai, tra le altre, queste espressioni: «non crediate «a b... f... galantuomini!» Concetto, e modo, ch'io ricisamente sostengo non degni di lui: di lui, che si diceva innamorato così della civiltà del Popolo toscano da anteporla alla virtù militare, per la quale avrebbe potuto rivendicarsi dal servaggio, e sostenere la sua libertà.
([68]) Il Cantu, nella Storia di cento anni, narra di Souwarow il quale di tanto in tanto visitava gl'infermi soldati, e li curava così: se gli parea che fingessero, ordinava li bastonassero; se li reputava ammalati davvero, faceva amministrare loro sale, aceto, e non ricordo quale altra sostanza. In questa guisa i suoi ospedali militari stavano sempre vuoti.
([69]) «E intorno al
vestire non siate con ansietà solleciti: avvisate come
crescono i gigli della campagna; essi non faticano, e non filano.
E pure io
vi dico, che Salomone stesso con tutta la sua gloria non fu
vestito al pari
di uno di loro».
Evangel. di San Matteo, C. VI, nn. 28, 29.
([70]) Il profeta Elisèo sanò Naaman dalla lebbra, e rifiutò qualsivoglia mercede. Il suo servo Ghehazi gli andò dietro, e, mentendosi messaggiero del profeta, si fece dare due talenti di argento, e due mute di vestimenti. Tornato a casa, il profeta Elisèo, consapevole della colpa del servo, gli disse: «la lebbra di Naaman si attaccherà in perpetuo a te, ed alla tua progenie»; ed egli se ne uscì dalla presenza di esso tutto lebbroso, e Bianco come la neve. Re, lib. II. c. V. n. 27. - Simone Mago voleva comprare da san Pietro i doni dello Spiritossanto, ossia la facoltà di operare miracoli: e non li potendo operare per virtù di Dio, s'ingegnò operarli con lo aiuto del diavolo. La leggenda narra che il Mago ne diventò tanto superbo, da sfidare san Pietro: da una parte e dall'altra si fecero parecchie prove, come successe fra Moisè e i Maghi di Faraone: finalmente san Pietro, che stava su lo avvisato di giuocare all'altro un bel tratto, di repente si levò per aria. Simone Mago lo volle imitare; e san Pietro, quando lo vide bene alto, con la sua maggior virtù operò che quegli cadesse in terra di sfascio, e si rompesse ambedue le cosce. Di qui nasce la differenza, che corre fra Simonia e Geezzia, peccati ecclesiastici: la prima è compra di cose sacre, e specialmente di ufficii di chiesa; la seconda è mercede di grazie operate. Questi peccati da molto tempo sono scomparsi dalla Chiesa; conciossiacosachè, come ognun sa, al giorno d'oggi tutto vi si faccia gratis, et amore Dei.
([71]) Sichem figliuolo di Hemor violò Dina figliuola di Giacobbe; ma subito dopo si offerse parato a sposarla, in ammenda del fallo. I fratelli di lei gli risposero: «Noi non possiamo dare la nostra sorella ad un uomo incirconciso, però che il prepuzio ci sia cosa vituperevole: ma pur vi compiaceremo con questo, che voi siate come noi; circoncidendosi ogni maschio infra voi. Accettata la proposta, Hemor, Sichem e gli abitanti di Sichem si circoncisero; ma il terzo giorno, mentre essi erano nel dolore della operazione, Simeone e Levi fratelli di Dina gli sterminarono tutti». Genesi, Cap. XXXIV, n. 25. A qualcheduno è sembrato che gl'Israeliti, come popolo eletto, avrebbero potuto, e dovuto possedere qualche maggiore cognizione del giusto e dell'onesto.
([72]) Milioni di uomini leggono, od intendono dire tuttogiorno dello scacchiere d'Inghilterra, di ministro dello scacchiere, e pochi, io penso, sanno perchè il tesoro della Inghilterra si abbia a chiamare scacchiere. Quando Alessandro Il lucchese, soprannominato il Papa lebbroso, o Papa accattone, donò il regno d'Inghilterra a Guglielmo il bastardo, gl'impose per patto, che andasse a prenderselo; e quei due grandi della terra si tesero le braccia per soffocare dentro cotesto abbracciamento un popolo intero: «Dum regnum et sacerdotium in nostrum detrimentum mutuos commutarent amplexos» (Chronic. Gervasii Cantorber. citata dal Thierry). I Normanni dal trattare la piccozza in fuori, non sembra che sapessero fare guari altro; molto meno poi calcolare: onde per potere strigare le faccende presto, e bene, immaginarono una cassa divisa a scompartimenti, appunto uguale alla cassa che adoperano gli stampatori per riporvi i caratteri; e quivi dentro misuravano il danaro, come il grano, con lo staio. Di qui il tesoro inglese assunse, e conserva il nome di scacchiere. (Thierry, Opus. cit. tom. I, p. 400 a 418). - Dai Normanni a Pascal e a Babbage, inventori della macchina pei calcoli, è mestieri convenire che la differenza è grande.
([77]) Gli abbracciamenti, i baci, e i
colpi lieti
Tace la casta Musa, e vergognosa.
Tassoni, Secchia Rapita. C. VI.
([79]) Nel secolo XVI era fra il popolo più familiare l'Ariosto che il Tasso. Montaigne nel suo Viaggio in Italia racconta avere udito, passando per le strade maestre, i contadini nei campi, che cantavano l'Orlando Furioso. Il partito clericale adoperò il Tasso contro lo Ariosto come l'acqua benedetta contro il diavolo; s'ingegnò parimente contro il Dante, e per un tempo vi giunse; nebbia che copre la montagna per un giorno, e passa. Vedi Lettere del Bettinelli, gesuita, contro Dante.
([81]) Il mondo è
libro dove il senno eterno
Scrisse i proprii concetti....
Fra Tommaso Campanella.
Poesie scritte da lui durante la ventisettenne sua prigionia.
([82]) È cosa universalmente nota, come i chierici nei tempi feudali fossero guerrieri. Carlo Magno avendo osservato che un vescovo, novellamente eletto da lui, invece di farsi accostare il destriero al muricciòlo, vi saltò sopra di un lancio così abbrivato, che per poco non cadde dall'altra parte, lo ritenne per suo compagno di arme. Le orazioni dei vescovi per ordinario finivano così: «fu buon chierico, e prode uomo di arme». In Allemagna furono deposti parecchi vescovi perchè poco valorosi. Il Vescovo di Ratisbona, combattendo per lo imperatore Ludovico il Bavaro contro gli Ungheresi, n'ebbe mozzo uno orecchio. Alla battaglia di Hastings, dalla parte dei Normanni, il Vescovo di Bayeux, fratellastro di Guglielmo il bastardo, dopo avere celebrato la messa allo esercito montò sopra un gran corsiero di guerra, e si mise alla testa della sua banda: dalla parte dei Sassoni combatterono l'Abbate d'Hida con dodici monaci, e vi rimasero tutti morti. Riccardo Cuor-di-leone guerreggiando contro Filippo re di Francia fece prigioniero il Vescovo di Beauvais della casa di Dreux. Il Papa avendolo reclamato come suo figliuolo, ricevè un giorno per parte di Riccardo la corazza del vescovo intrisa di sangue, con le parole dei figli di Giacobbe al padre: «guarda se questa è la vesta del tuo figliuolo». Non si finirebbe più con simili esempii. Nei tempi prossimi alla nostra storia il terribile Cardinale di Richelieu, vestito da cavaliere, andava a visitare la cortigiana Marion Delorme, e conduceva in persona l'assedio della Roccella contro gli Ugonotti. Il suo successore Cardinale Mazzarino, travestito parimente da cavaliere, recavasi notte tempo nelle stanze di Anna di Austria madre del re. Del Cardinale di Retz non importa parlare, dacchè ci rimangono le sue memorie per informarci dei suoi detti, e gesti. In Italia, circa a questi tempi, ebbe qualche celebrità Napoleone Orsini abate di Farfa, condottiero di ventura, che, dopo avere militato pei Fiorentini contro il Papa, tornato in grazia di questo, fu contro Firenze per sottoporla al giogo dei Medici.
([83]) Pope, Lettera di Eloisa ad Abelardo - Il verso citato è tolto dalla versione italiana, fatta con assai bel garbo in terza rima dallo abate Conti.
([84]) L'Upas di Giava, pianta che cresce nelle solitudini, e rara. I giavanesi n'estraggono il famoso upas tiente, col quale avvelenano di mortalissimo tossico le loro frecce. Le altre qualità attribuite a questo albero, come quella di far morire chi si addormenta alla sua ombra, alcuni naturalisti ritengono per favolose. Avvi un altro albero, che i francesi chiamano Mancinelliero, e noi Mancinella, a cui si attribuiscono le medesime qualità dell'Upas, credute dei pari esagerate. Eppure anche fra i nostri alberi se ne annoverano alcuni dei quali l'ombra è certamente funesta, come, per esempio, il noce. - Darwin, Amori delle Piante.
([85]) Presso la città di Mirina, nella isola di Lenno, sorge il colle dove gli antichi immaginarono cadesse Vulcano: il colle era sacro a Nettuno, e nei tempi vetustissimi vi s'inalzava una cappella consacrata a Filottete. Ogni anno vi saliva un sacerdote, il quale, fattivi i debiti sagrifici spargendo grano ed orzo, raccoglieva certa quantità di terra fulva, o giallo accesa; e postala sul carro la portava dal tempio giù alla pianura, e quivi col sigillo della dea Diana la suggellava. Questa era la terra lemnia, sacra, e sigillata, alla quale gli antichi attribuivano la virtù di saldare le ferite, arrestare i flussi sanguigni, preservare dai veleni, farli vomitare, guarire morsi di animali velenosi ec. Questa terra ai nostri giorni eziandio con gelosissima cura è conservata, e si sigilla col sigillo del Gran-Turco; poca ne portano in cristianità, dove s'incontra di rado. Galeno ne fa menzione nel libro IX, ove tratta delle facoltà dei semplici. - Thomaso Porcacchi, Libro della descrizione delle Isole più famose del mondo, p. 140. Venetia, 1590.
([86]) Plica polonica; malattia del bulbo dei capelli e dei peli. In questa malattia si osserva uno intrecciamento disordinato, una conglomerazione ed ingrossamento dei capelli o dei peli, accompagnati da nutrizione e sensibilità siffatte, che nel tagliarli grondano sangue con inestimabile dolore. Chiamasi plica a cagione dello intrecciamento, e polonica però che sia infermità quasi endemica della Polonia. - Alibert, Malattie della pelle, t. I.
([87]) Quando Napoleone, abbandonata l'Elba, giunse inaspettato e repentino a Parigi, il 20 marzo 1815, egli rinvenne lo studio del Re nel medesimo stato nel quale per la subitanea fuga lo aveva lasciato. Occorrevano su le tavole lettere incominciate e non finite, e talune di queste in contumelia di Napoleone medesimo. Questi, distolto da cure maggiori, fece metterle da parte, nè trovò tempo di occuparsene: per la qual cosa volle fortuna, che quando Luigi XVIII fece nuovamente ritorno alle Tuglierie ritrovasse tutto quanto gli apparteneva senza alterazione, o diminuzione di sorte alcuna. - Las Casas, Memoriale di Santa Elena, Cap. II. p. 167.
([88]) Il giuoco del lotto, nei tempi del nostro racconto, era stato funestamente inventato da Cristofano Taverna. La prima volta che se ne fa menzione è nel 9 gennaio 1448. Si proponevano alla vincita sette borse, dette della fortuna, e forse furono otto, donde il nome di giuoco dell'otto. In Genova fu instituito nel 1530. Clemente XI lo proibì. Innocenzo XIII aumentò 20 per cento su l'ambo, e 80 per cento sul terno. In Francia questo giuoco datava dal 1776: fu abolito nel 1793: riattivato nel 1797, venne soppresso nel 1836. In trentotto anni rese al Governo due miliardi! Adesso in Toscana crebbero il prezzo della giuocata, e diminuirono il premio della vincita.
([89]) Nello intento di adulare Ottaviano Augusto, gl'inviati di Tarragona gli referirono, un giorno, come sopra la sua ara fosse cresciuto un alloro (altri dicono una palma). Augusto, sdegnando essere tolto a compare di questa goffa piaggerìa, rispose: «Questo è segno espresso, che voi non vi curate sagrificare vittime in onor mio.» Vita di Ottavio Augusto, attribuita a Plutarco.
([90]) «Poi vidi nella
destra di colui, che sedeva sul trono, un libro
scritto di dentro e di fuori, suggellato con sette sigilli».
Apoc. Cap. V. n. 1.
([91]) Scilla, racconta la favola, fu ninfa, e di lei innamorò Glauco dio marino; il quale non le potendo toccare il cuore ebbe ricorso a Circe maga, che gli compose certo suo filtro da mescolarsi con l'acqua della fontana dove la ninfa si bagnava. Scilla, entrata nel bagno, si trovò cangiata in mostro con sei bocche e sei teste, ed una cintura di cani le si cinse alla vita. (Odissea, lib. XII. v. 85 e segg. Eneide, lib. III. v. 424 e segg.) Il Flaxman, nelle sue composizioni della Odissea, rappresenta Scilla circondata da cani, e così pure si osserva negli antichi cammei. Questo vortice marino prossimo alla Sicilia, secondo che Pausania afferma (II. c. 34), col fragore delle sue acque imita i latrati dei cani.
([92]) Dicesi che avendo
Pausania, mosso da vergognoso appetito, mandato a prendere una fanciulla di
Bisanzio, che aveva nome Cleonice, figliuola di genitori ragguardevoli e
chiari, questi gliela lasciarono condurre da necessità costretti, e da
tema; e che avendo ella pregato, prima di entrare nella stanza, che spento vi
fosse il lume, inoltrandosi poscia all'oscuro, e tacitamente verso il letto in
cui già Pausania dormiva, urtò non volendo nella estinta lucerna,
e la rovesciò; e ch'egli destatosi con agitazione allo strepito, e
sguainato un pugnale che teneva appresso, cominciò a dare dei colpi come
se qualche nemico gli si facesse incontro, e ferì la giovane; la quale
essendo morta per una tale ferita, mai più non lasciò poi
riposare Pausania; ma frequentemente di notte gli appariva fra il sonno in
forma di larva, e con impeto di collera gli diceva un verso eroico di questo
significato:
Va all'ultrice giustizia, che ti aspetta;
Male assai grande è agli uomini la ingiuria.
Per un'azione siffatta male potendolo sopportare gli alleati, andarono insieme con Cimone ad assediarlo; ma Pausania se ne scampò fuori di Bisanzio, ed agitato, per quanto si racconta, da quel fantasma, rifuggissi ad Eraclea nel tempio Negromantico; e chiamando quivi l'anima di Clèonice, supplicavala di volere deporre lo sdegno: ella però comparitagli, disse che ben tosto liberato sarebbe da ogni male come giunto fosse in Lacedemonia; alludendo, com'è probabile, a quella morte, ch'era quivi per incontrare. Plutarco, in Vita Cimonis. Che poi questo spettro comparisse a Pausania ogni qual volta si affacciava alla superficie delle acque, si ricava dal Dizionario infernale alla parola Idromanzia.
([93]) Semplice
traduzione di due versi di Condorcet, giustiziato nella prima
rivoluzione di Francia:
Ils m'ont dit: choissis être
oppresseur, ou victime.
J'embrassai le malheur, et leur laissai le crime.
([94]) .......... in un
col latte
T'imbevvi io l'odio del patrizio nome;
Serbalo caro; a lor si dee, che sono
A seconda dell'aura o lieta, o avversa,
Or superbi, ora umili, infami sempre:
disse il conte Alfieri
nella Virginia.
([95]) Suburra che fosse lo
diremo in latino, valendoci delle parole altrui:
«Erat regio (Romae) in qua meretricium diversoria erant: quae ob
id
Suburranae dicuntur a poetis». Thesaur,
ling. latin. t. IV. - In Roma
poi vendevansi ceci e noci fritte, e di questo cibo assai si
mostrava vaga
la plebe. Nell'Arte Poetica di Orazio troviamo il verso 249, che dice:
Nec si quid fricti ciceris probat, et nucis
emptor;
e nella Bacch. di Plauto
l'altro, concepito:
Tam frictum ego illum redeam quam frictum est cicer.
([96]) «Imperciocchè
anco le preghiere sono figliuole di Giove: zoppe, grinzose, e guerce degli
occhi; e queste andando dietro la ingiuria la emendano. La ingiuria è
gagliarda, e di piè fermo passa per tutta la terra offendendo, ed esse
le tengono dietro, e medicano i di lei danni. Ora, chi rispetta le figlie di
Giove allorchè gli si accostano, questo sarà vicendevolmente
assai giovato da loro, ed esaudito quando ei prega; ma se alcuno le rigetta, ed
ostinatamente le recusa, allora queste andando pregano Giove Saturnio che la
ingiuria persegua colui acciocchè, offeso, paghi la pena della sua
durezza».
Omero, Iliade, lib. IX.
([97]) «In ogni tempo, in
ogni contrada i patrizii hanno perseguitato implacabilmente gli amici del
popolo; e se per caso alcuno ne sorse nel grembo loro, sopra di questo
particolarmente percossero, studiosi d'incutere spavento con la grandezza della
vittima. Così periva l'ultimo dei Gracchi per la mano dei patrizii; ma
giunto dal colpo fatale, lanciò un pugno di polvere contro il cielo
prendendo in testimonio gli Dei immortali, e da quella polvere nacque Mario.
Mario, meno grande per avere sterminato i Cimbri, che per avere abbattuto in
Roma l'aristocrazia della nobiltà».
Mirabeau, Mémoires,
t. V p. 256.
([100]) Quali per vetri
trasparenti e tersi,
Ovver per acque nitide e tranquille
Non sì profonde, che i fondi sien
persi,
Tornan dei nostri visi le postille
Debili sì, che perla in bianca
fronte
Non vien men forte alle nostre pupille.
Paradiso Canto III.
([101]) Plutarco, Vita di Temistocle. Il Visconte di Chateaubriand nelle sue Memorie, t. I. p. 290, scrive: «Quando un uomo domandava la ospitalità presso gl'Indiani, lo straniero incominciava il ballo del supplichevole. Un fanciullo toccava la soglia, dicendo: «ecco lo straniero!» Il capo rispondeva: «mettilo dentro». Lo straniero protetto dal fanciullo sedeva su la cenere del focolare. Le donne cantavano l'inno della consolazione ... Questi usi sembrano imitati dai Greci. Temistocle presso Admeto abbraccia i Penati, ed il figliuolino dell'ospite. Ulisse in casa di Alcinoo implora Arete così: «nobile figlia di Resenore, dopo avere durato mali crudeli io mi prostro davanti a voi ec.». Compiute queste parole l'eroe si asside sopra le ceneri del focolare».
([102]) Lo enimma dato da Sansone ai Filistei, diceva: «dal divoratore uscì il cibo, dalla forza venne la dolcezza»; ed accennava allo avere egli trovato un favo di mele nella bocca del lione morto. Giudici, C. IV.
([103]) Nella Storia delle Rivoluzioni d'Italia degli anni 1847-1848-1849 del Generale Pepe viene attribuito al Salviati. Veramente cosiffatta osservazione è troppo più antica; e troviamo nelle Storie di Tito Livio screditati i Galli, come quelli che costumavano: ridendo frangere fidem. Però nè antichi, nè moderni esempii nostrali mi avrebbero persuaso a muovere questa querela grave, ma pur troppo meritata da un Popolo necessario così alla dannazione come alla salute del mondo, laddove in opera parzialissima alla Francia io non leggessi queste parole, che ho citate altra volta: «I Galli si dilettarono di buona ora a gabbare, come dicevano nel medio evo. La parola per loro non aveva nulla di serio: promettevano, poi schernivano, e così terminava ogni cosa!» Tristo giuoco, nel quale hanno troppo più scapitato che guadagnato. Deh! che anche per cotesto Popolo grande il giorno del giudizio non venga dopo la morte!
([104]) «Quando non ti
possono far bene, tel promettono; quando te lo possono fare, lo fanno con
difficoltà, o non mai: sono inimici del parlare romano, e della fama
loro».
Macchiavelli, Della natura
dei Francesi.
Il detrattore nostro è Lamartine: di lui soventi volte mi dolsi, e mi dolgo; molto più che non emendò uomo di stato le colpe del poeta. Costui bandì impedire ogni intervento straniero a danno dei Popoli, i quali si rivendicassero in libertà; e poi nella sua Storia della Rivoluzione di Francia del 1848 sostenne, la Francia non potere in conto alcuno patire la formazione di uno stato grande fra l'Austria e lei. Vieta politica, scusabile forse ai tempi del cardinale Richelieu, ed ostentata dal poeta per figurare di saperne. La costituzione del 1848, composta sotto gli auspicii di questo poeta, statuì, il Popolo francese non dovere far mai guerra contro la libertà di verun Popolo, e l'Assemblea francese assunse la impresa contro Roma; e questa fu brutta sequela di bruttissime ed antichissime ingiurie. Qual maraviglia pertanto che altri non rispettasse questa costituzione, se tanto poco mostrarono rispettarla quei dessi che la fecero? Provammo la Francia sotto tutte le sue trasformazioni politiche; è lecito tuttavia confidare in lei? - La condizione nostra mi sembra piena di dubbiezza; conciossiachè se la Francia non ci aita, quale altro Popolo lo voglia, e lo possa io non saprei vedere: e per altra parte deve sperarsi che la Francia senta la vergogna, e il pericolo della sua decadenza, non meno che il bisogno di riunire in un fascio i Popoli occidentali, per opporli agl'intenti a cui mirano i Settentrionali con miracoloso accordo.
([105]) Gli ruscelletti,
che dei verdi colli
Del Casentin discendon giuso in Arno
Facendo i lor canali freddi, e molli,
Sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
Chè la immagine lor vie più
mi asciuga,
Che il male ond'io nel volto mi discarno.
Dante, Inferno, C. XXX
([106]) Tito Livio, Storie, lib. II. c. 2. Dionisio di Alicarnasso, Antichità Romane, lib. V. c. 13.
([107]) «Nell'anno 1616
passando di costà Leandro da Bologna trovò la città di
Anagni tutta in rovina. Interrogati alcuni maggiorenti Anagnini intorno alla
causa del soqquadro, questi gli narrarono come dal tempo della prigionia di
Papa Bonifazio in poi non avessero avuto altro che sventure da piangere».
Così il buon Monaco Tosti, su la fede del Ciacconio: Vita di Bonifazio VIII. - Questo monaco insigne propugnò, in varie opere dettate con fiore di lingua e singolare dottrina, le prerogative del Papato; al tempo stesso però egli si mostrava tenerissimo della Patria italiana: ciò bastava ond'ei non potesse più durare tranquillo, in Monte Cassino. Tanto, nella stagione che corre, la paura di non essere trovato abbastanza umile, ed obbediente dai suoi Protettori vince nel Pontefice il merito che monaco, o sacerdote possa avere acquistato appo la Chiesa: e i Padri Gesuiti cantano Osanna! Io non gli avrei mai creduti di così poca levatura, come li conobbi a prova.
([111]) Siccome quel che
il Macchiavello scrive intorno
alle discordie dei cittadini avrebbe giovato assaissimo negli anni passati, se
avessero voluto leggerlo, e meditarlo; e siccome, forse, potrebbe essere di
utilità nei futuri, io qui lo riporto supplicando Dio che i miei lettori
lo antepongano, come merita, al testo:
«Le gravi, e naturali nimicizie, che sono intra gli uomini
popolari, ed i nobili causate dal volere questi comandare, e quelli non
obbedire sono cagione di tutti i mali, che nascono nella città:
perchè da questa diversità di umori tutte le altre cose, che
perturbano le repubbliche prendono il nutrimento loro. Questo tenne disunita
Roma, questo, s'egli è lecito le cose piccole paragonare alle grandi, ha
tenuto divisa Firenze, avvegnachè nell'una, e nell'altra città
diversi effetti partorissero. Perchè le inimicizie, che furono da
principio in Roma infra il popolo, ed i nobili disputando, quelle di Firenze
combattendo si disfinivano. Quelle di Roma con una legge, quelle di Firenze con
lo esilio e con la morte di molti cittadini terminavano. Quelle di Roma sempre
la virtù militare accrebbero, quelle di Firenze al tutto la spensero.
Quelle di Roma da una ugualità di cittadini in una disuguaglianza
grandissima quella città condussero; quelle di Firenze da una
disuguaglianza ad una mirabile ugualità l'hanno ridotta. La quale diversità
di effetti conviene sia da diversi fini, che hanno avuto questi due popoli,
causata. Perchè il popolo di Roma godere i supremi onori insieme coi
nobili desiderava, quello di Firenze per essere solo nel governo, senza che i
nobili ne partecipassero combatteva. E perchè il desiderio del popolo
romano era più ragionevole, venivano ad essere le offese ai nobili
più sopportabili, talchè quella nobiltà facilmente, senza
venire alle armi, cedeva: dimodochè dopo alcuni dispareri a creare la
legge dove si soddisfacesse ai desiderii del popolo, i nobili nelle loro
dignità rimanessero, convenivano. Dall'altro canto il desiderio del
popolo fiorentino era ingiurioso, ed ingiusto, talchè la nobiltà
con maggiori forze alle sue difese si preparava, e perciò al sangue, ed
allo esilio si veniva dei cittadini. E quelle leggi, che poi si creavano non a
comune utilità, ma tutte in favore del vincitore si ordinavano. Da
questo ancora procedeva, che nelle vittorie del popolo la città di Roma
più virtuosa diventava, perchè potendo i popolani
nell'amministrazione dei Magistrati degli eserciti, e degl'imperii essere con i
nobili preposti, di quella medesima virtù, ch'erano quelli si
riempivano, ed in quella città crescendo la virtù cresceva la
potenza. Ma in Firenze vincendo il popolo, i nobili privi dei magistrati
rimanevano, e volendo riacquistargli, era loro necessario con il governo, con
l'animo, e con il modo di vivere simili non solamente ai popolani essere, ma
parere».
Storie, Libro III.
([112]) Roberto di
Ginevra, cardinale legato, cercò scostare i Bolognesi dalla lega
promettendo loro il perdono del commesso errore, ed il mantenimento della
libertà, che avevano ricuperata, purchè obbedissero alla suprema
autorità della Chiesa; e siccome i Bolognesi risposero: «Noi siamo
apparecchiati a tutto soffrire, piuttostochè sottometterci di nuovo a
persone di cui il fasto, la insolenza e l'avarizia abbiano fatto sì
crudele esperimento», il Cardinale proruppe: «ed io non mi allontanerò
da Bologna, finchè non mi sia lavati piedi e mani nel sangue loro».
«...Il legato obbligò Galeotto Malatesti ad aprirli la città di Cesena, da questo signore mantenuta in fede della Chiesa. La Murata, quartiere pochi anni prima difeso eroicamente da Marzia Ordelaffi, fu dato per istanza ai Brettoni; ma questi barbari vi si comportavano troppo peggio che in città vinta: rapivano robe, mogli, figlie, nè risparmiavano ai cittadini maniera veruna di strazii. Perduta la pazienza i Cesenati assaltano alla sprovvista i Brettoni, e ne ammazzano 300 nel 1.º febbraio 1377. Il Cardinale, presente al fatto, condannò i soldati, e promise perdono, purchè i Cesenati tornassero ad aprirgli le porte, ed essi così fecero: allora costui ordinò perfidamente si mettessero a morte tutti. Non contento di aizzare alla opera atroce i suoi Brettoni, chiamò ancora l'Acuto (Giovanni Aukwood - falcone in bosco) co' suoi Inglesi, che stanziava in Faenza, a far sangue; e siccome questo capitano non si sapeva risolvere a commettere tanta enormezza, «Sangue, urlava furibondo il Cardinale, io voglio sangue!» Durante la strage soventi volte fu udito gridare: «morte, a tutti!» Sismondi, Storia delle Repubbliche italiane, tom. VII, p. 78. - L'Abbate Cistercense aveva già comandato, alla presa di Bezieres, si uccidessero tutti i terrazzani eretici, o no, che Dio poi gli avrebbe scelti a comodo nell'altro mondo: «Caedite eos, novit enim Deus qui sunt ejus». Caesar Heisterbac, lib. V, p. 21. - Tali preti un giorno; quali adesso, vel dicano Roma e Romagna, e l'effemeridi loro truci, ed irrequiete eccitatrici agli odii, alle persecuzioni, alla servitù, ed al sangue. S'è giusto così, giudichi Dio.
([113]) Macchiavello. Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino per ammazzare Oliverotto da Fermo, Vitellozzo Viletto, il signor Gianpagolo, e il Duca di Gravina Orsini.
([114]) «Nel seccare, e
dare la via al lago Fucino fece prima fare una battaglia navale. Ma gridando
quelli che avevano a combattere: «sia il ben trovato lo Imperatore; ti salutano
coloro, che stanno per morire» e avendo egli risposto: «ed a voi pure salute!»
essi pensarono, che mediante cotesto saluto egli gli avesse licenziati dal
mettersi in pericolo di vita, e non volevano combattere. Per la qual cosa egli
stette un pezzo sopra di se pensando se avesse a mettere fuoco alle navi, o
piuttosto tagliarli a pezzi. - Finalmente levatosi da sedere incominciò
a correre intorno al lago balenando, e stando per cadere, tantochè egli
li costrinse a combattere parte con le minacce, parte co' prieghi.
Affrontaronsi insieme in cotesto spettacolo l'armata Siciliana, e quella di
Rodi, dodici galere per banda, e nel mezzo del lago sorse un Tritone di
argento, il quale suonava la trombetta.»
Svetonio, tom. II, p. 226.
([116]) L'erba fu è propriamente la valeriana maggiore, o domestica, rimedio specifico per le palpitazioni del cuore.
([117]) Ordinariamente la
natura dipinge i malvagi con i colori dei serpi, e dell'erbe palustri.
L'appellativo verdinegro è di regia origine, e fu circa a quei tempi
inventato da Filippo II, il quale in cotesto modo designava l'Escovedo,
segretario del suo fratello don Giovanni d'Austria, commettendone la strage a
don Antonio Perez suo ministro.
«Certo convendrà abrebiarlo de la
muerte del Verdinegro antes que haga algo con que non seamos despues a
tiempo, quel no deve de dormir ni descuidarse des sus costumbres. Acedlo y daos
priessa ante que nos mate».
Questo è un biglietto scritto da Filippo II di propria mano a don Antonio Perez, riportato dal signor Mignet nella sua opera Antonio Perez e Filippo II, p. 70. - Tali erano le regie pratiche quando i principi volevano torsi davanti agli occhi un uomo increscioso: oggi si adopera diversamente: si chiamano sei, od otto paltonieri mascherati da giudici, e s'incumbenzano di finire l'uomo non abrebiando, bensì allungando, trapanando col diuturno carcere; uccidendo, insomma, il corpo mercè i dolori dell'anima. La morale, che presiede a siffatte giustizie, da Filippo in poi non è punto mutata; e chi ha vaghezza di conoscerla la può trovare esposta nel consulto del padre Diego de Chaves confessore del prelodato re Filippo II, al quesito, che gli mosse in proposito l'assassino Antonio Perez: «Lo advierto segun lo que yo entiendo de las leyes, que el principe seglar que tiene poder sobre la vida de sus subditos y vasallos, como se la pueda quitar por justa causa y por juyzio formado, lo puede hazer sin el, teniendo testigos pues la orden en lo de mas, y tela de los juyzios es nada por sus leyes, en las quales el mismo puede dispensar. - No tiene culpa el vasallo, que por sii mandado matasse a otro, que tambien fuere vasallo suyo por que se ha da pensar que lo manda con justa causa, como el derecho presume que la ay en todas les acciones del principe supremo». Vedi Mignet, Opera citata, p. 66. - Le quali parole volte in italiano suonano così: «Vi ammonisco secondo la mia opinione intorno alle leggi, che il principe secolare il quale ha potere sopra la vita dei suoi sudditi e vassalli, come se la può prendere per giusta causa, e per via di regolare giudizio, così può torsela anche senza, essendo che le procedure giudiziarie nulla rilevino davanti i suoi comandamenti, potendo egli dispensare da quelle... Nè commette peccato il vassallo, che per ordine suo ammazzasse un uomo, che fosse pure vassallo di lui; conciossiachè si abbia a ritenere che il re comandi per giusta causa, conforme per diritto si presume che la giusta causa si contenga sempre in tutte le azioni del principe supremo. - Egregio re, più egregio ministro, egregissimo confessore! Secolo di oro, a cui sacerdoti e principi, stretti in fraterno abbracciamento, vorrebbero ricondurre la sviata umanità.
([118]) Questo fatto successe in Sardegna a Domus nova nel 1839; con la differenza, che il cacciatore invece di andare pei nidi di Aquila, cercava quelli di Avvoltoio. Intorno a queste stupende, e subitanee trasformazioni di capelli, oltre gli esempii addotti in parecchie opere mie, il signor Alibert, nel vol. I. p. 180 delle malattie della pelle, narra di una donna bionda diventata nera dopo il travaglio del parto, e di altro individuo il quale per malattia tramutò i capelli bruni in rossi. Parla eziandio di capelli turchini, e verdi; questi si vedono frequentemente ai fonditori. Un tale Bichat imbiancò da un punto all'altro per cattive nuove. Perat moglie di Leclerc, citata a comparire davanti alla Camera dei Pari nel processo Louvel, incanutì nella notte. Si sono vedute barbe nere da un lato, e bianche dall'altro, come canuta una parte del capo soltanto. Rayer, Malattie della pelle, t. III. p. 81.
([119]) Questa virtù di odorato in alcuni uccelli si nega: eppure non si può mettere in dubbio, che quando una bestia morta passa in istato di putrefazione, dalle parti più remote dell'orizzonte si vedono comparire punti neri, a mano a mano avanzarsi, e svelarsi alfine per corvi, o per avvoltoi, attirati dagli effluvii ch'emanano dalla carogna per divorarla. Genè, Errori popolari sopra gli animali. - Corvo ed Avvoltoio.
([120]) Questo miracolo veramente non operò Santo Antonio, bensì San Dunstano abbate di Glaustenbury, e questa sua presa del diavolo con le molle tanto grande autorità gli compartì sul popolo, ch'egli ne trasse baldanza da imprigionare, e perfino uccidere la sua regina, senza che per ciò ei ne menomasse il credito. Hume, Storia d'Inghilterra, t. I. - Così sacerdoti, e re procedono concordi finchè si tratta immontonare il Popolo; immontonato che sia, si divorano fra loro; e la storia è lì aperta per dimostrarlo.
([121]) Pur troppo anche questa malattia terribile travaglia la umanità! I pratici la distinguono in bulimo, cinoressìa e licoressìa. Il granatiere Tarare divorava un quarto di bove per giorno; in pochi minuti si trangugiò il desinare apparecchiato a ventiquattro operai: inghiottiva carboni, calcinacci, turaccioli di sughero, ciottoli, quanto insomma gli capitava sotto le mani; gli piacevano le serpi; mangiava i gatti vivi vivi, e dopo mezza ora ne vomitava il pelo. Essendo sparito dall'ospedale un fanciullo mentre egli vi soggiornava, caddero sospetti sopra di lui, che se lo fosse divorato; però lo cacciarono via. Morì nel 1799 di diarrea purulenta, che accennava putrefazione di visceri addominali. Vedi il Descoret, Medicina delle passioni. Nel medesimo scrittore è da vedersi la storia di Anna Dionisia Lhermine, ammalata di fame canina. A me basti riferirne questo, ch'essendole caduto un tozzo di pane nella catinella mentre il cerusico la salassava, lo ritrasse, e se lo mangiò avidamente così com'era insanguinato; e che, presso a morire, ormai impotente a mangiare, pregò sua sorella che le mangiasse accanto al suo capezzale, perchè: «se il buon Dio non voleva ch'ella mangiasse più, potesse almeno morire col piacere di veder mangiare».
([122]) Leggesi che a
Parigi fu uno maestro, che si chiamava ser Lò, il quale insegnava logica
e filosofia, ed aveva molti scolari. Intervenne che uno dei suoi scolari, tra
gli altri acuto, e sottile nel disputare, ma superbo, e vizioso di sua vita,
morì. E dopo alquanti dì, essendo il maestro levato di notte allo
studio, questo scolare morto gli apparve: il quale il maestro riconoscendo,
senza paura il domandò quello che di lui era. Rispose, ch'era dannato. E
domandollo ancora il maestro, se le pene dello inferno erano così gravi
come si diceva; rispose che infinitamente maggiori, e che con la lingua non si
potrebbero coniare, ma che gliene mostrerebbe alcun saggio «....... Ed
acciocchè la mia venuta a te sia con alcuno utile ammaestramento di te,
rendendoti cambio di molti ammaestramenti che desti a me, porgimi la mano tua,
bel maestro». La quale il maestro porgendo lo scolare scosse il dito della sua
mano, che ardeva in su la palma della mano del maestro dove cadde una piccola
goccia di sudore, e forò la mano dall'un lato all'altro con molto duolo
e pena come se fosse stata una saetta focosa, ed acuta. «Ora hai saggio delle
pene dello inferno» disse lo scolaro, e urlando con dolorosi guai sparì.
Il maestro rimase con grande afflizione, e tormento per la mano forata ed arsa;
nè mai si trovò medicina che quella piaga curasse, ma infino alla
morte rimase così forata. Donde molti presono utile ammaestramento di
correzione. E il maestro compunto, tra per la paurosa visione, e per lo duolo
temendo di non andare a quelle orribili pene delle quali aveva il saggio,
deliberò di abbandonare la scuola, e il mondo. Onde in questo pensiero
fece due versi, i quali la mattina vegnente in iscuola davanti ai suoi scolari,
dicendo la visione, e mostrando la mano forata ed arsa spose, e disse:
Linquo coax ranis, - ora corvis, vanaque vanis
Ad loicam pergo - quae mortis non timet ergo.
«Io lascio alle rane il gracidare, ai corbi il crocidare, le cose vane al mondo; io m'incammino a logica tale, che non teme la conclusione della morte» cioè alla religione. E così abbandonando ogni cosa si fece religioso, santamente vivendo fino alla morte. Passavanti, Specchio della vera Penitenza. Dist. 2. cap. II.
A infonder nella creta
L'anima, che non hai?
Versi stupendi della magnifica poesia di Giuseppe Giusti, intitolata la terra dei morti. Però, a vero dire, anima ebbe più lo interrogato Bartolini, che lo interrogatore Giusti. Questi con braccia di Sansone scosse il luttuoso edifizio della odierna società, e poi ebbe paura dei calcinacci che cascavano. Chi sa dire, non sempre sa fare.
([125]) Di queste immanità io molta parte soffersi: et quorum magna pars fui... Qual fosse la causa del tormi e vista e luce, si legge in un libro stampato dal conte Guglielmo Digny. La Commissione, informata di certi segnali che si facevano da una villa, temè fossero per darmi avviso di quanto accadeva in giornata: chiarita meglio la cosa, seppe che in quel modo si ragguagliava della salute di uno infermo giacente in villa i suoi congiunti dimoranti alla città: non pertanto le truci precauzioni non si dismisero, anzi crebbero. Altro di cotesto libro non dico, e quello che ne ho detto è anche troppo per me.
([126]) Ella è
immagine del Redi, comecchè da argomento festoso io l'abbia trasportata
a soggetto dolente:
Sì bel raggio è un raggio acceso
Di quel sol, che in ciel vedete,
Che rimase avvinto e preso
Di più grappoli alla rete.
Redi, Ditirambo.
([128]) Ebbe in quel mar
la culla,
Ivi erra ignudo spirito
Di Faon la fanciulla:
E se il notturno zeffiro
Blando su i flutti spira,
Suonano i liti un lamentar di lira.
Foscolo. Ode. All'amica risanata.
([130]) Roberto Bruce palesa in assemblea generale ai nobili scozzesi, quivi ragunati, il suo proponimento di liberare la patria: assentano tutti, tranne Cummin. Bruce indignato lo assalta nel chiostro dei Francescani, e lo lascia per morto. - Sir Tommaso Kirpatric, amico di Bruce, lo interroga se lo abbia ucciso; a cui quegli rispondendo - crederlo, - soggiunse: «Io voglio assicurarmene»; e andato colà dove giaceva, gli passò il cuore con la spada. La famiglia di Kirpatric in memoria di questa azione assunse per istemma una mano, che brandisce una spada insanguinata, con le parole: «Io voglio assicurarmene». Hume. Storia d'Inghilterra, tom. II.
([131]) Quantunque Francesco Hernandez di Toledo avesse incominciato a propagare in alcune parti della Europa, fino dal 1520, l'uso della pianta chiamata tabacco, dalla isola di Tabago dove prima la segnalò, tardi venne adoperata in Italia, e particolarmente nei luoghi marittimi; però a Napoli nella epoca del mio racconto, 1599, costumava assai, per la doppia ragione ch'egli era porto di mare, e sottoposto al dominio della corona di Napoli.
([132]) Certo giovane spagnuolo con un colpo di bastone uccise un lanzo. Sisto V comandò si giustiziasse, e subito. Il Governatore di Roma avendogli fatto osservare essere necessario il processo, Sisto, che aveva in uggia le ipocrisie della legge, rispose risoluto «volerlo morto prima di pranzo, ed il Governatore si spicciasse, però che egli si sentisse fame». E questa era ingenuità della ferocia. Ancora gli ordinò piantassero le forche in maniera, ch'ei potesse vederle dalla finestra: non volle concedere gli mozzassero la testa: dice volere onorare di sua presenza cotesta giustizia, e di vero egli stette a vederlo impiccare, e poi comandò mettessero in tavola, dacchè cotesto spettacolo gli serviva di salsa allo appetito. Gregorio Leti, Vita di Sisto V, par. II.
([133]) Nella occasione, di cui è proposito nella nota antecedente, Pasquino, satireggiando, finse portare un bacile pieno di forche, di ruote, mannaie, e catene. Interrogato ov'ei ne andasse con arnese siffatto, rispondeva: «a metterlo in tavola per la salsa di Sua Santità». Leti, loc. cit.
([134]) Gli Spagnuoli appresero l'uso della cioccolata dagli Americani fino dalla conquista del Messico, ma lo tennero segreto per tutto il secolo decimosesto. Quale fosse la causa del geloso mistero ignoriamo: però Carlo V e Filippo II appena ne offersero qualche tazza ai sovrani loro fratelli, o cugini. Affermano che lo abuso di questa bevanda fomentasse nello imperatore Carlo V la nera malinconia, che lo condusse a cantarsi vivo le preghiere da morto. Forse l'essere nato da madre pazza contribuì alla sua tristezza troppo più dello abuso del cioccolatte. Nel 1640 questa bevanda diventò comunissima per tutta Europa: a Napoli però, come paese dependente dalla Spagna, assai prima di cotesta epoca si adoperava fra le persone agiate. Dei medici alcuni la celebrano come bevanda sanissima, atta a confortare i deboli e i vecchi; altri all'opposto, siccome suole, come dannosissima la maledicono. Linneo la chiama teobroma, o vogli cibo degli Dei.
([135]) Le frasi, che occorrono distinte con carattere italico, appartengono ai documenti giudiziarii del miserabile processo per lesa maestà allo Autore, e sostenuto contro di lui, con fronte che vince ogni più duro metallo, durante gli anni 1849-50-51-52-53!
([136]) Burleigh, nella sua dichiarazione del 1584, confessa essere stato costume dei tribunali inglesi applicare la torture ai prevenuti; ma che però facevasi con tutta carità cristiana! Quartierly Review, Agosto 1834 - Delle condanne politiche d'Inghilterra - Martino del Rio va più oltre, ed afferma che «la tortura si dava alla persona denunziata per lo suo maggiore vantaggio, conciossiachè vi sia speranza, che vinta dai tormenti ella confessi il delitto, e così salvi l'anima; mentre se non la si pone alla tortura, ci è da temere che muoia senza confessione, e per conseguenza si danni» - Alboize e Maquet, Le prigioni più celebri della Europa, tom. VII, pag. 61.
([137]) Vicerè di Napoli nel mese di giugno del 1599 andò il Conte di Lemos, e tenne lo ufficio fino alla sua morte, successa nel 19 ottobre 1621 [nel testo originale: 1521]; lui morto surrogò il figlio don Francesco di Castro, e questo il Conte di Benavente; a Benavente fu sostituito don Pietro Fernandez di Castro conte di Lemos, e dopo lui venne don Pietro Girone duca di Ossuna. Baldacchini, Vita di Tommaso Campanella, p. 90. - Tuttavolta io trovo un Duca di Ossuna vicerè di Napoli nei tempi antecedenti al primo Conte di Lemos: questa carica durava tre anni; onde io ho ritenuto che fosse quel desso, che vi ritornò nel 1618. Ad ogni modo se avessi commesso anacronismo, mi verrà, io spero, di leggieri perdonato in grazia di aver fatto conoscere il cervello balzano di cotesto duca, il quale nella sua vita sperimentò gli estremi così della prospera come dell'avversa fortuna.
([138]) Questo fatto ho letto narrato nella Storia di Venezia del Daru, che riporta eziandio le affettuose, e forti suppliche di questa egregia moglie in pro del marito, caduto in disgrazia della Corte di Spagna.
([139]) Terribile
insegnamento ai Principi, se lo volessero intendere, darebbero le avvertenza
contenute nel testamento di Filippo II re di Spagna. Di loro, sia che vuolsi:
al Popolo, cui è familiare cotesto personaggio per la terribile tragedia
dell'Alfieri, non fia discaro conoscere come finisse quel pugno di polvere
coronata, che per la potenza e per la voglia di operare il male fino dai suoi
tempi venne salutato col nome di demonio meridiano. Nè vi ha
pericolo che verun Gesuita la riprenda per lui, sostenendo esagerato il
racconto, dacchè egli è desso che scrivendo ammonisce il
figliuolo, il quale ben fu più imbecille, non già meno tristo di
lui: «Una infinità di esperienze, travagli, fatiche, disegni, e
pretensioni (la più parte inutili) mi hanno fatto conoscere (ma troppo
tardi pel mio bene, e per quello dei miei popoli, e vicini) le cose necessarie
al buon governo dei popoli.... di cui un giorno bisognerà rendere conto
al Re dei re, davanti al quale sutterfugi, e cavilli non valgono,
conoscendo le inclinazioni, i disegni, e i pensieri segreti degli uomini...
tanti dolori, ed accidenti strani da tanti mesi mi assalgono, che sono
diventato un supplizio a me stesso; onde io prego Dio, che dalla terra
mi chiami al cielo usandomi quella misericordia che io ed i miei non usammo
a tanti popoli, che ce ne richiedevano...» E venendo più
particolarmente allo scopo di questa nota, odasi come cotesto sciagurato re
continui: «Dopo avere aspirato a farmi imperatore del Nuovo Mondo, a
conquistare Italia, domare i Paesi Bassi, farmi eleggere Re d'Irlanda, vincere
Inghilterra con la più grande armata che mai siasi veduta, alla
formazione della quale consacrai dieci anni di tempo, ed oltre a venti milioni
di ducati, e Francia con le corruttele, mi trovo ad avere consumato trentadue
anni di vita, più di seicento milioni di ducati in ispese straordinarie;
cagionato la morte di venti milioni di uomini, spopolato provincie più
vaste di quelle ch'io possiedo in Europa... di tutti i disegni, rovine, e
fatiche appena ho acquistato il piccolo regno del Portogallo. Irlanda mi
sfuggì per la indole salvatica dei suoi abitanti, le spiagge ardue, la
dimora trista; Inghilterra, per fortuna di mare; Francia, per leggerezza
francese; Lamagna, per astio dei miei parenti... Il tutto per volontà di
Dio!!...»
Filippo II moriva divorato dai pidocchi. Possano i tiranni, e i
tormentatori dei Popoli non fare mai miglior fine della sua: e possano i loro
disegni non riuscire mai ad esito meno tristi di quelli di costui! - Questo
documento si trova nelle memorie del duca di Sully ministro di Enrico IV, e
viene riportato dal signore Artaud de
Moutor nella sua Storia dei Papi. Quantunque questa nota sia
già lunga, tornerà, io penso, oltre modo piacevole ai lettori
sapere come questo Re, cattolicissimo e colonna principale della Chiesa,
sentisse degli Ecclesiastici:
«Aiutatevi nei vostri bisogni con l'entrate dei beni
ecclesiastici; conciossiachè le troppe dovizie precipitino i Preti nelle
delicature e nei piaceri, donde poi nascono l'empietà.
«Diminuite ecclesiastici, cortigiani, magistrati, e finanzieri
perchè questa gente divora il grasso dei vostri dominii, e non
porta frutto che valga... moltiplicate mercanti, artigiani, agricoltori,
pastori, e soldati: i primi spendono poco, ed arricchiscono le provincie; i
secondi le difendono.
«Abbiate quanti più potete voti in Conclave; pagate bene
cardinali, elettori, e vescovi di Allemagna col mezzo dei vostri ministri,
senza far passare i danari per le mani degl'Imperatori.
«Ricevete in grazia, a qualunque patto i ribelli dei Paesi Bassi,
purchè vi abbiano per principe: ad ogni modo fate pace con loro».
Quali i suoi intendimenti politici sopra le altre parti di Europa
si ricava dai seguenti ricordi:
«D'Italia e di Lamagna non vi date fastidio: questi paesi sono
posseduti da troppi, e troppo diversi principi, i quali aborrendo deferire a
cui fra loro è più degno, e governandosi con umori diversi,
riesce difficile che si accordino.
«Dividete la Francia dalla Inghilterra».
([140]) Sisto V inviò il cardinale Aldobrandino, poi Clemente VIII, in Polonia per la pace, e per rivendicare Massimiliano in libertà; le quali cose tutte gli vennero prosperamente condotte a fine. In cotesto viaggio egli tolse seco, e si valse della opera di Cinzio Passeri nipote ex sorore, che poi creò Cardinale nepote col titolo di San Giorgio. Sisto, per simili geste riputando assai lo Aldobrandino, frequenti volte esclamava «avere trovato alla fine un uomo secondo il suo cuore». Leti, Opera cit. parte II. l. 3.
([141]) «Imputar le si
puote un error solo:
Mangiarmi dall'armario un raveggiolo».
Cotta, Canzone in morte della Gatta.
([142]) Questa mania di giudicare, e fare con le proprie mani giustizia, e non già sopra le bestie, bensì sopra gli uomini, fu per un tempo esercitata da Giovanni Tina ciabattino, di cui lessi la narrazione minuta nella Raccolta di Novelle antiche e moderne fatta per opera di Robustiano Gironi.
([143]) Le gentildonne, nei tempi che descrivo, non andavano mai sole per le pubbliche vie; bensì con marito, o parente; e, in difetto di questo, accompagnate da un servo di fiducia, il quale dal colore dei suoi abiti distinguevasi col nome di uomo nero.
([144]) Le porte delle prigioni, almeno le principali, costumarono fabbricare basse; e tal'era anche la porta delle carceri di Firenze, oggi demolite, chiamate Stinche. Il Berni giocondamente la descrive nel suo Capitolo in lode del Debito. Anche adesso non sono andate in disuso, e nelle prigioni umanitarie io le ho notate. Quale ne sia la causa, io non saprei: non certo quella di prevenire la fuga: forse, e senza forse, per un lusso di martirio. Devo ancora avvertire, che queste carceri non si espongono all'adorazione delle vezzose e tenere visitatrici: se ne avessero vaghezza, andando alle Murate, prigioni di Firenze, domandino le tenere visitatrici all'amabile Conduttore, e ne rimarranno edificate.
([146]) Questa avventura degli sproni accadde in Francia nella strage di San Bartolommeo, e fu trovato di una dama cattolica per salvare il suo amante ugonotto. La riporta Brantome.
([147]) Il signor Rougier de la Burgerie calcola, che in Francia sieno 10 milioni di passeri; che ognuno di loro consumi libbre 20 di grano, e così in tutti mette a perdita 200 milioni di libbre di quel frumento; ma perchè ogni passero per quattro settimane nutrisce la sua nidiata esclusivamente di insetti, ritiene che ogni coppia di passeri ne divori 26880, e così in tutti 136 bilioni, e 400 milioni: e siccome, anche passato tutto questo tempo, i passeri durano a pascere insetti, così non gli par forte portare a 300 bilioni questi enti nemici alla prosperità della Francia distrutti dai passeri. Però le passere si devono stimare come una seconda provvidenza di cotesto paese felicissimo: in quanto alla prima è posto preso.
([148]) Dolcezze di carceri umanitario. Se taluno s'infastidisse leggerle, lo prego a pensare ch'io le soffersi, e di parecchie tacqui per non parere esagerato.
([149]) Anco questo è anacronismo, però che Giordano Bruno fosse condannato al fuoco nel 17 febbraio 1600. Dicono che tanta infamia si commettesse in odio agli Spagnuoli, ed è scusa trista quanto la colpa. ARTAUD DE MOUTOR, gesuita laico che ha scritto la Vita dei Papi, nega risolutamente il fatto; senonchè, poche pagine dopo, accusa i Veneziani perchè lo consegnarono al Papa, e non ne proseguirono il processo a Venezia, sopportando così che la sentenza di cotesto filosofo venisse dettata dagli Spagnuoli. Bara coerenza di storico! Il medesimo scrittore si fa a confutare la opinione di coloro che affermano, il supplizio del fuoco inventato dai Cristiani contro gli Eretici; e dichiara com'esso ordinariamente si praticasse dai principi secolari in pena dei ladri e dei felloni alla patria ed al re, allegando gli esempii del Dante nostro, e di San Fruttuoso vescovo di Tarragona. Questi esempii non fanno punto al caso, dacchè altro sia inventare, ed altro imitare; e poteva darsi benissimo che cotesto supplizio, trovato dai sacerdoti cristiani, dai principi secolari venisse adottato: però se l'Artaud non ha ragione, mercè gli esempii suoi egli si appone al vero, e degli esempii avrebbe giovato meglio, a sostenere il suo assunto, quello che si legge nel libro VII della Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio. Catullo, governatore della Libia Pentapolitana, trae partito da una sedizione di ebrei fuggita da Gerusalemme, per accusare gli ebrei più ricchi di Cirene. Gionata, capo dei ribelli, lo seconda nella calunnia; Catullo ne ammazza tremila. Chiamati poi a Roma, e chiarito il vero, Vespasiano condanna Gionata alle verge, e al fuoco. Catullo è rimandato assoluto; sennonchè colto da morbo insanabile, agitato dagli spettri, gli escono fuori le interiora, e muore.
([150]) Il Descuret nella Medicina delle Passioni referisce parecchi esempii piacevoli della mania delle collezioni. Uno raccolse tutti i bottoni della soldatesca dal 1789 al 1843; un altro in trent'anni raccolse i più celebri tappi di sughero; un ufficiale tutte le specie dei fagiuoli. Io ho conosciuto certo maggiore Chelardi, comandante di piazza a Livorno, il quale aveva completata la collezione del notaro Grifo, possedendo 365 tabacchiere di varia forma, e di vario pregio; e ciò, in difetto di ogni altro merito, gli procurava una tal quale celebrità.
([152]) «Signor, non mi
abborrire
S'io porto invidia ai morti»;
sono versi di un madrigale di M. Buonarroti.
([153]) La donna, che servì Beatrice Cènci durante la sua prigionia, non si chiamava Virginia, bensì Bastiana; e questo si ricava dallo antico Estratto del Giorn. della Confraternita del S. Giovanni decollato a Roma, Liv. XVI, carte 66. - Fra le altre preghiere di Beatrice sul punto di morire leggiamo: «Vuole anco, che sia pagata Maria Bastiana quale l'à servita in questa sua prigionia, e nella carcere con molta carità, che oltre al suo salario ordinario le sieno dati scudi 40 di moneta, oltre anche quello, che lassa per testamento, e che tutto le lassa per amore di Dio».
([154]) Papa Clemente VIII quando mosse da Roma per prendere possesso del ducato di Ferrara rapito a don Cesare, che n'era stato istituito erede da Alfonso d'Este II, nel visitare la chiesa di Loreto vi lasciò in voto due gambe di argento massiccio, forse per grazia non ricevuta della guarigione della podagra; e dico per grazia non ricevuta, dacchè alla podagra gli si aggiunse anche la chiragra, la quale nel giubbileo bandito nel 1600 non gli permetteva di lavare i piedi ai poveri pellegrini che con una mano sola, e questo non sempre, contentandosi allora di asciugargli soltanto; mentre cotesta opera santa era esercitata da quei fiori di virtù dei cardinali Aldobrandino, a Passero. Giovanni Stringa, Vita di Clemente VIII. - Cav. Artaud de Moutor, Vita del medesimo pontefice.
([155]) «Quidnam vulto hoc esse? Alii autem irridentes dicebant: quia pleni sunt musto». Acta Apost. c. II. nn. 12-13.
([156]) Quando prima arrise al prete la speranza di tenere suggetti popoli, e re, sostenne la volontà regia nulla se non era santificata da lui. Scaduto dalla superba pretensione si adattò alla parte di vassallo, vestì livrea; e, contentandosi di tosare di seconda mano, bestemmiò voler sovrano formare legge pel suddito anche quando contraffacesse al precetto di Dio. Antonio Perez, consultato il reverendo padre Diego de Chaves se potesse, senza peccato, obbedire all'ordine di Filippo II, che gli comandava assassinare d'Escovedo segretario di don Giovanni di Austria, ne riceve la seguente risposta: «El principe seglar, che tiene poder sobra la vita de sus subditos, y vasallos como se la puede quitar por justa causa, y por juyzio formado, la puede hazer sui el..... tela de los juyzios es nada por sus leyes, en las quales el mismo puede dispensar. No tiene culpa el vasallo que por su mandado matasse a otro, que tambien fuere vasallo suyo, por que se ha da pensar que lo manda con justa causa, como el derecho presume que la ay en todas les acciones del principe supremo». Relaciones di Antonio Perez, cit. dal Mignet, Antoine Perez et Philippe II, p. 66.
([157]) Intorno ai fatti del conte Peppoli e del duca Farnese, vedi Gregorio Leti, Vita di Sisto V, lib. III. p. 2.
([158]) Nei governi dispotici, il duca di Wintoun diceva che lo ufficio del giudice, come presso i barbari, si confonde con quello di carnefice. Veruno animale è più schifo del giudice amovibile allo stipendio del tiranno. Ricorda la storia che nei tempi antichi, durante il processo di Giovanna di Arco, al cimiterio di Santo Ovanio il carnefice assisteva al giudizio per esser pronto a giustiziarla appena condannata! Michelet, Storia di Francia, t. V. p. 163 - Ai tempi nostri un re mandava ai suoi giudici sentenziassero presto, perchè prima di sera voleva fucilare i prevenuti.
([159]) Nerone si ricordò di Epirari ritenuta per indizio di Procolo; e non credendo che una donna reggesse al dolore, ne comandò ogni strazio. Nè verga, nè fuoco, nè ira di martorianti del non sapere sgarare una femmina, la fecero confessare, e vinse il primo dì. Portata il seguente ai tormenti medesimi in seggiola, non potendosi reggere sopra le membra lacerate, si trasse di seno una fascia, l'annodò alla seggiola, incalappiò la gola stringendola col peso del proprio corpo, e trassene quel poco fiato che vi era. Esempio memorevole, che una femmina libertina volesse salvare gli strani, e quasi non conosciuti, quando gl'ingenui uomini senatori, e cavalieri scuoprivano i più cari senza tormenti. Tacito, Annali, t. XV. volgarizzamento del Davanzati.
([160]) Nel testo originale: Mirate, di grazia, dove l'anno. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
([161]) Il supplizio di
Mezenzio era legare un vivo con un morto, e così
lasciarlo finchè ancora egli si morisse.
«Quid memorem infanda caedes; quid facta
tyranni
Effera? Di capiti ipsius, generique reservent.
Mortua quin etiam jungebat corpora vivis
Componens manibus manus, atque oribus ora
(Tormenti genus) et sanie, taboque fluentis
Complexu in misera longa sic morte necabat».
Virgilius, Aeneid.
t. VIII, v. 482.
([162]) Omar, espugnata Alessandria, durante tre mesi scaldò i bagni pubblici con quattrocento mila volumi della biblioteca raccolta da Tolomeo Filadelfo e dai suoi successori.
([163]) Sisto V fece mettere in castello Sant'Angiolo cinque milioni di oro, che servirono poi a Clemente VIII allo acquisto di Ferrara a danno del duca don Cesare di Este. Gregorio Leti, Vita di Sisto V.
([164]) Nel testo originale: "a Tegolino andarla a risquotere". [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]
([165]) Maffeo Barberini, che poi fu papa col nome di Urbano VIII, veramente in questa epoca non era cardinale: egli fu promosso alla porpora romana da Paolo V, col titolo di San Pietro in Montorio, nel 1605.
([166]) Ciò accadde a danno di certo spagnuolo, il quale percuotendo di un bastone un lanzo che lo aveva offeso, lo uccise. Gregorio Leti, Vita di Sisto V, p. 2.
([172]) Giovanni Gonnelli di Gambassi, piccolo castello in Toscana nel territorio di Volterra, scultore, divenne cieco in Mantova o sia per caso, o per i patimenti sofferti in occasione dell'assedio e del sacco che vi diedero i Tedeschi nel 1630, colà condotto al servizio di Carlo Gonzaga: fu allievo del Tacca; ebbe la vista fino alla età di 20 anni. Diventato cieco non si smarrì, e continuò a lavorare, specialmente in ritratti, ch'erano somigliantissimi sempre, adoperando che lo ufficio degli occhi facessero le mani, come scrive il Baldinucci. Ritrattò Urbano VIII. Cicognara, Storia della Scoltura tomo VI. cap. 4. pag. 194. Questo autore tenta spiegare il modo col quale il Gonnelli potesse, così cieco com'era, scolpire, dicendo ch'egli era giunto a ridurre in meccanismo manuale l'azione degli occhi. Inoltre soggiunge egli, giova riflettere alla straordinaria attenzione, e concentrazione dei ciechi, per cui non vengono da alcuna cosa distratti in ciò che fanno.
([174]) Non paia ai
reverendi Padri della Compagnia di Gesù ch'io abbia
parlato avventatamente; dacchè eglino, dottissimi, sanno
com'io altro non
abbia fatto che copiare l'espressione del Sonetto di messere
Francesco
Petrarca.
«L'avara Babilonia ha colmo il sacco
«D'ira di Dio, e di peccati empi, e rei» cc.
E messer Francesco, come quegli ch'era prete, e canonico di Pavia,
doveva
intendersene.