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Posted by on 11 maggio 2012
in Economia, Europa Euro,
un fallimento annunciato. Venti anni fa il keynesiano Wynne
Godley spiegava perché non poteva funzionare
L’articolo
che pubblichiamo di seguito ha venti anni. L’autore, Wynne Godley, noto economista britannico
Post Keynesiano e collaboratore del Tesoro del Regno Unito, individua i
problemi nella costruzione dell’Unione Monetaria a partire dal Trattato di
Maastricht. In particolare sottolinea come il Trattato sottintendesse
un’impostazione ideologica per la quale gli Stati non devono occuparsi di
politica economica e tutto ciò che è richiesto per far funzionare
il sistema è una banca centrale, indipendente dalla politica, che si
occupi di controllare l’inflazione. L’assenza di un Tesoro federale con un
debito pubblico monetizzabile, di un fisco e di un welfare federali, di
“stabilizzatori automatici” e trasferimenti tra regioni, porterà
inevitabilmente alla rottura dell’Unione monetaria, appena uno dei suoi
membri si trovasse in forti difficoltà per qualsiasi motivo. Insomma,
quella che segue è la cronaca di un fallimento annunciato. Molte persone in tutta Europa
si sono improvvisamente rese conto che non sanno quasi nulla del Trattato di
Maastricht mentre giustamente avvertono che potrebbe fare una grande
differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha indotto Jacques Delors
a fare una dichiarazione secondo la quale le opinioni della gente comune
dovrebbero in futuro essere più ascoltate. Avrebbe potuto pensarci
prima. Anche
se ho sostenuto il passaggio verso l’integrazione politica in Europa, credo
che le proposte di Maastricht così come sono presentano gravi carenze
e anche che la discussione pubblica su di esse sia stata curiosamente
impoverita. [...] L’idea
centrale del trattato di Maastricht è che i paesi della
Comunità europea devono muoversi verso l’unione economica e monetaria,
con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma che cosa
rimane della politica economica? Dato che il trattato non propone nuove
istituzioni diverse da una banca europea, i suoi promotori devono supporre
che nulla di più sia necessario. Ma questo potrebbe essere corretto
solo se le economie moderne fossero sistemi capaci di autoregolarsi, che non
abbiano bisogno di alcuna gestione. Sono
spinto alla conclusione che tale punto di vista – cioè che le economie
sono organismi che si raddrizzano da soli e che non hanno in nessun caso
necessità di una gestione – ha effettivamente determinano il modo in
cui è stato costruito il trattato di Maastricht. Si tratta di una
versione rozza ed estrema del punto di vista che da qualche tempo ha
costituito la convinzione prevalente in Europa (anche se non quella degli
Stati Uniti o del Giappone): che i governi non sono in grado di raggiungere
uno qualsiasi dei tradizionali obiettivi di economia politica, come la
crescita e la piena occupazione, e pertanto non dovrebbero neppure provarci. Tutto
ciò che può legittimamente essere fatto, secondo questa
visione, è quello di controllare l’offerta di moneta e il pareggio del
bilancio. E’ stato necessario un gruppo in gran parte composto da banchieri
(il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale
indipendente è stata l’unica istituzione sovranazionale necessaria per
gestire un’Europa integrata e sovranazionale. Ma
c’è molto di più. In primo luogo va sottolineato che la
creazione di una moneta unica nella Comunità Europea dovrebbe porre
fine alla sovranità delle sue nazioni componenti e alla loro autonomia
di intervento sulle questioni di maggior interesse. Come l’onorevole Tim Congdon ha sostenuto in modo molto convincente, il potere
di emettere la propria moneta, di fare movimentazioni sulla propria banca
centrale, è la cosa principale che definisce l’indipendenza nazionale.
Se un paese rinuncia o perde questo potere, acquisisce lo status di un ente
locale o colonia. Le autorità locali e le regioni, ovviamente, non
possono svalutare. Ma si perde anche il potere per finanziare il disavanzo
attraverso la creazione di denaro, mentre altri metodi di ottenere
finanziamenti sono soggetti a regolamentazione centrale. Né si possono
modificare i tassi di interesse. Poiché le autorità locali non sono in
possesso di nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro
scelta politica si limita a questioni relativamente minori: un po’ più
di istruzione qui, un po’ meno infrastrutture lì. Penso che quando
Jacques Delors pone l’accento sul principio di ‘sussidiarietà’, in
realtà ci sta solo dicendo che [gli stati membri dell'Unione europea]
saranno autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni
relativamente poco importanti di quanto si possa aver precedentemente
supposto. Forse ci lascerà tenere i cetrioli, dopo tutto. Che grande
affare! Permettetemi
di esprimere una visione diversa. Penso che il governo centrale di uno Stato
sovrano deve essere costantemente impegnato a determinare il livello ottimale
complessivo dei servizi pubblici, l’onere fiscale complessivo corretto, la
corretta allocazione della spesa totale tra bisogni concorrenti, nonché la
giusta distribuzione del peso della tassazione. Esso deve anche determinare
la misura in cui ogni divario tra spesa e imposte viene finanziato prelevando
dalla banca centrale e quanto è finanziato mediante un prestito, e a
quali condizioni. Il modo in cui i governi decidono su tutti questi (e alcuni
altri) problemi, e la qualità della leadership che si possono
dispiegare, determineranno, in interazione con le decisioni degli individui,
delle aziende e degli stranieri, cose come i tassi di interesse, il tasso di
cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di
disoccupazione. [Il comportamento del governo] inoltre influenzerà
profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza non solo tra
individui, ma tra intere regioni, assistendo, si spera, quelle colpite
negativamente dai cambiamenti strutturali. [...] Elenco
tutto questo non per suggerire che la sovranità non deve essere ceduta
in nome della nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i governi
nazionali rinunciano a tutte queste funzioni esse devono semplicemente essere
assunte da qualche altra autorità. La lacuna incredibile nel programma
di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e
il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste un qualunque
progetto analogo, in termini comunitari, di governo centrale. Semplicemente
ci dovrebbe essere un sistema di istituzioni che soddisfi a livello
comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi
centrali dei singoli paesi membri. La
contropartita della rinuncia alla sovranità dovrebbe essere che le
nazioni componenti vengono incorporate in una federazione a cui è
affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o stato, come
è meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare tutte quelle funzioni in
relazione ai suoi membri e al mondo esterno, che ho brevemente sopra
indicate. Consideriamo
due esempi importanti di ciò che uno stato federale, responsabile di
un bilancio federale, dovrebbe fare. I
Paesi europei sono al momento bloccati in una grave recessione. Come stanno
le cose, in particolare le economie di Stati Uniti e Giappone sono anch’esse
vacillanti, è molto difficile dire quando un significativo recupero
avrà luogo. Le implicazioni politiche di questo stanno diventando
spaventose. Tuttavia, l’interdipendenza delle economie europee è
già così grande che nessun singolo paese, con l’eccezione
teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive
per conto proprio, perché ogni paese che ha cercato di espandere l’economia
con le sue sole forze incontrerebbe presto un vincolo nella bilancia dei
pagamenti. La situazione attuale grida ad alta voce l’esigenza di un rilancio
coordinato, ma non esistono né le istituzioni né un quadro concordato di
pensiero che porterà a questo risultato, ovviamente, desiderabile. Si
deve francamente riconoscere che se la depressione dovesse davvero prendere
una svolta seria per il peggio – ad esempio, se il tasso di disoccupazione
tornasse al 20-25 per cento degli anni Trenta – i singoli paesi, prima o poi,
eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare l’intero percorso verso
l’integrazione un disastro, e ristabilirebbero dei controlli sui cambi e
misure protezionistiche – un’economia da assedio se vogliamo chiamarla
così. Ciò equivarrebbe a ripercorre il periodo tra le due
guerre. Se
ci fosse una unione economica e monetaria, in cui il potere di agire in modo
indipendente fosse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ del
genere, di cui si sente così urgente bisogno, potrebbe essere
effettuata solo da un governo federale europeo. Senza una tale istituzione,
l’Unione monetaria impedirebbe un’azione efficace da parte dei singoli paesi
e metterebbe il nulla al suo posto. Un
altro ruolo importante che ogni governo centrale deve svolgere è
quello di stendere una rete di sicurezza per il sostentamento delle regioni
componenti che sono in difficoltà per ragioni strutturali – a causa
del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di qualche
cambiamento demografico negativo per l’economia. Attualmente questo accade
nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno se ne accorga, perché
esistono standard comuni dei servizi pubblici (per esempio, la sanità,
l’istruzione, le pensioni, i sussidi di disoccupazione) e un comune (si
spera, progressivo) sistema di imposizione fiscale. Di conseguenza, se una
regione soffre un insolito declino strutturale, il sistema fiscale genera
automaticamente i trasferimenti netti in favore di essa. Come caso estremo,
una regione che non producesse nulla non morirebbe di fame perché riceverebbe
le pensioni, le indennità di disoccupazione e il reddito dei
dipendenti pubblici. Cosa
succede se un intero paese – un potenziale ‘regione’ in una comunità
pienamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si
tratta di un Stato sovrano, può svalutare la propria moneta. Si
può quindi operare con successo verso la piena occupazione se la gente
accetta il taglio necessario dei redditi reali [cioè l'inflazione, ndr]. Con una unione economica e monetaria, questo
ricorso è ovviamente escluso, e la sua prospettiva è davvero
grave, salvo accordi su bilanci federali che svolgano un ruolo
redistributivo. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall che è stato pubblicato nel 1977, ci
deve essere uno scambio tra la rinuncia alla possibilità di svalutare
e la redistribuzione fiscale. Alcuni autori (come Samuel Brittan
e Sir Douglas Hague) hanno seriamente suggerito che l’Unione monetaria,
abolendo la bilancia dei pagamenti nella sua forma attuale, abolirebbe il
problema, dove esiste, di una persistente incapacità di competere con
successo sui mercati mondiali. Ma, come il professor Martin Feldstein ha sottolineato in un articolo importante nel Economist (13 giugno), questo argomento è
pericolosamente sbagliato. Se un paese o regione non ha il potere di
svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione
fiscale, allora non c’è nulla che possa fermare un processo di declino
cumulativo e terminale che conduce, alla fine, all’emigrazione come unica
alternativa alla povertà o alla fame. Simpatizzo
con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher) che, di fronte alla
perdita di sovranità, desiderano scendere dal treno dell’Unione
monetaria. Simpatizzo anche con coloro che cercano l’integrazione sotto la
giurisdizione di una sorta di Costituzione federale, con un bilancio federale
molto più grande di quello dell’[attuale] bilancio comunitario. Quello
che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che sono
favorevoli all’unione economica e monetaria senza la creazione di nuove
istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le
mani terrificati alle parole “federale” o “federalismo”. Questa è la
posizione adottata oggi dal Governo e dalla maggior parte di coloro che
prendono parte alla discussione pubblica. Articolo originale: Maastricht
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