Il Fatto quotidiano 3-9-2011
Finché le banche non pagano, la crisi continua
Marco Onado
Diceva Billy
Wilder che gli austriaci sono dei geni perché hanno fatto credere che
Beethoven fosse austriaco e Hitler tedesco. Ma i banchieri di oggi si
rivelano ancora più astuti, perché hanno convinto governi e
autorità di vigilanza che era necessario un salvataggio in massa (che
è la causa prima dell’esplosione dei deficit pubblici) e che per il
futuro sono necessari solo ritocchi al quadro regolatorio
complessivo, ma non mutamenti sostanziali e tanto meno cure drastiche e (per
essi) costose.
E così mentre appare sempre più forte il rischio di un
avvitamento di tutte le principali economie ogni volta che qualcuno si
azzarda a proporre qualche misura di qualche severità, inizia il fuoco
di sbarramento della lobby bancaria. Ogni tanto, qualche politico fa
una sparata minacciando misure magari importanti, ma che meriterebbero ben
altra preparazione (si veda la premiata coppia Sarkozy-Merkel
sulla tassazione delle transazioni finanziarie) e tutto resta come prima. Ma
è ormai evidente che le banche sono una componente fondamentale dell’incapacità
delle principali economie di tornare su un sentiero di crescita sostenibile e
di creare occupazione.
Il problema è che la crisi finanziaria è stata provocata da un
eccesso di debiti, che devono in qualche modo essere smaltiti: sia quello
delle famiglie americane e britanniche (combustibile effimero della crescita
del passato) sia quello di Paesi come la Grecia che sono da un pezzo in stato
di insolvenza che solo i governi europei si ostinano a negare. Ma dire che
c’è un eccesso di debiti pubblici e privati da smaltire significa che
ci sono perdite potenziali cospicue nei bilanci delle banche. Sono state loro
infatti a ingrandirsi come la rana di Esopo grazie alla bolla finanziaria. I
dati della Bce ci dicono che dal 1997 al 2009 prestiti e totale di bilancio
delle banche sono aumentati in tutti i Paesi europei a tassi annui doppi o
tripli rispetto al prodotto lordo, con le ovvie conseguenze in termini di
lauti profitti e ricompense. Ma adesso che gli anni delle vacche grasse sono
alle spalle, cosa succederà alle banche? Finora, governi e
autorità di vigilanza hanno puntato su una sorta di “atterraggio
morbido”: speravano che la crescita dell’economia reale e un graduale
rafforzamento patrimoniale delle banche avrebbero consentito di assorbire
gradualmente gli eccessi del passato. Purtroppo questo scenario si sta
rivelando sempre più improbabile e – come era già
accaduto al Giappone negli anni Novanta – l’incertezza su qual è il
valore effettivo degli attivi bancari è divenuta una componente
importante del ristagno in cui siamo piombati.
Per le banche, questo è il peggiore dei mondi possibili, perché da un
lato le loro azioni crollano e dunque il valore di mercato del loro capitale
continua a diminuire e, dall’altro, aumenta sempre di più il costo dei
fondi che devono raccogliere sul mercato. Le banche europee, che hanno
fabbisogni particolarmente elevati, pagano oggi tassi sui loro debiti a lungo
termine vicini a quelli dei giorni del crollo di Lehman.
Solo i tassi a breve termine continuano a essere bassi, ma grazie agli aiuti
eccezionali della Bce, che non possono durare in eterno. É ormai dimostrato
che in queste condizioni le banche hanno incentivi perversi ad aumentare
le attività rischiose e ad alimentare operazioni puramente
speculative che rendono i mercati ancora più instabili.
Come ha sostenuto recentemente anche Raghuram
Rajan, economista di Chicago e dunque al di
sopra di sospetti dirigisti, da questa crisi usciamo solo eliminando
drasticamente una parte degli eccessi accumulati, cioè adeguando il
debito alla capacità di rimborso effettivo: si tratti dei mutui
ipotecari delle famiglie americane o del debito pubblico dei Paesi periferici
dell’Europa. Una cura drastica che trova la fiera opposizione delle banche,
che preferiscono continuare a pensare che tutto potrà tornare come
prima, profitti e compensi compresi. Esse contrastano anche ogni riforma
strutturale che limiti gli aiuti pubblici e delle banche centrali alla
componente veramente di pubblica utilità al servizio dell’economia,
oggi meno della metà del bilancio di una banca. Nel Regno Unito, la
sola prospettiva di una proposta in questo senso da parte di una commissione
indipendente ha suscitato proteste come se si fosse attentato alle
libertà costituzionali.
Ma la speranza di uscire dalla crisi in modo morbido è sempre
più tenue e dunque si deve rinunciare al risanamento graduale e
indolore del sistema bancario. Anzi, i richiami a soluzioni di mercato sono
controproducenti perché aumentano l’incertezza. È questo il caso della
richiesta di Christine Lagarde alle banche
di aumentare il loro capitale o quella di usare il fondo europeo per
sostenere le emissioni obbligazionarie delle banche dell’area. Il risultato
è opposto a quello sperato perché l’incertezza del mercato non
può che aumentare. Si sperava, aumentando i capitali bancari, di
alimentare un circolo virtuoso che spingesse l’attività produttiva e
la ripresa, ma non è stato così. È successo il contrario
perché, come diceva Ionesco, prendete un circolo, accarezzatelo a lungo
voluttuosamente: diventerà vizioso. È tempo di spezzarlo.
Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2011
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