Il Fatto quotidiano 28-7-2011
Usa, il debito incombe. Ma la liquidità
privata è sempre all’estero
Di Matteo Cavallito
Secondo l’ultima indagine di Moody’s, le corporation Usa (escludendo
le finanziarie) potrebbero avere circa 600 miliardi di liquidità all’estero.
Denaro contante, frutto di profitti opportunamente messi al riparo dal rischio di essere
reinvestiti in America o di finire in parte nelle casse pubbliche sotto forma
di tasse
Le società
statunitensi non operanti nel settore finanziario detengono all’estero dai 500 ai 700 miliardi di
dollari di liquidità, vale a dire circa la metà
della disponibilità totale a bilancio che ammonterebbe, alla fine del
2010, a 1.240 miliardi. Lo rende noto una ricerca dell’agenzia di rating Moody’s
ripresa oggi dalla stampa britannica e statunitense. Un dato impressionante,
per almeno due motivi: in primo luogo, rileva l’agenzia, la cifra identifica
un aumento dell’11,2 per cento rispetto all’anno precedente; in secondo
luogo, l’ammontare totale detenuto all’estero evidenzia il peso di un enorme capitale sottratto
tanto a un’economia interna non ancora guarita dalla crisi, quanto al fisco.
Ovvero, in quest’ultimo caso, alla voce entrate statali e ai suoi corollari
di “debito” e “spesa sociale”.
La pubblicazione del dato, che giunge proprio in uno dei momenti più
difficili per le finanze statali Usa, rilancia implicitamente il dibattito
sulla fiscalità delle imprese. Un problema tuttora irrisolto. La
liquidità estera comprende infatti i profitti realizzati dalle
sussidiare estere che, va detto, non sono tassati fino a quando non sono
rimpatriati. In questo caso, l’aliquota ammonterebbe al 35 per cento, un livello
sufficientemente alto da sconsigliare alle compagnie un trasferimento della
liquidità alla casa madre o comunque alle filiali statunitensi. Nel
2004, ricorda il Financial
Times, alcuni esponenti politici avanzarono una proposta di
introduzione di una cosiddetta “tax
holiday” che avrebbe consentito alle aziende di ottenere uno
sconto sui capitali rimpatriati. Il piano fu però bocciato di fronte
all’ipotesi che questa sorta di happy
hour fiscale avrebbe favorito l’aumento dei dividendi distribuiti
agli azionisti ma non una crescita degli investimenti domestici e la
conseguente creazione di nuovi posti di lavoro.
Dal 2004 a oggi, ovviamente, la situazione è profondamente cambiata.
Gli Stati Uniti,
come detto, scontano ancora gli effetti della crisi tuttora presente nel
mercato immobiliare.
Un dato su tutti: Bank
of America, a oggi, si troverebbe in possesso di un
così grande numero di case pignorate e abbandonate che avrebbe deciso,
in molti casi, di regalarle
o demolirle piuttosto che continuare a sostenerne i costi di mantenimento.
Un segnale delle persistenti difficoltà che ancora caratterizzano un
settore chiave del sistema economico. Negli Usa ci sarebbero oggi oltre 1,6 milioni di abitazioni
riacquisite dalle banche, il che implica l’esistenza di 1,6 milioni di
famiglie che hanno perso l’alloggio di proprietà nonché la presenza di
un eccesso di offerta che spinge al ribasso i prezzi di mercato e, con essi,
i bilanci bancari degli istituti che hanno in pancia assets svalutati. Se il
rientro dei capitali si traducesse anche solo in parte in un rilancio degli
investimenti, è lecito credere che la disoccupazione potrebbe
diminuire facendo aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori reintegrati
nel mercato e riducendo la voce sussidi nel computo della spesa pubblica.
Ed è proprio sulla spesa pubblica, ovviamente, che si gioca in questi
giorni la battaglia più importante. Democratici e repubblicani non
hanno ancora raggiunto un’intesa per l’aumento del tetto del debito. Il che
significa che allo stato attuale gli Stati Uniti non possono ricorrere al
mercato obbligazionario per rifinanziare il debito stesso. E visto che nuovi
soldi non ce ne sono ecco che in assenza di un accordo il Paese sarebbe
chiamato ad affrontare le conseguenze di un default sui titoli (non ci sono
abbastanza soldi per rimborsarli) e di una clamorosa politica di tagli alla
spesa e al welfare. Ora, verrebbe da chiedersi, cosa cambierebbe se la Apple
decidesse di riportare negli Usa quei 46,7 miliardi di liquidità (su
un totale di 76,2 miliardi) detenuta all’estero? E se la sua concorrente Microsoft
facesse lo stesso con i suoi 42 (su un totale di 50,2)? Quanto ne
beneficerebbero le casse pubbliche?
Qualcuno potrebbe provare anche a fare una stima. Ma sarebbe un esercizio
velleitario. La verità è che allo stato attuale della
legislazione, una corporation ha la possibilità di sottrarre al fisco
profitti miliardari pagando, di fatto, un’aliquota reale ridicola. Gli
esempi non mancano, anche in Europa dove l’elusione fiscale è di
casa da tempo. Si trasferiscono marchi e proprietà intellettuali, si
spostano profitti da una filiale all’altra e si sfruttano le pieghe di leggi
ormai inadeguate. Ed ecco il paradosso: siccome è tutto legale lo
Stato non può farci nulla. A differenza degli evasori, che ogni tanto
sono individuati e sanzionati oppure amnistiati ma per questo costretti a
restituire in buona parte il maltolto (per lo meno nel resto del mondo, non
in Italia dove l’aliquota massima dell’ultimo scudo è stata pari al 7
per cento), gli “elusori” possono continuare a tenere i loro profitti al riparo da ogni tassazione.
Anche e soprattutto di questi tempi in cui, a sostenere il debito pubblico,
dovrà pensarci ancora una volta qualcun altro.
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