Il Fatto quotidiano 15-9-2011
Crisi dei
debiti, la Cina detta le condizioni
Di Matteo Cavallito
Altro che titoli di Stato. La
Cina è pronta a soccorrere l’Europa. Ma l’intervento si
concentrerà sugli assets industriali e
strategici. E, in cambio, come se non bastasse, Pechino chiede il superamento
di buona parte dei dazi doganali
Avviso a tutti i naviganti
nella tempesta del debito: la Cina è pronta a soccorrere l’Europa, ma
solo alle sue condizioni. E’ questa, in sostanza, la realtà che emerge
nelle ultime ore dopo che da Pechino sono arrivate alcune dichiarazioni
insolitamente esplicite per un Paese che delle affermazioni criptiche ha
fatto da sempre la regola d’oro della sua diplomazia. Sì al massiccio
intervento in Europa, dunque. Ma no alla beneficenza sul mercato
obbligazionario. Come a dire: siamo pronti a investire nei vostri assets più promettenti, non certo nei vostri
precari titoli di Stato.
Tra i primi a raccogliere il messaggio, si è segnalato oggi Ambrose Evans-Pritchard,
uno dei più prestigiosi editorialisti britannici. “Il fondo sovrano
cinese China
Investment Corporation – scrive oggi Pritchard sulle colonne del Telegraph –
ha avuto colloqui con l’Italia, ma si è dimostrato più
interessato all’acquisto di asset strategici del
comparto industriale”. Insomma, Giulio Tremonti
ha offerto i nostri Btp ma da Lou Jiwei, il numero uno del Fondo, ha
ricevuto ben altre proposte. E il motivo, a ben vedere, è piuttosto
evidente. “Jiwei – nota Pritchard
– è stato pesantemente attaccato in patria per le perdite patite sugli
investimenti negli Usa dopo la crisi che colpito Lehman
Brothers. E’ difficile quindi che possa decidere di
rischiare la carriera una seconda volta acquistando quote di debito da Spagna
e Italia”.
Secondo il Telegraph, la Cina, ad oggi,
sarebbe esposta al debito europeo per circa 800 miliardi di euro, più
o meno la stessa cifra del credito vantato da Pechino nei confronti degli
Usa. Ma i titoli acquistati sono in massima parte quelli emessi dai Paesi
più solidi come Francia, Germania e Olanda. Le indiscrezioni
sull’Italia parlano di un credito cinese equivalente al 4% del debito di
Roma, meno di un decimo del portafoglio obbligazionario sovrano complessivo
sull’Europa. La Cina, insomma, sembra avere una scarsa propensione al rischio
e i recenti eventi che hanno colpito i mercati, leggasi speculazione, hanno
enfatizzato ulteriormente il rigore di questa posizione. “Ve lo immaginate cosa
sarebbe accaduto se i nostri 3.200 miliardi di dollari di riserve estere
fossero stati controllati da George Soros
(uno dei più grandi speculatori del mondo, passato alla storia per
l’attacco alla sterlina nel ’92 – ndr)? I mercati finanziari sarebbero stati
soggetti a un caos molto maggiore” ha dichiarato Li Daokui,
membro del comitato per le politiche monetarie della banca centrale cinese.
E’ stato lo stesso Daokui a parlare apertamente
della necessità di orientare i futuri investimenti verso gli assets industriali, più sicuri, stabili e meno
soggetti alla speculazione.
E qui veniamo all’Italia e alla sua disperata necessità di accumulare
liquidità per le casse pubbliche. Il piano, a quanto pare, già
c’è. Ma non si concentrerebbe tanto sulle emissioni di titoli. Oggi,
il Sole 24 ore ha rotto gli indugi ribattezzando la strategia con
un nome che non potrebbe essere più evocativo: “Britannia 2”. Il
riferimento corre alla celebre riunione svoltasi sull’omonimo panfilo inglese
presso il porto di Civitavecchia. All’epoca, parliamo del giugno ’92,
l’allora direttore generale del Tesoro Mario Draghi mise sul piatto
degli investitori esteri i gioielli di famiglia dello Stato, dall’Eni
all’Iri. Oggi, si dice, a costituire l’offerta italiana ci sarebbero parti
delle quote pubbliche dei colossi energetici (la stessa Eni e l’Enel), le
utilities locali e, ovviamente, lo sconfinato patrimonio immobiliare. Una
simile privatizzazione di massa, sostiene ancora Il quotidiano della
Confindustria, potrebbe fruttare fino a 500 miliardi di euro (oltre un quarto
del debito pubblico italiano, stimato oggi in più di 1.900 miliardi di
euro).
Il premier cinese Wen Jiabao è pronto a benedire gli
investimenti in Europa. Ma non per questo intende operare senza un ulteriore
tornaconto. “Crediamo che alla Cina dovrebbe essere riconosciuto pienamente
lo status di economia di mercato” ha evidenziato il capo del governo di
Pechino con un chiarezza a dir poco spiazzante. La Cina, insomma, vuole porre
fine alle guerre commerciali con l’Unione europea superando buona parte di
quelle barriere protezionistiche erette dal continente contro i prezzi
predatori delle merci provenienti da Oriente. Le contese hanno intasato gli
organi giudicanti del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, chiamata
più volte a dirimere i contrasti tra Pechino e l’Occidente. Il
riconoscimento del Paese come “economia di mercato”, ovviamente,
costituirebbe una sensazionale vittoria per l’export cinese rendendo
inapplicabili molte misure di protezione doganale in Europa. Un obiettivo che
la Cina sente ora di poter conseguire più facilmente sfruttando un
crescente potere negoziale nei confronti dell’Unione Europea. Scopertasi
oramai in conclamata crisi di astinenza da liquidità estera.
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