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PRIVILEGIA
NE IRROGANTO Documento
inserito il: 15-12-2012 |
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COMMENTO |
Una sola
critica ad una esposizione lucida (basta voler/poter capire): "Nel 1992,
però, - dice Zingales - il passaggio mal gestito portò a un peggioramento,
dunque sento un dovere di dare una mano ad evitare che anche questa volta
succeda così". |
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Da Pensieri Liberali de
IlSole24Ore 15-12-2012 Italia prigioniera
Luigi Zingales da Padova vanta un percorso a
prova di bomba. Laurea in Bocconi e dottorato al Massachusetts Institute of Technology, da vent’anni insegna
all’Università di Chicago. Tra gli ideatori dell’Indice Financial Trust, con
cui si misura il livello di fiducia degli americani nel sistema finanziario,
ha da poco pubblicato “Manifesto capitalista”, un’analisi critica del
capitalismo, della brutta piega che rischia di prendere e di come riportarlo
ad essere invece un alleato della libertà. Insieme a Oscar Giannino, Zingales
è anche co-fondatore del movimento politico Fermare il declino. Professor
Zingales, lei è proprio un fan del capitalismo. Cosa le piace tanto? L’aspetto che io amo del capitalismo è la libertà
fornita dalla concorrenza. E’ la concorrenza che dà al consumatore appunto
libertà di scelta e che genera la pressione verso efficienza e meritocrazia.
E’ l’ingrediente magico che permette al capitalismo di estendere i propri
benefici a tutti e non solo a pochi. Quando nel 1984 un giudice americano
ruppe il monopolio telefonico di AT&T, un minuto di chiamata da New York
a Parigi costava 3,54 dollari, oggi, grazie alla concorrenza, costa solo 9
centesimi. Se oggi le imprese occidentali fanno a gara a investire in India e
Cina, così aumentando lo standard di vita di questi paesi, è grazie alla
concorrenza, probabilmente lo strumento più efficace di riduzione della
povertà nei paesi in via di sviluppo. Il
titolo originale del suo ultimo libro è Capitalism
for the people, che forse meglio della traduzione
italiana rende il succo delle sue tesi. Ci spiega il senso di quel titolo? Troppo spesso il capitalismo è visto come un
sistema a vantaggio dei soli ricchi, percezione che purtroppo non è
infondata, perché quando il capitalismo si fa clientelare e corrotto, diventa
un sistema ad uso e consumo di una ristretta élite. Ma a questo capitalismo,
io contrappongo l’idea di un capitalismo per la gente, che dia opportunità a
tutti, soprattutto a coloro che non hanno la fortuna di nascere ricchi. Un
po’ come era in origine il capitalismo americano. C’è
differenza fra il capitalismo americano e quello italiano? Storicamente quello americano si è avvicinato di
più all’ideale di un capitalismo per il popolo. Tanti i motivi, uno per tutti
è che in America il capitalismo è nato dopo la democrazia e ad essa si e’ dovuto adattare. In Italia, invece, è successo
viceversa: la democrazia si è adattata al sistema capitalista. Ne è nato un
capitalismo clientelare e corrotto, che porta al fallimento. Se in Italia
molte imprese falliscono non e’ solo per colpa
della crisi o dell’elevato costo del lavoro, ma a causa dell’inefficienza
creata da questo capitalismo corrotto. Guardiamo al gruppo Fonsai, portato sull’orlo del fallimento dalla gestione
della famiglia Ligresti. Il male non è solo Ligresti, ma tutti coloro che in
questi anni lo hanno difeso ed aiutato. Ligresti è l’esempio della peggiocrazia italiana. Uno
dei grandi nodi del sistema italiano è proprio l’assenza di meritocrazia, che
tra l’altro blocca il cosiddetto ascensore sociale. Tra i vantaggi della meritocrazia c’è di ridurre
la discrezionalità di chi è al potere e di metterne in discussione la
permanenza nella posizione. Dante scrive: “Credeva Cimabue nella pittura di
tener lo canto, ed ora ha Giotto il grido, si che la
fama di colui è oscura”. Se questo valeva nella pittura medioevale,
a maggior ragione vale nel business del ventunesimo secolo. E’ la
meritocrazia che permette a un povero pastorello di diventare il più grande
pittore del suo tempo, mentre senza c’e’ posto solo
per i figli di papà. Un’indagine di Eurispes ci
dice che l’85% della classe dirigente italiana è formata da uomini. Ma
pensiamo veramente che le donne non siano capaci o non vogliano? Una grande
banca italiana ha effettuato uno studio che dimostra come al suo interno le
donne siano pagate meno pur essendo più produttive. Bene, lo studio è stato
insabbiato. E’ proprio la mancanza di concorrenza, e quindi di meritocrazia,
che permette la discriminazione. Quando negli Stati Uniti il settore bancario
fu deregolamentato, a guadagnarci maggiormente furono le donne, perché di
fronte alla competizione, i dirigenti bancari cominciarono a scegliere non
più gli amici, ma le persone brave. E tra queste c’erano soprattutto donne
tenute in posizione subordinata da un old boy network.
In Italia avremmo bisogno di qualcosa di simile. Se no anche la sacrosanta
battaglia per la parità di genere, diventa occasione solo per mettere la
figlia di Bazoli nel consiglio di amministrazione
dove poco prima sedeva il padre. Un
altro problema molto italiano è quello dell’illegalità diffusa. Si tratta di
un tema solo politico o anche economico? Entrambe le cose. Se sono un politico e voglio
ottenere dei benefici che non mi competono, non nomino un candidato
competente, ma uno a me fedele. Se sono un imprenditore e voglio assicurarmi
che le mie tangenti, le mie evasioni fiscali, i miei intrecci col potere
politico non saranno rivelati, non scelgo il manager migliore, ma quello più
fidato. E non c’è persona più fedele del buono a nulla, di chi non ha
alternative. Se l’Italia non cresce, se è a rischio di default, è perché è
stata fin qui governata dai peggiori. Non i mediocri: i peggiori. Il
clientelismo politico e l’economia sommersa hanno trasformato il nostro Paese
in una peggiocrazia. Non a caso gli stranieri
vogliono investire sempre meno da noi: per loro è troppo rischioso. La
diseguaglianza fuori di qualsiasi ragionevole proporzione fra i redditi dei
comuni mortali e quelli di alcuni top manager è un tratto delle nostre
società che risulta difficile a digerirsi. C’è una soluzione liberale al
riguardo? Si potrebbe cominciare con un po’ di sana
competizione anche al vertice delle imprese. Oggi i top manager americani
sono protetti da una regolamentazione che rende molto difficile agli
azionisti far valere i propri diritti, tra cui anche limitare i compensi ai
manager incapaci. In Italia è ancora peggio perché i vertici delle banche
sono influenzati da fondazioni autoreferenziali, i cui dirigenti sono lì da
vent’anni. Il solito old boy network
che funge da blocco alla mobilità sociale. Nel
Grand Canyon si legge un cartello che in poche
righe offre una lezione di economia particolarmente interessante per
l’Italia. Ce lo racconta? Il cartello dice: «Non dare da mangiare agli
animali selvatici». Il motivo è che gli animali perderebbero la capacità di
andare in cerca del cibo, mettendo così a repentaglio la loro sopravvivenza
nell’ambiente naturale. Sono stati gli uomini a piantare il cartello, perché
se la questione fosse stata demandata agli animali, questi avrebbero certo
preferito non esporlo. Anzi, avrebbero fatto lobby per avere più cibo gratis.
Lo stesso vale per le imprese. Individualmente, ogni imprenditore ha vita più
facile se foraggiato dal governo: ecco perché si spende così tanto in
attività di lobby. Ma nel complesso il sistema di mercato peggiora. Come
sarebbe pericoloso lasciare che fossero gli animali a dettare le regole dei
parchi nazionali, così è imprudente lasciare agli imprenditori dettare le
condizioni del mercato. Questo non significa solo eliminare gli aiuti di
stato alle imprese, come Giavazzi ha sempre predicato, ma anche eliminare le
barriere all’entrata di nuove imprese e tutta la regolamentazione creata solo
per proteggere le imprese esistenti. Ma
le attività di lobby andrebbero vietate? Il lobbying nasce come una sacrosanta difesa del
cittadino contro i soprusi dello stato. Negli Stati Uniti è anche un diritto
protetto dalla costituzione. Come tale quindi non può né deve essere abolito.
Purtroppo, però, da reattivo, come forma cioè per proteggersi dal governo, il
lobbying è diventato proattivo: catturare il legislatore a proprio vantaggio
e svantaggio degli altri. Per questo deve essere regolamentato e soprattutto
si devono ridurre gli incentivi a fare lobbying del secondo tipo. A questo
fine, non c’è modo migliore che ridurre l’influenza dello stato in economia.
Più lo stato redistribuisce ricchezza, più risorse verranno impiegate per
influenzare questa redistribuzione a proprio vantaggio.
Lei
spiega la scelta di lasciare l’Italia dicendo che per una persona con le sue
idee non sarebbe stato possibile rimanere, che non ce l’avrebbe fatta nemmeno
fisicamente. Cosa vuol dire? Da ragazzo non ero un contestatore perché ho
avuto la fortuna di avere dei genitori che si sono sempre meritati l’autorità
che avevano. Purtroppo, però, in un sistema non meritocratico come quello
italiano, questa coincidenza tra potere e merito è più l’eccezione che la
regola. Per mio carattere, io non riesco a subire l’ingiustizia in silenzio.
In Italia mi sarei roso il fegato fino a soffrirne fisicamente. Oggi mi sento
un privilegiato, che può dire in Italia quello che pensa e poi tornarsene al
suo lavoro negli Stati Uniti. Anche per questo mi sembra giusto provare a
dare voce a tutti coloro che in Italia non possono farlo. Difatti
è fortemente impegnato nel progetto politico Fermare il declino. E’ ottimista
circa le chance per l’Italia di invertire la rotta? Per molti anni non ho visto una via di uscita.
Oggi, nel profondo della crisi, vedo invece uno spiraglio. La crisi economica
spinge al cambiamento e la gente disperata reclama il cambiamento. Nel 1992,
però, il passaggio mal gestito portò a un peggioramento, dunque sento un
dovere di dare una mano ad evitare che anche questa volta succeda così.
Sembra velleitario pensare che un manipolo di intellettuali possa creare un
movimento politico senza appoggi finanziari. Eppure in pochi mesi abbiamo
superato i trentamila iscritti, riempito i teatri e perfino Piazza San Fedele
a Milano. Se non fosse per l’abuso fatto della citazione gramsciana, direi
che al pessimismo della ragione anteponiamo l’ottimismo della volontà e della
speranza. Questa classe politica ha fatto di peggio che portarci al limite
del fallimento, ha tolto a molti italiani perfino la speranza di un
miglioramento e Fermare
il declino è nato proprio per restituire questa speranza. Anche
perché l’alternativa non può limitarsi a Grillo. Per cambiare non basta
pensionare i vecchi politici, occorre anche cambiare le regole del gioco, se
no i nuovi politici ci metteranno poco a diventare come quelli precedenti,
forse peggio. |
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