L’Espresso
(29 agosto 2011)
Poteri
forti: i signori del rating
di Leonardo Martinelli
Moody's, Standard&Poor's, Fitch.
Agenzie internazionali che con le loro pagelle possono determinare la fortuna
o la crisi per interi Stati. Ora due ex svelano come si lavora in quegli uffici
dove si decide il destino del mondo.
La sede di
Standard&Poor'sCita
Aristotele. Parla di politica (anche di politici italiani "che, quando
mi occupavo del debito pubblico, non hanno mai osato fare pressione su di me:
come quelli degli altri Paesi, d'altra parte. Non era questo il
problema"). E discute, ovviamente, di finanza. John è un ex
analista di Moody's, la temibile agenzia di rating,
lasciata nel 2008. Sbattendo la porta, dopo anni e anni di onorato servizio.
John non si chiama John. Non vuole e non può rivelare il suo nome. Ma
racconta che "il modo di lavorare in Moody's
è cambiato nel giro di una decina d'anni: progressivamente la
redditività è diventata la molla principale. Se dicevo che
avevo bisogno di restare due giorni in più nel Paese di cui ero
responsabile per il rating sul rischio sovrano, perché avevo bisogno di
approfondire le mie ricerche, mi rispondevano: no, è troppo
caro". Lavorare sempre più rapidamente: "E' anche
così", precisa John, "che Standard & Poor's,
quando lo scorso 5 agosto ha declassato il debito Usa dalla tripla A a AA+, ha sbagliato i conti di
2 mila miliardi di dollari, un errore madornale, subito rinfacciato dal
segretario del Tesoro, Timothy Geithner"
(martedì 23 agosto il presidente di S&P,
Deven Sharma, ha lasciato
guarda caso l'incarico e gli è subentrato Douglas Peterson,
ma l'agenzia ha smentito ogni collegamento con il clamoroso errore citato).
Lavorare sotto pressione, "mentre il potere delle agenzie lievita. E non
è colpa loro, "sono gli enti regolatori a imporre per ogni
operazione il rating e senza quello la Bce o i fondi d'investimento non
muovono un dito".
Moody's quest'anno punta a un margine operativo
compreso fra il 38 e il 40 per cento. Una gallina dalle uova d'oro: potrebbe
aumentare davvero le risorse umane disponibili. "Ma il gruppo è
quotato: bisogna contenere i costi, lo pretendono gli azionisti". John
si ricorda che intorno al 2000 le agenzie di rating "erano ancora piene
di vecchi hippy, intellettuali anticonformisti della finanza. Poi sono
arrivati i giovanotti ambiziosi e superdinamici". Con gli occhi che
scivolavano inesorabilmente verso la Borsa, ai possibili riflessi di un
rating sull'azione dell'azienda privata valutata. O sul bond dello Stato
messo sotto esame. "L'ultimo anno di servizio", conclude John,
"il mio superiore mi ha rifiutato i bonus previsti nello stipendio
perché le indicazioni da me fornite sul rating non erano state avvalorate dal
resto del comitato di valutazione. Insomma, perché non avevo seguito la linea
del partito dominante. Non avevo proposto il rating che si doveva proporre.
Ho capito che era l'ora di andarsene".
Il "rating committee" è il momento
clou per le "tre sorelle", le principali agenzie (Fitch, oltre a Moody's e S&P). L'analista che segue l'azienda, lo Stato o il
prodotto finanziario illustra la sua relazione, inviata nei giorni precedenti
ai colleghi che partecipano al comitato, per decidere alla fine (secondo il
sistema "one man, one
vote") se cambiare o lasciare intatto il rating, indice di
affidabilità. Il numero dei componenti è dispari (fino a una
ventina per il debito sovrano, il più delicato), così da
evitare un'impasse. I senior esprimono la loro opinione alla fine per non
influenzare i junior. Anche se, si dice, negli ultimi tempi l'ordine sarebbe
talvolta invertito. "Non è vero: sono solo esagerazioni",
sottolinea David (che non si chiama David), altro ex, stavolta di Standard
& Poor's. Non è così critico nei
confronti della sua precedente azienda come il collega di Moody's.
"Chi lavora per un'agenzia di rating non lo fa per soldi",
sottolinea, "anche perché guadagna molto, molto meno dei suoi "pari
grado" di Wall Street". Per la precisione
l'equivalente di 105 mila euro lordi all'anno in media, con scarse
progressioni durante la carriera. "E' ripagato, però, dalla
possibilità di incontrare persone ad alti livelli: manager,
addirittura ministri, se si segue il debito pubblico. Si può mettere
su una rete di contatti". Che può servire a riciclarsi: David
lavora adesso (sicuramente strapagato) per una delle maggiori investment bank europee. Che
sia uno dei "giovanotti dinamici"? E' un altro cambiamento
intervenuto nell'ultimo decennio. Prima si restava in genere tutta la vita a
lavorare per un'agenzia, quasi una missione. Ora si trasloca dopo qualche
anno nelle imprese che prima si contribuiva a valutare.
Tra gli hippy della finanza si
possono classificare personaggi mitici del settore, come John Chambers e David Beers,
rispettivamente direttore generale e capo della divisione del rating sovrano
di Standard. Il primo è laureato in letteratura inglese. Il secondo,
invece, ha studiato alla London School of Economics. Ma con quei baffoni
e un look, diciamolo, un po' trasandato, è l'antitesi del rampante di Wall Street. Dei "rating committee"
non è possibile sapere nulla: tutto resta top secret. Ma è
molto probabile che in quello del 5 agosto scorso, per la discussa bocciatura
del debito Usa, il ruolo di Beers sia stato
fondamentale. Quell'atto è stato interpretato come la volontà
della vecchia guardia di S&P di ribadire la
propria indipendenza, osando remare contro una potenza come gli Stati Uniti.
Peccato l'errore da 2 mila miliardi di dollari e peccato che il dipartimento
di Giustizia Usa stia conducendo un'inchiesta sui giudizi (sbagliati)
attribuiti da Standard ad alcuni prodotti legati ai mutui ipotecari americani
prima dello scoppio della crisi dei subprime nel
2007. Con il fallimento di Lehman Brothers, nel 2008, quando né S&P,
né le altre due "big" si accorsero di nulla (o non vollero?) fino
all'ultimo momento, i subprime sono l'altro grande
incidente di percorso più recente delle agenzie. Per Norbert Gaillard, docente
presso Sciences Po a Parigi, autore di "Les agences de notation" per l'editore La Découverte,
l'inchiesta è sacrosanta "ma la tempistica è sospetta: sa
un po' di ritorsione".
Gaillard
è ben cosciente dei problemi irrisolti relativi al mondo delle
agenzie, soprattutto per i conflitti d'interesse ("La situazione
più a rischio è quella di Moody's,
l'unica quotata in Borsa e dove una parte del pagamento degli analisti
è assicurata dalle stock-options").
"Ma oggi il rating è utile più che mai agli
investitori", sottolinea, "e ai nuovi emittenti di debito,
soprattutto corporate". E' l'opinione di tanti: senza le agenzie sarebbe
anche peggio. Bisogna porre più limiti, nuove regole.
Ma, se non ci fossero le
"sorelle", i mercati diventerebbero ancora più volatili. Gaillard non crede alla possibilità di ricorrere a
enti pubblici, tanto più al progetto di agenzia europea caro alla Merkel. "Non rassicurerebbe gli investitori
privati". "L'esperienza delle agenzie pubbliche giapponesi e
sudcoreane", osserva Giovanni Ferri, professore di economia
all'università di Bari, autore con Ponziana Lacitignola di "Le agenzie di rating" (ed. Il
Mulino), "insegna che organismi del genere possono risultare utili per
il rating di aziende medie che vogliono accedere ai mercati. Ma per il debito
sovrano non credo siano la soluzione più giusta. Sarebbero troppo
influenzate dalla politica".
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