L’Espresso
2-10-2012
Questi politici hanno solo fame
di Marco Damilano
«La seconda
Repubblica è fondata su onorevoli e dirigenti arrivati al potere senza
selezione e con una sola idea: far carriera e guadagnare tanti soldi». Parla
il sociologo Giuseppe De Rita
(02 ottobre 2012)
Siamo nella fase della betoniera. E c'è solo da sperare,
con un po' di cinismo, che alla fine succeda anche in Italia quello che
avvenne negli Stati Uniti, con le grandi famiglie politiche che sono nate sul
traffico degli alcolici...». Giuseppe De Rita, 80 anni, fondatore del Censis, commenta le cronache di questi giorni. A vedere
le foto del toga party con gli invitati mascherati da maiali sembra di
sfogliare le tante immagini prodotte dall'interprete della società italiana
nei suoi rapporti degli ultimi venti anni: l'individualismo sfrenato, il
disastro antropologico, l'eclissi della borghesia, la mucillagine, la
poltiglia... «Ci metteremo almeno quindici anni a ricostruire qualcosa dopo
questo dissolvimento».
Già nel 2002 in "Il regno inerme", a proposito di classi
dirigenti, lei parlava di un «paesaggio desolato». Quando è partito il vuoto
morale e politico?
«Sul piano istituzionale noi abbiamo fatto un gravissimo errore quando
abbiamo dato maggiori poteri alle Regioni, fondando non uno Stato delle
autonomie ma un federalismo dall'alto con la verticalizzazione del potere
rappresentata dai governatori. Nessuno di noi all'inizio degli anni Settanta
pensava a una decadenza così forte. Per paura della Lega e della secessione
di Umberto Bossi il sistema romano ha offerto come risposta questo
federalismo puntato sulle Regioni. Si sono scomodate grandi parole per
nobilitare un processo senza controlli».
Risultato?
«Le Regioni sono la zona buia della politica in cui ciascuno fa il comodo
proprio. Con in più il potere incentrato sulla figura del governatore che aggrava
la situazione. Perché il troppo potere nella zona buia significa che o il
governatore non riesce a controllare quanto avviene oppure è connivente. Si
sente il padrone del mondo, ma poi nei fatti si ritrova a trattare con i Daccò in Lombardia o con gli Abruzzese e i Fiorito nel
Lazio. La Polverini si è trovata di fronte a una manica di consiglieri da
accontentare e si è scelta la strada più rapida per assimilarli: si sono
distribuiti i soldi al consiglio regionale. Non è il metodo Scilipoti ma poco ci manca. Non è una vendita, è un
comprare direttamente. Soltanto in pochi sono riusciti a fare sistema nelle
regioni, ma quando il 70 per cento delle risorse se ne va in sanità vuol dire
che le regioni non fanno altro. Resta un assembramento di liste di persone
che fanno dell'essere consigliere una professione. E che per continuare a
farlo hanno bisogno di soldi, molti soldi. Il decisionismo, la
verticalizzazione, la personalizzazione hanno portato alla centralità dei
soldi. Cherchez l'argent:
chi ha i soldi si organizza la carriera in proprio, chi non ce li ha si
aggrappa alla mano pubblica. L'Affarpolitica di cui
parlava anni fa Adolfo Beria di Argentine».
Non è sempre stato cosi? Anche la Prima Repubblica si fondava sui politici
di professione...
«Ricordo che nel '76 il cardinale Ugo Poletti convocò me e Vittorio Bachelet
e ci chiese di candidarci nella Dc per il Campidoglio. Giulio Andreotti
faceva il capolista, io e lui i numeri due e tre, uno di noi avrebbe fatto il
sindaco. Non ci vide particolarmente entuasiasti,
allora ci richiamò all'obbedienza. Io gli risposi: "Cardina', manco per
l'obbedienza". Bachelet invece obbedì, si candidò e arrivò al
diciottesimo posto, superato da oscuri democristiani che difendevano la loro
posizione».
Qual è la differenza tra loro e Batman?
«Oggi questi qui arrivano senza nessuna selezione, in alcuni casi collocati
in un listino senza prendere un voto, gli vengono regalati stipendio e
vitalizio... Non hanno fatto le Frattocchie, non hanno frequentato l'Azione
cattolica, ma chissenefrega, pensano, abbiamo il potere».
Chi sono Fiorito e i suoi fratelli?
«Personaggi che hanno dentro di sé il Dna, lo
stigma del parvenu, nel senso tecnico del termine, vengono dal nulla.
Pietrangelo Buttafuoco ha scritto che erano i marginali del Msi, di An. Si
sono dati una riverniciata, ma nel cuore sono rimasti marginali. E nella
Seconda Repubblica questo è avvenuto almeno in tre casi. La prima ondata
furono i leghisti, all'inizio degli anni Novanta: arrivarono dalle vallate,
conquistarono il governo nazionale e Bossi pensò che si potesse fare tutto,
compreso incoronare il figlio. Lo stesso, in modo più patinato, ha fatto il
berlusconismo, la seconda ondata: le donne soprattutto, in un mondo ordinato
ben che vada sarebbero rimaste funzionarie di Publitalia, poi è arrivata la
rivoluzione berlusconiana e le varie Nicole Minetti,
la più appariscente della categoria. Non avevano il fuoco della politica, la
politica restava delegata al Grande Capo, toccava a lui con le sue imprese
conquistare il potere e regalarlo ai suoi. Infine, sono arrivati i marginali
del post-fascismo: gli affamati amici di Alemanno. Lui è di buona volontà ma
è circondato dai capipopolo. Risultato: vent'anni hanno consegnato a gruppi
di marginali l'illusione di diventare borghesi. Un populismo riverniciato da
neo-borghesia. La nuova arroganza del potere».
Però i
partecipanti dell'Ulisse-party non sono parvenu, sono i figli della classe
dirigente. Medici, avvocati, professionisti, giornalisti, la tanto decantata
società civile, la mitica Roma Nord...
«Sì, ma anche il figlio di papà ha ritenuto che la politica fosse la strada
più comoda e rapida per emergere. No, mi creda, quella è la festa di chi è
arrivato tardi e ora vuole tutto e subito. Ed è per questo che un personaggio
come Fiorito diventa una grande figura: grazie alla politica e ai soldi.
Questi della festa lo vedevano e pensavano: "Ahò,
mica male..."».
Le Regioni sono state una
grande speranza, ora un giurista come Michele Ainis quasi ne invoca
l'abrogazione. Cosa si può fare per rimediare?
«Solo Monti potrebbe fare qualcosa, ma un governo che ha già fatto approvare
decine di decreti a colpi di fiducia non può fare per decreto anche una
riforma costituzionale. Per ricostruire un impianto istituzionale degno di
questo nome serviranno dieci-quindici anni, se va bene».
Per ricostruire la classe
politica serve il tutti a casa?
«Siamo nella betoniera: è il momento di macinare tutto. E sperare, chissà,
che succeda a noi quello che accadde negli Stati Uniti, quando dai commerci
della droga e dell'alcol sono nate le grandi famiglie del capitalismo e della
politica».
Fino a pochi giorni fa i
leader di partito ripetevano: dopo Monti con le elezioni del 2013 tornerà la
politica. Si illudono?
«E' difficile che rinasca la politica come l'abbiamo conosciuta, quella che
arrivava in alto e poi riscendeva. De Gasperi volava a Washington, il cuore
dell'Impero stava lì, poi rientrava a Roma e costruiva consenso. I dirigenti
del Pci andavano a Mosca, ma poi tornavano nella sezione di via dei Giubbonari a fare l'assemblea con i compagni. I politici
erano interpreti di collegamento tra i centri decisionali e la società. Oggi
le decisioni si prendono altrove: le banche, l'Europa, l'asse Merkel-Hollande... Solo il professor Mario Monti e il
dottor Mario Draghi partecipano della sovranità. E non c'è più nessun
rapporto tra i due livelli: Monti va a New York, non può occuparsi della
Calabria. Il potere vola in alto, il resto rimane in basso, nella zona buia.
E tutti gli altri, i cosiddetti leader, non decidono nulla, non hanno una
base di riferimento. Puntano sulla personalizzazione di se stessi, tutto
sull'immagine e nulla sulla sostanza. Vivono delle campagne mediatiche e
degli ingenti finanziamenti che servono per farle».
Vale per tutti i partiti?
Anche per il Pd?
«Ha letto la Carta di intenti? Sono linee a dir poco generiche, ciascuno di
noi l'avrebbe potuto scrivere...».
Lei ha scritto che Monti
non basta: bisogna armare il fronte interno di «emozioni collettive»: una
nuova vitalità di idee e di classi dirigenti. La parola d'ordine della
rottamazione le sembra utile?
«Sì, se è un modo per chiamare una generazione alla battaglia. Renzi lo conosco poco. A Firenze quando ha vinto le
primarie è stato di una bravura straordinaria, ha sconfitto un gruppo di
vecchi stalinisti che non avevano capito nulla. Non si può escludere che
adesso succeda la stessa cosa a livello nazionale. Bersani lo ha capito,
altri, anche i più autorevoli, sembrano ripetere l'errore. Ma il cambiamento
potrà arrivare solo da un leader che si è già affermato. Se Renzi vince le primarie la sua battaglia comincia, non
finisce».
L'antipolitica di Beppe
Grillo è una risposta?
«Grillo è come Craxi. Ripete il circuito innescato da Bettino negli anni
Ottanta: personalizzazione, visibilità su tutti i media, soldi. Perché anche
la Rete non sfugge a questa regola: per contare, per influenzare servono i
soldi».
Il regista Enrico Vanzina
ha scritto che il cinema è arrivato prima della sociologia. Per raccontare
l'Italia di questi anni non servirà De Rita, basterà De Sica?
«Il disastro antropologico l'avevo capito. Ma le feste no, non le avevo
immaginate. Per arrivare alla Repubblica Cafonal
serviva la fantasia di un artista».
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