LA STAMPA 20-7-2008
Guerra agli sprechi
Luca Ricolfi
Tagli
alla sanità. Tagli alla scuola. Tagli all’università. Tagli
alla giustizia. Tagli alle forze dell’ordine. Tagli agli enti locali. La
manovra per il triennio 2009-2011 che il governo sta completando in questi
giorni sembra un bollettino di guerra. E come una guerra, infatti, la vivono
gli interessi colpiti: le università protestano, medici e magistrati
minacciano scioperi, i governatori litigano con il ministro dell’Economia, i
sindaci si arrabbiano, i poliziotti manifestano contro il governo. Per le
opposizioni è una pacchia: finalmente tutti in piazza. Alla
manifestazione delle forze di polizia persino Di Pietro e Veltroni - giusto
freschi di divorzio - si ritrovano di nuovo insieme, o «uniti nella lotta»
come si diceva una volta.
Però c’è qualcosa che non torna. Prima delle elezioni Veltroni
aveva promesso (o minacciato...) di ridurre la spesa pubblica a un ritmo di
15 miliardi l’anno, oggi il governo sta intervenendo a un ritmo un po’
più lento. In poche parole, il governo di centro-destra sta facendo
meno di quel che il Partito democratico aveva intenzione di fare se avesse
vinto le elezioni. Piacerebbe sapere se il Pd ha cambiato idea sui conti pubblici.
O se Veltroni protesta perché - secondo lui - bisognerebbe tagliare ancora di
più (ma allora perché manifesta con chi si oppone ai tagli?).
Si potrebbe obiettare che, in realtà, il Partito democratico non
è contrario ai tagli in sé, ma vorrebbe che andassero a colpire gli
sprechi e solo gli sprechi, lasciando invariati i servizi ai cittadini.
Benissimo, ma allora non capisco perché, anziché indicare con precisione i
settori su cui intervenire e gli strumenti per farlo, si preferisce cavalcare
la protesta delle categorie colpite. Perché l’opposizione non dà
battaglia sulla struttura dei tagli, anziché fomentare la naturale resistenza
delle corporazioni toccate dalla manovra?
Dico questo perché, purtroppo, da questo punto di vista la manovra del
governo di limiti ne ha molti. Andando all’osso, direi che il difetto di
fondo della manovra è che inizia la guerra contro gli sprechi senza
aver predisposto i mezzi per vincerla. Quindi, probabilmente, finirà
per perderla, con vantaggio (immediato) per le opposizioni, e danno
permanente per il futuro dell’Italia.
Per capire che cosa manca all’azione di governo bisogna prima fare un passo
indietro e dire qualcosa sull’entità e la distribuzione degli sprechi.
Una valutazione molto prudente degli sprechi della Pubblica Amministrazione
suggerisce che essi siano pari ad almeno 80 miliardi di euro l’anno, ossia
circa dieci volte i tagli previsti per il 2009 in tutti i
ministeri. Tali sprechi, tuttavia, non sono distribuiti in modo uniforme né
per funzione né - soprattutto - per territorio.
Non solo ci sono territori virtuosi e territori inefficienti, ma la
graduatoria di efficienza cambia da settore a settore. Nella regione in cui
abito (il Piemonte), ad esempio, ci sono pochi sprechi nella scuola,
pochissime pensioni a falsi invalidi, ma grandi
sprechi nella sanità. In altre regioni (ad esempio la Lombardia) gli
sprechi sono al minimo in quasi tutti i settori. In altre ancora (ad esempio
la Calabria) sono enormi un po’ in tutti i settori. Conclusione: le
differenze fondamentali sono di natura territoriale, specie fra Centro-Nord e
Mezzogiorno, ma a seconda degli ambiti la graduatoria degli sprechi
può variare sensibilmente. Per aggredire le inefficienze della
Pubblica Amministrazione occorrono dati di sfondo analitici e condivisi, e
obiettivi di riduzione degli sprechi differenziati almeno per settore e per
territorio. Sulla sanità, ad esempio, è perfettamente
ragionevole che le regioni che hanno meglio amministrato pretendano premi
(più risorse per investimenti) e non abbiano alcuna intenzione di
pagare per i disastri delle regioni in dissesto.
Ma non basta. Anche se il governo avesse la capacità di localizzare
con esattezza i punti di massimo spreco, resterebbe il problema di dare agli
amministratori periferici - siano essi il governatore di una regione, il
direttore di una Asl o il preside di una scuola -
gli strumenti politici, amministrativi e giuridici per rimettere le cose a
posto in un tempo ragionevole. Per fare un esempio: va bene imporre risparmi
alle Università, magari non rimpiazzando tutti i professori che vanno
in pensione, ma è iniquo imporre una regola uniforme su tutto il
territorio, visto che ci sono università (relativamente) virtuose e
università che hanno irresponsabilmente dilapidato le risorse pubbliche.
Queste cose molti ministri le sanno perfettamente, e le hanno spesso
ripetute. Fu Tremonti, in campagna elettorale, a parlare di obiettivi di
risparmio differenziati territorialmente. Ed è stato il medesimo
Tremonti, pochi giorni fa alla Camera, a dire a proposito del futuro assetto
federale: «Non partiamo dalla spesa storica, che contiene le distorsioni
storiche». Così come si potrebbero citare innumerevoli interventi di
Brunetta, Sacconi, Gelmini, Calderoli, che vanno nella medesima direzione. Il
problema, però, è che un conto sono i principi, un conto
è la loro traduzione concreta in leggi, norme, regolamenti, circolari.
È su questo secondo piano che la manovra mi pare insoddisfacente, per
non dire improvvisata.
Senza obiettivi di risparmio disaggregati per territorio e per settore, senza
nuovi strumenti di governo della Pubblica Amministrazione, i tagli - specie
quando intervengono sui consumi intermedi, dalle stampanti per i tribunali
alla benzina per le volanti della polizia -
rischiano di mettere altra sabbia negli ingranaggi di una macchina già
fin troppo arrugginita e logora. Né si dica che, tanto, in autunno è
in arrivo il federalismo: il problema è precisamente il raccordo
(anche tecnico) fra manovra centrale e federalismo, sempre che quest’ultimo
non si areni nelle secche delle discussioni parlamentari. La manovra
c’è ma il suo impianto resta prevalentemente macro-economico, il
federalismo le affiancherà micro-meccanismi
territoriali (si spera) virtuosi, ma non è ancora nato.
Spero di sbagliarmi, ma la mia impressione è che - nonostante
l’introduzione di alcuni incentivi e disincentivi, ad esempio in materia di
sanità e di costi della politica - i tagli restino poco selettivi e i
premi alle amministrazioni virtuose decisamente inadeguati, se non altro
perché spesso non sono premi ma «sconti di pena» (minori tagli). Può
sembrare soltanto una questione di «giustizia territoriale», ma non è
così. Esaurite quasi del tutto le armi della politica monetaria e
della politica fiscale, per far ripartire l’Italia ci resta una sola carta
importante: rendere molto più efficiente la Pubblica Amministrazione,
eliminando gli sprechi e solo gli sprechi. Solo così sarà
possibile ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, solo così
sarà possibile completare lo stato sociale, dagli asili nido agli
ammortizzatori sociali. E poiché gli sprechi variano enormemente da
territorio a territorio, un po’ di «giustizia territoriale» è
precisamente quel che ci serve.
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