La Stampa 31-8-2008
Governativi per forza
LUCA RICOLFI
Faceva
una certa impressione, nei giorni scorsi, leggere le interviste di Colaninno
padre e Colaninno figlio. Entrambi schierati a sinistra, ma impegnati su due
fronti dialettici opposti.
Il primo, in veste di futuro capo della nuova Alitalia, a spiegare al
direttore di Repubblica come si può dare una mano a Berlusconi
restando fedeli ai propri ideali, ai propri valori, alla propria etica.
Il secondo, in veste di neoparlamentare del Partito democratico, a spiegare
alla stampa come si possa condividere l’analisi del proprio partito - secondo
cui l’operazione Alitalia è un danno per il Paese - ma anche approvare
il comportamento del proprio genitore, che di quell’operazione è il
tassello fondamentale.
Siamo talmente abituati ai contorsionismi della politica che si potrebbe
chiudere il discorso qui, e archiviare il tutto sotto la voce: la solita arte
sofistica, i soliti ossimori, la solita incapacità di deporre il veltroniano «ma anche».
Se però proviamo a guardare le cose in una prospettiva appena
più larga, forse dobbiamo registrare anche un fatto nuovo e diverso.
Dopo anni di politicizzazione, di rapporti privilegiati con l’uno o l’altro
schieramento politico, la maggior parte dei grandi imprenditori e banchieri
italiani sembrano aver definitivamente superato la dicotomia destra-sinistra.
La Confindustria di D’Amato aveva un asse privilegiato con Berlusconi, quella
di Montezemolo guardava forse più a Prodi, ma
oggi si ritorna al passato, quando gli industriali erano semplicemente
«filogovernativi per forza». Le appartenenze ideologiche sbiadiscono, il
pragmatismo è la vera stella polare che guida le scelte
imprenditoriali. Come dice efficacemente Colaninno padre, non si può
decidere che cosa fare o non fare stando a vedere ogni volta se il semaforo
della politica è rosso o verde: la politica offre delle
opportunità, e gli uomini d’affari le colgono se le giudicano
profittevoli, indipendentemente dal colore politico dei governi.
Mentre l’opinione pubblica, i giornalisti, gli intellettuali continuano a
stupirsi delle spericolate alleanze che si fanno e si disfano sotto i loro
occhi, gli operatori economici e i gruppi di interesse sono già oltre.
Accade così che la «Fenice» (il piano di salvataggio di Alitalia)
possa piacere a chi dovrebbe osteggiarla e dispiacere a chi dovrebbe
sostenerla: l’imprenditore Colaninno (sinistra) sta dalla parte di Berlusconi
perché sente profumo di profitti, il sindaco di Roma Alemanno (destra) si
mette di traverso perché sa che il ridimensionamento di Fiumicino gli
toglierà consensi.
Insomma, quel che sembra strano se guardiamo la realtà con le lenti
dell’ideologia, diventa comprensibilissimo se ci convinciamo che la classe
dirigente italiana fa semplicemente il proprio gioco, come del resto ha fatto
quasi sempre nella storia d’Italia. C’è stato un breve periodo, grosso
modo dal 2000 al 2007, nel quale il gioco ha comportato anche di scommettere
su una parte politica (sulla destra quando Berlusconi prometteva miracoli,
sulla sinistra quando ci si rese conto che quei miracoli non sarebbero mai
arrivati), ma oggi è chiaro a tutti che né la destra né la sinistra
sono un investimento sicuro. Perciò, meglio navigare a vista, e cercare
di entrare in sintonia con il ceto politico che c’è, a prescindere
dalle idee di cui si ammanta.
Si potrebbe pensare che, dopo tutto, questo sia un
progresso. Modernizzazione significa anche scrollarsi di dosso il peso delle
ideologie. Però temo che, in questo caso, il crescente realismo della
classe dirigente non porti nulla di buono al Paese. Che imprenditori e
banchieri facciano i propri interessi e solo quelli non dovrebbe
scandalizzare nessuno. Che ci vengano a raccontare che lo fanno con i propri
ideali, o per senso di responsabilità, o con animo sollecito verso i
deboli può farci piacere, e certamente procurerà loro ingenti
benefici spirituali, terreni e forse anche ultraterreni. Ma il punto decisivo
non è con che animo si perseguano i propri legittimi interessi. Il
punto decisivo è con quali regole, o meglio con quale sistema di
regole. Ci sono sistemi universalistici, in cui le regole sono relativamente
semplici, generali e automatiche: la politica cambia alcune regole del gioco,
ma non lo fa in continuazione e soprattutto non lo fa nel dettaglio,
intervenendo in modo discrezionale caso per caso. Ci sono sistemi
particolaristici, o corporativi, in cui moltissimo dipende dai legami con il
potere politico, e assai poco dal talento individuale, dall’innovazione, dal duro
lavoro: le regole si fanno e si disfano continuamente, e la
discrezionalità di politici e amministratori è massima, perché
c’è una giungla di concessioni, autorizzazioni, deroghe,
concertazioni, agevolazioni, incentivazioni. Il caso Alitalia, in cui le
regole antitrust sono state sospese per favorire un disegno politico,
è un esempio da manuale di come operano i sistemi di questo secondo
tipo.
Nei sistemi universalistici il mercato funziona bene e dà i suoi
frutti, in termini di benessere e di crescita. Nei sistemi particolaristici
il mercato funziona male, perché soffoca la concorrenza e penalizza gli
operatori che non hanno relazioni politiche privilegiate, come le piccole
imprese, gli artigiani, i lavoratori autonomi in genere. In Italia c’è
stata un’effimera stagione in cui è sembrato che anche la
Confindustria, che rappresenta soprattutto gli interessi dei gruppi maggiori,
puntasse realmente su modificazioni delle regole generali: liberalizzazioni,
flessibilità sul mercato del lavoro, riduzione delle tasse, rinuncia
totale agli incentivi discrezionali in cambio di aliquote societarie
più basse. Era una visione lungimirante, perché avrebbe permesso di
introdurre un po’ più di concorrenza e creare un po’ più di
sviluppo. Ma quella stagione è ormai alle nostre spalle, se mai
è veramente esistita. I grandi gruppi hanno capito che per stare sui
mercati internazionali non si può fare a meno di innovare e competere,
ma hanno anche capito che per stare sul mercato interno la via maestra restano
i cartelli, gli accordi, i patti di sindacato, gli incroci azionari, le
desistenze, e soprattutto gli scambi con il potere politico.
Di chi è la colpa?
Di nessuno in particolare. Gli industriali hanno preso atto che nessun
governo si interessa veramente dell’impresa, e che quindi la riduzione delle
tasse sulle attività produttive è una chimera: piuttosto che
niente, meglio la Fenice di Berlusconi. Noi cittadini, a nostra volta,
abbiamo continuato a dare i nostri voti a due schieramenti che fingono di combattersi
ma hanno un solo vero punto in comune: la diffidenza per la cultura liberale,
con il suo immancabile rovescio, la credenza nel primato della politica.
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