La Repubblica 26-11-2008
Milano,
città svenduta al cemento. Ecco tutti i predoni dell'Expo 2015. Una maxioperazione gestita dai soliti
imprenditori e dagli istituti di credito
di ALBERTO STATERA
Una pioggia di miliardi,
grattacieli come a New York, una montagna di costruzioni
MILANO - L'"aringa rossa", antica astuzia venatoria, sta per
fare della Milano da bere dell'epoca craxian-ligrestiana
la Milano da mangiare della nuova era ligrestian-morattiana,
trasformando l'Expo del 2015, dedicato all'alimentazione, in una colossale
operazione immobiliare. I distinti cacciatori britannici usavano le "red harrings" per
distrarre i cani da caccia degli avversari, gettando in luoghi strategici
della riserva aringhe affumicate. I cacciatori milanesi di cubature immobiliari,
che si definiscono "developers", stanno
spargendo su 8 milioni di metri quadri di aree dismesse dall'industria
manifatturiera che non c'è più, una selva di grattacieli
firmati da architetti di fama mondiale, i cosiddetti "archistar".
Quei grattacieli, secondo l'immagine di Renzo Piano, sono per l'appunto le
"aringhe rosse" che servono a distrarre l'attenzione da quel che
germoglia intorno: quartieri selvaggi, simili a quelli che hanno assediato la
Roma dei palazzinari. O "caricature di città" nella
città, come dice l'architetto Mario Botta.
Dalla Bovisa all'ex Ansaldo, da Porta Vittoria a
Porta Nuova - Garibaldi-Repubblica, dal Portello a Montecity-Santa Giulia, sono venticinque i grandi
progetti, lottizzati tra i gruppi immobiliari con le immutabili regole del
manuale Cencelli - tot a me, tot a te - che stanno
cambiando lo skyline meneghino insieme a quelli del potere e delle ricchezze
immobiliari d'Italia. Quanti sono i grattacieli che svetteranno a far ombra
alla Madonnina? C'è quello nuovo della Regione a Garibaldi, monumento
alla grandezza del governatore Roberto Formigoni, poi un'infinità di grattacielini "alla lombarda", una trentina di
piani o poco più, tipo l'attuale Pirellone, definiti non proprio
grattacieli, secondo la contabilità americana o asiatica, ma
"case-torre".
È nell'area della vecchia Fiera la nuova fiera dell'"aringa
rossa". Si chiama CityLife, un affare da due
miliardi, che prima ancora di partire è costato 523 milioni di euro,
il prezzo pagato alla Fondazione Fiera per i 23 ettari (che
diventano 36 con le aree limitrofe) acquistati dalla cordata immobiliar-assicurativa vincente.
Domenica 11 maggio 2008. È quel giorno che una nuvola di polvere
oscura i palazzi novecenteschi che si affacciano nella zona dell'ex Fiera,
tra viale Boezio, Piazza VI
Febbraio, via Gattamelata, Largo Domodossola,
piazza Giulio Cesare, via Eginardo. Un'imprecisata
carica di esplosivo ha sbriciolato in pochi secondi il Padigione
20, 230 mila metri cubi di calcestruzzo, per far luogo al mitico Central Park meneghino, che certificherà il Nuovo
Rinascimento di Milano. È lì che sorgeranno non uno, ma tre grattacieli. Il più alto, di 209 metri firmato dal
giapponese Arata Isozaki, il secondo di 170 metri dall'irachena
Zaha Hadid e il terzo di 140 metri, quello a
forma di banana che ha ferito il buongusto persino del presidente del
Consiglio Silvio Berlusconi, progettato dall'americano Daniel Libenskind.
"Milano è piena di gente che ha il membro storto - ridacchia
Umberto Eco - ce ne sarà uno in più e prenderà il
Viagra". Intorno 140 mila metri quadri di
edilizia residenziale e 100 mila di uffici, il tutto in cinque mega-blocchi
di altezza variabile tra i cinque e i venti piani, protetti da un sistema di
"torri di guardia del quartiere". E il Central
Park? Spezzettato lì in mezzo, tra i blocchi svettanti verso il cielo.
Per non inorridire, non dovete affacciarvi oggi a una delle porte della ex Fiera, da cui non vedreste che un deprimente
paesaggio lunare, o soffermarvi nel cratere vuoto di Porta Nuova, dove
scaricano travi da 30
metri che dovranno sorreggere un tunnel stradale. Dovreste
invece passeggiare intorno ai plastici esposti in uno show-room che i padroni
di CityLife, cioè Ligresti, i Fratelli Toti della Lamaro, gli stessi
immobiliaristi che spadroneggiano a Roma, insieme a Generali e Allianz hanno voluto a piazza Cordusio,
cuore della Milano bancaria. O, ancora meglio, farvi mostrare il rendering, cioè le simulazioni al computer, come
consigliano Luigi Offeddu e Ferruccio Sansa nel
loro libro "Milano da morire", dove con ironia raccontano visioni
paradisiache di grattacieli scintillanti in un cielo di purissimo azzurro. Come
a Milano si vede non più di dieci giorni l'anno.
Ligresti chi? Sì, proprio quel Salvatore Ligresti della Milano da bere
craxiana. Si dice che a volte ritornano, ma
nonostante le condanne di Tangentopoli, la prigione, l'affidamento ai servizi
sociali, don Salvatore, come lo chiamano, non se ne è mai andato. Oggi
controlla buona parte dei sei principali progetti immobiliari milanesi, che
valgono 7 miliardi di euro: non solo CityLife, ma
anche Porta Nuova-Garibaldi. E non c'è a
Milano chi non corra a baciare la pantofola del finanziere pregiudicato,
originario di Paternò, provincia di Catania.
È cambiato soltanto l'azionista di riferimento politico (ma chi
è azionista di chi?) in quell'intreccio di mediazioni opache tra
mattoni e finanza, tra affari e politica, che l'ex capitale morale non ha mai
dismesso e che ha rilanciato entusiasticamente con il miraggio dell'Expo. Prima
era Craxi, che si narra sia stato accompagnato proprio dall'uomo di
Paternò in visita al conterraneo Enrico Cuccia, allora dominus del
capitalismo italiano. Oggi è quella Milano della politica senza
qualità, sospesa tra postfascismo, berlusconismo, leghismo e integralismo affaristico
ciellino.
Di Craxi resta Massimo Pini che, passato ad An, ricopre ruoli importanti
nella galassia assicurativo-cementizia di Ligresti.
Ma la costante è la famiglia La Russa di Paternò, il cui
capostipite Antonino, antica autorità missina di Milano, seguì
amorevolmente quasi cinquant'anni fa i primi passi del compaesano che fu
scelto per sostituire a Milano gli ormai
inaffidabili fiduciari Michelangelo Virgillito e
Raffaele Ursini.
Ignazio La Russa presidia il ligrestismo al
governo, il fratello Vincenzo e il figlio Geronimo siedono nel Consiglio
della ligrestiana Premafin.
Berlusconi, che quando faceva il palazzinaro non amava il concorrente nel
cemento e nel cuore di Craxi, ora rischia d'imparentarsi con lui, dal momento
che uno dei figli giovani è fidanzato con una nipotina Ligresti.
Le solite facce, i soliti nomi. A Milanofiori e ad Assago c'è Matteo Cabassi,
quinto figlio di Giuseppe, "el sabiunatt" degli anni Settanta. È titolare di
una parte dei terreni a destinazione agricola su cui sorgeranno le opere
dell'Expo. Cedendoli al Comune si troverà 150 mila metri quadrati
edificabili. A Porta Vittoria si sono fermati i lavori dopo l'arresto di
Danilo Coppola. A Santa Giulia, sud-est di Milano, area Montedison, e a Sesto
San Giovanni nell'area Falck, sta affondando un altro furbetto. È
Luigi Zunino, esposto con le banche, soprattutto
Intesa-San Paolo, per 2 miliardi.
Con questi chiari di luna, riuscirà l'immobiliarista piemontese a
fronteggiare il debito vendendo i palazzoni residenziali di Rogoredo che fanno da sfondo alla nuova sede argentea di Sky-Tv? Forse quelli di edilizia convenzionata a 2-3 mila
euro al metro quadrato. Ma quelli di lusso progettati da Norman Foster, a
7-10 mila? Chissà se arriveranno fondi del
Dubai a riprenderlo per i capelli.
Ligresti, Cabassi, i
furbetti, Pirelli RE, i texani di Hines, Luigi
Colombo, Manfredi Catella. Vecchio e nuovo - dice
l'urbanista Matteo Bolocan Goldstein
- "convivono nella modernizzazione equivoca di Milano, in una dimensione
opaca, con una poliarchia solipsistica che non fa sistema". Chi
più chi meno, tutti lavorano con la cosidetta
"leva finanziaria", che in pratica vuol dire i soldi delle banche. Sui
7 miliardi finora investiti sulla carta, sei, circa l'85 per cento sono di
Intesa-San Paolo, Unicredit, Popolare di Milano, Monte dei Paschi,
Antonveneta e Mediobanca, mentre la Banca d'Italia giudica corretta una quota
del debito non superiore al 70 per cento rispetto al totale e un'equity del 30 per cento, cioè di investimento di
tasca propria.
Sarà rispettato adesso, in piena crisi finanziaria globale, il
"lodo Draghi" e, se sì, cosa capiterà dei mille e
mille progetti cementizi già avviati o che stanno
per partire? Chissà se la salvezza, o il disastro, verrà
dal progetto dell'assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli, definito dal suo ex collega Vittorio Sgarbi
"coerente e leale vandalo integralista", che vuole una Milano con
700 mila abitanti in più, portandola da un milione e 300 mila a 2
milioni tondi.
Come? Con più volumetrie ai palazzinari privati, aumentando gli indici
di edificabilità di un terzo, da 0,65 a 1, o - precisa -
"anche di più", con vincoli e regole ridotti al minimo. Una
Milano da 2 milioni? "Una favola campata in aria", per Gae Aulenti. Vi immaginate le centinaia di migliaia di
persone che dal 1974 hanno lasciato le cerchie cittadine per rifugiarsi
nell'hinterland, che tornano come in un controesodo biblico perché Masseroli fa l'housing sociale
a 2 o 3 mila euro al metro? In Consiglio comunale si battaglia sul progetto Masseroli tra carrettate di emendamenti.
Se mai, bisognerebbe occuparsi del destino delle decine di migliaia di metri
cubi di uffici sfitti e dei nuovi che stanno per arrivare sul mercato invece
che del cemento fresco, avverte l'architetto Stefano Boeri. E non dimenticare
che Milano è una "città costretta", come la definisce
Bolocan, che, con Renzo Piano, retrodata agli anni
Sessanta e Settanta l'era milanese più fervida di sviluppo. "Due
milioni di abitanti?" si chiede perplesso anche Carlo Tognoli, che dal 1976 fu sindaco per un decennio:
"Nel dopoguerra ci fu il piacere della crescita, poi ci si accorse che
la crescita non poteva essere esagerata".
La Milano metropoli da due milioni, piccola Londra o New York ma senz'anima,
sembra replicare l'apologo della ricottina, quello
della pastorella che camminando verso il mercato aumenta via via il valore teorico della forma da vendere che trasporta
in bilico sulla testa. Finché la ricottina cade e
si spiaccica per terra. Ciò che rischia di accadere per l'Expo. "Sarà
sicuramente un fallimento", sentenzia Sgarbi, accusando "Suor
Letizia", che lo ha licenziato da assessore mettendo al suo posto a
gestire la cultura un culturista, nel senso di body builder, di essere un
sindaco inadeguato, che annaspa tra le contraddizioni.
Per di più assistita da Paolo Glisenti, che
egli giudica "l'elaborazione intellettuale del nulla" e che il
titolare del salvadanaio Giulio Tremonti, che lo ha in uggia, farà di
tutto per non favorire: "Dimenticatevi che lascerò tutto in mano
alla Moratti", ha avvertito il ministro. Durante la campagna-acquisti di
voti per l'Expo dei paesi minori, costata dieci milioni, sono stati regalati
scuolabus nei Caraibi, borse di studio nello Yemen,
in Belize e altrove, il progetto di una metrotranvia
in Costa d'Avorio, una centrale del latte in Nigeria, bus dismessi a Cuba e
quant'altro.
Ma adesso viene il difficile. Tolti i 4,1 miliardi necessari per realizzare
il sito fieristico, mancano quasi tre miliardi per le opere infrastrutturali
essenziali (metropolitane, ferrovie, stazioni, raccordi, strade) e 6 miliardi
per le infrastrutture "minori". Il sogno della Milano da mangiare,
che rischia di infrangersi come la ricottina della
pastorella, oltre a 65 mila nuovi posti di lavoro dal 2010 al 2015, vagheggia
29 milioni di visitatori, 160 mila al giorno per sei mesi, che porteranno un
indotto di 44 miliardi di euro. Ma perché quasi trenta milioni di persone
dovrebbero venire a Milano nell'estate 2015? Per vedere il
grattacielo-banana? Per una mostra sull'alimentazione? Saragozza è
stata un flop.
Pazienza. A Milano, comunque vada, nel terzo lustro del nuovo secolo potremo
lasciare l'auto nel parcheggio di cinque piani scavato sotto la Basilica di
Sant'Ambrogio, nel parco medievale più importante della civiltà
lombarda. Un insulto cui la borghesia intellettuale di Milano non vuole
rassegnarsi. E tra le aringhe rosse avremo la città dei developers, "una città che si prostituisce al
miglior offerente". Parola dell'architetto inglese David Chipperfield.
(26 novembre 2008)
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