La Repubblica
25-10-2007
C'era una
volta il pool antimafia.
Palermo, i giudici cannibali
di
ATTILIO BOLZONI
Dai processi politici all'eredità di Falcone.
Dalla gestione dei pentiti alla cattura di Provenzano
E ora lo scontro sul caso Cuffaro. Dopo 25 anni, dell'idea di Chinnici e
Caponnetto restano solo macerie
PALERMO
- Si sono divisi sui processi politici e scontrati su come fare le indagini.
Si sono contesi l'eredità di Falcone. Inchiesta dopo inchiesta, si
sono combattuti su tutto. Su Andreotti. Sui pentiti. Sulla caccia a
Provenzano. Sulle "talpe" infilate nelle loro stanze. Prima hanno
scatenato violentissime guerre in nome dell'antimafia e poi la loro antimafia
l'hanno divorata. Quasi venticinque anni dopo è finita per sempre la
storia del pool di Palermo. L'hanno sepolto antichi rancori, l'hanno sbranato
tribù giudiziarie in perenne sfida. E ormai, di quell'idea e di quella
struttura investigativa nata in un piccolo bunker del Palazzo di Giustizia
mentre i mafiosi spadroneggiavano per la città, sono rimaste solo
macerie. Resti di pool sui quali camminano giudici che si azzannano, che si
fanno a pezzi fra loro. Sono giudici cannibali quelli di Palermo.
Rappresentato dagli stessi abitanti del Palazzo di Giustizia come uno dei
tanti conflitti originati da due "scuole di pensiero", il caso
Palermo in realtà questa volta è il segno di un'avventura al
suo epilogo: la conclusione di una stagione italiana nella lotta a Cosa
Nostra.
Quelle di Palermo non sono soltanto dispute - come era accaduto anche
più volte in passato - di natura tecnico giuridica o divergenze sul
vaglio delle contiguità fra mafia e politica. È tutto
più evidente e doloroso: è lo spegnimento, l'estinzione di
un'esperienza che ha marcato un quarto di secolo.
È implosa la procura della Repubblica di Palermo. Dietro le
polemiche, le risse, le comunicazioni a mezzo stampa per precisare
pubblicamente "la linea dell'ufficio", c'è una devastazione
mai conosciuta prima. Neanche ai tempi dei veleni e dei magistrati eccellenti
sospettati di collusione. Gli effetti di questo disastro sono già
visibili. Investigazioni rallentate. Processi pasticciati. Deleghe d'indagine
sospese. Sostituti che nascondono carte ad altri sostituti, che non si salutano
più, che dichiarano apertamente "il proprio odio" nei
confronti di altri magistrati. Colleghi della porta accanto, blindati come
loro, prigionieri delle stesse scorte e delle stesse paure.
Un pool pieno di nemici. Una parte accusa l'altra di
"massimalismo" nelle investigazioni di mafia, il riferimento
è alla gestione Caselli, ai suoi processi politici - quasi tutti persi
- e allo schema operativo che si sta riproponendo ora con il nuovo
procuratore capo Francesco Messineo. Sarà un caso, ma nei corridoi
della procura di Palermo è ricominciato a circolare il nome di Silvio
Berlusconi. L'altra parte accusa i fedelissimi di Pietro Grasso di avere
creato un "centro di potere" nella direzione distrettuale, con
indagini affidate a pochi. Di avere impedito la "circolarità"
delle informazioni, mantenuto un "basso profilo" investigativo,
concentrato energie quasi soltanto sul versante militare di Cosa Nostra.
Trascurando la mafia economica e politica.
L'ultimo atto di questa lotta è la vicenda Cuffaro. Su come portare alla
sbarra il governatore della Sicilia per le sue frequentazioni mafiose, sui
reati da contestargli. Il caso è emblematico. Ma quali discordie e
quali diverse "scuole di pensiero", i fatti che si sono susseguiti
intorno all'inchiesta sull'imputato Totò Cuffaro rasentano la
perversione giuridica. Oggi, a Palermo, contro il governatore ci sono due
procedimenti fotocopia. Tutti e due con le stesse fonti di prova. Uno aperto
il 26 giugno 2003, l'altro
il 21 maggio del 2007. Il primo è approdato in dibattimento e - in
sede di requisitoria - per lui sono stati chiesti 8 anni di reclusione per
rivelazione di segreti e favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. Il
secondo ha prodotto l'iscrizione di Cuffaro nel registro degli indagati per
gli articoli 110 e 416 bis del codice penale, concorso in associazione
mafiosa. Una procura lo sta già processando per un reato, un'altra
procura lo vorrebbe processare per un altro reato. L'inchiesta però
è sempre quella, non sono emersi altri indizi, non ci sono altre
acquisizioni (un paio di deleghe e nulla più), non c'è un altro
collaboratore di giustizia o un'altra intercettazione ad arricchire il quadro
probatorio.
L'affaire Cuffaro è stato in sostanza soltanto il pretesto per
l'ennesimo duello, il più rabbioso. Il governatore della Sicilia di
fatto passerà alle cronache come l'imputato che ha dato il colpo
finale alla credibilità dei procuratori di Palermo. Se ci sarà
una data per ricordare la fine ufficiale del pool antimafia quella è
proprio oggi: l'ottobre del 2007.
Più che una resa dei conti sta andando in scena una resa collettiva.
Fra quel gruppo che faceva riferimento al procuratore Gian Carlo Caselli
(i suoi fedelissimi: Antonio Ingroia, Roberto Scarpinato, Nico Gozzo, Gaetano
Paci) e quegli altri che sono vicini al suo successore Pietro Grasso
(Giuseppe Pignatone, Maurizio De Lucia, Michele Prestipino). Gli uni e gli
altri sono consapevoli che, d'ora in avanti, alla procura della Repubblica
di Palermo niente sarà più come prima. "Non c'è
speranza", dicono tutti.
La ferita è profonda. Condiziona le strategie generali e
l'attività quotidiana. Per esempio tutti aspettano con terrore il
prossimo 12 dicembre la requisitoria al processo contro l'ex maresciallo dei
carabinieri Antonio Borzacchelli, poi diventato deputato della Regione e
arrestato per corruzione. L'atto di accusa è affidato a due sostituti
che non si rivolgono più la parola. Ma è quell'ordinaria
amministrazione che "ordinaria" non è mai stata a Palermo,
che è influenzata e limitata dalle spaccature. Quando c'è un
omicidio al confine fra una borgata e l'altra, il funzionario di polizia o
l'ufficiale dei carabinieri che fa il sopralluogo entra in agitazione per
capire chi è il referente in procura, l'aggiunto delegato a coordinare
le attività investigative sui "mandamenti" mafiosi. Ce ne
sono 7 di "aggiunti", tutti hanno il loro territorio, tutti
vogliono in esclusiva la notizia criminis.
E subito, prima degli altri. "La stessa informazione sono costretto a
girarla in una mattinata anche a cinque magistrati diversi", confessa un
ufficiale di polizia giudiziaria che è da molti anni in Sicilia.
La distribuzione di incarichi con la
guida del procuratore Messineo si è rivelato uno
"spezzatino antimafia" per accontentare tutti. Ne è derivato
un disordine organizzativo e investigativo. Con un'aggravante: hanno isolato,
messi da parte con la scusa della loro imminente uscita dalla direzione
distrettuale per "scadenza", quei sostituti legati a Pietro Grasso
come Prestipino e De Lucia che erano i titolari di quasi tutte le inchieste
più importanti. Due magistrati con una capacità investigativa -
di qualità e, particolare non trascurabile, di quantità -
decisamente fuori dal comune.
La vera svolta, dichiarata e sbandierata, rispetto alla procura di Grasso
è quella di "alzare il tiro". Un annuncio per rinnegare
l'azione palermitana dell'attuale Superprocuratore nazionale, liquidata da
alcuni addirittura come la fase più "oscura" della lotta
alla mafia. Dall'altra sponda già tremano per la riproposta di vecchi
"teoremi". E poi c'è un passato siciliano troppo pesante per
poterlo dimenticare. I risentimenti covano sempre. Nel mirino dei sostituti
che hanno riconquistato la procura con Messineo c'è - primo fra tutti
- Giuseppe Pignatone, al quale si rinfaccia la sua ostilità Giovanni
Falcone. È il magistrato che ha coordinato l'indagine sulla cattura di
Provenzano e contemporaneamente l'indagine su Cuffaro. In tanti però
lo ricordano sempre per quel suo peccato originale, lo considerano un
"prudente". Sull'altro fronte si scandalizzano per inchieste ferme
da più di un anno, per arresti che risalgono ancora ai
"pizzini" di Provenzano o agli sviluppi di una retata del giugno
del 2006. Un'apatia investigativa che avrebbe concesso già fin troppo
tempo alle "famiglie" per riorganizzarsi.
Nell'antimafia di Palermo è muro contro muro. Un paio di giorni fa
Messineo ha steso la bozza di un documento per provare a
"pacificare" l'ufficio, l'ha fatta girare per sentire gli umori dei
suoi sostituti. Quella bozza, qualcuno, l'ha già definita
"indecente". Come era prevedibile, un altro tentativo di
riconciliazione è finito ancora prima di diventare in qualche modo
ufficiale.
È in questa tormentata procura che fra il gennaio e il giugno del 2008
se ne andranno per legge tutti e 7 gli "aggiunti". Si fanno
già i nomi dei nuovi. Uno è quello di Girolamo Alberto Di Pisa,
il magistrato accusato di essere il Corvo di Palermo. Fu assolto,
naturalmente. Tornerà lui e torneranno altri in procura. Come negli
anni prima del pool.
(25 ottobre 2007)
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