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Il perdono e l'ironia hanno reso migliore l'Occidente e ora possono salvarlo
20 Febbraio 2009 (da loccidentale.it)
© City Journal
Traduzione Fabrizia B. Maggi - Roberto Santoro
Ovunque abbia preso piede la visione occidentale dell’ordine
politico, troviamo libertà di espressione: non si tratta solo della libertà di
dissentire pubblicamente con altre persone su questioni legate alla fede o alla
morale, ma anche della libertà di fare satira su ciò che è solenne e di
ridicolizzare ciò che non ha senso, incluso la solennità e i controsensi legati
alla sfera del sacro. Questa libertà di coscienza ha bisogno di un governo
secolare. Ma che cosa rende legittimo un governo secolare?
Questa domanda è il punto di partenza della filosofia politica
occidentale. La corrispondenza tra i pensatori moderni è che la sovranità e la
legge sono legittimate dal consenso di quelli che devono obbedirgli. Questi
ultimi dimostrano il loro consenso in due modi: attraverso un “contratto
sociale” reale o implicito, in base al quale ogni singolo individuo si accorda
con gli altri sui principi del governo; e attraverso un processo politico in
cui ognuno partecipa alla creazione e all’approvazione della legge. Il diritto
e il dovere alla partecipazione è ciò che noi intendiamo – o dovremmo intendere
– con la parola “cittadinanza”, e la distinzione tra comunità politiche e
comunità religiose che può essere sintetizzata così: le comunità politiche sono
composte da cittadini mentre quelle religiose sono formate da soggetti che
hanno deciso di "sottomettersi" a un credo. Se vogliamo una
definizione semplice dell’Occidente com’è oggi, il concetto di cittadinanza è
un buon punto di partenza. Ecco quello che cercano i milioni di migranti che si
spostano in giro per il mondo: un ordine che conferisca sicurezza e libertà in
cambio di consenso.
Questo è quello che vuole la gente, anche se non basta a renderla
felice. Qualcosa si perde in una vita basata puramente sul consenso e in un
rispettoso adeguarsi ai propri vicini, un qualcosa che i musulmani conservano
in una potente immagine grazie alle parole del Corano. Ciò che è andato perso
può essere chiamato in diversi modi: senso, significato, scopo, fede,
fratellanza, sottomissione. La gente ha bisogno della libertà ma ha anche
bisogno di un obiettivo grazie al quale si può rinunciare ad essa. Questa è
l’idea contenuta nella parola "Islam": la sottomissione volontaria,
dalla quale non c’è via di uscita.
Non c’è bisogno di dire che le connotazioni della parola
"sottomissione" sono diverse per quelli che parlano arabo e quelli
che parlano turco, malese o bengalese. I turchi, che vivono sotto una legge
secolare legata ai sistemi legali dell’Europa post-napoleonica, sono disposti
raramente a pensare che, come musulmani, dovrebbero trascorrere l’esistenza in
uno stato di sottomissione permanente a una legge divina che governa l’intera
vita sociale e politica. Quel 20 per cento dei musulmani che sono arabi,
tuttavia, sente i ritmi ipnotici del Corano come una fortissima corrente
compulsiva e ha la tendenza a prendere l’"Islam" alla lettera. Per loro,
questo particolare atto di sottomissione può significare non solo la rinuncia
alla libertà ma anche all’idea stessa di cittadinanza.
Tutto questo può comportare la rinuncia a un confronto aperto, da cui
dipende l’ordine secolare, per dirigersi verso "l’ombra del Corano",
come l’ha definita Sayyid Qutb in uno sconvolgente
libro che da allora ha ispirato la Fratellanza Musulmana. La cittadinanza non è
precisamente una forma di fratellanza, almeno non di quel tipo che deriva da un
atto condiviso di sincera sottomissione: si tratta invece di un rapporto tra
sconosciuti, di un isolamento collettivo, in cui soddisfazione e significato
sono confinati alla sfera privata. Il grande successo della civiltà occidentale
è quello di aver creato questa forma di ‘solitudine rinnovabile’ e, nel
descriverla, sorge la domanda se vale la pena difenderla e, se è così, in che
modo farlo.
La mia risposta è sì, vale la pena difenderla, ma solo se
riconosciamo la verità che rende nitido l’attuale conflitto con l’islamismo: il
sentimento della cittadinanza non è abbastanza, e sopravviverà
soltanto se sarà associato a significati a cui la nuova generazione può unire
le sue speranze e la sua ricerca di identità. Non c’è nessun dubbio che
l’ordine secolare e la ricerca di significato hanno
coesistito abbastanza felicemente quando la Cristianità forniva a
entrambi il suo supporto benigno. Specialmente in Europa, però, la Cristianità
si è ritirata dalla vita pubblica e ora viene rimossa anche dalla vita privata.
Per le persone della mia generazione, per un po’, l’idea di poter
ritrovare un significato attraverso la propria cultura è sembrata possibile. Le
tradizioni artistiche, musicali, letterarie e filosofiche della nostra civiltà
portano così tante 'tracce significanti' di un mondo in trasformazione che
avevamo pensato che sarebbe stato sufficiente tramandarle. Ogni nuova
generazione poteva quindi ereditare con i mezzi che aveva a disposizione le
risorse spirituali di cui aveva bisogno. Ma abbiamo fatto i conti senza tener
presente due fatti di grande importanza: innanzitutto il secondo principio
della termodinamica ci dice che ogni ordine decade senza un'iniezione di
energia; e a seguire l’avvento di quello che ho chiamato "la cultura del
ripudio": quelli che sono designati a 'iniettare l’energia'
si sono sempre più stancati del loro compito e alla fine hanno abbandonato il
bagaglio culturale sotto il cui peso vacillavano.
Questa cultura del ripudio è passata nei media e nelle scuole, ha
attraversato il terreno spirituale della civiltà occidentale, lasciandosi
dietro un senso di vuoto e di sconfitta, la sensazione che non rimane più
niente in cui credere o da appoggiare, se non esclusivamente la libertà di
credere. E credere nella libertà di credere non è né una convinzione né una
libertà. Questa condizione incoraggia l’esitazione al posto della convinzione e
l’incertezza al posto della capacità di scegliere. Così non deve sorprenderci
se tanti musulmani che vivono nelle nostre città oggi considerano la civiltà
che li circonda come destinata al fallimento, anche se si tratta di una civiltà
che gli ha permesso di fare qualcosa che non avrebbero mai trovato laddove
trionfa la loro religione: ossia la libera, tollerante e secolare rule of law. Siccome sono cresciuti in un mondo di certezze ora
si ritrovano circondati soltanto da dubbi.
Se tutto ciò che può offrire la civiltà occidentale è il ripudio del
suo passato e della sua identità, essa non potrà sopravvivere: lascerà spazio a
una qualsiasi civiltà futura che sia in grado di dare ai
giovani speranza e consolazione, e soddisfare la loro necessità di
trovare un’appartenenza sociale, una necessità che è così radicata nella
profondità dell’animo umano. Così come l’ho descritto, il sentimento della
cittadinanza non soddisfa questa necessità: questa è la ragione per cui così
tanti musulmani lo rifiutano, mentre vanno in cerca di quella
"fratellanza" consolatrice (ikhwan)
che è stata così spesso l’obiettivo dei revival islamici. Ma la cittadinanza è
un risultato a cui non possiamo rinunciare se vogliamo che il mondo moderno
sopravviva: abbiamo costruito la nostra prosperità, la nostra pace e stabilità
su di essa e – anche se non ci fornisce la felicità – essa ci definisce. Non
possiamo rinunciarvi senza smettere di essere noi stessi.
Ciò che è necessario non è tanto rifiutare la cittadinanza come
fondamento dell’ordine sociale ma darle un cuore. E nella ricerca di questo
cuore, dovremmo allontanarci dal multiculturalismo sempre pronto a chiedere
scusa e che ha avuto un effetto tanto distruttivo nell’autostima occidentale,
per tornare ai doni che abbiamo ricevuto dalla tradizione giudeo-cristiana.
Il primo di questi doni è il perdono. Vivendo nello spirito del
perdono, non solo confermiamo il valore fondante della cittadinanza ma cerchiamo
anche la nostra strada verso quella appartenenza sociale di cui abbiamo
bisogno. La felicità non viene dalla ricerca del piacere, e non è neppure
garantita dalla libertà. La felicità viene dal sacrificio, che è il grande
messaggio trasmesso da tutte le opere memorabili della nostra cultura. Questo
messaggio è andato smarrito nel fragore del ripudio, ma saremo capaci di
sentirlo nuovamente se concentreremo le nostre energie per ritrovarlo. E il
perdono è primo atto sacrificale nella tradizione giudeo-cristiana. Chi perdona
mette da parte il risentimento e rinuncia a qualcosa che gli è stato a cuore. A
ogni passo, il Corano invoca la grazia, la compassione e la giustizia di Dio.
Ma il Dio del Corano non è un Dio indulgente. Nella sua manifestazione coranica,
Dio perdona con moderazione e con ovvia riluttanza. E’ poco divertito dalla
follia e dalla debolezza umane e, a ben vedere, non si diverte per niente. Il
Corano, a differenza della Bibbia ebraica o del Nuovo Testamento, è una
"zona franca" dello scherzo.
Questo ci porta a un’altro dono della nostra
civiltà: l’ironia. C’era già una potenziale vena ironica nella Bibbia ebraica,
che poi venne amplificata dal Talmud. Ma un nuovo tipo di ironia domina i
giudizi e le parabole di Cristo, che guardano allo spettacolo della follia
umana e ci dimostrano ironicamente come accettarla. Un esempio significativo è
il giudizio di Cristo nel caso della donna adultera: "Chi è senza peccato,
scagli la prima pietra". In altre parole: “Non fatemi ridere; non avete
mai voluto fare ciò che ha fatto lei, o forse l’avete già commesso nel vostro
cuore?”. Alcuni suggeriscono che questa storia è un’inserzione successiva – una
delle tante che i primi cristiani selezionarono dalle riserve di saggezza
attribuite al Redentore dopo la sua morte. Anche se fosse vero, questa ipotesi
si limita a confermare l'idea che la religione cristiana ha fatto dell’ironia
un punto centrale del suo messaggio. E’ stato Søren Kierkegaard, un inquieto
cristiano dell’epoca post-illuministica, a vedere nell’ironia la virtù che
univa Socrate a Cristo.
L’ultimo Richard Rorty considerava l’ironia
come uno stato psicologico intimamente connesso alla visione postmoderna del
mondo – un venir meno del giudizio che nondimeno porta a un tipo di consenso, a
un accordo comune sul non giudicare. Ma il temperamento ironico è più
conosciuto come una virtù, una disposizione dell’animo tesa alla soddisfazione
pratica e al successo morale. Se dovessi azzardare una definizione di questa
virtù, la descriverei come l’abitudine di riconoscere l’alterità di qualsiasi
cosa, persino di se stessi. Anche se sei convinto che le tue azioni sono giuste e le tue opinioni veritiere, guardale come le
azioni e le opinioni di qualcun’altro e quindi riformulale di conseguenza.
Definita in questo modo, l’ironia è abbastanza diversa dal sarcasmo: è un modo
di accettare più che di rifiutare le cose. Mostra tutte e due i lati della
medaglia: attraverso l’ironia, imparo ad accettare l’altra persona su cui
rivolgo il mio sguardo, e imparo ad accettare me stesso, cioè chi mi sta
guardando. Con tutto il rispetto di Rorty, l’ironia
non è libera dal giudizio: semplicemente riconosce che chi giudica sarà
giudicato e giudicherà se stesso.
Potrei affermare che l’eredità democratica dell’Occidente deriva
dall’abitudine al perdono. Perdonare l’altro significa che, nel tuo cuore, gli
dai la libertà di essere. Quindi significa anche riconoscere l’individuo come
sovrano della sua vita e libero di comportarsi in modo giusto o sbagliato. Di
conseguenza, una società che lascia uno spazio permanente al perdono tende
automaticamente verso una direzione democratica, giacché si tratta di una
società in cui la voce dell’altro viene tenuta in considerazione in tutte le
decisioni che lo riguardano. L’ironia – il riconoscimento e l’accettazione della alterità – incrementa questa tendenza democratica e
aiuta a ostacolare anche quella mediocrità e quel conformismo che sono gli
svantaggi di una cultura democratica.
Il perdono e l’ironia sono alla base della nostra civiltà. Sono ciò di
cui dobbiamo essere più orgogliosi e il mezzo principale per disarmare i nostri
nemici. Stanno alla base del nostro concetto di cittadinanza fondato sul
consenso. E sono anche espressione della nostra concezione del diritto come un
mezzo di risolvere i conflitti scoprendo qual è la soluzione più giusta per
essi. Spesso non ci si rende conto che la nostra concezione dei
diritto ha poco a che fare con la sharia musulmana, che invece è
considerata un sistema di ordini emanati da Dio e che appare incapace – né ha
la necessità – di ulteriori giustificazioni.
Anche per i cristiani e gli ebrei, i comandamenti di Dio sono
importanti; ma non sono considerati sufficienti per il buon governo delle
società umane. Devono essere integrati da un’altro
tipo di legge che risponde alle forme mutevoli del conflitto umano. La
dimostrazione di questo discorso è la parabola del "tributo della
moneta" ("Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di
Dio"), così come la dottrina papale delle due spade, delle due forme di
diritto, umano e divino, da cui dipende il buon governo. Il diritto applicato
dai nostri tribunali richiede che le parti abbiamo "sottoscritto"
solo la giurisdizione secolare. La legge tratta ciascuna parte come un
individuo responsabile, che agisce liberamente da sé. Questa caratteristica del
diritto è particolarmente vivida nelle menti delle popolazioni di lingua
inglese, dove il sistema del common law consiste principalmente in una serie di libertà –
ottenute dal cittadino nei confronti dello Stato – e che lo Stato deve
sostenere. La sharia consiste invece negli obblighi imposti da Dio e che i
tribunali devono applicare. E’ un mezzo per assicurare
la "sottomissione" alla volontà di Dio, così come è stato rivelato
nel Corano e nella Sunna.
Come facciamo a sopportare idee del genere
nella situazione attuale? In particolare, come può il ricordo degli aspetti più
profondi della nostra eredità giudaico-cristiana aiutarci a rispondere alla
minaccia posta dal terrorismo islamico, e come come possiamo raggiungere la così tanto
indispensabile riconciliazione con l’Islam senza la quale la nostra eredità
politica sarebbe in pericolo?
Nell’immaginario popolare, terrorismo e islamismo sono diventati una
sola cosa, e i commentatori benintenzionati rispondono assicurandoci che non
c’è niente di nuovo nel terrorismo, così come non c’è niente nell’Islam che
predisponga i fedeli a usare la violenza. Non furono i giacobini della
Rivoluzione francese a scatenare la bestia? Non fu il terrorismo a trovare il
suo rifugio politico tra i nichilisti russi del XIX secolo, per poi essere
adottato dai movimenti radicali del XX secolo?
E' una risposta ragionevole che ci spinge a esplorare la ragione più
profonda di queste domande. Che cosa spinge la gente a
usare il terrore? Viene scelto come un espediente tattico, come suggeriscono i
suoi apologeti? Oppure come uno scopo fine a se stesso? Da un certo punto di
vista, è plausibile risalire all’Illuminismo per trovare le origini del
terrorismo moderno, nell’idea dell’eguaglianza umana, e in quella attitudine al
risentimento che Nietzsche giustamente distinse nel cuore delle comunità
moderne, ossia il desiderio di distruggere ciò che uno desidera ardentemente
quando lo vede nelle mani degli altri.
Questo tipo di diagnosi ignora il fatto che il terrorismo, così com’è
stato codificato dai nichilisti russi e registrato a
loro nome, è radicalmente disconnesso da qualsiasi obiettivo. E’ pur vero che a
volte i terroristi – i bolscevichi, l’IRA, l’ETA – si sono battuti per una
Causa, facendo credere che raggiungendo la "dittatura del
proletariato", l’Irlanda unita o uno stato nazionale Basco, i loro scopi
sarebbero stati raggiunti e a quel punto questi gruppi avrebbero disarmato. Ma
di solito la Causa è vaga e utopica, tanto da sembrare irreale, e il fatto di
non essere raggiunta sembra parte integrante della sua
propria ragion d’essere, una maniera per giustificare il costante
rinnovarsi della violenza.
I terroristi possono essere nello stesso tempo completamente senza
Causa, o possono dedicarsi a una Causa così vaga e metafisica che nessuno (per
ultimi loro stessi) potrebbe ritenerla raggiungibile. I nichilisti russi erano
gente del genere, come li raccontano Dostoyevsky e Turgenev. Nello stesso modo si comportavano le Brigate
Rosse italiane e la Baader-Meinhof tedesca ai tempi
della mia giovinezza. Come ha dimostrato Michael Burleigh
nel suo lavoro magistrale Blood and Rage
(“Sangue e rabbia”), il terrorismo moderno si è interessato molto più della
violenza che di qualsiasi altra cosa che potesse essere ottenuta attraverso la
violenza. L’incarnazione di questa figura è il Professore descritto da Joseph
Conrad nel romanzo L’agente segreto che brinda "alla distruzione
dell’esistente".
Il carattere vago o utopico della Causa è quindi una parte importante
del ricorso al terrorismo, nel senso che la Causa non definisce o limita
l’azione. Aspetta di essere riempita di significato dal terrorista, che in
realtà non cerca di cambiare il mondo ma se stesso. Per ammazzare qualcuno che
non ti ha mai offeso, né ti ha mai dato un motivo per essere punito, devi
credere di essere avvolto in un mantello angelico che sia in grado di
giustificarti. Allora vedrai le tue uccisioni come la dimostrazione che sei
certamente un angelo. La tua esistenza riceve la sua prova ontologica finale.
I terroristi ricercano un’ebbrezza morale, un senso di superiorità
rispetto a ogni ordinario giudizio umano. Questa sensazione si irradia da una
facoltà di cui il terrorista crede di avere la prerogativa, la stessa facoltà
di cui gode Dio. In altre parole, il terrorismo di questo tipo è una ricerca di
significato, ossia il vero significato che la cittadinanza – concepita in
termini astratti – non può fornire. Persino nella sua forma più secolarizzata,
il terrorismo coinvolge un tipo di appetito religioso.
E’ molto difficile ammazzare l’innocente signora Smith e i suoi figli
mentre stanno facendo shopping. Per cui questa strategia di costruzione dell’Io non può iniziare semplicemente con il desiderio di
uccidere. La signora Smith deve diventare qualcos’altro, un simbolo di una
condizione astratta, un tipo di incarnazione del nemico universale. I
terroristi moderni tendono a fare affidamento su dottrine che rimuovono
l’umanità dalla gente ed è questo il loro obiettivo. Le teorie di Marx servirono allo scopo molto bene, creando l’idea della
borghesia, il "nemico di classe", che nell’ideologia bolscevica aveva
la stessa funzione degli ebrei nel nazismo. La signora Smith e i suoi figli
stanno dietro questo bersaglio, che è l’astratta famiglia borghese.
Semplicemente accade che, quando la bomba colpisce il suo bersaglio fatto di
finzioni, la granata trapassa facilmente l’obiettivo finendo nel corpo reale
della signora Smith. Grande dispiacere per la famiglia Smith ma spesso ti
imbatterai in terroristi che stanno cercando di farsi perdonare in qualche modo
e dicono che non era colpa loro se la signora Smith è saltata in aria e che,
sinceramente, la gente non dovrebbe stare ferma dietro bersagli di questo tipo.
I terroristi islamici, a un certo livello, sono animati dalla stessa
sconcertante ricerca di significato e dalla identica
necessità di stare al di sopra delle loro vittime in una posizione di
redenzione trascendentale. Idee come quelle di libertà, eguaglianza, o verità
storica, non influenzano il loro modo di pensare, e questi individui non hanno
alcun interesse di ottenere il potere e i privilegi di cui godono i loro
obiettivi. Le cose di questo mondo per loro non hanno un valore reale, e se
talvolta sembra che cerchino il potere è solo perché gli permetterebbe di
creare il regno di Dio – uno scopo che loro, come noialtri, sappiamo essere
impossibile e quindi infinitamente rinnovabile nella scia del fallimento. La
loro indifferenza verso la vita degli altri s’intona con la trascuratezza nei
confronti della propria. La vita non ha alcun valore particolare; la morte li
richiama costantemente dal vicino orizzonte della loro visione. Ed è solo nella
morte che percepiscono l’unico significato che gli importa realmente: la
trascendenza finale di questo mondo e la responsabilità nei confronti di altre
persone che questo mondo esige da noi.
Tutti quelli vaccinati dalla cultura del ripudio, e che sono
riluttanti a comprendere la ricerca di significato tra i principi universali
dell’umanità, tendono a pensare che i conflitti siano unicamente ‘politici’,
cioè basati sul modello del 'chi ha potere su chi'.
Tendono a pensare che la causa del terrorismo islamico sia nella "ingiustizia
sociale" contro cui protestano i terroristi, e
che il fallimento di qualsiasi altro tentativo di correggere le cose rende
necessari i loro metodi deplorevoli. A me pare che questo sia un travisamento
radicale delle cause del terrorismo in generale e dell’islamismo in
particolare. Il terrorista islamico, come il nichilista europeo, è interessato
principalmente a se stesso e alla sua condizione spirituale, e non ha un vero
desiderio di cambiare le cose di questo mondo, un luogo che non gli appartiene.
Lui vuole appartenere a Dio, non al mondo, e questo significa essere testimoni
della legge di Dio e che il suo regno verrà nel distruggere tutto ciò che si
intromette sul suo cammino, incluso il proprio corpo. La morte è l’ultimo atto
di sottomissione del terrorista: attraverso la morte, egli si dissolve in una
nuova e immortale Fratellanza. Il terrore inflitto dalla sua
morte non solo esalta il mondo della fratellanza ma lancia un colpo
devastante contro il mondo rivale degli stranieri, dove invece il principio
vincolante è la cittadinanza, non la fratellanza.
Questa è la ragione per cui dovremmo accorgerci che affrontiamo un
nuovo tipo di minaccia che non ha obiettivi limitati
o negoziabili, che non possiamo affrontare facilmente in un confronto militare,
e che non potremo dissuadere con dei metodi comuni. Non c’è niente che possiamo
offrire agli islamisti che gli permetta di credere che sono
riusciti a ottenere il loro obiettivo. Se riuscissero a distruggere una
città occidentale con una bomba nucleare o ad ammazzare tutta una popolazione
con un virus letale, lo considererebbero come un trionfo, anche se questa
azione non avrebbe creato alcun beneficio materiale, politico e religioso.
Certo, la maggioranza dei musulmani sarebbe sconvolta da un evento di
questo tipo e considererebbe un’uccisione di massa come quelle contemplate da al-Qaeda alla stregua di un oltraggio assolutamente
proibito dalla legge di Dio. E ci sono dei segnali incoraggianti su musulmani
giudiziosi che stanno cercando di trovare un modo di esprimere il proprio
impegno pubblico a favore della coesistenza con le altre due religioni abramitiche e di favorire l’amore per il prossimo, anche se
questo prossimo appartiene a una fede diversa. Testimonianza di questo fenomeno
sono le lettere del 2007 destinate ai leader religiosi occidentali,
sottoscritte da 140 rinomati accademici musulmani, che chiamavano al dialogo
tra le fedi e al mutuo rispetto come fondamento della coesistenza. Nonostante
questo, dobbiamo segnalare due fatti importanti. Il primo è che l’Islam non è
mai riuscito a stabilire nessuna fonte decisiva di autorità religiosa. Ogni
leader spirituale si è autonominato tale, come l’Ayatollah Khomeini, e non ha
credibilità al di fuori della propria cerchia di seguaci. La gente spesso pensa
che è un peccato che l’Islam non abbia avuto una
Riforma Protestante. Ma in realtà l’Islam ha vissuto una serie infinita di
Riforme Protestanti, e ognuna di esse pretende di essere l’unica verità nella
questione dell’obbedienza degli uomini a Dio.
La seconda cosa importante – e credo che siano connesse – è che i
musulmani dimostrano una notevole abilità di chiudere un occhio sulle atrocità
commesse in nome della loro fede e di radunarsi contro chiunque
cerchi di screditarla. Le celebri vignette danesi hanno provocato un oltraggio,
unendo dappertutto i musulmani in atti di distruzione e in richiami alla
vendetta. Pochi giorni dopo, la moschea di al-Askari a Samarra, uno dei
luoghi più sacri della comunità sciita, venne fatta saltare in aria da alcuni
islamisti. Ma dov’erano i contestatori, fuori dall’Iraq? I terroristi islamici
hanno ucciso molti più musulmani che non-musulmani. Perché quelli che
rivendicano di parlare in nome del mondo musulmano non hanno mai menzionato
questa statistica? Nella vicenda, la questione centrale legata alle vignette infami era di farci vedere le atrocità
commesse nel nome del Profeta. Da approvare o no?
I musulmani devono affrontare questo problema. Ma un radicato doppio
standard spesso fa sì che una rabbia moralistica gli impedisca di diventare
buoni musulmani, al punto di trasformarli in nemici della propria fede. Questi
doppi standard sono il risultato diretto della perdita dell’ironia. Derivano
dall’incapacità di accettare l’alterità di qualsiasi cosa, di sostenere qualcosa
che vada aldilà dalla propria opinione, e persino della propria fede, al punto
da riconoscere anche la fede di qualcun altro. In realtà, questa ironia non è
sempre mancata nell’Islam: le opere dei maestri del sufismo ne sono piene. Ma i
maestri del sufismo (e penso specialmente a Rumi e Hafiz) appartengono alla grande e riconosciuta cultura
islamica verso cui gli islamisti hanno voltato le spalle, abbracciando il
bigottismo dalla mentalità ristretta di Ibn Abd-al-Wahhab o la nostalgia autoingannevole
della Fratellanza Musulmana e Sayyid Qutb.
Il confronto in cui ci troviamo immischiati dunque non è politico o
economico; non è il primo passo verso un patteggiamento o una resa dei conti.
Si tratta di un confronto esistenziale. La domanda che ci viene posta è: "Che
diritto hai di esistere?". Nel rispondere "Assolutamente
nessuno", noi invitiamo a ripetere "E’ proprio quello che
pensavo". Una risposta può evitare una minaccia solo se la capovolge; ciò
significa che bisogna essere assolutamente convinti che noi abbiamo il diritto
di esistere e che siamo preparati a riconoscere lo stesso diritto ai nostri
nemici, ma con l’unica condizione che questa sia una mutua concessione.
Nessun’altra strategia ha una remota possibilità di avere successo.
Al-Qaeda potrebbe essere
debole; l’intera cospirazione per distruggere l’Occidente poco più che una
finzione nelle menti dei neoconservatori che, allo stesso tempo, potrebbero
essere una finzione nelle menti dei liberali. Ma la minaccia non viene da una
cospirazione o da una organizzazione. La minaccia
viene da individui che subisco un’esperienza traumatica che non riusciamo a
capire fino in fondo, l’esperienza del musulmano déraciné di fronte alla
modernità, e senza il beneficio dei due doni del perdono e dell’ironia. Questo
genere di persona è un imprevedibile sottoprodotto di circostanze improvvise e
incomprensibili, e i nostri migliori sforzi di capire le sue ragioni – fino
adesso – suggeriscono che non c’è alcuna politica capace di impedire gli
attacchi.
Quindi quale posizione dovremmo prendere in questo confronto
esistenziale? Credo che dovremmo enfatizzare le grandi virtù e i successi che
abbiamo costruito sulla nostra eredità di tolleranza e mostrare la volontà di
criticare e di rimediare a tutte le voci a cui è stato dato uno spazio indebito
ed eccessivo. Dovremmo far risuscitare la distinzione di Locke
tra libertà e licenza e rendere assolutamente chiaro ai nostri
figli che la libertà è una forma di ordine, non una licenza per l’anarchia e
l’auto-indulgenza. Dovremmo smettere di prendere in giro le cose che sono state
importanti per i nostri genitori e i nostri nonni, e dovremmo essere orgogliosi
di cosa sono riusciti a ottenere. Non è arroganza ma è il giusto riconoscimento
dei nostri privilegi.
Dovremmo anche abbandonare tutto quel vaniloquio multiculturalista
che ha confuso così tanto la vita pubblica dell’Occidente e dovremmo
riaffermare l’idea centrale dell’appartenenza sociale nella tradizione
occidentale, che è l’idea di cittadinanza. Nel lanciare il messaggio che noi
crediamo in ciò che abbiamo, che siamo pronti a condividerlo, ma non preparati
a vederlo distrutto, stiamo facendo l’unica cosa possibile tra quelle
realizzabili per ripianare il conflitto attuale. Siccome il perdono è nel cuore
della nostra cultura, questo messaggio sicuramente dovrebbe essere sufficiente,
persino se lo diffondiamo con ironia dello spirito.
Roger Scruton,
scrittore e filosofo, è autore di A political
Philosophy. Arguments for Conservatism.
L'articolo è un adattamento tratto dalla sua McNish Lecture for the Advancement of Western Civilization all'Università di Calgari.