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Documento d’interesse   Inserito il 20-11-2007


 

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Panorama – Economia 19-11-2007

Adesso parlo io, imprenditore depredato coi derivati

di Edmondo Rho

“Tutto iniziò nel 2001, quando un funzionario dell’allora Cassa di Verona, poi incorporata nell’Unicredito, mi telefonò per proporre un affare: stipulare un contratto per coprirmi dal rischio di un aumento dei tassi”. Così Maurizio Paoletti, imprenditore veneto che si era indebitato con un mutuo per il nuovo stabilimento, è finito nella trappola dei derivati.
Una storia italiana, quella dei prodotti finanziari derivati, che diventa una stangata per il piccolo o medio imprenditore. E che inizia sempre con una suadente telefonata dell’amico funzionario di banca. Quindi il contatto prosegue, fino alla certezza che la preda cada nella rete. A quel punto arriva lo specialista che fa firmare il contratto. Infine la vittima comincia a pagare salatissime rate: solo rivolgendosi a un commercialista, avvocato o consulente di sua fiducia, si rende conto di quello che ha firmato. Ma ormai è troppo tardi. A meno che non ci sia il coraggio di ribellarsi e di raccontare quello che è successo.
Sono pochi gli imprenditori che parlano, pochissimi quelli che ci mettono la faccia. Paoletti, titolare della società Cucina nostrana (sede nel comune di Martellago, provincia di Venezia), è la mosca bianca che parla con Panorama. “Sono fortunato perché su 16 milioni di fatturato perdo solo 500 mila euro, che diventeranno 600 mila l’anno prossimo: ora sono in causa ma voglio raccontare la mia storia soprattutto per aiutare tutti gli imprenditori più in difficoltà di me”.
Già, perché gli altri non parlano? “Per paura di fallire: in molti casi, se le banche gli chiudono i rubinetti, la loro attività imprenditoriale è finita” accusa Paoletti.
Ritorniamo all’inizio di questa storia: “Avevamo un mutuo a tasso variabile per il nuovo stabilimento e il funzionario della banca ci propose su metà del finanziamento una copertura a tasso fisso” spiega Paoletti. Che si fidò e firmò il contratto. Ma pochi mesi dopo arrivò l’amara sorpresa: la copertura era in realtà una rischiosa scommessa sui tassi. Che all’imprenditore costò fior di soldi: “Quando ho cominciato a perdere ho chiamato il funzionario che mi ha proposto di chiudere l’operazione versandogli personalmente 200 milioni di lire (circa 100 mila euro, ndr). Ovviamente non ho accettato questo ricatto e mi sono rivolto all’avvocato mantovano Roberto Vassalle per la causa. La mia rabbia è che quel signore, poi, ha fatto carriera nella stessa banca”.
Accanto ai bancari furbetti, ci sono anche quelli che si pentono. Come un ex ufficiale della Guardia di finanza, diventato promotore della Banca Italease e che poi ha accompagnato i suoi clienti irretiti dalla sirena dei derivati alla sede di Lecce dell’Adusbef, un’associazione di risparmiatori, per farli tutelare. Questa storia è raccontata a Panorama dall’avvocato Antonio Tanza e dal commercialista Fabio Massimo Blasi, rappresentanti dell’Adusbef: “Il promotore pentito ci ha spiegato che in tutta Italia c’era una rete ramificata che lavorava per la Banca Italease. Il loro compito era accalappiare i clienti: dopodiché arrivava lo specialista da Milano, che non era dell’Italease, bensì un funzionario delle banche internazionali che avevano costruito questi prodotti derivati, i famigerati swap”.
Il riquadro a fondo pagina spiega come funzionano queste coperture. Ma il racconto di Tanza e Blasi è interessante perché mette in luce il ruolo delle banche italiane: “Avevano solo il compito di incassare le commissioni, perché compravano questi prodotti dalle banche internazionali e poi li rivendevano al dettaglio. E la rete aveva proprio il compito di trovare il pollo, il cliente finale: andava bene chiunque purché avesse almeno un’attività artigianale o commerciale, altrimenti il contratto era nullo”.
Gli avvocati che assistono le aziende sostengono la nullità di questi contratti, definiti dalle stesse banche con il nome di “prodotti esotici”, e proprio per questo riservati a operatori qualificati. Le sentenze della magistratura finora hanno dato in alcuni casi ragione alle banche, in altri alle imprese.
Ma certo sembra difficile definire qualificato l’imprenditore edile che si è rivolto all’Adusbef e che racconta anonimamente la sua storia: “Nel 2004 io e mio fratello decidemmo di acquistare tramite leasing il capannone. A un certo punto la Banca Intesa ci offrì un prodotto presentato come una sorta di assicurazione sul leasing nel caso i tassi fossero saliti. Firmammo i moduli e ogni tanto ci venne accreditato qualche piccolo importo. A un certo punto siamo stati chiamati per un appuntamento con un supertecnico esterno della banca che ci disse di aver valutato l’andamento dei tassi e quindi proponendoci di cambiare il prodotto con uno più adatto. Io non ero convinto, l’Euribor non so neanche cosa sia, ma questa persona insistette in modo pesante e così firmammo i documenti. Il risultato è che in questi anni ci sono stati addebitati costi per svariati milioni di euro: con gli ultimi addebiti siamo arrivati a 5,3 milioni”.
La vendita massiccia di derivati è stata iniziata dall’Unicredito tra il 2000 e il 2001, poi l’esempio è stato seguito da altre banche (su quattro istituti è in corso un’ispezione di Bankitalia, che però non ha rivelato i nomi delle banche coinvolte). Certo il fenomeno non è finito: tra il 2005 e il 2006, secondo una relazione della Consob, risulta il raddoppio in centrale rischi dell’esposizione sui derivati delle banche italiane verso quelle estere. “In realtà, per i bilanci delle banche i derivati non sono un grande problema” sostengono Blasi e Tanza “mentre sono un dramma per centinaia di piccoli e medi imprenditori”.
Una fotografia sulle dimensioni del fenomeno la scatta la società di consulenza indipendente Consultique di Verona, presieduta da Cesare Armellini. Il direttore dell’ufficio studi, Giuseppe Romano, dice a Panorama: “Abbiamo analizzato 150 aziende e mediamente ognuna ha sottoscritto 4 contratti. Infatti, quasi sempre la banca, dopo un primo contratto andato male, propone una nuova copertura, in realtà una scommessa più rischiosa. Su un totale di 600 contratti analizzati da Consultique il controvalore porta a una esposizione totale di 12 miliardi di euro”.
Le banche estere che hanno strutturato questi prodotti sono, in particolare, Merrill Lynch, Jp Morgan e Bear Stears, mentre per quanto riguarda il collocamento “il 90 per cento dei contratti è stato stipulato dal gruppo Unicredito, il 5 per cento da Banca Italease e il 5 per cento da altre banche” sostiene Romano.
Ma l’Unicredito, interpellato da Panorama, replica: “Smentiamo ufficialmente questi numeri, la perdita potenziale per i nostri clienti è di circa 1 miliardo di euro e su 56 cause arrivate a sentenza solo in 4 casi la nostra banca ha perso”.