CENACOLO DEI COGITANTI |
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il 4-6-2009
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Il
discorso del presidente Usa Barack Obama
Il Cairo 4-6-2009
(Da
La Repubblica 4-6-2009 Traduzione di Anna Bissanti)
Ecco la traduzione integrale del discorso del
presidente americano Barack Obama all'Università del Cairo.
SONO onorato di trovarmi qui al Cairo, in questa città eterna, e di essere
ospite di due importantissime istituzioni. Da oltre mille anni Al-Azhar
rappresenta il faro della cultura islamica e da oltre un secolo l'Università
del Cairo è la culla del progresso dell'Egitto. Insieme, queste due istituzioni
rappresentano il connubio di tradizione e progresso.
Sono grato di questa ospitalità e dell'accoglienza che il popolo egiziano mi ha
riservato. Sono altresì orgoglioso di portare con me in questo viaggio le buone
intenzioni del popolo americano, e di portarvi il saluto di pace delle comunità
musulmane del mio Paese: assalaamu alaykum.
Ci incontriamo qui in un periodo di forte tensione tra gli Stati Uniti e i
musulmani in tutto il mondo, tensione che ha le sue radici nelle forze storiche
che prescindono da qualsiasi attuale dibattito politico. Il rapporto tra Islam
e Occidente ha alle spalle secoli di coesistenza e cooperazione, ma anche di
conflitto e di guerre di religione. In tempi più recenti, questa tensione è
stata alimentata dal colonialismo, che ha negato diritti e opportunità a molti
musulmani, e da una Guerra Fredda nella quale i Paesi a maggioranza musulmana
troppo spesso sono stati trattati come Paesi che agivano per procura, senza
tener conto delle loro legittime aspirazioni. Oltretutto, i cambiamenti
radicali prodotti dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno
indotto molti musulmani a considerare l'Occidente ostile nei confronti delle
tradizioni dell'Islam.
Violenti
estremisti hanno saputo sfruttare queste tensioni in una minoranza, esigua ma
forte, di musulmani. Gli attentati dell'11 settembre 2001 e gli sforzi continui
di questi estremisti volti a perpetrare atti di violenza contro civili inermi
ha di conseguenza indotto alcune persone nel mio Paese a considerare l'Islam
come inevitabilmente ostile non soltanto nei confronti dell'America e dei Paesi
occidentali in genere, ma anche dei diritti umani. Tutto ciò ha comportato
maggiori paure, maggiori diffidenze.
Fino a quando i nostri rapporti saranno definiti dalle nostre differenze,
daremo maggior potere a coloro che perseguono l'odio invece della pace, coloro
che si adoperano per lo scontro invece che per la collaborazione che potrebbe
aiutare tutti i nostri popoli a ottenere giustizia e a raggiungere il
benessere. Adesso occorre porre fine a questo circolo vizioso di sospetti e
discordia.
Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati
Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l'inizio di un rapporto che si basi
sull'interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità
precisa, ovvero che America e Islam non si escludono a vicenda, non devono
necessariamente essere in competizione tra loro. Al contrario, America e Islam
si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia
e di progresso, la tolleranza e la dignità dell'uomo.
Sono qui consapevole che questo cambiamento non potrà avvenire nell'arco di una
sola notte. Nessun discorso o proclama potrà mai sradicare completamente una
diffidenza pluriennale. Né io sarò in grado, nel tempo che ho a disposizione,
di porre rimedio e dare soluzione a tutte le complesse questioni che ci hanno
condotti a questo punto. Sono però convinto che per poter andare avanti
dobbiamo dire apertamente ciò che abbiamo nel cuore, e che troppo spesso viene
detto soltanto a porte chiuse. Dobbiamo promuovere uno sforzo sostenuto nel
tempo per ascoltarci, per imparare l'uno dall'altro, per rispettarci, per
cercare un terreno comune di intesa. Il Sacro Corano dice: "Siate
consapevoli di Dio e dite sempre la verità". Questo è quanto cercherò di
fare: dire la verità nel miglior modo possibile, con un atteggiamento umile per
l'importante compito che devo affrontare, fermamente convinto che gli interessi
che condividiamo in quanto appartenenti a un unico genere umano siano molto più
potenti ed efficaci delle forze che ci allontanano in direzioni opposte.
In parte le mie convinzioni si basano sulla mia stessa esperienza: sono
cristiano, ma mio padre era originario di una famiglia del Kenya della quale
hanno fatto parte generazioni intere di musulmani. Da bambino ho trascorso
svariati anni in Indonesia, e ascoltavo al sorgere del Sole e al calare delle
tenebre la chiamata dell'azaan. Quando ero ragazzo, ho prestato servizio nelle
comunità di Chicago presso le quali molti trovavano dignità e pace nella loro
fede musulmana.
Ho studiato Storia e ho imparato quanto la civiltà sia debitrice nei confronti
dell'Islam. Fu l'Islam infatti - in istituzioni come l'Università Al-Azhar - a
tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al
Rinascimento europeo e all'Illuminismo. Fu l'innovazione presso le comunità
musulmane a sviluppare scienze come l'algebra, a inventare la bussola
magnetica, vari strumenti per la navigazione; a far progredire la maestria
nello scrivere e nella stampa; la nostra comprensione di come si diffondono le
malattie e come è possibile curarle. La cultura islamica ci ha regalato
maestosi archi e cuspidi elevate; poesia immortale e musica eccelsa;
calligrafia elegante e luoghi di meditazione pacifica. Per tutto il corso della
sua Storia, l'Islam ha dimostrato con le parole e le azioni la possibilità di
praticare la tolleranza religiosa e l'eguaglianza tra le razze.
So anche che l'Islam ha avuto una parte importante nella Storia americana. La
prima nazione a riconoscere il mio Paese è stato il Marocco. Firmando il
Trattato di Tripoli nel 1796, il nostro secondo presidente, John Adams,
scrisse: "Gli Stati Uniti non hanno a priori alcun motivo di inimicizia
nei confronti delle leggi, della religione o dell'ordine dei musulmani".
Sin dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno arricchito
il mio Paese: hanno combattuto nelle nostre guerre, hanno prestato servizio al
governo, si sono battuti per i diritti civili, hanno avviato aziende e
attività, hanno insegnato nelle nostre università, hanno eccelso in molteplici
sport, hanno vinto premi Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e
acceso la Torcia Olimpica. E quando di recente il primo musulmano americano è
stato eletto come rappresentante al Congresso degli Stati Uniti, egli ha
giurato di difendere la nostra Costituzione utilizzando lo stesso Sacro Corano
che uno dei nostri Padri Fondatori - Thomas Jefferson - custodiva nella sua
biblioteca personale.
Ho pertanto conosciuto l'Islam in tre continenti, prima di venire in questa
regione nella quale esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. Questa
esperienza illumina e guida la mia convinzione che una partnership tra America
e Islam debba basarsi su ciò che l'Islam è, non su ciò che non è. Ritengo che
rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati
Uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell'Islam, ovunque esso
possa affiorare.
Ma questo medesimo principio deve applicarsi alla percezione dell'America da
parte dei musulmani. Proprio come i musulmani non ricadono in un approssimativo
e grossolano stereotipo, così l'America non corrisponde a quell'approssimativo
e grossolano stereotipo di un impero interessato al suo solo tornaconto. Gli
Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del progresso che il
mondo abbia mai conosciuto. Sono nati dalla rivoluzione contro un impero. Sono
stati fondati sull'ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare
significato a queste parole essi hanno versato sangue e lottato per secoli,
fuori dai loro confini, in ogni parte del mondo. Sono stati plasmati da ogni
cultura, proveniente da ogni remoto angolo della Terra, e si ispirano a un
unico ideale: E pluribus unum. "Da molti, uno solo".
Si sono dette molte cose e si è speculato alquanto sul fatto che un
afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse essere eletto presidente,
ma la mia storia personale non è così unica come sembra. Il sogno della
realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel
sogno, quella promessa, è tuttora valido per chiunque approdi alle nostre
sponde, e ciò vale anche per quasi sette milioni di musulmani americani che
oggi nel nostro Paese godono di istruzione e stipendi più alti della media.
E ancora: la libertà in America è tutt'uno con la libertà di professare la
propria religione. Ecco perché in ogni Stato americano c'è almeno una moschea,
e complessivamente se ne contano oltre 1.200 all'interno dei nostri confini. Ecco
perché il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per tutelare il
diritto delle donne e delle giovani ragazze a indossare l'hijab e a punire
coloro che vorrebbero impedirglielo.
Non c'è dubbio alcuno, pertanto: l'Islam è parte integrante dell'America. E io
credo che l'America custodisca al proprio interno la verità che,
indipendentemente da razza, religione, posizione sociale nella propria vita,
tutti noi condividiamo aspirazioni comuni, come quella di vivere in pace e
sicurezza, quella di volerci istruire e avere un lavoro dignitoso, quella di
amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Queste sono le
cose che abbiamo in comune. Queste sono le speranze e le ambizioni di tutto il
genere umano.
Naturalmente, riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano
è soltanto l'inizio del nostro compito: le parole da sole non possono dare
risposte concrete ai bisogni dei nostri popoli. Questi bisogni potranno essere
soddisfatti soltanto se negli anni a venire sapremo agire con audacia, se
capiremo che le sfide che dovremo affrontare sono le medesime e che se
falliremo e non riusciremo ad avere la meglio su di esse ne subiremo tutti le
conseguenze.
Abbiamo infatti appreso di recente che quando un sistema finanziario si
indebolisce in un Paese, è la prosperità di tutti a patirne. Quando una nuova
malattia infetta un essere umano, tutti sono a rischio. Quando una nazione
vuole dotarsi di un'arma nucleare, il rischio di attacchi nucleari aumenta per
tutte le nazioni. Quando violenti estremisti operano in una remota zona di
montagna, i popoli sono a rischio anche al di là degli oceani. E quando
innocenti inermi sono massacrati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti
a uscirne macchiata e infangata. Ecco che cosa significa nel XXI secolo abitare
uno stesso pianeta: questa è la responsabilità che ciascuno di noi ha in quanto
essere umano.
Si tratta sicuramente di una responsabilità ardua di cui farsi carico. La
Storia umana è spesso stata un susseguirsi di nazioni e di tribù che si
assoggettavano l'una all'altra per servire i loro interessi. Nondimeno, in
questa nuova epoca, un simile atteggiamento sarebbe autodistruttivo.
Considerato quanto siamo interdipendenti gli uni dagli altri, qualsiasi ordine
mondiale che dovesse elevare una nazione o un gruppo di individui al di sopra
degli altri sarebbe inevitabilmente destinato all'insuccesso.
Indipendentemente da tutto ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne
prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati collaborando,
diventando partner, condividendo tutti insieme il progresso.
Ciò non significa che dovremmo ignorare i motivi di tensione. Significa anzi
esattamente il contrario: dobbiamo far fronte a queste tensioni senza indugio e
con determinazione. Ed è quindi con questo spirito che vi chiedo di potervi
parlare quanto più chiaramente e semplicemente mi sarà possibile di alcune
questioni particolari che credo fermamente che dovremo in definitiva affrontare
insieme.
Il primo problema che dobbiamo affrontare insieme è la violenza estremista in
tutte le sue forme. Ad Ankara ho detto chiaramente che l'America non è - e non
sarà mai - in guerra con l'Islam. In ogni caso, però, noi non daremo mai tregua
agli estremisti violenti che costituiscono una grave minaccia per la nostra
sicurezza. E questo perché anche noi disapproviamo ciò che le persone di tutte
le confessioni religiose disapprovano: l'uccisione di uomini, donne e bambini
innocenti. Il mio primo dovere in quanto presidente è quello di proteggere il
popolo americano.
La situazione in Afghanistan dimostra quali siano gli obiettivi dell'America, e
la nostra necessità di lavorare insieme. Oltre sette anni fa gli Stati Uniti
dettero la caccia ad Al Qaeda e ai Taliban con un vasto sostegno internazionale.
Non andammo per scelta, ma per necessità. Sono consapevole che alcuni mettono
in dubbio o giustificano gli eventi dell'11 settembre. Cerchiamo però di essere
chiari: quel giorno Al Qaeda uccise circa 3.000 persone. Le vittime furono
uomini, donne, bambini innocenti, americani e di molte altre nazioni, che non
avevano commesso nulla di male nei confronti di nessuno. Eppure Al Qaeda scelse
deliberatamente di massacrare quelle persone, rivendicando gli attentati, e
ancora adesso proclama la propria intenzione di continuare a perpetrare stragi
di massa. Al Qaeda ha affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere il
proprio raggio di azione. Queste non sono opinioni sulle quali polemizzare:
sono dati di fatto da affrontare concretamente.
Non lasciatevi trarre in errore: noi non vogliamo che le nostre truppe restino
in Afghanistan. Non abbiamo intenzione di impiantarvi basi militari stabili. È
lacerante per l'America continuare a perdere giovani uomini e giovani donne.
Portare avanti quel conflitto è difficile, oneroso e politicamente arduo.
Saremmo ben lieti di riportare a casa anche l'ultimo dei nostri soldati se solo
potessimo essere fiduciosi che in Afghanistan e in Pakistan non ci sono
estremisti violenti che si prefiggono di massacrare quanti più americani
possibile. Ma non è ancora così.
Questo è il motivo per cui siamo parte di una coalizione di 46 Paesi. Malgrado
le spese e gli oneri che ciò comporta, l'impegno dell'America non è mai venuto
e mai verrà meno. In realtà, nessuno di noi dovrebbe tollerare questi
estremisti: essi hanno colpito e ucciso in molti Paesi. Hanno assassinato
persone di ogni fede religiosa. Più di altri, hanno massacrato musulmani. Le
loro azioni sono inconciliabili con i diritti umani, il progresso delle
nazioni, l'Islam stesso.
Il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse
tutto il genere umano. E chiunque salva un solo individuo, in realtà salva
tutto il genere umano. La fede profonda di oltre un miliardo di persone è
infinitamente più forte del miserabile odio che nutrono alcuni. L'Islam non è
parte del problema nella lotta all'estremismo violento: è anzi una parte
importante nella promozione della pace.
Sappiamo anche che la sola potenza militare non risolverà i problemi in
Afghanistan e in Pakistan: per questo motivo stiamo pianificando di investire
fino a 1,5 miliardi di dollari l'anno per i prossimi cinque anni per aiutare i
pachistani a costruire scuole e ospedali, strade e aziende, e centinaia di
milioni di dollari per aiutare gli sfollati. Per questo stesso motivo stiamo
per offrire 2,8 miliardi di dollari agli afgani per fare altrettanto, affinché
sviluppino la loro economia e assicurino i servizi di base dai quali dipende la
popolazione.
Permettetemi ora di affrontare la questione dell'Iraq: a differenza di quella
in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata voluta, ed è una scelta che ha
provocato molti forti dissidi nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono
convinto che in definitiva il popolo iracheno oggi viva molto meglio senza la
tirannia di Saddam Hussein, credo anche che quanto accaduto in Iraq sia servito
all'America per comprendere meglio l'uso delle risorse diplomatiche e l'utilità
di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta ciò sia possibile, i
nostri problemi. A questo proposito potrei citare le parole di Thomas Jefferson
che disse: "Io auspico che la nostra saggezza cresca in misura
proporzionale alla nostra potenza e ci insegni che quanto meno faremo ricorso
alla potenza tanto più saggi saremo".
Oggi l'America ha una duplice responsabilità: aiutare l'Iraq a plasmare un
miglior futuro per se stesso e lasciare l'Iraq agli iracheni. Ho già detto
chiaramente al popolo iracheno che l'America non intende avere alcuna base sul
territorio iracheno, e non ha alcuna pretesa o rivendicazione sul suo
territorio o sulle sue risorse. La sovranità dell'Iraq è esclusivamente sua.
Per questo ho dato ordine alle nostre brigate combattenti di ritirarsi entro il
prossimo mese di agosto. Noi onoreremo la nostra promessa e l'accordo preso con
il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare il contingente
combattente dalle città irachene entro luglio e tutti i nostri uomini dall'Iraq
entro il 2012. Aiuteremo l'Iraq ad addestrare gli uomini delle sue Forze di Sicurezza,
e a sviluppare la sua economia. Ma daremo sostegno a un Iraq sicuro e unito da
partner, non da dominatori.
E infine, proprio come l'America non può tollerare in alcun modo la violenza
perpetrata dagli estremisti, essa non può in alcun modo abiurare ai propri
principi. L'11 settembre è stato un trauma immenso per il nostro Paese. La
paura e la rabbia che quegli attentati hanno scatenato sono state
comprensibili, ma in alcuni casi ci hanno spinto ad agire in modo contrario ai
nostri stessi ideali. Ci stiamo adoperando concretamente per cambiare linea
d'azione. Ho personalmente proibito in modo inequivocabile il ricorso alla
tortura da parte degli Stati Uniti, e ho dato l'ordine che il carcere di
Guantánamo Bay sia chiuso entro i primi mesi dell'anno venturo.
L'America, in definitiva, si difenderà rispettando la sovranità altrui e la
legalità delle altre nazioni. Lo farà in partenariato con le comunità
musulmane, anch'esse minacciate. Quanto prima gli estremisti saranno isolati e
si sentiranno respinti dalle comunità musulmane, tanto prima saremo tutti più
al sicuro.
La seconda più importante causa di tensione della quale dobbiamo discutere è la
situazione tra israeliani, palestinesi e mondo arabo. Sono ben noti i solidi
rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo
infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel
tempo, nel riconoscimento che l'aspirazione a una patria ebraica è legittimo e
ha anch'esso radici in una storia tragica, innegabile.
Nel mondo il popolo ebraico è stato perseguitato per secoli e l'antisemitismo
in Europa è culminato nell'Olocausto, uno sterminio senza precedenti. Domani mi
recherò a Buchenwald, uno dei molti campi nei quali gli ebrei furono resi
schiavi, torturati, uccisi a colpi di arma da fuoco o con il gas dal Terzo
Reich. Sei milioni di ebrei furono così massacrati, un numero superiore
all'intera popolazione odierna di Israele.
Confutare questa realtà è immotivato, da ignoranti, alimenta l'odio. Minacciare
Israele di distruzione - o ripetere vili stereotipi sugli ebrei - è
profondamente sbagliato, e serve soltanto a evocare nella mente degli
israeliani il ricordo più doloroso della loro Storia, precludendo la pace che
il popolo di quella regione merita.
D'altra parte è innegabile che il popolo palestinese - formato da cristiani e
musulmani - ha sofferto anch'esso nel tentativo di avere una propria patria. Da
oltre 60 anni affronta tutto ciò che di doloroso è connesso all'essere
sfollati. Molti vivono nell'attesa, nei campi profughi della Cisgiordania, di
Gaza, dei Paesi vicini, aspettando una vita fatta di pace e sicurezza che non
hanno mai potuto assaporare finora. Giorno dopo giorno i palestinesi affrontano
umiliazioni piccole e grandi che sempre si accompagnano all'occupazione di un
territorio. Sia dunque chiara una cosa: la situazione per il popolo palestinese
è insostenibile. L'America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del
popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio.
Da decenni tutto è fermo, in uno stallo senza soluzione: due popoli con
legittime aspirazioni, ciascuno con una storia dolorosa alle spalle che rende
il compromesso quanto mai difficile da raggiungere. È facile puntare il dito: è
facile per i palestinesi addossare alla fondazione di Israele la colpa del loro
essere profughi. È facile per gli israeliani addossare la colpa alla costante
ostilità e agli attentati che hanno costellato tutta la loro storia all'interno
dei confini e oltre. Ma se noi insisteremo a voler considerare questo conflitto
da una parte piuttosto che dall'altra, rimarremo ciechi e non riusciremo a
vedere la verità: l'unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambe le
parti è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in
pace e in sicurezza.
Questa soluzione è nell'interesse di Israele, nell'interesse della Palestina,
nell'interesse dell'America e nell'interesse del mondo intero. È a ciò che io
alludo espressamente quando dico di voler perseguire personalmente questo
risultato con tutta la pazienza e l'impegno che questo importante obiettivo
richiede. Gli obblighi per le parti che hanno sottoscritto la Road Map sono
chiari e inequivocabili. Per arrivare alla pace, è necessario ed è ora che loro
- e noi tutti con loro - facciamo finalmente fronte alle rispettive
responsabilità.
I palestinesi devono abbandonare la violenza. Resistere con la violenza e le
stragi è sbagliato e non porta ad alcun risultato. Per secoli i neri in America
hanno subito i colpi di frusta, quando erano schiavi, e hanno patito
l'umiliazione della segregazione. Ma non è stata certo la violenza a far loro
ottenere pieni ed eguali diritti come il resto della popolazione: è stata la
pacifica e determinata insistenza sugli ideali al cuore della fondazione
dell'America. La stessa cosa vale per altri popoli, dal Sudafrica all'Asia
meridionale, dall'Europa dell'Est all'Indonesia. Questa storia ha un'unica
semplice verità di fondo: la violenza è una strada senza vie di uscita. Tirare
razzi a bambini addormentati o far saltare in aria anziane donne a bordo di un
autobus non è segno di coraggio né di forza. Non è in questo modo che si
afferma l'autorità morale: questo è il modo col quale l'autorità morale al
contrario cede e capitola definitivamente.
È giunto il momento per i palestinesi di concentrarsi su quello che possono
costruire. L'Autorità Palestinese deve sviluppare la capacità di governare, con
istituzioni che siano effettivamente al servizio delle necessità della sua
gente. Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi, ma ha anche delle
responsabilità. Per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei
palestinesi, per unire il popolo palestinese, Hamas deve porre fine alla
violenza, deve riconoscere gli accordi intercorsi, deve riconoscere il diritto
di Israele a esistere.
Allo stesso tempo, gli israeliani devono riconoscere che proprio come il
diritto a esistere di Israele non può essere in alcun modo messo in
discussione, così è per la Palestina. Gli Stati Uniti non ammettono la legittimità
dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano
gli sforzi volti a perseguire la pace. È ora che questi insediamenti si
fermino.
Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare che i
palestinesi possano effettivamente vivere, lavorare, sviluppare la loro
società. Proprio come devasta le famiglie palestinesi, l'incessante crisi
umanitaria a Gaza non è di giovamento alcuno alla sicurezza di Israele. Né è di
giovamento per alcuno la costante mancanza di opportunità di qualsiasi genere
in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana del popolo palestinese deve
essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere
i passi necessari a rendere possibile questo progresso.
Infine, gli Stati Arabi devono riconoscere che l'Arab Peace Initiative è stato
sì un inizio importante, ma che non pone fine alle loro responsabilità
individuali. Il conflitto israelo-palestinese non dovrebbe più essere sfruttato
per distogliere l'attenzione dei popoli delle nazioni arabe da altri problemi.
Esso, al contrario, deve essere di incitamento ad agire per aiutare il popolo
palestinese a sviluppare le istituzioni che costituiranno il sostegno e la
premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per
scegliere il progresso invece che l'incessante e autodistruttiva attenzione per
il passato.
L'America allineerà le proprie politiche mettendole in sintonia con coloro che
vogliono la pace e per essa si adoperano, e dirà ufficialmente ciò che dirà in
privato agli israeliani, ai palestinesi e agli arabi. Noi non possiamo imporre
la pace. In forma riservata, tuttavia, molti musulmani riconoscono che Israele
non potrà scomparire. Allo stesso modo, molti israeliani ammettono che uno Stato
palestinese è necessario. È dunque giunto il momento di agire in direzione di
ciò che tutti sanno essere vero e inconfutabile.
Troppe sono le lacrime versate; troppo è il sangue sparso inutilmente. Noi
tutti condividiamo la responsabilità di dover lavorare per il giorno in cui le
madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere insieme
senza paura; in cui la Terra Santa delle tre grandi religioni diverrà quel
luogo di pace che Dio voleva che fosse; in cui Gerusalemme sarà la casa sicura
ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani insieme, la città di pace nella quale
tutti i figli di Abramo vivranno insieme in modo pacifico come nella storia di
Isra, allorché Mosé, Gesù e Maometto (la pace sia con loro) si unirono in
preghiera.
Terza causa di tensione è il nostro comune interesse nei diritti e nelle
responsabilità delle nazioni nei confronti delle armi nucleari. Questo
argomento è stato fonte di grande preoccupazione tra gli Stati Uniti e la
Repubblica islamica iraniana. Da molti anni l'Iran si distingue per la propria
ostilità nei confronti del mio Paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono
stati episodi storici violenti. Nel bel mezzo della Guerra Fredda, gli Stati
Uniti hanno avuto parte nel rovesciamento di un governo iraniano
democraticamente eletto. Dalla Rivoluzione Islamica, l'Iran ha rivestito un
ruolo preciso nella cattura di ostaggi e in episodi di violenza contro i
soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è ben noto. Invece di rimanere
intrappolati nel passato, ho detto chiaramente alla leadership iraniana e al
popolo iraniano che il mio Paese è pronto ad andare avanti. La questione,
adesso, non è capire contro cosa sia l'Iran, ma piuttosto quale futuro intenda
costruire.
Sarà sicuramente difficile superare decenni di diffidenza, ma procederemo
ugualmente, con coraggio, con onestà e con determinazione. Ci saranno molti
argomenti dei quali discutere tra i nostri due Paesi, ma noi siamo disposti ad
andare avanti in ogni caso, senza preconcetti, sulla base del rispetto
reciproco. È chiaro tuttavia a tutte le persone coinvolte che riguardo alle
armi nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo. Non è unicamente
nell'interesse dell'America affrontare il tema: si tratta qui di evitare una
corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare questa
regione e il mondo intero verso una china molto pericolosa.
Capisco le ragioni di chi protesta perché alcuni Paesi hanno armi che altri non
hanno. Nessuna nazione dovrebbe scegliere e decidere quali nazioni debbano
avere armi nucleari. È per questo motivo che io ho ribadito con forza l'impegno
americano a puntare verso un futuro nel quale nessuna nazione abbia armi
nucleari. Tutte le nazioni - Iran incluso - dovrebbero avere accesso
all'energia nucleare a scopi pacifici se rispettano i loro obblighi e le loro
responsabilità previste dal Trattato di Non Proliferazione. Questo è il
nocciolo, il cuore stesso del Trattato e deve essere rispettato da tutti coloro
che lo hanno sottoscritto. Spero pertanto che tutti i Paesi nella regione
possano condividere questo obiettivo.
Il quarto argomento di cui intendo parlarvi è la democrazia. Sono consapevole
che negli ultimi anni ci sono state controversie su come vada incentivata la
democrazia e molte di queste discussioni sono riconducibili alla guerra in
Iraq. Permettetemi di essere chiaro: nessun sistema di governo può o deve
essere imposto da una nazione a un'altra.
Questo non significa, naturalmente, che il mio impegno in favore di governi che
riflettono il volere dei loro popoli, ne esce diminuito. Ciascuna nazione dà
vita e concretizza questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni
della sua gente. L'America non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio
per ciascuna nazione, così come noi non presumeremmo mai di scegliere il
risultato in pacifiche consultazioni elettorali. Ma io sono profondamente e
irremovibilmente convinto che tutti i popoli aspirano a determinate cose: la
possibilità di esprimersi liberamente e decidere in che modo vogliono essere
governati; la fiducia nella legalità e in un'equa amministrazione della
giustizia; un governo che sia trasparente e non si approfitti del popolo; la
libertà di vivere come si sceglie di voler vivere. Questi non sono ideali solo
americani: sono diritti umani, ed è per questo che noi li sosterremo ovunque.
La strada per realizzare questa promessa non è rettilinea. Ma una cosa è chiara
e palese: i governi che proteggono e tutelano i diritti sono in definitiva i
più stabili, quelli di maggior successo, i più sicuri. Soffocare gli ideali non
è mai servito a farli sparire per sempre. L'America rispetta il diritto di
tutte le voci pacifiche e rispettose della legalità a farsi sentire nel mondo,
anche qualora fosse in disaccordo con esse. E noi accetteremo tutti i governi
pacificamente eletti, purché governino rispettando i loro stessi popoli.
Quest'ultimo punto è estremamente importante, perché ci sono persone che
auspicano la democrazia soltanto quando non sono al potere: poi, una volta al
potere, sono spietati nel sopprimere i diritti altrui. Non importa chi è al
potere: è il governo del popolo ed eletto dal popolo a fissare l'unico
parametro per tutti coloro che sono al potere. Occorre restare al potere solo
col consenso, non con la coercizione; occorre rispettare i diritti delle
minoranze e partecipare con uno spirito di tolleranza e di compromesso; occorre
mettere gli interessi del popolo e il legittimo sviluppo del processo politico
al di sopra dei propri interessi e del proprio partito. Senza questi elementi
fondamentali, le elezioni da sole non creano una vera democrazia.
Il quinto argomento del quale dobbiamo occuparci tutti insieme è la libertà
religiosa. L'Islam ha una fiera tradizione di tolleranza: lo vediamo nella
storia dell'Andalusia e di Cordoba durante l'Inquisizione. Con i miei stessi
occhi da bambino in Indonesia ho visto che i cristiani erano liberi di
professare la loro fede in un Paese a stragrande maggioranza musulmana. Questo
è lo spirito che ci serve oggi. I popoli di ogni Paese devono essere liberi di
scegliere e praticare la loro fede sulla sola base delle loro convinzioni
personali, la loro predisposizione mentale, la loro anima, il loro cuore.
Questa tolleranza è essenziale perché la religione possa prosperare, ma purtroppo
essa è minacciata in molteplici modi.
Tra alcuni musulmani predomina un'inquietante tendenza a misurare la propria
fede in misura proporzionale al rigetto delle altre. La ricchezza della
diversità religiosa deve essere sostenuta, invece, che si tratti dei maroniti
in Libano o dei copti in Egitto. E anche le linee di demarcazione tra le varie
confessioni devono essere annullate tra gli stessi musulmani, considerato che
le divisioni di sunniti e sciiti hanno portato a episodi di particolare
violenza, specialmente in Iraq.
La libertà di religione è fondamentale per la capacità dei popoli di convivere.
Dobbiamo sempre esaminare le modalità con le quali la proteggiamo. Per esempio,
negli Stati Uniti le norme previste per le donazioni agli enti di beneficienza
hanno reso più difficile per i musulmani ottemperare ai loro obblighi
religiosi. Per questo motivo mi sono impegnato a lavorare con i musulmani
americani per far sì che possano obbedire al loro precetto dello zakat.
Analogamente, è importante che i Paesi occidentali evitino di impedire ai
cittadini musulmani di praticare la religione come loro ritengono più
opportuno, per esempio legiferando quali indumenti debba o non debba indossare
una donna musulmana. Noi non possiamo camuffare l'ostilità nei confronti di una
religione qualsiasi con la pretesa del liberalismo.
È vero il contrario: la fede dovrebbe avvicinarci. Ecco perché stiamo mettendo
a punto dei progetti di servizio in America che vedano coinvolti insieme
cristiani, musulmani ed ebrei. Ecco perché accogliamo positivamente gli sforzi
come il dialogo interreligioso del re Abdullah dell'Arabia Saudita e la
leadership turca nell'Alliance of Civilizations. In tutto il mondo, possiamo
trasformare il dialogo in un servizio interreligioso, così che i ponti tra i
popoli portino all'azione e a interventi concreti, come combattere la malaria
in Africa o portare aiuto e conforto dopo un disastro naturale.
Il sesto problema di cui vorrei che ci occupassimo insieme sono i diritti delle
donne. So che si discute molto di questo e respingo l'opinione di chi in
Occidente crede che se una donna sceglie di coprirsi la testa e i capelli è in
qualche modo "meno uguale". So però che negare l'istruzione alle
donne equivale sicuramente a privare le donne di uguaglianza. E non è certo una
coincidenza che i Paesi nei quali le donne possono studiare e sono istruite
hanno maggiori probabilità di essere prosperi.
Vorrei essere chiaro su questo punto: la questione dell'eguaglianza delle donne
non riguarda in alcun modo l'Islam. In Turchia, in Pakistan, in Bangladesh e in
Indonesia, abbiamo visto Paesi a maggioranza musulmana eleggere al governo una
donna. Nel frattempo la battaglia per la parità dei diritti per le donne
continua in molti aspetti della vita americana e anche in altri Paesi di tutto
il mondo.
Le nostre figlie possono dare un contributo alle nostre società pari a quello
dei nostri figli, e la nostra comune prosperità trarrà vantaggio e beneficio
consentendo a tutti gli esseri umani - uomini e donne - di realizzare a pieno
il loro potenziale umano. Non credo che una donna debba prendere le medesime
decisioni di un uomo, per essere considerata uguale a lui, e rispetto le donne
che scelgono di vivere le loro vite assolvendo ai loro ruoli tradizionali. Ma questa
dovrebbe essere in ogni caso una loro scelta. Ecco perché gli Stati Uniti
saranno partner di qualsiasi Paese a maggioranza musulmana che voglia sostenere
il diritto delle bambine ad accedere all'istruzione, e voglia aiutare le
giovani donne a cercare un'occupazione tramite il microcredito che aiuta tutti
a concretizzare i propri sogni.
Infine, vorrei parlare con voi di sviluppo economico e di opportunità. So che
agli occhi di molti il volto della globalizzazione è contraddittorio. Internet
e la televisione possono portare conoscenza e informazione, ma anche forme
offensive di sessualità e di violenza fine a se stessa. I commerci possono
portare ricchezza e opportunità, ma anche grossi problemi e cambiamenti per le
comunità località. In tutte le nazioni - compresa la mia - questo cambiamento
implica paura. Paura che a causa della modernità noi si possa perdere il
controllo sulle nostre scelte economiche, le nostre politiche, e cosa ancora
più importante, le nostre identità, ovvero le cose che ci sono più care per ciò
che concerne le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre tradizioni e la
nostra religione.
So anche, però, che il progresso umano non si può fermare. Non ci deve essere
contraddizione tra sviluppo e tradizione. In Paesi come Giappone e Corea del
Sud l'economia cresce mentre le tradizioni culturali sono invariate. Lo stesso
vale per lo straordinario progresso di Paesi a maggioranza musulmana come Kuala
Lumpur e Dubai. Nei tempi antichi come ai nostri giorni, le comunità musulmane
sono sempre state all'avanguardia nell'innovazione e nell'istruzione.
Quanto ho detto è importante perché nessuna strategia di sviluppo può basarsi
soltanto su ciò che nasce dalla terra, né può essere sostenibile se molti
giovani sono disoccupati. Molti Stati del Golfo Persico hanno conosciuto
un'enorme ricchezza dovuta al petrolio, e alcuni stanno iniziando a programmare
seriamente uno sviluppo a più ampio raggio. Ma dobbiamo tutti riconoscere che
l'istruzione e l'innovazione saranno la valuta del XXI secolo, e in troppe
comunità musulmane continuano a esserci investimenti insufficienti in questi
settori. Sto dando grande rilievo a investimenti di questo tipo nel mio Paese.
Mentre l'America in passato si è concentrata sul petrolio e sul gas di questa
regione del mondo, adesso intende perseguire qualcosa di completamente diverso.
Dal punto di vista dell'istruzione, allargheremo i nostri programmi di scambi
culturali, aumenteremo le borse di studio, come quella che consentì a mio padre
di andare a studiare in America, incoraggiando un numero maggiore di americani
a studiare nelle comunità musulmane. Procureremo agli studenti musulmani più
promettenti programmi di internship in America; investiremo sull'insegnamento a
distanza per insegnanti e studenti di tutto il mondo; creeremo un nuovo network
online, così che un adolescente in Kansas possa scambiare istantaneamente
informazioni con un adolescente al Cairo.
Per quanto concerne lo sviluppo economico, creeremo un nuovo corpo di volontari
aziendali che lavori con le controparti in Paesi a maggioranza musulmana.
Organizzerò quest'anno un summit sull'imprenditoria per identificare in che
modo stringere più stretti rapporti di collaborazione con i leader aziendali,
le fondazioni, le grandi società, gli imprenditori degli Stati Uniti e delle
comunità musulmane sparse nel mondo.
Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, lanceremo un nuovo fondo
per sostenere lo sviluppo tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana, e per
aiutare a tradurre in realtà di mercato le idee, così da creare nuovi posti di
lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e
nel Sudest asiatico; nomineremo nuovi inviati per la scienza per collaborare a
programmi che sviluppino nuove fonti di energia, per creare posti di lavoro
"verdi", monitorare i successi, l'acqua pulita e coltivare nuove
specie. Oggi annuncio anche un nuovo sforzo globale con l'Organizzazione della
Conferenza Islamica mirante a sradicare la poliomielite. Espanderemo inoltre le
forme di collaborazione con le comunità musulmane per favorire e promuovere la
salute infantile e delle puerpere.
Tutte queste cose devono essere fatte insieme. Gli americani sono pronti a
unirsi ai governi e ai cittadini di tutto il mondo, le organizzazioni
comunitarie, gli esponenti religiosi, le aziende delle comunità musulmane di
tutto il mondo per permettere ai nostri popoli di vivere una vita migliore.
I problemi che vi ho illustrato non sono facilmente risolvibili, ma abbiamo
tutti la responsabilità di unirci per il bene e il futuro del mondo che
vogliamo, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri
popoli e nel quale i soldati americani possano tornare alle loro case; un mondo
nel quale gli israeliani e i palestinesi siano sicuri nei loro rispettivi Stati
e l'energia nucleare sia utilizzata soltanto a fini pacifici; un mondo nel
quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i
figli di Dio siano rispettati. Questi sono interessi reciproci e condivisi.
Questo è il mondo che vogliamo. Ma potremo arrivarci soltanto insieme.
So che molte persone - musulmane e non musulmane - mettono in dubbio la
possibilità di dar vita a questo nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di
alimentare la fiamma delle divisioni, e di intralciare in ogni modo il
progresso. Alcuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che
siamo predestinati a non andare d'accordo, e che le civiltà siano avviate a
scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici e dubitano fortemente che
un cambiamento possa esserci. E poi ci sono la paura e la diffidenza. Se
sceglieremo di rimanere ancorati al passato, non faremo mai passi avanti. E
vorrei dirlo con particolare chiarezza ai giovani di ogni fede e di ogni Paese:
"Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare questo
mondo".
Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La
domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo
momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme
per uno sforzo - un lungo e impegnativo sforzo - per trovare un comune terreno
di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri
figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani.
È più facile dare inizio a una guerra che porle fine. È più facile accusare gli
altri invece che guardarsi dentro. È più facile tener conto delle differenze di
ciascuno di noi che delle cose che abbiamo in comune. Ma nostro dovere è
scegliere il cammino giusto, non quello più facile. C'è un unico vero
comandamento al fondo di ogni religione: fare agli altri quello che si vorrebbe
che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli, è un
principio, un valore non certo nuovo. Non è nero, non è bianco, non è marrone.
Non è cristiano, musulmano, ebreo. É un principio che si è andato affermando
nella culla della civiltà, e che tuttora pulsa nel cuore di miliardi di
persone. È la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha
condotto qui oggi.
Noi abbiamo la possibilità di creare il mondo che vogliamo, ma soltanto se
avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, tenendo in mente ciò che è
stato scritto. Il Sacro Corano dice: "Oh umanità! Sei stata creata maschio
e femmina. E ti abbiamo fatta in nazioni e tribù, così che voi poteste
conoscervi meglio gli uni gli altri". Nel Talmud si legge: "La Torah
nel suo insieme ha per scopo la promozione della pace". E la Sacra Bibbia
dice: "Beati siano coloro che portano la pace, perché saranno chiamati
figli di Dio".
Sì, i popoli della Terra possono convivere in pace. Noi sappiamo che questo è
il volere di Dio. E questo è il nostro dovere su questa Terra. Grazie, e che la
pace di Dio sia con voi.