Da diritto.it 28-2-2008
Perché
l’Italia non è un paese democratico
Di
Felice Lima *
L’ennesimo fatto inquietante, accolto dal Paese senza
adeguate reazioni – la censura della trasmissione Annozero
da parte di una Autorità garante che non
garantisce ciò che dovrebbe –, riporta sotto gli occhi di tutti il
gravissimo deficit di democrazia che c’è in Itala.
C’è nella cultura diffusa del nostro Paese un colossale equivoco,
frutto, peraltro, di una propaganda mistificatoria perseguita con costanza
dai tanti che vi hanno interesse, per il quale si crede che la democrazia sia
solo un luogo nel quale i cittadini scelgono mediante elezioni chi li
governa.
Riducendo a questo la democrazia, ogni volta che qualcuno avanza dubbi sul
fatto che l’Italia sia un paese democratico gli si sbatte in faccia a muso
duro come sia sotto gli occhi di tutti che i governanti vengono scelti
mediante libere elezioni. E si chiude la discussione. Spesso anche con
aggiunta di contumelie basate su quelle che sembrano sussiegose disquisizioni
sui danni dell’“antipolitica” ma sono in realtà stupidissime
banalità e avvilenti luoghi comuni.
A tale assunto vanno opposte, però, due obiezioni.
Una, per così dire circostanziale, consistente nell’osservare che, per
un verso, i cittadini elettori non possono votare per chiunque, ma solo per
coloro che vengono candidati da quei centri di potere che sono i partiti e
che, per altro verso, al momento vige in Italia una legge elettorale che
addirittura non consente agli elettori neppure di esprimere un voto di
preferenza. Sicché non solo possiamo votare solo per quelli che ci vengono
indicati dai partiti, ma neppure fra quelli possiamo scegliere chi ci piace.
In sostanza, oggi, nel nostro Paese sono i responsabili dei partiti a
decidere prima delle elezioni chi andrà Parlamento, assegnandogli un
posto piuttosto che un altro nelle liste e nei collegi.
La seconda obiezione, per così dire strutturale, consistente
nell’osservare che la democrazia non è essenzialmente un “metodo di
scelta del governante”, ma prevalentemente un “metodo di
esercizio del potere” e un “sistema di relazioni fra i consociati”.
Proverò a sviluppare queste tesi, perché, a mio modesto parere, solo
se riconoscerà questo sarà possibile, per un verso, capire
quanto grave sia la malattia della quale stiamo morendo e, per altro verso,
quali siano le cure possibili per essa.
Partendo dalla questione della scelta del governante, sembra chiaro che, se
si dovesse scegliere fra vivere in un Paese nel quale il capo del governo
viene scelto dai cittadini con libere elezioni, ma poi governa come dice lui,
facendosi le leggi che gli servono e abrogando quelle che non gli convengono
(pensate a Berlusconi assolto qualche settimana fa perché, nel
corso del suo processo, il Parlamento ha deciso che il falso in bilancio non
è più reato), o in un Paese nel quale governa un re incoronato
per successione dinastica, che, però, governa nel rispetto di regole
precise, ritenendosi anch’egli soggetto alle leggi che si applicano a tutti
gli altri cittadini, ognuno sceglierebbe il secondo Paese, perché esso
sarebbe certamente “più democratico” del primo.
Dunque, è certo che neppure in un Paese più decente del nostro,
nel quale i cittadini possano esprimere un voto di preferenza, il solo fatto
che i governanti vengano fatti risultare da un qualche tipo (anche taroccato
come il nostro) di “libera elezione” è sufficiente a dire che quel
Paese è “democratico”.
La democrazia, dicevo, è, infatti e
fondamentalmente, un metodo di esercizio del potere.
L’elenco delle caratteristiche che deve avere un metodo di esercizio del
potere per potersi definire democratico è lungo, ma, per
brevità, mi limiterò al principio della separazione dei poteri
figlio della rivoluzione francese.
Riducendolo all’osso, l’idea è che un gruppo di persone fa le leggi
(il potere legislativo), altri le applicano (l’esecutivo, il governo), altri
ancora (i giudici) controllano che la legge venga rispettata da tutti.
Riducendo ancora di più, l’idea è che tutti sono soggetti alla
legge e che “la legge è uguale per tutti”.
Ai tempi dei faraoni, la legge era solo la manifestazione della
volontà del faraone.
La legge era uno “strumento” del potere.
Nella logica della democrazia post rivoluzionaria, invece, la legge è
il valore e il potere uno strumento della legge.
Il Parlamento dovrebbe avere per così dire una “antecendenza logica” sul Governo.
Non a caso si parlava di “Parlamento sovrano”.
Il Parlamento dovrebbe decidere cos’è “giusto” e il Governo
vi dovrebbe dare attuazione.
Mi sembra che non ci possano essere dubbi sul fatto che oggi in Italia siamo
tornati alla situazione che ho indicato come quella dei tempi del faraone.
Il potere non si chiede affatto “cosa è giusto e legale che io faccia”,
ma “che
leggi debbo fare al più presto per potere fare ciò che voglio
fare”.
Dunque, non è lo Stato al servizio della legge, ma la legge al
servizio dello Stato.
Da qui quella che anni fa fu discussa come la “crisi del parlamentarismo”
e che oggi neppure si discute più (o meglio si discute in un altro
senso, connesso all’inquietante concetto di “governabilià”),
essendo noi ormai molto oltre quella crisi.
Oggi il Governo decide quello che vuole e il Parlamento fa una legge che
glielo consente.
Una controrivoluzione, che ha sovvertito l’ordine dei valori.
Dal dominio della legge, con il potere che gli obbedisce e gli è
sottomesso, al dominio della volontà, del potere, con la legge come
strumento.
Insomma, la logica del faraone, con la sola differenza che anziché il potere
essere concentrato nelle mani di uno, come allora,
è oggi nelle mani di un gruppo di persone.
E ancora si progettano leggi elettorali e assetti costituzionali che
concentrino di più il potere; ancora politici quasi onnipotenti
piagnucolano per la mancanza dei poteri che gli sarebbero “necessari”
per “fare
il bene”; mentre ogni giorno si creano nuovi “commissari
straordinari” liberati dai vincoli di questa o quella legge.
Tutto questo è frutto di e dà luogo a una serie di paradossi.
Anzitutto, in Italia la separazione dei poteri è stata sempre ed
è sempre più solo apparente.
Essa dovrebbe essere una TRIpartizione (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma, invece, è
già costituzionalmente solo una Bipartizione, perché il potere
legislativo e quello esecutivo coincidono: chi sta al governo (potere
esecutivo) ha anche la maggioranza in Parlamento (potere legislativo).
Certo, nella Costituzione questo rapporto fra legislativo ed esecutivo era
concepito come più “democratico” (basti dire che la
Costituzione prevede che ogni parlamentare rappresenta l’intero corpo
elettorale – e non solo i suoi elettori – e che è libero da vincoli di
mandato – e dunque non è tenuto a obbedire al segretario del suo
partito), ma nell’epoca dei “pianisti” in Parlamento (grazie ai
quali anche gli assenti votano) e degli sputi in faccia in piena assemblea
del Senato al senatore che non obbedisce agli ordini del segretario del
partito tutto assume altri connotati e altro senso.
In definitiva, dunque, la separazione dei poteri è affidata a un solo
asse: quello fra politico e giudiziario.
Ed è di tutta evidenza che si tratta di un asse molto delicato e
assolutamente non in grado di reggere un suo uso improprio.
Il potere giudiziario ha strumenti esclusivamente repressivi ed è
evidente che, anche se il potere politico creasse le condizioni per una
attualmente inesistente efficienza del sistema giudiziario, la sola
repressione “ex post” dei reati non potrebbe dare rimedio a un
difetto di legalità che è oggi assolutamente diffuso in tutti gli
snodi centrali della vita del Paese.
Per di più, proprio perché l’ultimo residuo opaco di separazione dei
poteri – che è il presupposto per la speranza di una democrazia –
è affidato all’asse politico/giudiziario, il potere politico lavora
alacremente da anni – facendo a volte (quando una delle tante leggi ad personam è urgente per salvare il potente di turno
da un processo) anche le notti in Parlamento – per rendere sempre più
inefficace il sistema giudiziario, facendo sì che non possa “nuocere”
(in questi giorni si sta lavorando alla legge “contro”“doppio
binario”, per il quale il sistema giudiziario sia efficiente contro i poveri
cristi e innocuo per i potenti: oggi in Italia (e non è una battuta,
ma la triste realtà) la contraffazione di una borsa di marca è
punita con pene più severe di un falso in bilancio che, fino
all’ammontare in alcuni di casi di molti milioni di euro non è punito per
nulla e dopo è punito con pene meno severe di quelle della
contraffazione predetta (sulla logica che sta alla base del “doppio binario”,
rinvio all’intervista di Bruno Tinti “Una giustizia forte con i deboli e debole con i
forti”).
A
tutto questo, poi, si deve aggiungere il fatto che i magistrati sono poco
più di 8.000 cittadini come tutti gli altri e, dunque, tanti di loro
sono, al pari dei loro concittadini, sensibili alle lusinghe e alle minacce,
sicché “il potere” può confidare anche sulla disponibilità di
tanti magistrati a “chiudere un occhio” o, come è più elegante
dire, a “essere equilibrati” e “prudenti”.
Peraltro,
è sotto gli occhi di tutti quali e quante “persecuzioni” subiscano –
da fuori, ma purtroppo anche da dentro l’amministrazione della giustizia – i
magistrati “insubordinati”. le
intercettazioni telefoniche) e, da ultimo, creando un
Un’altra caratteristica dei sistemi democratici è l’esistenza di
controlli di legalità numerosi e diffusi.
La democrazia è un metodo di esercizio del potere e in una
società democratica ogni potere è soggetto a controlli numerosi
e diversi, diffusi a vari livelli dell’organizzazione sociale.
Anche il sistema italiano sarebbe (purtroppo solo del tutto apparentemente)
così.
Per fare degli esempi, se ci si vuole assentare dal lavoro per malattia,
bisogna documentare la malattia con un certificato medico.
Quando viene realizzata un’opera pubblica, si nomina una commissione di
collaudo che, compensata da onorari faraonici (in percentuale del valore
dell’opera), ne dovrebbe verificare la perfetta realizzazione.
Le società che stanno sul mercato hanno revisori dei conti e sindaci.
Ma tutti abbiamo esperienza di come i certificati medici a volte vengano
chiesti per telefono e lasciati in portineria e di come praticamente mai una
commissione di collaudo abbia fatto demolire un’opera pubblica realizzata
male (e quante ce ne sono di realizzate male
è sotto gli occhi di tutti).
E’ proprio di questi giorni l’esito di un’inchiesta giudiziaria che ha
consentito di accertare che importanti opere pubbliche sono state realizzate
con calcestruzzo dosato in maniera fraudolenta (opere, ovviamente, collaudate
positivamente).
Quanto a revisori dei conti e sindaci, Cirio e Parmalat stanno lì a
dimostrare come questi professionisti intendano i loro ruoli.
L’Italia è oggi la patria delle certificazioni di comodo, dei pareri “pro veritate” bugiardi, delle documentazioni
costruite ad hoc, dei bandi di gara scritti su misura di quel candidato o di
quella impresa, dei bilanci falsi o “creativi”.
Quello giudiziario, che dovrebbe essere l’ultimo controllo, quello
eccezionale, è rimasto l’unico. E per giunta anche a quello si tende a
togliere valore.
Il Presidente di una Regione viene condannato (in primo grado) a cinque anni di carcere per avere favorito dei
mafiosi (benché non ricorra l’aggravante dell’avere agito “al fine di
favorire la mafia”) ed esponenti politici fra i più
potenti del Paese gli dichiarano stima e solidarietà e gli promettono
che lo candideranno al Senato.
Un senatore (Previti) viene infine, dopo innumerevoli ostacoli frapposti ai
processi (rinvii pretestuosi, leggi ad personam,
insulti ai giudici, ecc.), condannato con sentenza definitiva
all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e, mentre l’intero Parlamento
fa una legge di indulto tagliata esattamente su misura (tre anni) per farlo
uscire dal carcere, il Senato impiega un anno a prendere atto della sentenza
e dichiararlo decaduto dalla carica di senatore. Il tutto con il Previti
(esponente della destra) difeso dall’avv. Giovanni Pellegrino, esponente di
primo piano dei Democratici di Sinistra, quasi a voler dare una testimonianza
pubblica inconfutabile del fatto che l’asse “destra/sinistra” in
realtà non è un vero fronte di opposizione, ma solo un criterio
(tra i tanti possibili) di spartizione (del potere).
Nel nostro Paese l’opposizione non esiste, è solo
una “modalità
di spartizione del potere”. Siamo l’unico Paese dove è
stato possibile a dei partiti dirsi contemporaneamente “di governo”
e “di
opposizione”.
Ora, ci si immagini come sarebbe il nostro Paese se i medici non redigessero
certificati falsi; se le commissioni di collaudo di strade e ponti
rilevassero i vizi di quelle opere, costringendo le imprese a realizzarle
bene e facendogli pagare le sanzioni pecuniarie contrattuali per i vizi
rilevati; se i banchieri e i bancari non si prestassero a operazioni “dubbie”
e se sindaci e revisori dei conti vigilassero sui bilanci delle
società.
La giustizia penale sarebbe l’“ultima spiaggia”, il “rimedio straordinario”
ed eccezionale.
Oggi, invece, è l’unico.
Ma le malattie si possono curare negli ospedali solo se la popolazione
è generalmente sana e le malattie sono poche e subito riconosciute
come tali.
Ma se un intero popolo avvelenasse gli acquedotti, non curasse l’igiene,
facesse circolare e vendesse cibi deteriorati, ben poco potrebbero fare gli
ospedali e, nello sfacelo di epidemie senza controllo, tutti comincerebbero a
fare domande del tipo: “Ma perché hanno curato quello lì e non
quella là?” Un po’ come accade con la giustizia, quando,
sistematicamente, ad ogni arresto eccellente, qualcuno chiede perché sia
stato arrestato quello e non quell’altro.
Infine – e, a mio modesto parere, è la parte più rilevante
della questione – la democrazia è anche un “sistema di relazioni fra i
consociati”.
C’è democrazia in un posto nel quale i cittadini si ritengono titolari
di uguali diritti e, soprattutto, sono disposti a riconoscersi reciprocamente
questi diritti.
In un paese “democratico” i cittadini rivendicano i loro diritti, ma
non si sognano di procurarsi privilegi.
E il nostro, sotto questo profilo, è l’esatto contrario di un paese
democratico.
Troppi italiani non cercano, non chiedono e non si battono per ottenere il
rispetto delle regole e dei diritti di tutti, ma, al contrario, cercano di
perseguire il proprio interesse personale “a qualunque costo”.
Se si considera quanti italiani non pagano le tasse, quanti realizzano
costruzioni abusive, quanti si fanno raccomandare (con
ciò ledendo i diritti di chi viene “scavalcato”), quanti non rispettano
le regole più diverse, gli obblighi contrattuali, i doveri più
vari, quanti frodano le assicurazioni, ci si rende conto di come sia
possibile che un’intera classe dirigente non si vergogni dei suoi misfatti.
Il “popolo
italiano” non vuole da chi ha potere giustizia, correttezza,
rispetto delle regole, ma favori, “risultati”,
“vantaggi”.
Nei giorni dell’arresto della moglie del ministro della giustizia Mastella,
un telegiornale ha mostrato delle interviste a concittadini del ministro.
Più d’uno ha indicato come motivo di stima per il ministro il fatto
che “quando
ho avuto bisogno di fare curare un parente, lui è stato
disponibilissimo”.
Ora, una democrazia è un luogo nel quale le cure sono un diritto e non
un favore che si deve chiedere e ricevere a e da un uomo potente.
Quando vedo un politico o una persona comunque potente fare cose inquietanti
che violano i fondamenti del vivere civile e della democrazia, mi scoraggio
non tanto per le concrete conseguenze di quel gesto, ma per ciò che
significa con riferimento allo stato nella nostra civiltà (forse
meglio “inciviltà”).
Perché se quelle cose vengono fatte sotto gli occhi di tutti, vuol dire che “si possono
fare”.
Se l’intera classe dirigente del Paese può fondare il suo potere su
menzogne, se i telegiornali possono essere falsi, se i concorsi truccati, se,
da ultimo (fatto che avrebbe dovuto suscitare un’ondata di proteste
indignate) una Autorità per le comunicazioni
può “censurare” un programma di informazione solo perché scomodo,
se nella Commissione parlamentare antimafia ci sono deputati con gravi
precedenti penali, vuol dire che questo “si può fare”, vuol dire che
questo non suscita la reazione che ci sarebbe in un Paese almeno un po’ “democratico”.
Così stando le cose, ciò che ci sta accadendo non è di
essere una società di persone perbene governate male, ma di essere un
popolo di “furbi”, di approfittatori, di egoisti, di cinici, di
disillusi che esprime, com’è inevitabile che sia, una classe dirigente
uguale a se stesso.
Dunque, non si tratta di fare una qualche legge che regoli come scegliere chi
ci deve governare, ma di lavorare perché la società migliori se
stessa, così che anche la sua classe dirigente sia conseguentemente
migliore.
Sono consapevole che questa affermazione è dura e che gli italiani non sono minimamente disposti a condividerla, ma deve far
riflettere che solo settant’anni fa, a pochi chilometri da casa nostra, sono
stati uccisi seimilioni di ebrei e non li ha uccisi Hitler. Li hanno uccisi
tanti “bravi
cittadini tedeschi”, ciascuno facendo qualcosa di asseritamente incolpevole: uno guidava treni (che
però andavano ad Auscwitz), un altro faceva
elenchi di abitanti del quartiere (segnando con una ics
quelli ebrei), un altro montava un impianto di tubi (che però sarebbe
servito a fare arrivare il gas che avrebbe ucciso), eccetera.
Tutti facevano parte di una terrificante fabbrica del male, della quale poi
hanno dato la colpa a uno solo. Ma Hitler non avrebbe potuto fare quello che
ha fatto se ai suoi comizi non ci fossero stati milioni di “bravi
tedeschi” plaudenti.
Così come non verrebbero candidati in Parlamento dei pregiudicati, se
non ci fossero milioni di persone che li votano.
E in Italia oggi non ci potrebbe essere un autentico regime, che produce una informazione falsa e mistificatrice, se non ci fossero
milioni di bravi telespettatori contenti di votare le nominations
del Grande Fratello.
La nostra crisi è una crisi grave e profonda. Non è una crisi contingente, ma strutturale. Non può essere risolta
da una o più leggi, né da migliori poliziotti o magistrati più
efficienti (che pure sarebbero una gran cosa).
Non ci sono soluzioni formali a problemi sostanziali.
Di una sola cosa c’è bisogno e una sola cosa ci potrebbe salvare: un
serio recupero di una cultura del rispetto degli altri e delle regole.
Questo va dicendo da tempo Gherardo Colombo, che, per testimoniarlo ha anche
lasciato la magistratura e va in giro per il Paese insegnando “cultura della legalità”.
Abbiamo davvero il dovere di prendere sul serio questa lezione e di
cominciare a cambiare il nostro Paese cambiando noi stessi, rifiutando
qualunque forma di complicità a questo sistema, difendendo, a casa
nostra, nel nostro posto di lavoro, fra i nostri amici, l’idea stessa di una
vita civile e democratica.
Non si sa se riusciremo o no nell’impresa, ma almeno non saremo stati
complici di una epoca buia di degrado e
inciviltà.
Il nostro Paese ha vissuto epoche diverse.
Nel dopoguerra ha vissuto un’epoca di impegno e di ricostruzione.
Nel ‘68 ha vissuto (qualunque sia il giudizio che ognuno dà di quel
tempo) un’epoca di utopia: erano gli anni nei quali Ian
Palach si dava fuoco a Praga per protestare contro
l’invasione del suo paese da parte della Unione
Sovietica.
Quella odierna è l’epoca del “calcolo”: tutti, prima di
impegnarsi, vogliono sapere se il loro impegno sarà coronato da
successo.
Nessuno è disposto a un impegno che sia un valore in sé.
Non ci si accontenta neppure di risultati anche ottimi, ma non “totali”
e “definitivi”.
Si cerca una sorta di “panacea”, qualcosa che “risolva” tutto
presto e definitivamente.
Ma questo è assolutamente illogico e crea l’humus nel quale
attecchiscono i “falsi profeti”, i governanti che promettono
felicità e benessere per tutti, tacendo sulle modalità concrete
con le quali questi obiettivi illusori verranno non raggiunti, ma fintamente
perseguiti.
Sul punto, preziose le considerazioni del prof. Zagrebelsky
in “Democrazia e principi. Il pericolo delle politiche
eudemoniste” e in “La giustizia tradita e strumentalizzata dal potere”.
Non so se ce la faremo o no a cambiare il corso preso dalla nostra storia, ma
l’unica possibilità di farcela è decidere che vale la pena di impegnarvicisi senza porre condizioni e di farlo non
chiedendoci cosa i “politici”, i “magistrati”, “gli altri”
possono fare per noi, ma cosa noi stessi possiamo fare per noi e per il
piccolo ambito nel quale ciascuno vive e opera.
Il 30 gennaio scorso è stato il 60° anniversario della morte di Mohandas
Karamchand Gandhi. Diceva Ghandi: “Siate voi il cambiamento che volete vedere nel
mondo”.
Come potremmo attendere da altri ciò che non siamo disposti a dare
noi?
Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)
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