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Documento d’interesse   Inserito il 17-2-2009


 

 

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Dialogo tra Gerardo Marotta e  Hans-Georg Gadamer (1999)

1) 
MAROTTA: Professor Gadamer nel Suo ultimo libro - da poco uscito in Germania e che viene preparato anche per la pubblicazione in italiano - Lei, parlando della gravità della crisi che investe l'Europa e il mondo, richiama alla mente l'esperienza di Platone nella Grecia della decadenza, ed afferma che la situazione europea è un po' simile, e che i filosofi, i pensatori si trovano oggi di fronte ad una situazione simile a quella nella quale si trovò Platone nell'esperienza che egli ebbe nell'Atene della decadenza. Cioè Platone si trovò di fronte al fallimento della classe politica di quel tempo, di fronte ad errori gravi di quella classe politica, per cui, quando dovette assistere nientemeno che alla condanna a morte del suo maestro Socrate, comprese e dovette concludere che la politica non era la strada attraverso la quale si dovessero risolvere i problemi della democrazia ateniese e della civiltà ateniese; e quindi non restava al vero uomo di cultura, al vero filosofo, che votarsi tutto alla filosofia, dedicarsi tutto alla filosofia, per creare una nuova classe dirigente. Ecco perché Platone fondò l'Accademia. Lei ritiene quindi - constatato che ci troviamo in questa crisi per cui siamo di fronte all'incapacità delle classi dirigenti di risolvere politicamente il problema - che oggi il filosofo debba dedicarsi tutto alla filosofia e che la filosofia possa rappresentare una soluzione per i nostri gravi problemi?

GADAMER: Penso sia molto istruttivo il paragone da cui Lei muove. La situazione di una civiltà in declino, come quella dell'Atene classica, è certamente analoga all'attuale situazione europea. Ciò che allora si intendeva per filosofia, philosophia, è attualmente rappresentato dall'intero mondo delle scienze con l'inclusione di ciò che anche oggi si chiama filosofia. Si tratta quindi di vedere come la cultura scientifica moderna possa intervenire, con il suo sapere e potere, nell'agire politico. Il politico di oggi opera in una situazione in cui diviene difficile l'attuazione delle idee scientifiche e filosofiche. La moderna democrazia si basa su elezioni e su legislature della durata di quattro o cinque anni, ma il destino del mondo dipende da decisioni, da scelte che hanno conseguenze durevoli e vanno molto al di là di questo lasso di tempo. L'attuale problema europeo, davanti al quale stiamo, è questo: quattro anni di governo presentano una sproporzione, una discrepanza rispetto a scelte che decidono di decenni, di secoli e forse dello stesso destino del pianeta.

2)
MAROTTA: Tutti noi ammiriamo che Lei dalla Sua Heidelberg, a novanta anni, ogni anno compie un giro per i paesi d'Europa, specialmente in Italia, e anche negli Stati Uniti, per istruire i giovani: in questo modo Lei dimostra di sentire la responsabilità della Sua posizione di uomo di cultura, Platone direbbe di vero uomo di cultura. È infatti molto importante comprendere la differenza tra intellettuale di mestiere, di professione e il vero uomo di cultura, il vero filosofo. Da tutta la Sua esperienza si ricava come oggi la responsabilità dell'intellettuale, la responsabilità del vero uomo di cultura, sia in primo piano e che dalla cultura dipendono le sorti dell'umanità. Del resto Lei nella Sua risposta - chiarendo come per vera filosofia oggi si intenda il complesso della filosofia e delle scienze, che era tutto riassunto nell'antichità nella sola filosofia, madre di tutte le scienze - dà una responsabilità globale agli intellettuali, siano essi filosofi, siano essi scienziati. Eppure gli uomini di cultura di oggi sembrano chiudersi nel loro "particulare". È difficile trovare una personalità come Lei. Direi che i filosofi si sono chiusi nell'accademia, ed in fondo la figura dell'intellettuale si sia rimpicciolita rispetto agli aumentati bisogni del mondo, al bisogno enorme di vera cultura che ha l'umanità per potersi salvare. Gli uomini di cultura dovrebbero indicare una strada nuova, e i valori per formare un'umanità nuova, un'umanità diversa, che non sia guidata dai vecchi schemi e dai vecchi valori. Direi che l'intellettuale di oggi, l'uomo di cultura di oggi, non solamente si è rimpicciolito nei suoi orizzonti, ma non si può fare alcun paragone con gli uomini di cultura del '500, del '600, del '700, i quali avevano ben più chiara la missione dell'Europa, i doveri dell'Europa verso il mondo, e della cultura europea in particolare. Di fronte a fenomeni ed eventi storici terribili e drammatici - come quelli della conquista del Nuovo Mondo, del genocidio perpetrato nel Nuovo Mondo nella cancellazione delle grandissime civiltà degli Atzechi, degli Incas, dei Maya, degli orribili delitti perpetrati dai colonizzatori spagnoli e portoghesi - i grandi intellettuali e i grandi umanisti, come Bartolomeo de las Casas, Montaigne, Paracelso, Erasmo da Rotterdam, levarono alta la protesta per queste infamie dello spirito di rapina che si era andato formando nella mentalità europea, e seppero affrontare anche le monarchie. Las Casas infatti si è rivolto con grande fermezza a Carlo V, a Filippo II, da pari a pari, protestando per quello che avveniva nel Nuovo Mondo e contestando la politica delle monarchie. Questo coraggio, questa forza enorme che ebbero quei grandi umanisti - anche se essi rimasero sconfitti e vinse e prevalse lo spirito di rapina - questa forza, questa capacità di intervenire nella "cosa pubblica", nella politica, oggi non c'è più. E non c'è più nemmeno quello spirito illuminista degli intellettuali del '700 in Europa i quali, anche attraverso sofisticati mezzi letterari, seppero assumere, nelle loro opere, la parte del persiano, la parte dell'egiziano che giudica l'Europa, e seppero quindi studiare anche queste altre civiltà per mettersi dalla parte degli interlocutori dell'Oriente che, vedendo l'Europa, coglievano la situazione disperata nella quale si trovava. E quindi bisogna riconoscere che di fronte all'altissima coscienza di un Montesquieu, di un Diderot - il quale pubblica un intero volume sotto il nome di Raynal per criticare la politica europea - di fronte a uomini come Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri  che hanno saputo ergersi contro i governanti, contro coloro che dirigevano la politica europea, per dire che non era quella la via giusta, oggi l'intellettuale è ben poca cosa di fronte ai bisogni dell'umanità. E se noi guardiamo veramente la situazione della cultura europea, dobbiamo dire che non solamente l'intellettuale non riesce ad essere all'altezza della gravità della situazione, ma la sua stessa cultura non ha lo spessore di quella che è stata la cultura dei grandi umanisti, degli illuministi e di quella che è stata la grande cultura tedesca, del romanticismo tedesco, della filosofia classica tedesca, e neanche , voglio dire, lo spessore di quella che era la cultura delle grandi figure come Gadamer, come Löwith, come Husserl. Praticamente non c'è niente di simile. Eppure il bisogno dell'Europa e del mondo è aumentato, nel senso che richiede che sorgano intellettuali di grande coscienza, di grande responsabilità, che sappiano interpretare il loro tempo e sappiano soprattutto comprendere il loro tempo, il compito che Hegel aveva assegnato ai filosofi. Di fronte a questa situazione, di fronte ad una situazione in cui manca anche la coscienza storica, sembra che gli intellettuali si diano tutti da fare a levare clamori alti, ed a confortarsi della crisi del marxismo e della crisi del mondo comunista, quasi per indicare il valore delle vecchie vie della politica europea; quelle vecchie vie che hanno portato al fallimento dell'Europa, alla perdita del suo ruolo di guida della civiltà, come un giorno Atene perse il suo ruolo di guida della civiltà, quando volle organizzare la guerra e la spedizione contro le città greche della Sicilia e andò incontro alla rovina. Rovina che le preannunciavano i grandi uomini di cultura ateniesi, i quali però non furono sentiti, non furono ascoltati. La spedizione partì e la flotta ateniese fu distrutta nei mari di Sicilia. Ora sembra quasi che la soluzione di tutto il problema sia la caduta del mondo comunista, la crisi del mondo comunista, e che questa crisi sia risolutiva di tutto. Gli intellettuali non hanno la capacità e l'altezza di comprendere che i problemi invece rimangono tutti sul tappeto, come è detto nel Suo libro sull'eredità dell'Europa. I problemi restano tutti sul tappeto. E quindi in questa cornice, in questo quadro, si inserisce il problema della crisi del marxismo. Il marxismo è entrato in crisi più volte nel nostro secolo. Cioè praticamente il marxismo indicava semplicemente - e soprattutto l'interpretazione che si faceva del marxismo - come i problemi dell'umanità fossero tutti economici e non si trattasse invece di costruire un nuovo uomo con altri valori, una nuova umanità con altri valori che non fossero quelli del successo, dell'arricchimento, del saccheggio, della rapina. Ed in sostanza l'Europa è rimasta quella dei mercanti, è rimasta quella delle gare economiche, quella delle preoccupazioni finanziarie e delle scalate alla ricchezza. La habendi rabies, "l'avidità di possesso", che caratterizza oggi tanta parte del mondo, e che sembra al centro degli interessi del mondo, fu criticata invece dai grandi intellettuali dei secoli passati. Oggi naturalmente spetta agli economisti, ai filosofi, agli scienziati saper immaginare un nuovo mondo, saper indicare le vie d'uscita da questa gravissima crisi. Lei ha scritto un meraviglioso articolo per "Il Mattino" in cui appunto addita all'Europa la possibilità di una catastrofe se a un certo punto non si cambia la guida del mondo, non si cambiano i criteri di guida del mondo. Questo mi pare debba essere posto al centro invece di irridere semplicemente alla crisi di una ideologia, lasciando sul tappeto invece insoluti i veri, gravi problemi dell'umanità che si sono accumulati e sono diventati sempre più gravi nei secoli. La sconfitta dell'umanesimo è il punto da cui noi dobbiamo ripartire per una ripresa della coscienza storica europea. Non Le sembra Professore?

GADAMER: In un'epoca di transizione, come quella in cui viviamo, è molto difficile considerare compiti a breve scadenza. Nella Sua esposizione Lei ha giustamente incluso non solo Atene, ma anche gli albori dell'Europa. Questa ha esercitato così a lungo la sua egemonia culturale ed economica da porci oggi di fronte a compiti del tutto nuovi, al cui interno però l'impegno dell'Europa non si è rimpicciolito, ma è diverso. Cosa può attendersi dalla cultura l'impegno per il risanamento dell'umanità su questo pianeta? La cultura ha un grande vantaggio rispetto a tutti gli altri beni che hanno un ruolo nella vita politica; questi ultimi sono fatti in modo tale da diminuire se vengono ripartiti, se ne riceve solo una parte. La cultura invece è l'unico bene dell'umanità che diventa più grande se molti partecipano ad essa. Questo è per cosi dire l'impegno, il compito del futuro. Viviamo in un mondo in cui non si tratta più solo di ripartire i beni per avere una più equa distribuzione tra ricchezza e povertà, tra la mancanza di presupposti per una vita sana e buona e la sovrabbondanza di lusso e di civilizzazione. L'Europa ha un pesante destino in quanto potenza economica di primo piano, alleata ad altre due grandi potenze economiche che mettono in opera e sviluppano i fattori determinanti della scienza europea. Perciò dubito molto che l'impresa di risanamento possa riuscire se non eleviamo, non incrementiamo la nostra cultura, ossia se non favoriamo la comprensione reciproca per le cose che determinano la qualità della vita. Qui forse possiamo realmente trovare il giusto insegnamento, l'indicazione del giusto cammino. Partendo dalle mie idee e convinzioni filosofiche parlerei a questo proposito di riflessione ermeneutica. Sono cioè convinto che noi non ci conosciamo così bene come ci conoscono gli altri, e gli altri non si conoscono così bene come li conosciamo noi. Questo è il destino dell'uomo, egli è così dominato dai propri interessi e dalle passioni da non riuscire ad ascoltare, a prestare attenzione a ciò che in fondo anima tutti. La crisi del marxismo è stata in sostanza la crisi dell'applicazione di un'importante forma politico-sociale e politico-economica e dei suoi obiettivi di dominio. Si tratta quindi di qualcosa di completamente diverso dalla cooperazione tra la massa degli uomini, che conducono la loro vita, e la classe dirigente, i politici, gli economisti. Il compito del futuro riguarda la presa di coscienza del fatto che non c'è una realtà ideale, ma possono tuttavia esistere approssimazioni alla comprensione reciproca e si può giungere a forme di solidarietà. Ne è un esempio l'ecologia o il fatto che tutte le decisioni da prendere sono possibili, al giorno d'oggi, solo grazie alla cooperazione di tutti i paesi del mondo. Noi possiamo contribuire alla formazione di una coscienza che ci faccia riconoscere questi compiti come "nostri". A questo scopo dobbiamo indebolire gli egoismi nazionali, gli egoismi personali e distogliere l'uomo dall'ossessione di perseguire le proprie mete. Se vogliamo sopravvivere si devono poter considerare gli altri in relazione con noi, come qualcosa di analogo a noi, come un'istanza che possa continuamente liberarci dall'abbaglio e dall'accecamento. Questo mi sembra essere il compito della cultura. E quella riflessione filosofica, capace di fondare questo compito contro tutte le obiezioni di coloro che la pensano diversamente, mi sembra faccia sperare in un reale esito positivo del futuro processo educativo, il quale, credo, abbia bisogno di molti decenni. Io posso soltanto esortare alla tolleranza, alla perseveranza e alla tenacia. L'avanzare del potere scientifico moderno, la rivoluzione industriale, nella quale viviamo, sono cose che, pian piano, devono trovare nuove forme di adattamento ai compiti politici del futuro. Noi - ossia gli uomini che hanno a che fare con la cultura - possiamo forse preparare l'atmosfera per la disponibilità alla vera cooperazione fra le potenze guida dell'attuale umanità. Questa è la speranza con cui un filosofo guarda al futuro, verso cui nutre preoccupazione, ma anche fiducia; quella fiducia secondo cui, nel corso della storia europea e dei suoi presupposti cristiani, la ragione umana e, in definitiva, il sentimento di solidarietà fra gli uomini sono diventati molto diversi rispetto ai difficili tempi del passato, in cui non si consideravano con molta attenzione gli interessi degli altri, dei popoli limitrofi, degli avversari, dei rivali. Questa è per così dire la visione del ruolo della cultura nella vita dell'umanità che può avere un osservatore misurato, obiettivo e realista.

3)
MAROTTA: Professore, oggi che tutta l'Europa festeggia il Suo novantesimo compleanno e si riconosce in Lei perché La giudica il rappresentante più illustre della cultura europea e vede in Lei la più grande coscienza europea, potrebbe parlarci della Sua esperienza in Italia e spiegarci i motivi della Sua predilezione per l'Italia? Il Suo annuale viaggio in Italia è stato un po' paragonato ai viaggi di Platone nella Magna Grecia per attingere alla filosofia pitagorica e alla filosofia eleatica. Come Lei giustamente ha detto, l'Atene del quarto e del quinto secolo è un luminoso esempio di civiltà, ma tardo rispetto alla Magna Grecia del sesto secolo. Qui Platone è appunto venuto ad attingere il concetto della aletheia, della verità, dalla filosofia eleatica e ha inteso apprendere la matematica, la politica dai pitagorici. Ora Lei è stato chiamato il nuovo Platone, i suoi viaggi sono stati raffigurati e paragonati a quelli di Platone. C'è un'altra domanda che si fanno tutti in Italia: perché Hans-Georg Gadamer predilige soprattutto insegnare i temi della filosofia greca, del pensiero antico ? Ci si chiede come mai il Suo vademecum siano i libri di Platone e di Aristotele e perché Lei tenga a dare ai giovani, a trasmettere ai giovani, questi contenuti del pensiero antico e non insegni che raramente i principi della Sua filosofia. Anche se è vero che la Sua Weltanschauung ed i Suoi principi filosofici poi si inverano nell'insegnamento che Lei fa della filosofia antica e che quindi Lei tiene sempre presente i Suoi principi, la Sua filosofia, quando insegna i temi della filosofia antica. Allora ci racconta questo Suo viaggio di nuovo?

GADAMER: Grazie. Vorrei dire per prima cosa che naturalmente sono uno dei molti che per fortuna esistono ancora in Europa e riconoscono con piena consapevolezza l'impegno del nostro tempo per il futuro come un "compito proprio". Non sono così straordinario. Lei però ha fatto due domande. La prima riguarda il motivo per cui considero tanto importante l'insegnamento e la trasmissione della mia filosofia, delle mie idee filosofiche negli altri paesi. L'altra domanda riguarda il motivo per cui nel mio insegnamento filosofico ha un ruolo decisivo la filosofia greca. In effetti entrambi le questioni sono strettamente connesse. Infatti quello che viviamo nel nostro mondo attuale è la crisi di un'incredibile unilateralità, vediamo l'uomo insorgere contro la natura impugnando l'arma della scienza. L'energia con cui questa piccola Europa, con le sue idee civilizzatrici e con la sua potenza tecnologica, si è estesa in tutto il mondo, ci esorta ad indagare come sia possibile raggiungere un equilibrio migliore nella nostra vita; un equilibrio che permetta di non consumare più le nostre energie solo nella caccia furiosa di progresso, ma di promuovere nuovamente, attraverso l'arte ed il pensiero, il sorgere di grandi creazioni, volte alla cura e all'abbellimento della nostra vita, al suo arricchimento, e a promulgare così altri valori che possano attestarsi fra gli uomini e rendere felice l'umanità. Questo è il nostro peculiare compito. Ciò comporta un ritorno alle radici, alle origini da cui l'Europa si è sviluppata divenendo una potenza egemone nel processo di civilizzazione e nel campo economico. All'Europa appartengono anche gli Stati Uniti d'America e l'odierno Giappone. Entrambi sono in effetti conseguenze, emanazioni dell'enorme processo della rivoluzione industriale. Come possiamo, all'interno della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze, scegliere strade ed evidenziare forme che producano in questo mondo nuove forme di solidarietà tra la massa degli uomini e le forze guida e produttive? La mia filosofia è soltanto una delle formulazioni di questo compito, ma con essa spero di risvegliare, di sensibilizzare proprio la coscienza dei giovani e di far dire loro: "Ciò che è ora in gioco ci riguarda. Spetta dunque a noi iniziare a trovare, in modo misurato e tenace, le nuove forze che la vita richiede affinché l'incessante e furioso progresso non ci porti alla rovina ". A questo scopo possiamo apprendere molto dai greci e dalla cultura umanista che si nutre di quella greca. E se l'Italia è così attraente per me, ciò è dovuto principalmente al fatto che in questo paese la tradizione umanista, corrispondente allo spirito del popolo italiano, ha conservato una certa sensibilità per la misura, per la moderazione. Noi tedeschi abbiamo una modalità di vita del tutto opposta, siamo sempre spinti a prendere posizioni estreme e radicali, siamo abituati a lavorare energicamente. Ciò ha delle conseguenze. Nella produzione intellettuale, nella sfera del pensiero non siamo certamente gli ultimi, ma non abbiamo la coscienza naturale della misura, palesemente presente invece nella cultura latina e in quelle particolari forme, assimilate dal mondo culturale italiano, che trovo affascinanti ed istruttive. Questo è anche, in parte, il motivo per cui vengo volentieri in Italia ad insegnare filosofia. Sono andato anche in America e dovunque possa divulgare le mie idee avvalendomi, in una certa misura, della mia conoscenza delle lingue straniere. Non è possibile insegnare filosofia senza l'immediata capacità persuasiva del linguaggio vivo, parlato. Affidandosi soltanto alle traduzioni non si può destare, stimolare e rafforzare la capacità creativa del pensiero, non rimane quindi altro che avvalersi della lingua madre di ogni paese in cui si desidera esporre, divulgare le proprie idee. Questo è il motivo per cui ho iniziato, a questa tarda età, a viaggiare e a non insegnare soltanto nel mio paese, bensì, finché ne sarò in grado, anche in altri continenti, in altri ambiti e cerchie culturali. Purtroppo non parlo il giapponese, il cinese e il russo, ma se avessi saputo anche queste tre lingue avrei senz'altro raggiunto questi paesi per insegnare e divulgare i miei pensieri, e tentare così di rafforzare la solidarietà fra gli uomini, la loro disponibilità a quel colloquio che il futuro ci richiede.

4)
MAROTTA: Lei ha dichiarato, in un'intervista molto nota, che l'incontro della cultura, della filosofia, del pensiero occidentale con le grandi civiltà orientali, si è reso al giorno d'oggi indispensabile per la creazione di nuove categorie di pensiero che possano esprimere nuovi valori per l'umanità futura, e che questo potrebbe essere una delle vie per risolvere la crisi nella quale si trova l'umanità. L'incontro tra la civiltà occidentale e quella orientale può creare nuove categorie di pensiero. Vuole chiarire questo concetto delle nuove categorie di pensiero? Sembra una cosa molto interessante, che è stata seguita con molto interesse. Che cosa intende Lei per creazione di nuove categorie di pensiero attraverso l'incontro di queste civiltà? In effetti tutti coloro che si sono interessati in questo secolo alla civiltà orientale non hanno saputo porre l'accento su questo punto. Hermann Hesse ha espresso la sua grande ammirazione per le civiltà dell'Oriente, però non è stata mai indicata così concretamente, specificamente, come Lei ha indicato nelle Sue interviste, questa via nuova, questa strada della creazione di nuove categorie di pensiero come risultato di questo incontro delle civiltà occidentali e orientali. In fondo, Professore, l'Europa è una cattiva pedagoga, ha usato l'oppio per mettere in ginocchio la classe dirigente cinese. Il Ministro dell'Imperatore chiese: "Perché la Regina Vittoria, che è il capo di una grande nazione, manda qui l'oppio per mettere in ginocchio la nostra burocrazia e la nostra gioventù?". La cultura europea non è riuscita a passare per l'interno degli europei, nell'anima degli europei, ma è diventata qualche cosa di esterno, un patrimonio esterno; come quando si comprano i quadri o si espongono nei musei. Essa non è passata nell'anima occidentale. La tradizione del grande umanesimo e dell'esperienza cristiana non sono passate all'interno; anzi subito dopo la sconfitta dell'umanesimo si è pensato a scristianizzare l'Europa.

GADAMER: Certamente, è proprio dell'egemonia della cultura scientifica basarsi sul monologo. Rispetto alle altre culture noi tutti abbiamo disimparato che non è il monologo e l'impiego delle autorevoli competenze degli esperti scientifici a promulgare la vita, ma lo scambio dialogico, lo scambio che avviene nel dialogo, nella disputa e nella lotta fra le opinioni. Dobbiamo pensare alla retorica, ma non nel senso di un'arma nelle mani dei potenti, bensì come capacità persuasiva delle idee. Ecco perché guardo ai greci con tanta ammirazione. Per questo popolo era naturale discutere in modo sentito, vivace per le strade e nelle piazze di Atene o di altre città. Dobbiamo ritornare alla dimensione del dialogo e sviluppare, completare in questo senso la nostra cultura, divenuta eccessivamente letteraria; dobbiamo cioè tendere ad un dialogo reale all'interno di tutta la cultura dell'umanità. Questo è l'impegno, il compito che riguarda tutti noi. E i nuovi strumenti tecnici, come la radio e la televisione, devono essere impiegati in questa direzione favorendo la diffusione del dialogo. Cosa, del resto, molto difficile poiché si tratta di istituzioni basate sul monologo. I privilegi delle stazioni radio e degli enti televisivi dipendono dal potere di coloro che di volta in volta lo detengono. Ogni rivoluzione del mondo attuale è legata in primo luogo alle stazioni radio e televisive perché l'opinione pubblica trae le sue tendenze di fondo da questi mezzi di divulgazione. Il dialogo dunque, cui pian piano si deve giungere, non è il dialogo degli esperti. Dovrebbero invece essere i popoli, nel loro reciproco scambio e rapporto, a prendere la parola. La mancanza di consenso è stata la catastrofe del comunismo negli ultimi anni. E la mancanza di consenso è catastrofica per la conquista di un'armonica vita sociale e politica. Anche la rivoluzione francese è stata un'esplosione dovuta alla mancanza di consenso, di accordo tra la classe dominante ed il popolo. Abbiamo bisogno di un nuovo accordo tra l'umanità e le grandi forze e potenze, responsabili del destino dell'uomo. Abbiamo bisogno del consenso, dell'accordo fra gli uomini. Seguo con una certa speranza il modo in cui i giovani di tutti i paesi iniziano lentamente a comprendere il problema ecologico. Anche questa è una strada per modificare la coscienza. E solo grazie ad una modificazione della coscienza possiamo sperare di dar vita, di produrre una nuova coscienza comune.

5)
MAROTTA: Pericle, apprendiamo da Tucidide, si rivolgeva ad Atene esortandola  seguire i più grandi ideali, a diventare Scuola dell'Ellade, cioè maestra e guida di un mondo più grande. Invece Atene non stette a sentire questi avvertimenti e, dopo la morte di Pericle, si gettò nell'avventura della spedizione contro le città della Sicilia. E - dice Tucidide - da allora cominciò la decadenza di Atene e di tutta l'Ellade.

GADAMER: È giusto, ma allora si trattava di un mondo che aveva modalità di formazione del tutto diverse. Il peculiare destino del nostro mondo è l'interdipendenza. La dipendenza reciproca di tutte le cose è divenuta così enorme, che lo stesso avvicendarsi delle legislature non può incidere in profondità, come a quel tempo poteva incidere l'iniziativa del singolo. Questo vale anche nell'ambito intellettuale e scientifico. Esso è divenuto un sistema in cui effettivamente il semplice intervento di piccoli integrali condiziona la nostra coscienza. Noi non sappiamo, nessuno di noi, né Lei né io, sa cosa può realmente dare, a cosa può realmente contribuire il nostro lavoro per il futuro. Noi tutti però dobbiamo vivere nella consapevolezza che il nostro contributo è teso a favorire la solidarietà e a rasserenare il futuro dei nostri giovani, il futuro della nostra cultura. Si deve sempre considerare che a quei tempi il singolo aveva ancora una considerevole capacità di plasmazione e formazione. Non dobbiamo dimenticare che oggi la stabilità, la solidità delle istituzioni ci preserva in molti casi dal commettere errori. Montesquieu, che Lei ha giustamente citato, nel suddividere i poteri ha indicato un principio con cui è possibile salvaguardarsi dagli errori e dall'abuso del potere. E questo accade anche nelle nuove normative della cooperazione internazionale. La Comunità Europea offre uno scenario in cui costantemente si può vedere come le potenze nazionali ed i loro egoismi debbano di continuo accordarsi con le istanze, le responsabilità internazionali. Non avremo mai condizioni ideali ma, grazie alla ricerca di condizioni ideali, speriamo tuttavia di dare lentamente spazio - non solo in Europa, ma anche in Africa, nell'America del Sud, nel vasto mondo orientale dell'impero russo - a condizioni di vita accettabili, e chissà persino migliori di quelle attuali, sperando così di mettere in atto nuove forme di solidarietà.

6)
MAROTTA: Resta però il problema che la grande voce della cultura, le grandi tradizioni culturali europee non hanno salvato il mondo dalle due guerre mondiali. E quindi ha prevalso l'Europa della barbarie, l'Europa dello spirito di rapina sull'Europa della cultura. L'Europa della cultura ha perso ancora una volta. Come hanno perso i grandi umanisti, così oggi ha perso l'Europa della cultura, perché le due guerre mondiali sono una tragica testimonianza della prevalenza dello spirito di rapina. E riuscirà la cultura europea ad imporsi sugli sviluppi della scienza e delle tecnica? Riuscirà la grande tradizione culturale europea ad imporsi perché gli esiti della rivoluzione industriale non siano nefasti e la scienza e la tecnica servano invece per salvare l'umanità che aspetta, mentre i quattro quinti del mondo sono condannati alla fame, mentre l'Europa continua, attraverso la sua politica finanziaria, a sfruttare tutto il mondo e a condannare il mondo alla fame? Il rapporto che negli Stati Uniti d'America ha fatto il Dipartimento di Stato, dice: "Come abbiamo distrutto il continente africano". Cioè oggi si ha coscienza del male, ma non si riesce a prendere la strada del bene perché la grande tradizione culturale europea non è all'interno dell'anima europea, non è riuscita a convincere. Ecco perché Croce diceva che solo le grandi religioni, i grandi movimenti religiosi riescono a prendere l'anima dell'uomo. E quindi l'uomo è rimasto come deserto di ideali e si arrabatta a sopravvivere in questa lotta stupida e piuttosto insignificante, banale rispetto a quello che sono i grandi compiti dell'umanità.

GADAMER: Sono completamente d'accordo con Lei nel ritenere incredibilmente difficile il compito da attuare. La cultura che una volta ha realmente contribuito alla formazione dell'umanità e del suo destino, oggi, nel mondo produttivo e del lavoro, è divenuta in qualche modo un museo. Come si possa nuovamente trasformare il museo in tempio, e come il sentimento comune degli uomini, ciò che unisce noi tutti, possa tornare ad essere il centro della nostra vita, del nostro senso vitale, tutto questo è un compito infinito. Per questo posso solo ripetere: dobbiamo conoscere la meta ed avere la pazienza, l'accortezza di procedere a passi lenti, misurati. Le guerre mondiali, cui Lei allude, erano infatti anche il frutto dello sviluppo della scienza e della tecnica , le quali hanno fatto in modo che le armi belliche divenissero un pericolo terribile per l'uomo. Lei ha fatto riferimento alla conquista del Nuovo Continente e alle atrocità commesse. Anche lì il pericolo era dato dall'incommensurabile superiorità dei mezzi tecnici dei conquistatori. Oggi, la grande incommensurabile superiorità delle nostre armi e dei nostri mezzi tecnici può comportare il pericolo di distruggere il mondo naturale e di sostituirlo con un mondo costruito artificialmente. Io vedo i pericoli, ma non sono un profeta, un veggente. Come Platone, posso soltanto dire: " vedo che tutti gli Stati vengono male amministrati e per questo è giusto lavorare per la trasformazione della nostra coscienza, ossia fare filosofia".