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Documento d’interesse   Inserito il 14-3-2007


 

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Il Corriere della Sera 14-3-2007

La lotta giusta dei guerriglieri senza armi

Bernard-Henri Lévy

(Traduzione di Daniela Maggioni)

 

DAL DARFUR (Sudan) — È un pick up Toyota, senza finestrini né targa. È venuto a prendermi, mentre si fa notte, a Bahai, l'ultima città del Ciad prima di entrare nel Darfur. Per non mettere in imbarazzo gli operatori umanitari che mi ospitano, s'è fermato un centinaio di metri più lontano.

S’è fermato davanti a una baracca polverosa che fa da posto di polizia. C’è Otman, l’autista, giovanissimo. Quattro uomini armati, sulla piattaforma posteriore, appollaiati su pacchi di pane e incappucciati in lunghi turbanti incolori. E c’è un quinto uomo, il loro comandante, che conosce qualche parola d’inglese e, senza preamboli, nell’oscurità, mi tende il suo telefono satellitare Thuraya. C’è anche un quinto uomo, Abdul Wahid Al Nur, il responsabile del Sudan Liberation Army (Sla), con cui ero in contatto già da Parigi e che è uno dei due eserciti ribelli ad aver rifiutato, un anno fa, gli accordi di pace di Abuja.

«Scusi il ritardo — comincia con voce resa quasi impercettibile dall’eco della tempesta di sabbia che imperversa fin dal mattino —. Ma i nostri telefoni sono sotto controllo. Il corridoio che avevamo previsto per il suo passaggio è stato interrotto ieri da una colonna di 4.000 janjaweed. Abbiamo dovuto immaginarne un altro. Capisce?». Sì, capisco. Ma come mai i janjaweed... Le terribili milizie a cavallo del regime islamico di Khartoum vengono a seminare il terrore fin qui, a nord della frontiera... A N’Djamena mi avevano detto che questa zona era già passata nelle mani della guerriglia... È una prima informazione.

La capanna
Una breve sosta prima di partire, vicino a una capanna di paglia dove sono depositati barili di benzina che alcuni bambini, in silenzio, caricano dietro al pick up. Un’altra sosta, poco più lontano, sempre dalla parte del Ciad, in una baracca che dalla pista, così piena di sabbia, è invisibile, dove prendiamo alcune coperte. E via verso il Sudan, provincia del Darfur, procedendo a gran velocità, spesso a fari spenti, in un deserto di sassi, di rovi, di sabbia indurita dal gelo, di alberi morti che Otman evita ogni volta sterzando all’ultimo momento. Fa freddo. Siamo sballottati da tutte le parti. Facciamo a turno, con il fotografo Alexis Duclos, per sederci davanti, vicino all’autista, da dove si può prevedere meglio ogni sobbalzo. Dietro, gli uomini fumano o sonnecchiano, con il kalashnikov fra le ginocchia. Ogni tanto, senza ragioni apparenti, uno di loro s’irrigidisce e sta sul chi vive. Un altro spara su un’antilope e viene coperto d’insulti perché ha sprecato una cartuccia.

Ben presto, quando la tempesta s’è calmata e la luna torna a mostrarsi, distinguiamo le prime tracce di villaggi incendiati che la terra ha cominciato ad assorbire. Cerchi di fuliggine nera... Montagne di ramaglia e arbusti gettati sui carnai come umili mausolei... Quella notte, saranno le uniche tracce di presenza umana su questa terra desolata: come se, in questa zona a nord del Darfur, la purificazione etnica, che è il nodo della faccenda e che contrappone i cavalieri «arabi» alle tribù «nere» Zagawha, Tunjur e Fur, stesse per attuarsi. Nel Darfur che scopro non ci sono città. Non ci sono neanche check point, quel minimo di segnali che servono a marcare uno spazio e a indicare più omeno dove ci troviamo. Solo il deserto. Solo eserciti fantasma che si sfiorano e si girano attorno. A cominciare dalla nostra unità che, circa ogni mezz’ora, fa una sosta. Otman, allora, accende il suo Thuraya. Sfila la piccola antenna e cerca il satellite come un rabdomante cerca il pozzo.

Segue una breve conversazione con invisibili ricognitori. E secondo quello che gli dicono, se c’è o meno la presenza di janjaweed o, nella zona di Jebel Mun, di combattenti del Jem, il movimento di guerriglia rivale, riparte, torna sui suoi passi, devia o anche, per due volte, si ferma. Allora gli uomini scendono. Stendono una stuoia direttamente sul pietrisco. Esi addormentano lì, subito, arrotolati nelle coperte, in attesa che una nuova chiamata annunci il passato pericolo. Viaggiamo così per quattordici ore. L’equivalente di 400 chilometri. Ed è l’indomani, verso mezzogiorno, che arriviamo ad Amarai dove ci accoglie, circondato dai Saggi in abito bianco, un personaggio magro ed elegante che indossa una giacca a vento blu su pantaloni militari: il capo politico della zona, Mustafa Adam Ahmadai, detto Rocco, il suo nome in codice all’epoca in cui, molto prima della guerra, era ufficiale d’alto rango nei servizi segreti del Sudan.

Amarai è una zona liberata dove si sono riuniti i superstiti dei massacri dei vicini villaggi. Lo scenario è sempre lo stesso e conferma il racconto dei profughi che, con François Zimeray e la missione francese Urgenza-Darfur, avevo interrogato i giorni precedenti nei campi ciadiani di Goz Beida. I janjaweed, in genere, arrivano all’alba. Gettano torce nelle capanne. Sfondano a colpi di mazza le grandi giare di terracotta da cui fuoriescono fiumi di miglio o di saggina a cui poi appiccano il fuoco. Girano intorno ai roghi con urla terribili. Strappano i bambini dalle braccia delle madri per gettarli vivi tra le fiamme. Violentano le donne, le picchiano, le sventrano. Riuniscono gli uomini e li finiscono con i mitra. Infine, quando tutto è bruciato, quando del villaggio non restano che rovine sparse e fumanti, raggruppano gli animali impauriti e li trascinano via verso il Sudan. I miei testimoni hanno un nome. Sono Hadja Abdelaziz, trent’anni, sei figli, di cui tre sono morti nell’attacco al villaggio di Khortial; FatmahMussa Nur, 28 anni, che ha perso il marito nel bombardamento, in ottobre, di Beirmazza. Sono donne e uomini comuni i cui racconti si aggiungono a quelli raccolti, negli ultimi quattro anni, dalle organizzazioni di difesa dei diritti dell’uomo. Con tuttavia due varianti.

Le orde
La prima variante è, innanzitutto, che le colonne infernali presentate da Khartoum come orde di banditi che sfuggono a qualsiasi controllo, e comunque al suo, sono ancora inquadrate da ufficiali dell’esercito regolare sudanese. Mi dice Rocco che nel febbraio del 2004 c’erano sudanesi a Tawila, dove si contarono 67 morti, 93 donne violentate e più di 5.000 esuli. C’erano sudanesi a Hashabba, poco più in alto, dove non ci sono stati morti perché un battaglione della Lsa è riuscito ad evacuare i civili in tempo. «Quanto a Deissa... Venga. Andiamo a Deissa. Vedrà lei stesso con i suoi occhi...». Deissa, quindici chilometri più a est, è un altro villaggio appena incendiato dove ci rechiamo con tre pick up e dove un superstite, con gli occhi dilatati dallo spavento mentre vaga, insieme con noi, fra i resti carbonizzati di quella che fu la sua casa, racconta come i janjaweed siano venuti due volte. Una volta per far scoppiare i granai, incendiare le capanne e la moschea, per uccidere. Una seconda volta, per distruggere la scuola, che era costruita in muratura. «Ebbene, entrambe le volte — mormora — era un capitano giunto da Khartoum a dirigere l’operazione... Gli inquirenti della Corte internazionale possono venire, se lo desiderano! Mostreremo loro l’evidenza! ».

L’immagine del janjaweed, questo «cavaliere dell’apocalisse» di cui si è tanto parlato, sarebbe forse un cliché troppo comodo? Ea nascondersi dietro al cliché sarebbe il Sudan integralista islamico e razzista? La seconda variante è che questi cavalieri sembrano, a guardar bene, più «meccanizzati» di quanto si dica. Prendiamo l’esempio di Deissa: quando sono tornati la seconda volta, per la scuola, non è a cavallo né a dorso di cammello che viaggiavano, ma su un veicolo da trasporto truppe sul quale era montato un cannone che ha bombardato le aule.Ol’esempio di Khur-Syal, otto chilometri più a Ovest: l’immenso cratere scavato, il 23 gennaio scorso, a dispetto dei divieti di sorvolo decretati dalla comunità internazionale, dalla bomba sganciata da un Antonov; siamo lontani dal janjaweed che arriva a dorso di cammello. Oppure lì, sotto l’albero dove ci si riunisce per discutere, ecco un camion verde oliva nella cui carcassa gioca un gruppo di bambini e che una compagnia d’élite della Sla ha preso con la forza il 18 gennaio, a metà strada da Djebel Marra: «Guardi questo camion — mi dice Rocco — ne fotografi bene la marca, Giad, e la targa, sudanese; è un camion uscito dritto dritto da una fabbrica d’assemblaggio che il presidente Al-Bechir ha inaugurato sette anni fa, vicino a Khartoum, insieme, fra gli altri, con voi francesi».

Ancora un altro mito, allora? Un altro cliché oltre a quello di una guerra lunga ma rudimentale, di bassa intensità, condotta da oscure tribù che regolano i conti di dispute senza età? In ogni caso, ne sono testimone: l’armamentario, l’armata, i grandi mezzi, l’odore della guerra calda e del crimine contro l’umanità su grande scala. Non manca niente. Rocco, adesso, è con i suoi comandanti e me li presenta uno ad uno, sotto un tendone, a Beirmazza, sessanta chilometri a Nord di Amarai: Mohamed Abdorahman, detto la Tigre per il suo ardimento e anche, mi dicono, per la rapidità da felino con cui assicura il collegamento tra i fronti; Nimeiry, l’intellettuale, con un turbante beige arrotolato stretto attorno alla fronte, come gli afghani; e il gioviale Mohamed Adam Abdusalam, chiamato Generale Tarada, letteralmente Generale Squattrinato, perché, da civile, era considerato particolarmente negato per gli affari mentre, in guerra, dimostra d’essere un geniale stratega. Non è stato forse lui, nella zona di Kurma, dopo i massacri dell’estate scorsa, che è riuscito, con trenta uomini, a riconquistare Hillat Hashab e Dalil? Lui che, nella stessa zona, qualche settimana fa, ha preso quattro veicoli a una colonna di combattenti dell’Als (MM), l’esercito rivale di Mini Minawi, firmatario degli accordi di pace di Abuja e vicino, quindi, a Khartoum? E ancora lui che, già nel febbraio 2003, previde l’attacco di El-Fasher, capitale del Darfur, che offrì il pretesto al governo per scatenare la sua guerra totale?

«Non si fidi della sua aria da orsacchiotto — mi dice Rocco sorridendo —. Quello che le sto dicendo è documentato. È il nostro comandante migliore. Al-Bechir offrirebbe tutti i suoi beni in cambio della sua testa o per demolirlo». Sempre nella zona di Beirmazza, ci troviamo in mezzo a un campo circolare di pietre dove si allenano, sotto un sole cocente, gli uomini di Rocco e Tarada. Mi colpisce quel misto di estrema gravità (tutti quelli che ho interrogato mi dicono di trovarsi lì perché hanno perduto una persona cara) e al tempo stesso di buon umore e di entusiasmo (il loro modo di mettersi in posa, di gonfiare il petto, spingersi con i gomiti per le foto). Ma anche, e soprattutto, il lato disparato, trasandato e, in fondo, perfettamente indifeso di questa truppa di straccioni dei quali scopriamo, avvicinandoci, le labbra gonfie per la sete e lo sguardo perso nel vuoto. Per il centinaio di combattenti presenti, conto solo due mortai, tre lanciarazzi Rpg e fucili kalashnikov, ma non per tutti. «Noi non abbiamo niente —, mi dice, come se leggesse nei miei pensieri, l’imponente generale Tarada —. Nessuno ci aiuta e quindi non abbiamo niente. Il Ciad? No, il presidente del Ciad, Déby, ha ben troppa paura delle ritorsioni che i sudanesi eserciterebbero attraverso gruppi ribelli infiltrati e dunque sta molto attento. In verità, le armi che lei vede sono state prese tutte al nemico. Tutte. Quanto ai nostri veicoli...».

L’embargo
Mi mostra, con un gesto ampio e stranamente signorile, due Toyota appena arrivati per consentire ai comandanti di ricaricare i loro Thuraya nell’accendisigari, più una terza di cui si svuota il serbatoio per riempire quello dell’auto che deve ripartire per il Ciad. «I nostri veicoli, l’ha capito, vero? Sono tutti bottino di guerra». Poi, abbassando la voce, in tono confidenziale, come si apprestasse a confidarmi un terribile segreto militare: «Abbiamo così poco carburante che siamo ridotti, quando andiamo a combattere, a fare spingere le autoblindo dagli uomini fino al punto di contatto con il nemico». Penso di nuovo ai bosniaci. All’embargo militare che, all’epoca dell’assedio di Sarajevo, colpiva allo stesso modo, in un’apparente ma iniqua simmetria, gli aggressori superequipaggiati e gli aggrediti quasi disarmati.

So bene che le situazioni non sono paragonabili. E sono convinto che quei contadini in armi, quegli uomini esaltati da un’implacabile collera e che sbraitano, all’unisono, «lunga vita a Tarada»; quel capitano che prima, quando gli ho chiesto come trattava i prigionieri, ha farfugliato che non ne faceva gran cosa, non sono, nemmeno loro, modelli di virtù. Ma una parte di me non può non fare, comunque, il confronto. Una parte di me non può trattenersi da una sorda rivolta di fronte allo squilibrio, così flagrante anche qui, fra gli armamenti irrisori da un lato e, dall’altro, il cratere della bomba di Khur-Syal, i barili pieni di benzina e di chiodi sganciati a bassa altitudine dagli Antonov, i villaggi ridotti in cenere, gli ossari.

Ecco, questa parte di me non può evitare d’interrogarsi: se siamo incapaci di fermare il massacro, se non abbiamo il potere né soprattutto la volontà di punire il regimeterroristico del Sudan, se non osiamo nemmeno far pressione sulla Cina, la sua alleata al Consiglio di Sicurezza, affinché essa accetti il principio dell’invio di Caschi blu, non dovremmo, almeno, aiutare coloro che difendono quella gente e che lo fanno con le armi in pugno? Infatti, è inutile dire... I villaggi di Deissa e di Beirmazza che vivono sotto la protezione della Sla... Il mercato di Bredik dove facciamo provviste per il ritorno e che, con le sue stuoie colorate dove sono esposti biscotti, cipolle, pomodori ha un’aria quasi pimpante... Il minuscolo bazar, a Muzbad, dove ho trovato saponette made in Libia... Il mercato dei cammelli, ad Anka, dove mi garantiscono che nomadi arabi si fermano per pagare, come ai bei vecchi tempi, un diritto di asilo e di passaggio... Oppure — è un dettaglio, ma un dettaglio che la dice lunga!—il fatto che Rocco, a Bredik, paga quel che compra invece, come tanti guerriglieri, di vivere sull’animale...

La zona libera di Amarai resta, naturalmente, una zona di guerra. E non ho incontrato nessuno che non avesse, nello sguardo, quella specie di paura prodigiosa che, in tutte le guerre, suscita l’imminenza della morte. Ma è inevitabile constatare che la presenza della Sla ha un effetto rassicurante. Per chi arriva dal Ciad, per chi ha in mente la terribile immagine dei campi di profughi e di fuorusciti di Goz Beida o di Djabal, per uno come me che ha visto gli operatori umanitari dar prova di tanta ammirevole energia per nutrire e curare popolazioni i cui magri tesori saranno saccheggiati, alla prima occasione, dai janjaweed, il minimo che si possa dire è che sì, il problema si pone: non sarebbe meglio, tutto sommato, stabilire le popolazioni là dove si trovano? A costo di armare chi resta con loro?

Il ritorno
Sulla via del ritorno, ho un’ultima conversazione, politica stavolta, con il comandante Nimeiry, che conferma questa impressione. Sono le cinque del mattino. Abbiamo viaggiato essenzialmente di notte. Ed ecco che a cinquanta chilometri dalla frontiera, avendo scorto di fronte a noi bagliori sospetti, Otman ha frenato di colpo, ha ruotato di 360 gradi e s’è rimesso in marcia a gran velocità nell’altro senso, fermandosi poco più lontano, nel letto asciutto di un fiume. «Qual è, in definitiva, la sua soluzione per il Darfur?», gli chiedo dopo che gli uomini, come al solito, hanno steso le loro stuoie e si sono addormentati. «In ogni caso, non la secessione — mi risponde —. Non siamo per l’indipendenza, ma per una formula di uguaglianza all’interno di un Sudan federale». Poi, alla domanda sul tipo di regime che auspica, aggiunge: «Il nostro programma è molto chiaro: un regime di democrazia, laica, basato sul principio di cittadinanza e contrario, di conseguenza, al fondamentalismo sudanese che contrasta con lo spirito dell’Africa ».

Un programma è solo un programma, certo. Ma, ascoltandolo, mi dico che in fin dei conti ho visto poche moschee nel Darfur devastato. Mi rendo conto che non ho incrociato donne con il velo. Penso di nuovo alla scuola bombardata di Deissa, dove mi sono state mostrate classi di ragazze vicine a classi di ragazzi. Emi viene in mente che forse un altro aspetto di tale guerra e un’altra ragione per mobilitarsi stanno in questo: nel fatto che ci sia un islam radicale contro un islam moderato; un regime che, alla fine degli anni Novanta, dava asilo a Bin Laden contro popolazioni musulmane refrattarie all’integralismo islamico e che ci sia, nel cuore dell’Africa, nelle tenebre di quello che può diventare, se non facciamo nulla, il primo genocidio del XXI secolo, un altro teatro per l’unico scontro di civiltà che esiste davvero e che è quello, lo sappiamo, dei due islam.

(Traduzione di Daniela Maggioni)

Bernard-Henri Lévy

14 marzo 2007