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Documento d’interesse Inserito
il 6-3-2009
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Il Corriere della Sera 6-3-2009
Alla «fiera dell’impiego» di
New York. Manager e banchieri, tutti in
coda per un lavoro
Cinquemila in fila, dall’ex
pubblicitario all’ebreo ortodosso che cerca un posto nell’ospedale cattolico
Di Massimo Gaggi
NEW YORK -
Lavorava in Madison Avenue, alla Young&Rubicam,
una dei leader mondiali della pubblicità. Ora è qui, alla
«Job Fair» di Times Square,
a caccia di un lavoro.
Anthony Moore è in fila davanti al banchetto del Dipartimento della Sanità
dello Stato di New York. «Finché è durato è stato bello» racconta.
«Ma è durato fino al 2006. Poi è cominciata la crisi.
L'azienda è scesa da
Un po' più in là Takishea Hunte, una
ragazzona nera che fino a settembre lavorava come "program
manager" alla Lehman Brothers,
sta parlando coi reclutatori della AQR Capital Management, una società di
consulenza finanziaria: «Sono stata nove anni alla Lehman,
ho messo da parte qualcosa per i momenti difficili. Voglio viverli senza troppo
affanno. Cerco lavoro nelle società di consulenza, ma sono flessibile. Qui alla
fiera sto dando il mio profilo professionale a imprese di vario tipo. Ma voglio
un impiego stabile, non lavoretti saltuari».
Per loro natura le "job fair" - fiere del bisogno, non delle vanità - sono uno
straordinario palcoscenico umano. Questa di New York, organizzata dalla società
specializzata Monster.com, lo è più di altre per la colorita folla multietnica
e multiprofessionale che la anima - 3720 aspiranti
lavoratori che, tirati fuori dall'armadio tailleur, giacche e cravatte, girano
tra gli stand di 90 aziende che offrono mille posti di lavoro - ma anche per il
luogo: l'hotel Marriott di Broadway.
Col turismo in crisi e il business delle convention che si contrae, il gigantesco salone
delle feste può tranquillamente trasformarsi in centro di reclutamento: fuori,
sulle balconate che circondano l'atrio coperto, si snoda il serpentone dei
candidati in attesa di registrarsi. In mezzo al cortile, aggrappati a una trave
d'acciaio, sfrecciano gli ascensori di cristallo riservati ai clienti dei piani
alti e agli ospiti di "The Wiew", il
ristorante panoramico dell'albergo, l'ultimo piano del grattacielo che ruota su
sé stesso.
Tra i banchi di società di consulenza finanziaria come Charles Schawb
spunta, tra molti giovani, la testa candida di Thomas Zakrzenski,
il figlio di polacchi di Cracovia immigrati negli Usa all'inizio del Novecento.
«Sono stato per 28 anni a Bankers Trust. E altri 10
anni, bellissimi, a Bank of
New York. Ero vicepresidente di una delle società del gruppo. Ma a novembre c'è
stato il terremoto». Quanti anni ha? "Sessantasei". E che ci fa qui?
«Cerco un lavoro, come gli altri. Certo, a differenza di altri non sono spinto
dal bisogno. Potrei starmene in pensione. Abito in New Jersey, in una bella
zona residenziale vicino ad Atlantic City. Ma non so stare fermo. I vicini ne
approfittano chiedendomi aiuto per i problemi di manutenzione degli edifici,
mia moglie mi ha messo a fare le pulizie: un inferno. Meglio rimettersi sul
mercato».
Un altro che un lavoro ce l'ha è Randy
Brooks, un giovanotto di colore
in fila davanti allo stand di Macy's. La catena di
grandi magazzini ha licenziato centinaia di persone, ma a New York assume. Randy si informa, è perplesso: «Cercano venditori. Io
faccio la guardia privata, alla Ball Security. Spesso lavoro di notte, voglio
cambiare. Ma dietro un bancone non mi ci vedo».
Lo sguardo più sperduto è quello di Itamar, un
ebreo ortodosso con una lunghissima barba e il cappellone nero a falde larghe.
Dice di cercare genericamente un lavoro nel sociale. Chiede informazioni e
fornisce i suoi dati a varie organizzazioni, compreso il St Vincents
Catholic Medical Center.
Nessun problema religioso? «No, per me basta che si tratti di lavori nel campo
della solidarietà sociale».
Ogni ora gli esperti di Monster
tengono un briefing al centro del salone,
spiegando a tutti il galateo dell'aspirante lavoratore e i trucchi per redigere
un curriculum che faccia colpi sui reclutatori. La manifestazione di New York
verrà replicata in altre cento città americane: in un Paese che nel
Ostenta buon umore perfino Jamie
Dunst, un disegnatore grafico
che lavorava per la rivista «Time Out». Mi spiega che
vorrebbe valorizzare la sua professionalità, ma che non alza steccati. Dopo un'
ora lo ritrovo davanti al banco della Petsmart,
cliniche per animali domestici: «Te l'ho detto, bisogna essere flessibili. E
poi ho sempre amato cani e gatti».
06 marzo 2009