HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO Documento d’interesse Inserito l’11-1-2008 |
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Da www.diritto.it
10/01/2008 Continuiamo ad appellare
le condanne penali o condanniamo penalmente l’appello? Carlo Alberto Zaina Il timbro di voce tonante e
potente del patrono di parte civile, che risuonava solenne, pareva,
nell’appassionato impeto della arringa finale, poter fare crollare gli
eleganti stucchi di quella maestosa aula di Corte d’Appello, posta al primo
piano del Palazzo di Giustizia. Tutto il numeroso uditorio
raccolto per l'occasione era assorto e rapito nell’ascoltare le dotte ed
appassionanti argomentazioni così svolte con sapienza e pathos. Ero un giovanissimo
procuratore legale, che in qualche maniera tentava, dalla parte della disperata
difesa dell’imputato di fronteggiare il valore, l’istrionismo e l’esperienza
di un principe del foro quale l’Avv. Luigi Benzi
(non solo amico di Fellini, ma valente maestro di
tutti noi penalisti riminesi). Eppure, nonostante
l’esposizione dell’avv. Benzi fosse, come al
solito, avvincente e brillante sia nella forma, che nella sostanza, non potei
esimermi dal notare, come certamente lo notò il mio illustre
avversario, che uno dei giudici che componevano il Collegio, era distratto,
anzi – in realtà – dormiva proprio. Dopo l’intervento della
accusa privata e prima di quello del PG (all’epoca questo era l’ordine degli
interventi) fu fatta una pausa. All’Avv. Benzi che, inviperito e giustamente irritato (si era,
infatti, accorto dell’inusuale forma di disinteresse del giudice), lamentava
l’accaduto, sottolineando l’inaccettabilità del fatto che uno dei
Consiglieri avesse dormito per tutta la sua arringa, seraficamente
fu testualmente risposto dal Presidente; “Avvocato non si preoccupi, la par condicio non è affatto in pericolo, tanto il
Consigliere dormirà anche durante l’intervento delle altre parti….”. Ho citato questo esempio
perché un po’ di tempo fa, in una di quelle discussioni metagiuridiche che insorgono tra i giureconsulti moderni,
ogni qualvolta avviene un fatto di cronaca che induce a ritenere che il
nostro ordinamento giudiziario sia improntato al principio del “diritto
penale mite”[1], e
come tale inadeguato a fronteggiare le nuove sfide che quotidianamente la
criminalità lancia allo Stato, emerse l’idea di abrogare il giudizio
di appello in sede penale. Si trattò di una
proposta certamente provocatoria che provenne da una precisa e ben nota area
di pensiero giuridico e politico simbioticamente
ispirata a quell’impostazione giustizialista,
la quale vede nel processo penale una forma di eminente retribuzione e
riparazione della lesione sociale che il reato in genere provoca. Il processo d’appello,
sopratutto quello attuale, viene, da costoro, considerato e percepito,
infatti, come un’inutile propaggine del processo di primo grado, una
effettiva perdita di tempo, una fase, in sintesi, assolutamente superflua, in
attesa dell’ordalia che trova nel rito di legittimità la propria
massima espressione. Ergo, quasi per una strana
forma di approssimazioni successive, mi è tornato alla mente quell’aneddoto di inizio carriera, che, seppur attinente
ad un comportamento non certo frequente da parte dei magistrati, appariva (e
tuttora appare) significativo e sintomatico del valore che talora si
attribuisce all’impugnazione di merito ed alla sua discussione. Il ricordo di quell’episodio è stato, per me, quasi naturale
(per non dire automatico) anche perché devo confessare che in qualche altra
occasione (ed anche recentemente e pure in casi di non indifferente
gravità) mi è capitato di constatare la verificazione di
sonnolente forme di disaffezione e di disinteresse, analoga a quella
descritta, da parte di altri giudici durante la discussione dei difensori. Probabilmente, anzi
sicuramente, la colpa degli attacchi di sonno è ascrivibile
all’oratore di turno (quindi talvolta anche mia); egli va, dunque, condannato
senza attenuanti. Credo, però, che al
di là dell’aspetto di costume rilevato si imponga una sommaria, per
quanto seria riflessione su ciò che è divenuto il processo
penale in grado di appello. Prevale, dunque e,
purtroppo, quella visione che si rifà ormai irreversibilmente
a quell’indirizzo dottrinale – come detto di estrazione
giustizialista - che esclude implicitamente che il
procedimento, prima, ed il processo, dopo, integrino e configurino
precipuamente un momento di indefettibile ricostruzione storico-logico-critica
dei fatti concretanti reato, nonché dell’attribuibilità
dei medesimi alle persone (od alla persona) che si reputa sottoporre ad
indagine, ma ritiene che lo Stato ( e per esso il potere giudiziario dei
magistrati) debba incentrare la propria attenzione sulla effettiva
punizione dei comportamenti contestati. In questo senso, come
confermative di tale monocola e criticabile visione
della giurisdizione, si pongono le plurime osservazioni e contestazioni di
grande parte della magistratura alla L. 241/06 in
materia di indulto. Nell’occasione, infatti,
autorevoli capi di prestigiosi uffici giudiziari, nonché famosi
ex-magistrati, sono giunti a sostenere addirittura l’inutilità della
celebrazione della gran parte dei processi concernenti reati commessi prima
del 2 Maggio 2006, perché le relative pene sarebbero state coperte
dall’indulto, quindi, ineseguite. E’ evidente che simile
orientamento configura una critica capziosa ed infondata, che appare del
tutto inadeguata e sorprendente rispetto al valore ed alla preparazione
giuridica di chi l’ha avanzata, perché essa manifesta un proprio carattere
di assoluta e totale superficialità, nonchè
di strumentalità rispetto al tema
dell’indulto. Appare, infatti,
agevolissimo neutralizzare tale demagogica osservazione. Se, infatti, il presunto
problema che si definirà per comodità come della “cd.
convenienza della giurisdizione penale”, cioè
dell’utilità o meno della celebrazione di un processo penale (ammesso
che esso si possa correttamente in qualche maniera proporre all’interno del
nostro ordinamento che non prevede una discrezionalità dell'azione
penale) si dovesse misurare esclusivamente in relazione alla eseguibilità della sanzione irrogata a seguito del
giudizio, consequenzialmente, risulterebbero del
tutto inutili anche quei processi che si concludano con l’inflizione
di una pena condizionalmente sospesa, oppure con
una pronunzia di prescrizione del reato, o con l’applicazione dell’amnistia,
o successivamente con qualsiasi ulteriore causa di estinzione del reato o
della pena. La digressione sin qui
svolta, e che viene immediatamente chiusa, per non introdurre argomenti ultronei al tema in questione, è, comunque, per
dirla con termini processuali, elemento di decisivo contrasto rispetto alla
espressa convinzione di larghi strati della magistratura e della politica, i
quali vedono il processo penale nel suo complesso esclusivamente in funzione
della punizione del soggetto (o dei soggetti) inquisito, superando lo step principale concernente l’effettiva esistenza del
fatto o l’ascrivibilità dell’accusa mossa
all’indagato. Si valorizza, con un
atteggiamento di rispetto ultraortodosso, la presunzione, iuris
et de iure, secondo la quale se una persona
è inquisita, certamente l’accusa si fonda su di un titolo di
responsabilità ammissibile giuridicamente (in parole povere “qualcosa
avrà pur fatto”). Non intendo affatto
sostenere che questo principio sia la regola unica ed unanime; è
certo, però, che la comune e quotidiana esperienza processuale e
forense induce a percepire e notare distintamente un approccio spesso e
sempre più marcatamente aprioristico in senso colpevolistico,
rispetto al tema dell'accusa e del processo penale. Si percepisce, infatti,
nell’ambito dei procedimenti penali, prendendo in esame il testo di sentenze
od il corpo di provvedimenti cautelari, una sempre più diffusa
adesione all’architettura accusatoria delle indagini proposta dal P.M., che proviene, spesso acriticamente, proprio da
parte di quelle figure e parti istituzionali giudicanti, che, invece,
dovrebbero garantire una simmetrica equidistanza rispetto alla ipotesi
avanzate dai contraddittori della controversia. In questa ottica di portata
generale, seppure di prospettiva limitata, si pone, dunque, la verifica
dell’approccio rispetto al secondo grado di giurisdizione di merito,
cioè all’appello, inteso come giudizio di controllo e verifica
rispetto al dibattimento od al giudizio abbreviato di prime cure, (sia in
sede sul piano sostanziale, che su quello squisitamente processuale). Or bene, l’involuzione che
questa fase procedimentale sta, ineluttabilmente,
subendo e patendo, con un progressivo svuotamento della pregnanza ed
importanza del rito stesso, mi induce, purtroppo, a pensare che, seppure per
motivi del tutto differenti, coloro, che dall’alto delle loro visione
esclusivamente punitiva e retributiva invocano l’abrogazione di un grado di
giurisdizione, finiscano per avere perfettamente ragione. Plurime sono la cause che
mi inducono a ritenere, allo stato dei fatti, di minima utilità nella
più complessiva dinamica tecnico-giuridica della scansione del processo
penale, il giudizio di appello. A) In primo luogo la siderale
distanza temporale che intercorre fra i due gradi di merito. Eccezion fatta per processi
con imputati detenuti o sottoposti a misura cautelare detentiva gradata – quale è l’arresto domiciliare –,
situazioni nelle quali pende la spada di Damocle
del disposto dell’art. 303 c.p.p. in materia di
termini massimi di custodia cautelare, il lasso di tempo che intercorre fra
il giudizio di primo grado e quello di appello non è mai inferiore,
nei casi più solleciti, a due anni. Chi scrive potrebbe
segnalare, per esperienza professionale anche processi che attualmente non
sono stati celebrati dopo che sono trascorsi periodi che superano
abbondantemente il lustro. Eppure uno dei timori non a
torto più esacerbati dei magistrati consiste nella possibilità
che intervenga la prescrizione del reato e venga così vanificata ogni
attività sino ad allora svolta! Ciò non di meno, gli
assurdi tempi della burocrazia, (consistente nel passaggio da un
Autorità all’altra dei fascicoli processuali), i sistemi di
smistamento ed assegnazione dei processi in presenza di più sezioni
(talora svincolati da principi razionali), la stessa struttura dell’istituto
dell’appello (che favorisce appelli assolutamente dilatori) e, non ultima,
una sorta di mentalità levantina che spesso permea le scelte di noi
difensori, concorrono ad ampliare la frattura epocale fra le due fasi. Avendo operato anche sotto
l’imperio del tanto (superficialmente) vituperato codice Rocco, quindi, in un
rito inquisitorio, biasimato solo sull’abbrivio di un’astratta voglia di
cambiamento, cui è seguito un rito che ha disatteso e deluso le grandi
aspettative createsi, penso che il sistema delle impugnazioni e, soprattutto
dell’appello, vigente anteriormente al 1988, potesse sostanzialmente reggere
l’impatto delle nuove esigenze processuali, con pochissimi ritocchi. Sarebbe, infatti, stato
sufficiente – mantenendo le due fasi, quella della proposizione, a pena di inammissibilità,
della dichiarazione di appello entro tre giorni dalla pronunzia del
dispositivo della sentenza e quella della redazione dei motivi
successivamente al deposito della motivazione della sentenza – stabilire,
innanzi tutto, una procedura snella e lineare. In sostituzione del termine
di venti giorni, che il codice abrogato sanciva (e che decorreva dal deposito
delal sentenza), sarebbe stato sufficiente un
termine unico di quaranta giorni, che avrebbe così evitato, tra
l’altro, le sempre cervellotiche elucubrazioni matematiche che si ricollegano
ai termini di deposito sanciti dall’art. 544 c.p.p.
. B)
In
secondo luogo va rilevata la sempre più evidente sommarietà del
rito (conseguenza anche della frattura temporale di cui al capo 1), che si
riduce esclusivamente ad una verifica della logicità e
plausibilità del giudizio di primo grado. Siccome correlata alla
tematica affrontata al punto A) non si può trascurare la
considerazione che il processo di appello, ormai non si muove su binari
autonomi di eventuale ricerca della verità rispetto al primo grado,
ma, spesso, si limita ad una rivisitazione non particolarmente critica dello
stesso. Vale a dire che, pur nella
precisa delimitazione del petitum del giudizio di
secondo grado, che deriva ex lege dalla tipologia
dei motivi di gravame che le parti presentano, è indubbio che le Corti
di appello spesso autolimitano il loro raggio di
intervento, assumendo (o dando l’impressione di assumere) una posizione quasi
“notarile”, nel senso di incardinare il proprio giudizio semiautomaticamente
sui binari già tracciati dal processo di primo grado. Non dovrebbe – e non deve –
essere così! Il processo di appello –
sia che si dibatta di una mancata assoluzione, sia che si invochi un
temperamento della pena o la concessione di un’attenuante – deve costituire
un osservatorio autonomo, distaccato e privilegiato per tutte le parti. Esso deve configurare,
quindi, preliminarmente un momento di rivisitazione critica di quanto
accaduto, posizione che deve essere assunta indiscriminatamente e senza
riserve mentali da tutte le parti protagoniste. L’accusa pubblica o
privata, la difesa, ma, soprattutto, il collegio giudicante devono,
prioritariamente a qualsiasi altra ulteriore considerazione di rito e/o di merito,
ripercorrere le configgenti ragioni vantate sino ad allora, perché non
esistono verità preconfezionate ed intangibili, qualunque sia stato
l’esito del giudizio di primo grado, che non è, né può essere,
un rito ordalico. Questo approccio mentale
deve investire, soprattutto, il Collegio che potrà, così,
sperimentare il principio per il quale la conoscenza degli atti processuali
delle fasi procedimentali precedenti non deve
risolversi in un apprendimento di nozioni di fatto o di diritto destinate, per
definizione, unicamente a segnare in modo ineluttabile la sorte del
processo di appello, nel segno della conferma della sentenza gravata. Deve, invece, venire
sollecitata la curiosità del giudice della impugnazione di merito, affinchè egli verifichi, in maniera indipendente
dalle nozioni apprese, se il primo momento della giurisdizione abbia
partorito un frutto corretto e se siffatto risultato resista a valutazioni o prospettazioni differenti. In quest’ottica,
come si vedrà in prosieguo, si deve superare quell’orientamento
giurisprudenziale che si è andato consolidando nel tempo e che reputa
che la motivazione della sentenza di merito di secondo grado possa derivare
per fusione delle singole due motivazioni. Si tratta di un principio
che ingiustamente ed erroneamente omologa due fasi processuali, postulando
che l’una si risolva nella logica continuazione della prima e viceversa,
mentre la decisone (e la motivaizone) di secondo
grado, invece, deve assolvere a quella funzione di verifica e controllo che
ne costituisce la ragion d’essere. Si tratta, come si
vedrà infra di un principio adottato anche e
sopratutto nella fase cautelare e che ha suscitato certo – ed uso un
eufemismo - perplessità nell’avvocatura. C) In terzo luogo emerge il carattere sempre
più spiccatamente scritto dell’appello, connotato che confligge con l’oralità del processo. E’ invalsa, ormai
l’opinione che, nei processi che presenti profili di responsabilità
particolarmente complessi, oppure in relazione a questioni di diritto che
appaiano contraddistinte da rilevanti problemi si debba scrivere molto. Lo scopo di chi aderisce a
questo corrente di pensiero, sempre più ampia, è oltremodo
realistico. Esso deriva dalla
considerazione, frutto dell’esperienza, che appare necessario, quantomeno, da
parte di colui (o coloro) che propone appello avverso una sentenza, potere
suscitare interesse ed, al contempo, intercettare l’attenzione del
consigliere relatore; è, infatti, utopistico e sciaguratamente
presuntuoso pensare di potere discutere compiutamente ed articolatamente un
processo in appello, quando ad ogni udienza sono posti a ruolo almeno una
decina di processi concernenti i più disparati reati. La necessità,
però, nella fattispecie non si evolve affatto in virtù, atteso
che viene tradito quel principio di oralità che dovrebbe informare in
maniera assolutamente inderogabile il processo penale, rendendolo più
agile, più comprensibile, più immediato, più veloce. Se, dunque, si deve
osservare che il carattere dell’oralità si trova, per le ragioni dianzi
indicate, attualmente in uno stato preagonico, a cascata, consegue
l’evaporazione dell’agilità, della comprensibilità,
dell’immediatezza e della velocità. Siamo dinanzi ad un
processo penale inteso nel senso più generale, ed in particolare di
fronte al giudizio di appello, che abbandona sempre più il carattere
del confronto e del contraddittorio diretto e personale fra le parti, che
perde, via via, quel pathos proprio dell’evoluzione
dei fatti nel corso dell’udienza, che, inoltre, viene orbato del connotato
della imprevedibilità delle decisioni dei protagonisti ex parte, per
attraccare ad un approdo quasi notarile. Il processo penale
eminentemente scritto diviene, dunque, una parodia del processo civile, non
lascia spazio alla capacità oratoria dell’avvocato, mortifica le doti
di improvvisazione mnemonica, perché pare un compito preparato aliunde. Gli stessi magistrati che
ricevono i nostri corposi ed articolati atti di appello (anche chi scrive ahimè ricorre a siffatto truce espediente) hanno,
dunque, un motivo in più per pretendere che il difensore si azzittisca
o, comunque, sia conciso, perché dopo aver molto scritto, è
inopportuno molto parlare per triturare concetti già esplicitati. D) In quarto luogo non può passare sotto
silenzio che la stessa struttura del rito, che prevede come elemento
preliminare pseudo cognitivo la relazione di un
membro del Collegio, non appare immune da critiche. Non è revocabile in
dubbio il condizionamento evidente che deriva, in una simile situazione,
dalla circostanza che sia prevista la figura di un relatore, il quale, seppur
sommariamente, deve conoscere in modo approfondito l’insieme dei dati
salienti relativi alle fasi processuali anteriori (o comunque ciò che
al medesimo appare rilevante), deve riferirli preliminarmente ad ogni altro
tipo di intervento delle parti – fatto salvo un eventuale concordato ex art.
599/4° c.p.p. - e sia prevista la pertcipazione al giudizio di due membri del Collegio che,
invece, conoscono molto relativamente il processo. Fuori dai denti e senza
ipocrisia, reputa chi scrive che spesso con la relazione introduttiva si
celebra un vacuo e annoiante rito di maniera. Sovente le relazioni
introduttive configurano nient’altro che un lunga ed incomprensibile litania
di fatti e situazioni di diritto, che viene letta e snocciolata in forma
neutra, atona, talora incomprensibile, quasi una preghiera a bassa voce, di
cui nessuno dei presenti osa confessare non avere capito passaggi essenziali. Non che il problema riposi
nella capacità dei singoli di esprimersi con toni squillanti di voce, giacchè sarebbe sufficiente potenziare i sistemi
di amplificazione dei Tribunali. Il modo con cui la
relazione viene troppo spesso svolta è, invece, paradigma sintomatico
e significativo della progressiva ed irreversibile perdita di importanza che
tale atto, inteso come sunto di quanto avvenuto a far data dalla
commissione del reato, ha accusato in progresso di tempo. Atteso l'approccio che
spesso si rinviene in relazione a questo cruciale momento processuale, credo
che la fase della relazione, così come svolta attualmente, dovrebbe
essere abrogata. Ritengo che più
costruttivo potrebbe essere, infatti, che le parti fossero essere
direttamente ammesse ad illustrare le proprie doglianze, tramite i motivi di
appello, allo stesso modo che si segue negli USA, di fronte alle Corti
Supreme dei singoli Stati. I componenti la Corte
dovrebbero, dunque, giungere tutti a conoscere il caso che si tratta, in
relazione alla tipologia delle ragioni di appello, (di rito o di merito) sicchè è di tutta evidenza che ben
differente potrebbe essere l’approccio ermeneutico
a seconda di quale sia la doglianza proposta. Penso, inoltre, che una
spinta ausiliaria a potere adottare una simile impostazione potrebbe giungere
attraverso una regolamentazione dei casi in cui l’appello sia ammesso ed
attraverso una delimitazione dei motivi che possano ritualmente
permettere il secondo grado di merito, così come già sancito
per il ricorso in cassazione dall'art. 606 c.p.p,
ma adottando parametri espressi di minori equivocità. E) In quinto grado, va rilevata
l’eccezionalità dei casi in cui avviene la rinnovazione del
dibattimento di primo grado. Il tema che si
solleva in questo paragrafo si riconnette intimamente con l'affermazione, testè svolta, secondo la quale appare
indifferibile e necessario pervenire ad un
individuazione precisa dei casi in cui è ammesso
l'appello, nonché alla circoscrizione delle ragioni in base alla
quale si possa chiedere un secondo
processo di merito. Va, infatti, rilevato
che, nonostante esista una previsione espressa data dall'art.
603 c.p.p., che regola la “rinnovazione
dell'istruttoria dibattimentale”, vuoi per difetti
genetici delle richieste che si avanzano, (quali la superfluità, o la
ripetitività o, addirittura la
inutilità delle prove che si richiedono da aprte
delle difese), vuoi per un
atteggiamento mentale e psicologico di resistenza alla richiesta di
approfondimenti tematici
specifici, da parte dei magistrati, in
presenza di un quadro
probatorio di primo grado, che presenti il requisito minimo di una
sufficienza border line, è raro che si
addivenga ad una novazione
dell'impianto indiziario già apprezzato dal primo giudice. Tale atteggiamento la
scia perplessi, in quanto si deve osservare,
infatti, che il raggiungimento del livello minimale di
valenza probatoria, non significa
automaticamente e necessariamente che ci
si trovi dinanzi ad un quadro rassicurante al di là di ogni
ragionevole dubbio, ben potendo –
spesso – apparire non solo auspicabile, ma, addirittura
necessario, un approfondimento di elementi valutativi che
permangono in una zona di ombra. E dire, poi, che la norma
al comma 1° dell'art. 603 c.p.p., lascia una vera e
propria prateria di discrezionalità al giudice, attraverso l'inciso “se ritiene di
non essere in grado di decidere allo stato degli atti”! Nonostante, quindi,
la presenza di strumenti normativi precisi ed
azionabili, con una certa facilità, si deve concludere che le Corti di
Appello non peccano certo di eccessiva
curiosità e che si presume che le prove assunte in
primo grado siano, per lo più esaustive e sufficienti
al giudizio, F) In sesto luogo si appalesa
la carenza di motivazione delle sentenze di secondo grado che, talora,
motivano per relationem rispetto alla sentenza di
primo grado. In pratica si è verificata in svariate
occasioni una situazione in base
alla quale, in presenza di
una sentenza di primo grado molto apprezzata dai giudici dell'appello,
la parte motiva del provvedimento da questi
emesso si è limitata
a richiamare per relationem il precedente. In buona sostanza, si
è invertito quel processo che, usualmente, la giurisprudenza
ha individuato come sintomatico dell'effetto devolutivo
dell'appello e che ha sempre giustificato la possibilità che il
giudice di grado secondo potesse intervenire ad adiuvandum
in presenza di una motivazione di primo grado insufficiente. Si tratta di un orientamento
che, da tempo, ha manifestato i propi effetti,
posto che già la Suprema corte di Cassazione Sez.
III, fin dal 14 Febbraio 1994[2],
ebbe a sostenere che “..in tema di sentenza penale di appello, non
sussiste mancanza o vizio della motivazione allorquando i giudici di secondo
grado, in conseguenza della completezza e della correttezza dell'indagine
svolta in primo grado, nonchè della
corrispondente motivazione, seguano le grandi linee del discorso del primo
giudice. Ed invero, le motivazioni della sentenza di primo grado e di
appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato
organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per
giudicare della congruità della motivazione”. Ci si augurava che siffatto
discutibile arresto interpretativo rimanesse isolato, posto che esso
configurava una situazione processuale di assoluta omologazione e fusione del
giudizio di appello con quello, ontologicamente e
giuridicamente differente, di primo grado e, di conseguenza, l'abolizione di
quei caratteri di indipendenza ideativa che,
invece, avrebbero dovuto, comunque, permanere indiscussi. In pratica, vi è da
domandarsi, alla luce di quanto precede, se sia possibile affermare
l'esistenza della sentenza giuridicamente e fattualmente
perfetta e, inoltre, se tale tipo di provvedimento possa essere emesso dal
giudice di primo grado, sì da vanificare ogni pretesa di riesame e di
verifica in sede di appello di merito. Al di là delle amare
quanto facili ironie (tant'è che,
però, stando al tenore letterale della massima riportata la sentenza
perfetta esiste) è sempre più evidente un approccio ermeneutico al gravame ed all'oggetto del gravame, che
tende a ridurre l'impatto ed il dovere motivo correlato alla scelta operata. Sopratutto, è
insorta una visione che privilegia la conservazione del provvedimento di
primo grado anche, laddove lo stesso presenti profili che lo rendano
gravissimamente lacunoso. Questo tipo di orientamento
non ha trovato ostacoli di sorta, posto che si può affermare che, allo
stato attuale, esso permane senza dubbio alcuno ed influenza in maniera
rilevante la vita dei processi penali. Una espressione sintomatica
della maggiore e sempre più diffusa applicazione del descritto
principio, che definiremo per provocatoria comodità della reductio ad
unicum dei due gradi di giurisdizione, si rinviene, usualmente nell'ambito
del giudizio cautelare. In questo caso, si verifica
il fenomeno esattamente opposto a quello riportato nella massima cui si
è fatto in precedenza cenno. A fronte di un
provvedimento che possa manifestare di essere affetto da un vizio motivo, non
solo formale (quale la contrddittorietà o
l'insufficienza), ma addirittura sostanziale (quale la totale mancanza), al
giudice di secondo grado (sia esso del riesame ex art. 309 c.p.p, sia esso dell'appello ex art. 310 c.p.p.) si afferma conferito il potere di supplire a tali
mancanze. Ha, infatti, precisato,
recentemente la Sez. II della Cassazione, in data 4
Dicembre 2006, n. 1102 (rv. 235622) : “Atteso
l'effetto interamente devolutivo che caratterizza
il riesame delle ordinanze applicative di misure cautelari, deve ritenersi
che il tribunale del riesame possa sopperire, con la propria motivazione, non
solo all'insufficienza o contraddittorietà della motivazione del
provvedimento genetico della misura, ma anche alla sua totale mancanza o mera
apparenza, esplicitando, per la prima volta, le ragioni giustificative della
misura cautelare adottata”. Visione che ribadisce una
sorprendente precedente decisione della Sez.
VI, 16 Gennaio 2006, n. 8590[3],
A.P. (rv. 233499) secondo la quale “Atteso
l'effetto interamente devolutivo che caratterizza
il riesame delle ordinanze applicative di misure cautelari, deve ritenersi
che il tribunale del riesame, cui è conferito il potere di annullare,
riformare o confermare il provvedimento impugnato anche per ragioni diverse
da quelle in esso indicate, possa sanare, con la propria motivazione, le
carenze argomentative di detto provvedimento, pur
quando esse siano tali da dar luogo alle nullità, rilevabili
d'ufficio, previste dall'art. 292, comma secondo, lett. c) e c bis), cod. proc. Pen..”. Senza insterilirsi
in inutili e vacue polemiche, non si può tacere la grande sorpresa
data dalla posizione di errato ecumenismo, assunta dalla Corte di legittimità,
la quale, operando un improprio richiamo al principio devolutivo,
ha tratto ossigeno da questo specifico spiraglio, per conferire al Tribunale
del Riesame un potere negativo che funga da fattore riequilibrante quel
potere positivo che lo stesso organo possiede e che consiste nell'annullare
eventualmente per qualsiasi motivo (anche differente dal dedotto)
un'ordinanza cautelare. Detto potere negativo altro
non sarebbe che quello dell'attitudine a colmare radicali vizi dell'atto,
quale, ad esempio, quello dell'inesistenza della motivazione, si che il
Collegio assumerebbe una funzione di supplenza rispetto alle carenze del
giudice della cautela, il quale si vede, così, potenzialmente sempre
graziato, anche in occasione di errori particolarmente importanti. Senza indugiare
ulteriormente su questo profilo che merita, senza dubbio, più tempo e
più spazio argomentativo, l'approdo
giurisprudenziale descritto è, comunque e purtroppo, significativo di
una tendenza allarmante, orientata nel senso di chiudere qualsiasi spazio di
rivisitazione critica dei provvedimenti giurisdizionali, creando –
così – una sorta di intangibilità e conservazione degli stessi,
attraverso la possibilità di successivi interventi correttivi, se non,
addirittura di veri e propri trapianti di motivazioni. In buona sostanza si
è dinanzi ad una situazione che può essere parafrasata con un
esempio, quale è quello per cui l'esaminatore chiamato a verificare la
correttezza del compito dell'esaminato, una volta verificata la erroneità
e l'insufficienza dell'elaborato, non solo non lo censura e non lo biasima,
ma anzi lo riscrive in forza dei propri convincimenti ed il risultato di
questo intervento viene assunto come un compito valido! G) In settimo e finalmente ultimo luogo non
può essere dimenticata la responsabilità culturale delle parti
del processo che spesso impugnano per motivi palesemente infondati od
addirittura inammissibili. Si è detto in
precedenza che si avverte sempre più prepotente la necessità di
un’effettiva e rigorosa regolamentazione dei casi in cui la sentenza penale
possa venire appellata. E’ evidente che si deve
pervenire all’applicazione di un principio di tassatività,
cioè si deve sancire in quali occasioni e per quali motivi si possa
rimettere in discussione la sentenza emessa in prima grado. Si tratta di una
rivoluzione copernicana, perché investe il modo di pensare e di agire processualmente di tutti le parti processuali e
più complessivamente degli operatori del diritto.. Troppo spesso, infatti,
(bisogna ammetterlo senza reticenze corporative) i difensori propongono
gravami dilatori, generici, palesemente infondati, che mirano solamente a
lucrare vantaggi di natura temporale.
I più anziani ricorderanno che, non a caso, nel compianto codice di
rito esisteva un istituto che conferiva il potere al giudice a quo di
verificare la fondatezza e l’ammissibilità del gravame di
merito. Si trattava, ovviamente di
una facoltà caduta preogressivamente in
desuetudine, giacché non vi è memoria di interventi di giudici di
primo grado che si siano frapposti al corso naturale e fisiologico
dell’impugnazione. Certo è, che questa
forma di controllo preventivo era prevista ex lege
(e simile scelta dimostrava l’avvedutezza e la lungimiranza di un legislatore
cd. di regime, dote di cui il legislatore cd. democratico non pare, invece,
possedere) ed è progressivamente stata disapplicata
solo per una scelta di prassi procedimentale, per
poi non venire nemmeno riproposta nel codice del 1988. Si è trattato di un
indirizzo e di un'opzione profondamente errata, perché il codice del 1988 ed
i suoi artefici non paiono, in alcun modo, aver fatto tesoro di esperienze
pregresse. Se, in precedenza, era stato previsto normativamente
un sistema di verifica preventiva dell’ammissibilità e fondatezza
dell’impugnazione di merito, è evidente che ci si era posto il
problema del proliferare di appelli immeritevoli di essere portati
all’attenzione dei giudici di secondo grado. Si era, così,
creato, un meccanismo di deflazione, in teoria assai efficace, che poteva
operare attraverso una sorta di filtro, che, però, per imperscrutabili
ragioni è abortito. Probabilmente si è
temuto che il giudice la cui sentenza veniva impugnata potesse, per qualche
motivo, operare – dichiarando inammissibile l’appello - in una situazione per
cosi dire, usando una formula assai in voga, di “conflitto di interessi”. Si
è dimenticato che contro tali provvedimenti era ammesso il ricorso per
cassazione. Volendo prescindere da
qualsivoglia querelle sul trascorso codice, vi è, però, da
rilevare che un simile strumento di verifica pregiudiziale potrebbe essere
recuperato, perchè ben si potrebbe armonizzare con un regime di
impugnazioni di merito ispirato a principi di stretta tassatività
e legalità, consistente cioè di una previsione esplicita e
chiara – lo si ribadisce per l’ennesima volta – delle ipotesi in cui
l’appello sia ammissibili. Si è detto che
è necessario, per potere superare l’impasse dell’esponenziale aumento
degli appelli, che tutti i protagonisti del processo penale e gli avvocati
penalisti, che sempre si sono mostrati responsabili e preoccupati per la
sopravvivenza di un giusto giudizio, devono distinguersi in modo particolare,
abbandonando posizioni che possano apparire legate ad interessi para-corporative. CONCLUSIONI Il giudizio di appello
deve, dunque, assumere una veste qualificata, superando miserevoli
banalizzazioni, che sviliscono i nostro dovere quotidiano di difensori, pena
davvero la sua abrogazione. Probabilmente queste brevi
note, risentono anche, dell’amarezza e del disincanto di una mia recente e
pesante esperienza professionale. Posso dire che questa
vicenda è, però, stato solo il detonatore di un sentimento di
malinconica rabbia professionale che covo da tempo. Constato, quotidianamente
che a fronte di una sofferta partecipazione alla sorte dell’assistito, a
fronte di sacrifici personali necessari per essere sempre aggiornati e
giuridicamente all’altezza delle situazioni che si paventano, a fronte della
volontà di essere sempre pronti ad affrontare gli imprevisti insaiti nelle pieghe del processo, a fronte dell’orgoglio
di non trovarsi mai impreparati (perché raramente i magistrati perdono
l’occasione per mettere impietosamente a nudo il tuo difetto contingente o
strutturale), ci si imbatte sempre più in un crescente disinteresse
per le tesi propugnate, in una malcelata sopportazione dell’attività
del difensore, per non dire talora aperta in una avversione. E allora, se questa
è la situazione che – senza drammatizzazioni melò
o inusuali forzature – si prospetta, ben venga l’abrogazione
dell’appello, scelta che come dicevo, all’inizio è tanto
accarezzata da precisi ambienti giudiziari. D’altronde, forse, non vale
la pena di prendersela più di tanto perché anche in passato
succedevano episodi sui quali si sorrideva per non arrabbiarsi. Non a caso ho, infatti,
ricordato in premessa l’aneddoto che mi ha visto partecipe ai prodromi della
professione. Da tale epoca molta acqua
è passata sotto i ponti, ma constato che ben poco è mutato E allora ? Forse parliamo
di nulla. Scusate il disturbo. Rimini, lì 21
Dicembre 2007 Carlo Alberto Zaina
[1]
Corrente di ispirazione cattolica che si rifa a Don
Andrea La Regina , responsabile solidarietà sociale della Caritas italiana. il quale ha recentemente affermato “…Invece a
questa ondata giustizialista e a questa ondata
emotiva bisogna contrapporre l'idea di un diritto penale mite. Pene certe ma
brevi. Non possiamo eludere i diritti dei detenuti, della persona detenuta, nè il senso di giustizia delle vittime e la
sicurezza dei cittadini. Ma questo non vuol dire accanirsi contro chi ha
commesso reato. Noi dobbiamo lavorare sull'opinione pubblica per spiegare che
pene lunghe non equivalgono a maggiore sicurezza.” (Cfr. www.osservatoriantigone.it) [2]
Scauri, Cass. Pen., 1995,
2921, Mass. Pen. Cass., 1994, fasc.7, 125 [3]
CED Cassazione, 2006, Arch. Nuova Proc. Pen., 2007, 2, 253, Riv. Pen., 2007, 1, 108 |