CENACOLO DEI COGITANTI |
Documento d’interesse Inserito
il 3-4-2009
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La Repubblica 3-4-2009
La
rivolta dei nuovi esclusi
di
Ezio Mauro
COME una legge meccanica, prima o poi la crisi economica che stiamo vivendo
doveva produrre effetti culturali, politici e sociali: ci siamo. I nodi che
vengono al pettine, l'altro ieri a Londra per strada, con la morte di un uomo,
l'altro giorno in Francia, domani in Italia o dovunque nelle capitali del Primo
Mondo - tutte uguali e indifferenti come paesaggio della crisi - sono l'inizio
del secondo atto di questa rivoluzione in corso nella vita dell'uomo
occidentale.
Proviamo a misurarne cause, ragioni ed effetti liberandoci subito dal ricatto
che ogni volta pesa sulla discussione pubblica, dicendo per oggi e per domani
che gli atti violenti sono sempre inaccettabili, da qualunque motivazione siano
sorretti. Ma subito dopo domandiamoci: quanta violenza c'è in questa crisi che
brucia lavoro, valore, progetti di vita incompiuti, destini? La politica, la
cultura, qualcuno di noi si è preoccupato di misurarla, di darle un peso e
quindi un nome e un significato di cui tenere conto?
E' difficile negare l'impressione che i grandi della terra riuniti a Buckingham
Palace davanti alla Regina e poi a cena a Downing Street fossero ieri leader
senza rappresentanza. Da qualche parte - da qualunque parte nei nostri Paesi -
ormai si muove una massa sommersa di persone che fanno separatamente i conti
individuali con la crisi, non solo e non tanto in termini di perdita di valore,
ma in termini di vita, di sussistenza, di identità e di ruolo sociale. Per loro
è tornata centrale, nella nebbia globale della crisi, nello stordimento della
finanza, la grande questione novecentesca del lavoro: lo hanno perso, lo stanno
perdendo, o non riescono nemmeno a trovarlo una prima volta. E scoprono che
senza lavoro, perdono d'importanza i diritti post-materialistici, come li
chiamano i sociologi, quelli dell'ultima modernità, che vengono dopo la piena
soddisfazione dei bisogni primari.
Anzi, senza lavoro, con ciò che ne consegue, viene meno un interesse per ogni
discorso pubblico, per il paese, per la vicenda collettiva. Senza il lavoro, ecco
oggi il punto, queste persone si sentono ex cittadini. E quei ragazzi per
strada, a Londra svolgevano paradossalmente l'unica rappresentanza oggi
visibile di quel mondo che non sa a chi rivolgersi per farsi sentire.
La politica è in difficoltà perché aveva superato la questione del lavoro come
se fosse antica. La cultura l'aveva resa impronunciabile, eufemizzandola con
parole che non vogliono dire niente, "saperi",
"competenze", "professionalità". Il capitalismo aveva addirittura
creduto di poter rompere il nesso che per tutto il secolo scorso lo aveva
legato al lavoro, liberandosene per proseguire da solo.
Il capitale senza il lavoro è così diventato uno dei motori di questa crisi,
perché ha ridotto la complessità della globalizzazione ad una sola dimensione,
quella economica, ha sostituito l'autonomia della finanza all'autonomia della
politica, resa marginale o servente fino a consumare il nesso che nelle
democrazie ha sempre legato i ricchi e i poveri. Col risultato di far saltare
il tavolo della responsabilità democratica che in Occidente teneva insieme i
vincenti e i perdenti della globalizzazione e che nello Stato-nazione era anche
il tavolo di compensazione dei conflitti, il nucleo stesso del progetto
occidentale di modernità, con l'incontro regolato e consapevole tra il
capitalismo, il lavoro, lo stato sociale e la democrazia.
E' quell'alleanza che oggi è andata in crisi, con devastazioni prima culturali
e politiche, poi per forza di cose sociali. Qui è cresciuta la nuovissima
separatezza delle élite, che le rinchiude in una legittima aristocrazia dei
talenti, incapace però di riconoscere obblighi generali, doveri pubblici, di
produrre un dibattito che parli all'insieme del paese e distribuisca valori
collettivi.
Attraverso questo meccanismo l'élite si trasforma in classe separata invece di
diventare establishment, cioè gruppo dirigente testimone di regole che valgono
per tutti e dunque parlano a tutti, esercitando pubblicamente il privilegio di
avere responsabilità.
Da qui nasce la frattura sociale che abbiamo davanti e che la crisi porta per
strada. Senza questa alleanza occidentale tra capitale e lavoro, tra
responsabilità e democrazia può succedere che l'orgia speculativa non solo
distorca il mercato finanziario, ma acquisti come già prima del disastro del
'29 - lo notava Galbraith - una stupefacente centralità culturale nel nostro
tempo, dunque una legittimazione collettiva. Col risultato denunciato da
Michael Walzer quando "il denaro oltrepassa i confini" e senza più
alcuna barriera culturale prova ad acquisire beni sociali come fossero merce,
privilegi, favori, esenzioni, ruoli, incarichi, corrompendo.
Ecco perché la crisi economica rischia di diventare crisi di legittimità,
deficit di uguaglianza, problema di democrazia. Mai il sentimento di esclusione
degli sconfitti è stato così forte. Mai l'impotenza della governance mondiale è
stata così evidente, aggravata dalla crescita dei bisogni reali, che con i
ritmi della disoccupazione sta diventando emergenza. Va in crisi il principio
stesso di cittadinanza, il rapporto con lo Stato, la relazione tra libertà e
potere, mentre i nuovi perdenti della globalizzazione non hanno più nemmeno un
sovrano certo e un territorio definito per muovere la loro protesta.
Dopo aver vinto la sfida del Novecento l'Occidente rischia di perdere qui, di
fronte all'unica domanda che conta per gli esclusi: qual è infine l'efficacia
della democrazia, la sua capacità di risposta, la sua soglia di sensibilità e
di attenzione? Quanta nuova povertà può sopportare in casa sua, dopo aver
guardato alla televisione per decenni la povertà atavica degli altri? Quale
politica sa produrre? E capace di condivisione, la democrazia, o solo di
compassione, cioè di qualcosa che ha valore morale ma certo non politico?
Di fronte a questo malessere democratico che stiamo vivendo nulla è fuori corso
come il pensiero di una "rivoluzione conservatrice", centrata su
soggetti forti e sull'assenza dello Stato e delle sue regole. Bisognerebbe che
la sinistra lo capisse, si ricordasse dei suoi obblighi verso l'uguaglianza,
del lungo cammino per l'inclusione, per i diritti, per coniugare le libertà
politiche con la sicurezza materiale. Il secolo scorso è stato, alla resa dei
conti, lunghissimo, se il progetto della modernità democratica occidentale è
durato fino ad oggi, vivo. Gli strumenti della sinistra sono i più adatti a
conservarlo, modificandolo sotto la spinta della crisi, ma salvandolo. Basta
saperlo. Anche perché se quel progetto salta, non ci sarà più sinistra, nella
post-democrazia in cui rischiamo di vivere.
(3 aprile 2009)