La Stampa del 19-2-2010
La
classe dirigente è scomparsa
GIAN ENRICO RUSCONI
Archiviamo
dunque la retorica della «sana società civile» italiana contrapposta
alla «politica» inefficiente e corrotta o semplicemente impotente. La nostra politica
rispecchia la nostra società. Questa tesi è stata espressa
più volte su questo giornale, in tempi non sospetti, senza aspettare
le ultime vicende, mettendo in guardia contro l’autoinganno della «sana
società civile».
Non per negare l’esistenza di strati e settori che sono sani e generosi (e
che si sentono offesi dalla nostra analisi) ma perché rimangono frammenti di
società, senza capacità coagulante. La società civile
è a pezzi, depressa, senza guida.
Siamo così al punto cruciale: alla scomparsa o all'inesistenza di una
classe dirigente italiana, degna di questo nome.
Per classe dirigente non si deve intendere innanzitutto il ceto politico
professionale, ma l’insieme dei gruppi responsabili - nell’economia, nei
media, nella cultura, nella magistratura - che di fatto svolgono un ruolo di
guida. Lo fanno con le loro decisioni, con i loro atteggiamenti. Ebbene
questi gruppi sono o diventano «classe dirigente» quando intenzionalmente,
esplicitamente (oppure anche implicitamente) si sentono responsabili «in
solido» della comunità nazionale. E agiscono in questo senso. Non si
limitano a rappresentare i legittimi interessi del loro settore,
dichiarandoli senz’altro di interesse generale, ma si assumono una
responsabilità comune. Sacrificando magari alcuni dei loro interessi
«legittimi».
In questa prospettiva il ceto politico professionale, con la sua dialettica
interna, dovrebbe essere il fattore di raccordo di questa
responsabilità comune condivisa (per dirla con l’aggettivo ora
più inflazionato). Invece non è così. La politica oggi
è diventata la fonte prima di disgregazione, di contrapposizione, di
incompatibilità culturale e morale. E gli altri pezzi di classe
dirigente - in particolare quella economica - giocano di sponda sulle
contrapposizioni interne della politica, addirittura su questo o sull’altro
ministero, su questa o sull’altra struttura istituzionale.
Particolarmente penosa è la situazione del ceto intellettuale che -
quando non è apertamente schierato in trincea - non riesce a offrire
in modo convincente piattaforme di intesa morale e culturale che abbiano
valore comune. Non è in grado di andare oltre le diagnosi più
impietose. E quando lo fa, le sue suonano come prediche edificanti. La
scissione, il sistematico mancato incontro tra l’energia propositiva
intellettuale e l’energia realizzatrice politica è la scoperta
più sconfortante degli ultimi anni.
Si è fatta tanta ironia sugli «intellettuali organici» della vecchia
repubblica, con le loro ideologie e le loro obsolete visioni del mondo.
Eppure a loro modo, con alti e bassi, in momenti importanti hanno consentito
l’incontro tra intelligenza e operatività, con una positiva ricaduta
sulla dialettica tra forze di governo e forze di opposizione.
Oggi l’elemento che più paralizza il ceto intellettuale nel suo
virtuale ruolo critico dirigente è la prepotenza del sistema
mediatico, intimamente appiccicato al sistema politico. Solo in apparenza
infatti il sistema mediatico esercita la sua funzione critica. In
realtà cementa insieme la classe politica esistente. A
«Ballarò» solo in apparenza ci sono contrapposizioni e
contro-argomentazioni: in realtà va in scena lo stesso spettacolo
della stessa politica. Ci si insulta: ma non si scambiano argomenti in grado
di convincersi. E’ sconcertante, ma è così.
In queste condizioni come si ricostruisce una classe dirigente che è
fatta di politici, di intellettuali, di manager, di sindacalisti, di
magistrati ecc? Tutti forti delle loro specifiche competenze eppure
consapevoli di avere una comune, vincolante responsabilità verso la
società civile?
Il vero leader è chi sa trasmettere questo senso di
responsabilità e condurre in questa direzione. Non chi esaspera le
divisioni.
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