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Documento d’interesse   Inserito il 9-6-2009


 

 

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Il Sole 24 Ore 5-6-2009

La crisi passerà, attenti alle scorciatoie

di Harold James

 

 

 

gni volta che si parla di crisi economica, le analogie con la Grande Depressione sono sempre in agguato. Nel suo ultimo World economic outlook, l'Fmi esamina questa analogia in modo esplicito, in termini non soltanto di tracollo della fiducia finanziaria, ma anche di rapido declino degli scambi globali e dell'attività industriale. In generale, la storia sembra più utile della teoria economica per interpretare eventi straordinariamente sorprendenti e di per sé imprevedibili.

Quasi immancabilmente, ogni volta che si ricorre all'analogia con la Grande Depressione, come anno di riferimento si prende il 1929. Ma nella Grande Depressione si manifestarono due patologie diversissime, e ognuna delle due implicava diagnosi - e cure - diverse.

La prima e più famosa di queste due patologie fu il crack azionario dell'ottobre 1929 negli Stati Uniti. Nessun altro paese conobbe un panico borsistico di simili proporzioni, in buona parte perché nessun paese aveva vissuto quell'euforica corsa al rialzo dei prezzi delle azioni che aveva indotto tantissimi americani, delle estrazioni più varie, a lanciarsi nella speculazione finanziaria.

La seconda patologia fu l'evento decisivo che trasformò una brutta recessione nella Grande Depressione. Una serie di crisi di panico del settore bancario nell'estate del 1931 si propagò dall'Europa Centrale, diffondendo il contagio finanziario prima alla Gran Bretagna, poi agli Stati Uniti e alla Francia, e infine a tutto il mondo.

Il panico del 1929 ha sempre avuto un ruolo preponderante nell'analisi della Grande Depressione per due ragioni abbastanza peculiari. Innanzitutto, nessuno è mai stato in grado di fornire una spiegazione soddisfacente del crollo della Borsa nell'ottobre del 1929, nel senso di una causa razionale, con gli operatori di mercato che reagiscono a una notizia specifica. Quel crack borsistico dunque rappresenta un dilemma intellettuale e gli economisti possono sperare di farsi una reputazione cercando di trovare una spiegazione innovativa a quegli eventi.

Certi sono arrivati alla conclusione che i mercati, semplicemente, sono irrazionali. Altri si sforzano di realizzare complicati modelli, secondo cui gli investitori forse erano riusciti a prevedere la Depressione, oppure avevano valutato l'eventualità di misure protezionistiche in altri paesi in risposta alla legge americana sui dazi doganali, anche se quella legge non era ancora stata approvata.

La seconda ragione della popolarità del 1929 tra studiosi e commentatori politici è che fornisce un motivo chiaro per intraprendere misure specifiche. I keynesiani sono riusciti a dimostrare che le misure di stimolo sono in grado di stabilizzare le aspettative del mercato, garantendo in questo modo un quadro di fiducia generale. I monetaristi raccontano una storia diversa ma parallela, e cioè che una crescita monetaria stabile previene perturbazioni drammatiche.

Il crack del 1929 non ebbe nessuna causa evidente, ma due soluzioni molto plausibili. Il disastro bancario europeo del 1931 fu esattamente il contrario. Nessun economista può sperare di costruire la sua carriera accademica trovando una spiegazione innovativa delle sue cause: il tracollo fu il risultato della debolezza finanziaria di paesi vittime, a causa di politiche sbagliate, di un'iperinflazione che aveva messo in ginocchio i bilanci delle banche. La vulnerabilità intrinseca accresceva il rischio di traumi politici, e le diatribe su un'unione doganale dell'Europa Centrale e sulle riparazioni di guerra bastarono a far crollare il castello di carte.

Ma riparare i danni non era semplice. A differenza del 1929, non esistevano (e non esistono oggi) risposte macroeconomiche evidenti ai problemi finanziari.

Alcuni macroeconomisti famosi, tra cui Larry Summers, che attualmente è il capo dei cervelli economici a disposizione dell'amministrazione Obama, hanno cercato di sminuire il ruolo dell'instabilità del settore finanziario come causa delle depressioni. Le risposte, se esistono, risiedono in un lento e sofferto repulisti dei bilanci e nella ristrutturazione microeconomica, che non può semplicemente essere imposta dall'alto per mano di un pianificatore onnisciente, ma esige un cambiamento di mentalità e di comportamento da parte di molte imprese e individui. Migliorare il sistema di regolamentazione e supervisione è una buona idea, ma serve più a evitare crisi future che a gestire le conseguenze di una catastrofe già avvenuta.

La conseguenza della lunga discussione accademica e popolare sulla crisi del 1929 è che la gente col tempo si è convinta che risposte facili esistono. Ma il crollo della Lehman Brothers nel settembre del 2008 è stato un evento simile al 1931, un evento che ricorda da vicino il mondo della Grande Depressione. I fallimenti delle banche austriache e tedesche non avrebbero trascinato il mondo intero dalla recessione alla depressione se quei Paesi non fossero stati altro che economie isolate o autosufficienti. Ma nella seconda metà degli anni 20 quei Paesi avevano costruito le loro economie su denaro preso in prestito (prevalentemente dall'America).

Quella dipendenza presenta diverse analogie con ciò che si è verificato negli Stati Uniti in questo decennio, con l'afflusso di denaro dalle economie emergenti, soprattutto asiatiche: un apparente miracolo economico che si basava in realtà sulla disponibilità dei cinesi a prestare soldi all'America. I fallimenti bancari del 1931, e del settembre 2008, hanno scosso la fiducia del creditore internazionale: allora gli Stati Uniti, oggi la Cina.

Entrambe le lezioni - quella sulla lentezza e la difficoltà della ricostruzione del settore bancario e quella sulla dipendenza da un grande fornitore esterno di capitali - sono sgradevoli. Per lungo tempo è stato molto più facile ripetere il mantra rassicurante di una comunità mondiale che aveva imparato, nel suo insieme, come evitare un tracollo in stile 1929, e che le Banche centrali di tutto il mondo lo avevano chiaramente dimostrato in occasione di crisi come quella del 1987 o quella del 2001.

I governi indubbiamente meritano elogi per aver stabilizzato le aspettative, e dunque per aver impedito che la crisi si aggravasse. Ma quando i governanti spacciano proposte politiche semplici, se non proprio semplicistiche, come fondamento della speranza di poter evitare un lungo periodo di difficili aggiustamenti economici, questo è fuorviante.
L'autore è professore di storia e affari internazionali alla Princeton
Copyright: Project Syndicate, 2009
(Traduzione di Fabio Galimberti)