La
Repubblica 7-2-2010
L'INCHIESTA. La perdita di posti
di qualità e di investimenti
indebolisce la nostra struttura produttiva
Anno 2010, la fuga delle multinazionali
da Glaxo a Severstal, da Alcoa a Yamaha
di ROBERTO
MANIA
Lo
striscione pro operai Fiat che rischiano il licenziamento esposto dai tifosi
del Livorno durante il match con la Juve
ITALIA addio. Le multinazionali se ne vanno o minacciano
di farlo: solo nelle ultime settimane ci sono stati gli annunci di chiusure
da parte dell'Alcoa, il colosso americano
dell'alluminio, e della Glaxo, grande impresa
britannica della farmaceutica. L'una con impianti in Sardegna e a Porto
Marghera, l'altra con il centro di ricerca a Verona: circa tremila posti a
rischio considerando anche l'indotto. Un terremoto ha colpito l'industria
mondiale e le scosse sono arrivare anche da noi. C'è un processo
globale di riorganizzazione della produzione e le multinazionali (anche la
Fiat lo è) sono le prime a potersi muovere scegliendo i nuovi luoghi
dove impiantare le fabbriche, spostandosi sui mercati emergenti, sfruttando
tutte le possibili opportunità per ridurre i costi.
Non c'è un solo motivo per cui si decide di andarsene. L'Alcoa ha denunciato un eccessivo costo dell'energia, la Fiat
dice che a Termini Imerese si produce in perdita
(mille euro per ciascuna vettura), la Glaxo non
farà più ricerca nel settore delle neuroscienze quindi deve
chiudere in Veneto (500 addetti più altrettanti nell'indotto) come in
Inghilterra (1.200 dipendenti).
Regole feroci, che le multinazionali possono applicare sfidando le tensioni
sociali e anche i governi. «È fisiologico che accada, non bisogna
farne un dramma né pensare che sia in atto una fuga dall'Italia. Queste sono
le multinazionali», dice Giorgio Barba Navaretti,
professore di economia internazionale all'Università di Milano. Eppure
il nostro Paese appare più esposto per le sue carenza strutturali: il
peso della burocrazia, il costo dell'energia, la fragilità delle
infrastrutture, la lentezza della giustizia civile.
Perché è proprio questo che spiega la bassa percentuale di
investimenti diretti esteri in Italia: circa il 16 per cento rispetto al Pil,
contro una media europea che si avvicina al 40 per cento. Non è
l'eccessiva tassazione - dicono i manager delle multinazionali - né la
rigidità della manodopera considerata, al contrario, un elemento di
forza di quel che c'è del sistema-Italia.
L'Alcoa probabilmente resterà ancora tre
anni per trasferire poi tutte le produzioni italiane in Arabia Saudita dove
sta costruendo un nuovo imponente impianto. Ci si sposta nei nuovi mercati,
ma anche all'interno dell'Europa. Nella sua riorganizzazione produttiva la
nipponica Yamaha chiuderà a Lesmo in Brianza
per andarsene in Spagna. Anche la Nokia, gigante finlandese dei telefonini,
ha deciso di trasferire il suo centro di ricerca da Cinisello Balsamo a
Dallas, in Texas, non in Vietnam o in India.
Ha lasciato Torino anche l'americana Motorola. Perché nelle riorganizzazioni
l'abbassamento dei costi si ottiene anche accorpando i centri di ricerca. La
nazionalità dei siti produttivi può essere un fattore
irrilevante. Così, almeno, spiegano i manager delle multinazionali.
«È vero che lo dicono - sostiene Susanna Camusso,
segretario confederale della Cgil - , nei fatti, però, non è
così. Due anni fa la Pfizer annunciò la chiusura dei centri
italiano di Nerviano (Milano), di Stoccolma e di
Boston. Bene: gli ultimi due continuano a produrre. La verità è
che si sono mossi i governi, perché un aspetto importante della politica
estera è proprio la strategia di politica industriale che non ha
questo governo al pari dei suoi predecessori».
L'elenco delle grandi multinazionali del farmaco che hanno abbandonato l'Italiaè lungo: dalla Merck di Pomezia, proprio
dove è stato scoperto l'"Isentress",
considerato decisivo nella lotta contro l'aids, alla Wyth
di Catania, fino alla Pzifer e, appunto, alla Glaxo. Posti di lavoro di qualità scomparsi e
investimenti in ricerca finiti in altri Paesi. Un indebolimento complessivo
della nostra struttura produttiva. Ma non è fenomeno recente. Prima
della grande recessione una ricerca del Centro studi della Confindustria
sull'attrattività del Paese concludeva
così: «Gli investitori stranieri tendono a trascurare le industrie
che, in presenza di un mercato interno stagnante e di una domanda mondiale
relativamente lenta, appaiono meno promettenti in termini di sviluppo
potenziale». Poca industria, quindi, e più commercio, servizi,
trasporti.
Ripensamenti anche tra i russi della Severstal che
avevano rilevato le acciaierie (un tempo Lucchini) di Piombino. Ora i russi
schiacciati dai debiti (intorno ai cinque miliardi di euro complessivi)e dal
calo della domanda globale cercano acquirenti. L'obiettivo è andarsene
dall'Italia entro aprile: oltre due mila posti di lavoro in bilico.
Non tutti, però, fuggono. Giuseppe Recchi
è il presidente di un colosso come la General
Electric per l'Italia e il Sud Europa. «L'Italia un
Paese più a rischio di fuga? No - risponde - perché le multinazionali
considerano il nostro Paese non solo come un mercato ma sempre più
come un luogo per produrre. Un luogo dove si trova il miglior rapporto costo qualità
della manodopera».
La General Electric
comprò dall'Eni nel 1994 il Nuovo Pignone (turbine e compressori), fu
la prima grande privatizzazione. Ed è stato un successo industriale:
«Da un giro d'affari di un miliardo di dollari siamo passati agli attuali
dieci, con novemila dipendenti», dice. L'"headquarter"
mondiale del settore "oil & gas" è stato trasferito a
Firenze. Da qui si decide tutto. «L'Italia non è l'ultima arrivata»,
insiste Recchi. E spiega che ciò che serve
per attirare i grandi gruppi mondiali è la «pianificazione delle
strategie» nei settori nevralgici, dall'energia alle grandi infrastrutture.
Che poi è proprio quello che manca e che spesso porta velocemente alla
fuga delle altre multinazionali.
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