La Repubblica
21-7-2008
"E
Tronchetti mi disse: Le abbiamo chiesto troppo"
di GIUSEPPE D'AVANZO
Parla Tavaroli, l'ex capo
della security Telecom al centro dell'inchiesta sui dossier illeciti
"Voglio il processo con tutte le mie forze, dimostrerò che ho
fatto ciò che mi chiedevano"
A leggere i giornali, e qualche anticipazione del
documento che annuncerà oggi la chiusura delle indagini del pubblico
ministero di Milano, l'affaire Telecom sembra essersi sgonfiato come un
budino malfatto. Più o meno, si sostiene che fossero all'opera, in
Telecom, soltanto un mascalzone (Giuliano Tavaroli)
e un paio di suoi amici d'infanzia (Emanuele Cipriani, un investigatore
privato, e Marco Mancini, il capo del controspionaggio del Sismi). La
combriccola voleva lucrare un po' di denaro per far bella vita e una serena
vecchiaia. I "mascalzoni" avrebbero abusato dell'ingenuità
di Marco Tronchetti Provera (presidente) e di Carlo Buora (amministratore
delegato). Tutto qui.
L'affaire Telecom è stato dunque, secondo quest'interpretazione,
soltanto un bluff mediatico-giudiziario utilizzato (o, per alcuni avventurosi
osservatori, organizzato) da circoli politici per sottrarre al "povero" Tronchetti la società di
telecomunicazioni.
La ricostruzione è minimalista. Evita di prendere in esame, anche
soltanto con approssimazione, la sequenza dei fatti accertati (a cominciare
dalla raccolta di migliaia di dossier illegali); la loro pericolosità;
i protagonisti (alcuni mai nemmeno nominati); un multiforme network di potere
che condiziona ancora oggi un'imprenditoria debole senza capitali e una
politica fragile senza legittimità: imprenditoria e politica sorrette,
protette o minacciate - secondo convenienza - da alcune burocrazie della
sicurezza. È nelle pieghe di questi deficit e contraddizioni
italiani che è fiorito l'affaire, uno scandalo che nessuno - a
quanto pare - ha voglia di affrontare. Vedremo se lo farà la prudente
magistratura di Milano.
Per definire almeno la cornice del "caso" e gli
attori e un metodo e qualche fondo fangoso, Repubblica - nel corso del
2008 - ha avuto sei colloqui (a Bereguardo, Milano e Albenga) con un Giuliano
Tavaroli convinto già da tempo (e quel che
accade sembra dargli ragione) che "nessuno avrà interesse a
celebrare il "processo Telecom". Nessuno: né i pubblici
ministeri, né gli imputati, né la Telecom vecchia, né la Telecom nuova. Ma io
non sono e non farò né accetterò mai di essere il capro
espiatorio di questo affare. Io vorrò con tutte le mie forze il
processo e nel processo vorrò vederli in faccia ripetere quel che
hanno riferito ai magistrati. Il mio vantaggio è che tutti - tutti -
hanno mentito in questa storia, e io sono in grado di dimostrare che le
informazioni che ho raccolto sono state distribuite in azienda perché
commissionate dall'azienda e nel suo interesse... Ne ho sentite di tutti i
colori. Come Marco Tronchetti Provera che nega di aver mai
avuto conti all'estero, come se non sapessi che per lo meno fino al 2006 i
suoi conti erano a Montecarlo".
Tavaroli lamenta di essere stato "messo in
mezzo" per aprire la strada all'inchiesta Abu Omar.
E' il "signore della sicurezza" Telecom. I pubblici ministeri
devono intercettare gli uomini del Sismi che hanno cooperato con la Cia per
sequestrare illegalmente il cittadino egiziano, sospettato di essere un
terrorista. Con i buoni rapporti di Tavaroli con il
Sismi, l'operazione sarebbe stata a rischio. "Così
- dice Tavaroli - hanno cominciato a indagare su di
me in modo strumentale. Sì, strumentale. Potrei farvelo leggere
nelle carte. Nelle carte c'è scritto. Dispongono la perquisizione nel
mio ufficio con un unico obiettivo: rimuovermi dal mio posto nella
convinzione che, se non lo avessero fatto, non avrebbero avuto campo libero
per le intercettazioni dell'inchiesta Abu Omar e
quindi per l'ascolto decisivo dei funzionari del Sismi. Pensavano: questo Tavaroli se ne accorge e avverte il suo amico Mancini
(era il capo del controspionaggio dell'intelligence) e noi non caviamo un
ragno dal buco. Così sono finito nel tritacarne...".
Sarà, quel che è saltato poi fuori giustificava l'iniziativa
penale, ma qui conta altro. E' vero o è falso che, nel tempo, si è creata una sovrapposizione operativa, una
contiguità d'interessi tra l'intelligence di Stato, le security delle
grandi aziende al servizio di obiettivi ora istituzionali ora politici ora
economici, ora l'uno e l'altro? Un "sistema" che per alcuni anni ha
avuto il suo centro nella Telecom di Marco Tronchetti Provera?
Tavaroli dice che, se si vuole
davvero capire che cosa è accaduto in Telecom, bisogna andare
indietro nel tempo.
Una data d'inizio.
"Questo metodo ha, se si vuole, una data d'inizio con
la nascita del nucleo speciale di polizia giudiziaria a Torino, un gruppo che
non aveva alcuna corrispondenza nell'Arma dei carabinieri. Esisteva
soltanto lì a Torino, dove il generale Dalla Chiesa era comandante (Tavaroli lo chiama sempre il Generale, e sembra
di vedere la maiuscola). E' nel "nucleo" che nascono
l'operazione di Frate Mitra che conduce all'arresto di Renato Curcio o
all'arresto di Patrizio Peci. In quest'occasione furono
"infiltrati" in Fiat - con l'assenso e la collaborazione della
"sicurezza" dell'azienda - cinque operai
"collaborazionisti": uno di essi fu poi reclutato dalle Brigate
Rosse; fu l'uomo che indicò al Generale il "covo" di Peci.
Dopo questi successi il metodo trovò una "natura giuridica",
una sistematizzazione legislativa. Non è che le nuove leggi lo
prevedessero esplicitamente, ma rendevano possibile - meglio, tolleravano -
quei sistemi se, in qualche modo, "controllati"
dall'autorità giudiziaria. Diciamo che le linee di collaborazione con
la magistratura si accorciarono e capitava che il pubblico ministero
lavorasse gomito a gomito con il sottufficiale operativo senza la mediazione
delle gerarchie. Nacquero le sezione speciali
anticrimine. Con l'assassinio di Guido Rossa, comincia la collaborazione
anche del Pci e dei sindacati. Ugo Pecchioli offre
tutte le informazioni che i militanti e i sindacalisti raccolgono nelle
fabbriche. Indicano tutti i nomi di coloro che, in fabbrica, sono o paiono
essere vicini al terrorismo. Ci sono ancora in giro
ex-sindacalisti che possono essere buoni testimoni di questo lavoro".
(Dunque, vediamo integrati in una sola
"piattaforma", l'Arma dei carabinieri con un suo nucleo speciale,
le procure alle prese con un "diritto speciale di polizia", le
attività informative della più grande impresa privata del
Paese, la Fiat, e del maggior partito di opposizione, il Pci, presente in
modo massiccio nel sindacato e nelle fabbriche. Lo schema è destinato
a riprodursi e, con la sconfitta del terrorismo, a deformarsi, a
"privatizzarsi").
"Diciamo che nella lotta al terrorismo nacque un
"sistema" e fu selezionata un'élite di professionisti, che è
o è stata al vertice della security delle maggiori imprese italiane.
Con i pool di magistrati, operavamo a stretto contatto, avevamo molte
responsabilità anche di decisione. Accadde quello che nelle aziende si sarebbe chiamato "accorciamento della catena
decisionale". Gli ufficiali in parte partecipavano e comprendevano
l'importanza dell'esperienza, in parte avvertivano di avere meno potere:
contavano le competenze e non il grado sulla spalla. Si forma così una
generazione di uomini che emerge per il merito, la competenza. Siamo in un
periodo di "leadership situazionali", ovvero di persone che
prendono la leadership a seconda delle situazioni e delle circostanze, con
grande flessibilità. E' in questo periodo che si afferma "la
dittatura della conoscenza". Conta chi ha competenza e conoscenza e
capacità di analisi. Ecco perché io e Marco Mancini ci affermammo
nonostante fossimo soltanto dei sottufficiali: noi avevamo competenza e
conoscenza. I generali avevano i gradi, ma né l'una né l'altra.
Nel dicembre del 1988, quasi con un colpo di testa - decisi d'istinto, dalla
mattina alla sera, appena mi arrivò la proposta - lasciai l'Arma per
l'Italtel. Ormai noi dell'Antiterrorismo ci
giravamo i pollici. Molti si decisero a riciclare i loro metodi nella lotta
alla criminalità organizzata. Non era per me. Io penso che la mafia ti
rovini la testa, ti avveleni. Quando mi chiudo alle spalle la porta di casa,
voglio poter lasciare fuori anche il pensiero del lavoro. Ma quando hai a che
fare con gente che scioglie un bambino nell'acido, come fai a dimenticartelo?
Te lo porti a casa, il lavoro. Andai
via".
"Lo scambio delle figurine"
"Per il mondo della sicurezza privata, quelli, sono
anni decisivi. Nel 1989 cade il Muro, implode l'Unione Sovietica. Le
ragioni costitutive di una cultura della sicurezza, della sua organizzazione,
metodo, visione del mondo vengono meno. Io ho 30 anni e sono consapevole che
devo trasformarmi in un uomo di business. Comprendo subito che la sicurezza
deve diventare una funzione dell'azienda, non restare - come era allora - un
corpo separato dell'impresa. Tra il 1991/1992 nascono business
intelligence, market intelligence, competitive intelligence... Un vecchio
mondo si frantuma, prestigiosi "salotti" diventano polverosi e
inutili. Mondi che prima erano separati da ostacoli, più o meno,
invalicabili - o valicabili a prezzo di grandi rischi - entrano in costante
comunicazione. A quel punto i servizi segreti che, con il mondo diviso in
blocchi, erano monopolisti dell'informazione perdono, nello spazio di un
mattino, la loro supremazia. E' uno scettro che passa nelle mani dell'impresa
privata.
Italtel, per dire, aveva dopo il 1989 150/200
uomini in Urss e agiva con i governi delle singole repubbliche dell'ex-blocco
sovietico mentre il Sismi faticava per infiltrare anche soltanto un uomo
oltre le linee. Chi contava di più? Chi poteva avere più
informazioni?
Queste condizioni creano un nuovo mercato. Comincia lo scambio delle figurine
tra security private e servizi segreti. La parola d'ordine convenuta è
"diamoci una mano". E' una collaborazione che cresce, si allarga e
sviluppa senza uno straccio di protocollo, senza rendere trasparente e
condiviso che cosa è lecito, che cosa non lo è. In ogni altro
paese - Stati Uniti, Inghilterra, Francia - ci sono protocolli che regolano i
rapporti tra imprese, sicurezza privata e servizi. Da noi, c'è un
vuoto che ciascuno occupa come crede.
Nel 1996, aprile, vado in Pirelli. A quel punto le aziende che agiscono sul
mercato globale hanno già una sovranità superiore a quella
degli Stati. I governi hanno abdicato. L'11 settembre, se riproduce nel mondo
una nuova logica bipolare Occidente contro Islam, esalta le
potenzialità e il protagonismo delle imprese multinazionali o
plurinazionali. Con in più lo straordinario e
inedito potere della tecnologia. Cambia di nuovo tutto. Cambiano la cultura e
i players dell'informazione. Tutti affidano tutto
all'indagine elettronica: tracce elettroniche, carte di credito ecc. ecco che
le telecomunicazioni diventano appetite, sempre più strategiche. Le
indagini si fanno con le intercettazioni. Di nuovo: difficile dividere lecito
e meno lecito. In Francia, la polizia fa le intercettazioni legali; la Direction
de la Surveillance du Territoire (Dst) fa quelle
illegali. Tutto normale, in Italia no".
"Tronchetti voleva il Corriere"
"Poi Pirelli acquista la Telecom. E' per tutti
noi una sorpresa. Forse non tutti sanno che Tronchetti Provera non aveva
alcuna intenzione di entrare in Telecom, in realtà. In quel 2001,
stava scalando Rcs. Ha sempre avuto una passione non nascosta per il Corriere
della Sera che riteneva, e forse ritiene, un'istituzione essenziale per
la democrazia italiana. In quei mesi stava acquisendo posizione e posso
credere che si preparasse a lanciare un'offerta pubblica di acquisto. Fu
Buora a proporre il dossier Telecom. Tronchetti gli diede fiducia.
Le cose, per noi, non stanno per niente messe bene nel 2001, quando
Berlusconi e i suoi si insediano a palazzo Chigi.
Era al potere una famiglia impenetrabile, gente che è insieme,
gomito a gomito, dai banchi di scuola, gente che pensa soltanto agli affari e
all'assalto alla diligenza e tutti - dico, tutto l'establishment -
sono "fuori asse". A chi rivolgersi? Come scegliere gli
interlocutori "giusti"? E ci sono davvero, in quella compagnia, gli
"interlocutori giusti"? Per dirne una. Telecom aveva un contenzioso
per un centinaio di miliardi di lire con il ministero della Giustizia. Come
venirne a capo? Chi era Roberto Castelli? E quel Brancher lì (era
l'"ambasciatore" di Forza Italia presso la Lega di Bossi), che
"pesce" era?
La verità è che noi in quell'avvio avevamo soltanto pochissimi
interlocutori. Ad esempio, Pisanu (ministro per l'attuazione del programma).
Vecchia scuola. Formazione politica solida. Interlocutore affidabile. Con
lui, Tronchetti filò subito d'amore e d'accordo. Con gli altri
soltanto guai. E i guai toccava a me affrontarli. In quel periodo accade
qualcosa che mi fa capire.
Accade che dovevamo rivedere gli organici e le
responsabilità negli uffici di Roma. Una persona, di cui non voglio
dire per il momento il nome, mi sollecita a "salvare", negli uffici
della capitale, la signora Laura Porcu. La cosa mi
convince e la Porcu viene "salvata". Dopo
qualche tempo, la Porcu mi chiede se voglio essere
messo in contatto con personalità influenti del mondo romano. Accetto".
"Il network eversivo"
"La Porcu organizza un giro
delle sette chiese, un'agenda di incontri con Nicolò Pollari, Francesco Cossiga, Paolo Scaroni
(Eni), Enzo De Chiara (uno strano personaggio, finanziere italo-americano,
vicino alle amministrazioni Usa, già finito in qualche inchiesta
giudiziaria), Pippo Corigliano (Opus Dei) che a
sua volta mi presenta Luigi Bisignani che
già aveva chiesto di incontrarmi (se fosse stato siciliano, dopo
averlo conosciuto, avrei pensato che fosse un mafioso) e la Margherita Fancello (moglie di Stefano Brusadelli,
vicedirettore di Panorama), che a sua volta mi riportò da
Cossiga, Massimo Sarmi (Poste), Giancarlo Elia
Valori, il generale Roberto Speciale della Guardia di Finanza.
Insomma, dai colloqui, capisco che questi qui sono in squadra.
(Tavaroli
annuncia in settembre una memoria difensiva molto documentata e comunque va
ricordato qui che la sua è la ricostruzione di un indagato). Mi
immagino una piramide. Al vertice superiore Berlusconi. Dentro la piramide,
l'uno stretto all'altro, a diversi livelli d'influenza, Gianni Letta, Luigi Bisignani, Scaroni, Cossiga, Pollari. E' il network che, per quel che so, accredita
Berlusconi presso l'amministrazione americana. Io non esito a definire questa
lobby un network eversivo che agisce senza alcuna trasparenza e controllo.
Mi resi conto subito che quella lobby di dinosauri custodiva segreti (gli
illeciti del passato e del presente) e li creava. Che quei segreti potevano
distruggere la reputazione di chiunque e la vera sicurezza è la
reputazione. C'era insomma, tra la Telecom di Tronchetti e quell'area di
potere, un disequilibrio informativo che andava affrontato subito e
nel miglior modo da noi, riequilibrandolo o addirittura annullandolo con la
creazione, a nostra volta, di altri segreti. C'era bisogno di coraggio. Che
è proprio la virtù che manca a Marco Tronchetti Provera. Ha il
culto di se stesso. Non decide mai. Non se la sentiva di attaccare
frontalmente, magari pubblicamente, quel network né voleva "sporcarsi le
mani", cioè entrare nel club pagandone il prezzo in
opacità, ma incassandone i vantaggi lobbistici. Non prende posizione.
Non si "compromette" né in un senso né nell'altro. Per questo
quella "compagnia" lo scarica. Come, lo spiegherò presto. Il
fatto è che quando Tronchetti si insedia in Telecom è debole.
Debole non per l'indebitamento, come tutti pensano. Ma per il suo isolamento
nel mondo politico, economico. Tronchetti non piace alla politica. Ne
è distante e questo non è gradito. Non capisce la politica di
Roma e questo è un problema. Non piace agli industriali. La
Confindustria è guidata da Antonio D'Amato, espressione della media
industria, e questo è un altro problema. E' su questa zona di confine
che mi dicono di "ballare". E io ballo. Me ne ha dato atto, quando
mi ha liquidato, anche Tronchetti. Mi ha detto papale papale: "Forse le
abbiamo chiesto troppo". E' vero, mi chiesero molto. Forse
troppo".
(1. Continua)
(21 luglio 2008)
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