La Repubblica
27-3-2009
Uomini
e senza laurea dirigenti made in Italy.
Gli
amministratori delegati dedicano più attenzione ai ministri che ai
loro capi del personale
di Gabriele
Romagnoli
48
ore di lavoro alla settimana, il 14% alla scrivania. Il resto? Riunioni,
viaggi e telefonate
È tutta colpa dei
manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati
così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più
nella Champions League dell'economia il problema è in panchina?
Tutta colpa dei manager? O, come Jessica Rabbit, sono stati "disegnati
così"? Se le squadre-azienda italiane non giocano più
nella Champions League dell'economia il problema è in panchina? O in
quelli che scelgono chi metterci, come incentivarlo e perché, eventualmente,
licenziarlo? E, infine, che cosa fa veramente un manager?
Nel momento in cui la parola più pronunciata è crisi e le
imprese palleggiano la responsabilità nel vecchio gioco dello
scaricabarile, sui manager si addossano colpe: miopi nelle strategie,
accecati dal miraggio dei bonus, hanno guidato il pulmino aziendale andando a
sbattere contro il muro della recessione. Ma in Italia il declino è
cominciato molto prima, esattamente dal 1995. E la copertina dell'Economist
che ci definiva "Sick Man of Europe" è del maggio 2005. Che
questo morbo abbia a che fare con i manager, con i criteri che ne determinano
la scelta, con il modo in cui lavorano? Due studi aiutano a farsi un'idea.
Provengono entrambi dalla London School of Economics, ma sono opera di
quattro ricercatori italiani: Oriana Bandiera, Luigi Guiso, Andrea Prat e
Raffaella Sadun. Il primo si intitola "Italian Managers: fidelity or
performance". Completato nel 2008, sarà discusso al Festival
dell'economia di Trento. Spiega, in soldoni, come un capitano d'industria
italiano nomina i suoi ufficiali.
Il secondo ("What does a Ceo do?") è ancora in fase
preliminare e risponde all'interrogativo: ma poi, che cosa diavolo fa,
esattamente, un amministratore delegato? Come spesso, la realtà
è un'intuizione, ma tocca alla scienza suffragarla con prove. Per
farlo i 4 studiosi hanno valutato la carriera di 600 manager, di cui 121
amministratori delegati. Sono entrati in possesso delle loro agende
ricostruendo gli impegni di una settimana lavorativa. Hanno verificato
all'Inps le loro retribuzioni (al netto dei bonus e della soave prassi delle
aziende italiche di pagarne una parte in nero). Il risultato? Prevedibilmente
sconfortante. Ineludibilmente di cattivo auspicio. Vediamo in dettaglio.
Come viene scelto un manager in Italia? Una minoranza di imprese
(quelle non familistiche e a vocazione multinazionale) si basa sulle
performance, incarica cacciatori di teste, mette annunci, fa riferimento a
precedenti contatti d'affari. Ma la maggioranza decide altrimenti. Come?
Sulla base delle relazioni personali. Al limite di quelle familiari.
Tradotto: non si sceglie qualcuno che ha dimostrato di valere, ma uno con cui
si è fatto il liceo, o il compagno di merende del cugino. I dirigenti
delle aziende di Silvio Berlusconi non sono forse stati in maggioranza suoi
compagni di scuola? E non è poi venuta la volta dei compagni di Pier
Silvio (cooptato per eredità)? Ci sono sistemi peggiori? Forse
sì: il presidente Moratti affidò la panchina dell'Inter a
Orrico dopo averlo sottoposto a prova grafologica e Gabriella Spada, moglie
del fondatore della Giacomelli Sport, non si fidava di nessuno che non fosse
stato approvato dalla cartomante (poi Orrico fu esonerato e la Giacomelli ha
fatto crac).
Proviamo a confrontare i manager italiani usciti da questa ricerca con quelli
di un sondaggio effettuato in 4mila aziende di 12 Paesi esteri. Per
età sono simili. Per genere l'Italia si rivela più misogina
(benché sia risalita negli ultimi vent'anni e abbia una donna alla guida di
Confindustria). Più che altrove, da noi la scelta è domestica
(solo il 4% dei manager è straniero). Se il paragone regge: 1 sola
squadra italiana delle 4 presenti in Champions League aveva un allenatore
straniero. Risultato: tutte fuori. Tre squadre inglesi su 4 si affidavano a
un tecnico venuto da fuori. Esito: tutte in corsa. Ma dove, quasi
letteralmente, casca l'asino è nel livello di studi del manager
italiano. La metà non possiede laurea. E quando ce l'ha, è
lontana dalla lode.
Ora, se deponiamo un attimo la ricerca e proviamo ad incrociare questi dati
con l'esperienza recente per cercare il modello perfetto, l'impresa italiana
che riassume tutte queste condizioni, struttura familistica, management
maschile, scelto nel cortile di casa e con basso livello culturale, che
risultato otteniamo? Parmalat. Otteniamo il più grosso crac made in
Italy degli ultimi anni. Otteniamo un'azienda gestita da Calisto Tanzi come
un padre padrone. Dove entravano figli e nipoti con cariche non commisurate
alle capacità. Dove a parte due donne (ovviamente una figlia e una
nipote) tutti i dirigenti erano maschi. Dove le carte d'identità
recavano inevitabilmente la scritta "Nato a: Collecchio (Parma)".
Dove tutti erano, con orgoglio, ragionieri, Tanzi incluso. Dunque, questo
modello porta allo sfascio? Non necessariamente. È tuttavia provato
che l'altro, quello che valuta le performance, è più fruttuoso
per l'azienda.
Che i manager scelti per il curriculum e i risultati lavorano di più,
sono più soddisfatti, spingono l'impresa più avanti, avendo
più propensione al rischio. Il problema è che la maggioranza
non solo viene assunta per affidabilità, ma fa anche carriera per le
stesse ragioni e viene licenziata non quando manca gli obiettivi, ma se non
si sdraia sulla linea tracciata dal padre-padrone.
Questo determina il larga misura l'esito del secondo studio: che cosa fa un
manager? Dei 121 a
cui è stata "rubata l'agenda" questo sappiamo: lavorano in
media 48 ore alla settimana. Ogni giorno svolgono 7 diversi tipi di
attività. Quali? Metà del tempo lo spendono in
"riunioni". Il 14% soli alla scrivania. Il 12% in viaggi. Nel
restante 25% telefonano, partecipano a videoconferenze, pranzi di lavoro,
eventi speciali. Chi incontrano? Questa può apparire una sorpresa.
Principalmente consulenti esterni all'azienda. Piuttosto che i capi divisione
interni vedono persone che ruotano in altre orbite. A seguire: clienti,
investitori, banche, politici, fornitori. Come si spiega? Perché un
amministratore delegato passa più tempo con un faccendiere, un
ministro, un banchiere che con il direttore marketing o il capo del personale
della propria azienda?
Mettiamola così: tu sei un manager rampante, pensi che ti sarà
più utile per fare carriera il risultato ottenuto nell'attuale
incarico o la conoscenza non superficiale di Gianni Letta? È una
conclusione ancora provvisoria, non essendo lo studio terminato, ma
l'impressione è che le due ricerche siano strettamente correlate. In
un universo in cui la determinazione delle posizioni non è legata ai
titoli né ai risultati, ma ai rapporti, i manager dedicano più tempo a
tessere questi che a far funzionare le aziende di cui hanno la
responsabilità. Ecco che il circolo vizioso si chiude: in mezzo
restano aziende che non brillano più da oltre un decennio, lavoratori
che ne pagano le conseguenze, un marchio, "Made in Italy",
appannato. Segnali di un'inversione di tendenza? Nessuno. Hai una laurea con
il massimo dei voti, hai un carattere indipendente, non sei propenso alle
relazioni pubbliche, tendi a dire quel che pensi e contrastare anche chi ti
paga se pensi che sia per il bene comune? Sei magari perfino donna? Non
pensare di fare il manager in Italia. Al limite vai all'estero, alla London
School of Economics a fare un'impietosa ricerca sui manager.
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