La Repubblica 13-5-2008
Classe dirigente, un flop manager e politici superpagati e inefficienti.
I parlamentari guadagnano 36 mila euro in più dei loro colleghi
americani. La Fondazione Debenedetti: l'obbedienza conta più della
preparazione.
di Roberto Mania
ROMA - L'Italia è una Repubblica fondata sulla fedeltà.
Al capo, beninteso. Accade nella politica dove l'eletto è cooptato dai
capi-partito, e accade nelle imprese dove al manager bravo si preferisce
quello obbediente. Anche questo è il declino italiano. Che emerge da
due indagini promosse dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti (saranno
presentate il 24 maggio in un convegno a Gaeta) sulle carriere di tutti i deputati
dal 1948 a
oggi, e sulla selezione dei top manager.
Si scopre che i risultati, per manager e politici, contano poco o nulla. Non
più del 15 per cento della retribuzione di un alto dirigente è
collegata alle sue performance. E i deputati italiani guadagnano quasi 36
mila euro in più all'anno dei parlamentari americani. Solo il 50 per
cento degli amministratori delegati o direttori generali ha nel cassetto una
laurea. Non si viene scelti in base al curriculum ma, anche qui, ai rapporti
personali. Sono le Caste, insomma, come già è stato detto.
Élite che da tempo hanno abdicato al loro ruolo di guida.
"Politici e manager - spiega Tito Boeri, direttore della Fondazione -
sono due figure cruciali per uscire dal declino. I primi per creare, con
lungimiranza, le condizioni di contesto migliori, a cominciare da quelle
relative all'istruzione. I secondi perché possono concretamente incidere
sulla riorganizzazione della nostra struttura produttiva. Il successo delle
imprese dipende innanzitutto da loro".
I nostri manager non sono né più vecchi, né più giovani di
quelli degli altri paesi. Sono in media: hanno intorno ai 45 anni.
Però c'è un'anomalia, tra le altre, tipicamente italiana.
"Una differenza importante", dice Luigi Guiso, dell'Istituto
universitario europeo, uno dei curatori della ricerca. In Italia c'è
una quota significativa (tra il 6 e il 7 per cento) di manager over 65, e
un'altra di pari dimensioni di manager sotto i 45 anni. Tanto che abbiamo
un'età media più bassa di un paese come gli Stati Uniti (46 anni)
dove la mobilità sociale è invece altissima. E allora perché
l'anomalia italiana? Guiso sostiene che le possibili interpretazioni sono
almeno due.
La prima è quella che definisce "speranzosa": è
iniziata la fine della gerontocrazia e ora siamo in mezzo alla transizione.
La seconda, però, più realisticamente dice che "restiamo
in un sistema gerontocratico e parentale" perché è il padre
anziano che resta in azienda cedendo gradualmente deleghe al giovane figlio.
Questo è il capitalismo familiare, e soprattutto è quello delle
micro-imprese, che ancora stenta ad aprirsi ai manager esterni.
La conferma arriva dai criteri di selezione per l'assunzione di un manager.
Partiamo da un primo dato sorprendente: non si scelgono i laureati migliori
bensì quelli che escono dalle università con un voto medio,
anche sotto il 102. E ben il 20 per cento viene assunto nonostante un voto
inferiore a 95. Insomma una selezione al ribasso. Perché? "La mia
è una congettura - avverte Guiso - ma probabilmente lo si fa perché non
si vogliono soggetti indipendenti, troppo ambiziosi. Si cerca la
fedeltà, l'obbedienza, più che la fiducia". Tanto che gli
stipendi dei manager sono spesso svincolati dalle performance borsistiche:
nel 2007 sono aumentati quasi del 30 per cento per i top manager del listino
ma a Piazza Affari abbiamo visto il tracollo dei titoli (-7 per cento per il
Mib). Nessuno viene cacciato perché non raggiunge i target. Ma se si incrina
il rapporto con la proprietà, si va via.
Nemmeno tutti i manager hanno una retribuzione legata ai risultati. Chi ce
l'ha, ce l'ha per una quota pari in media al 15 per cento, non di più.
E allora, dalla ricerca, il nostro manager appare "un po' seduto, poco
disposto a rischiare, un po' conservatore". Come l'Italia di questi
anni, insomma.
Come i politici italiani, in particolare, di questa seconda Repubblica. La
ricerca che è stata condotta su di loro non ha precedenti. Sono stati
studiati, per un anno, tutti i 4.465 eletti alla Camera dalla prima fino alla
quindicesima legislatura, esclusa, dunque, solo quella appena avviata. Di
loro si sa quasi tutto: dove sono nati, il loro livello di istruzione, la
professione che facevano prima, la loro attività, i loro redditi dall'82 in poi, da quando
cioè hanno dovuto renderli pubblici. Di 860 ex parlamentari si
è seguita anche la vita successiva. Si sono studiati i flussi di
ingresso a Montecitorio. Antonio Merlo, dell'Università della
Pennsylvania, ha setacciato allo stesso modo i congressisti americani.
Ha messo a confronto la dinamica dei loro redditi. Ha scoperto, per esempio,
che in Italia il reddito pro capite negli ultimi 50 anni è cresciuto
di circa il 3 per cento l'anno, ma per i deputati l'impennata è stata
di oltre il 10 per cento. Oggi i deputati italiani guadagnano esattamente 35.742
euro in più all'anno di un rappresentate del popolo statunitense.
Da noi serve sempre meno anche la laurea per arrivare allo scranno
parlamentare. Nella prima Repubblica (dal '48 al '94) l'aveva l'80,5 per
cento dei deputati; nella seconda il 68,5. Nella prima legislatura era
laureato il 91,4 per cento contro il 64,6 della penultima. Non è
andata così negli States: i laureati erano l'88,5 per cento nel 1949,
sono saliti al 93,9 per cento nel 1995. Ma dov'è la nostra classe
dirigente?
(13 maggio 2008)
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