HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli www.mauronovelli.it Documento d’interesse Inserito il 28-1-2009 |
|||
La Repubblica 27-1-2009 Ichino: Ai brigatisti dico venite a lezione da me Dario Crestodina Ci sono uomini che
credono che nella vita ci siano cose per le quali vale la pena morire. Pietro
Ichino è uno di questi. Un professore di 59
anni. Un giuslavorista, uno studioso di diritto del lavoro. Come lo erano
Massimo D' Antona e Marco Biagi. Entrambi sono
stati uccisi dalle nuove Brigate Rosse. Ora nel loro mirino c' è
questo docente esile e timido. L' altro giorno in
un' aula di tribunale di Milano, durante la sua deposizione nel processo
contro diciassette presunti appartenenti al "Partito comunista
politico-militare", alcuni imputati gli hanno urlato in faccia: «Fai
schifo. Assassino, massacratore di operai». La prima
domanda è banale, quasi stupida. Professore,
ha paura? «Ora no. Ma le dispiace se le chiedo di
parlare prima del mio lavoro? Perché questi pazzi non ne sanno niente: né di
me, né delle mie idee, né delle mie proposte». Cominciamo allora di qui. Qual
è la sua valutazione sull' accordo per la
riforma dei contratti raggiunto alcuni giorni fa nonostante il no della Cgil?
«Pur con alcune ombre, considero l' accordo una
tappa molto importante sulla strada per rendere più efficiente e
moderno il nostro sistema di relazioni industriali». La Cgil teme che porti a
un abbassamento dei livelli retributivi garantiti dai contratti nazionali. è un timore giustificato? «L' intesa
prevede che nei contratti nazionali si negozi un "elemento retributivo
di garanzia" destinato a scattare nei casi in cui la contrattazione
aziendale non decolla. Il livello di garanzia nazionale dipenderà
anche dall' entità di quell' elemento. Come
si fa a dire che la copertura nazionale si ridurrà, se non conosciamo
ancora l' entità di questa voce? In ogni caso
lo spostamento verso la periferia del baricentro della contrattazione
collettiva è indispensabile se vogliamo rivitalizzare i redditi di
lavoro». Nell' accordo ci sono almeno due punti che
ricalcano le sue proposte. Lei è senatore del Pd. Considera questo una
svolta anche nei rapporti tra maggioranza e opposizione? «Mi sembra, semmai,
una svolta nell' evoluzione del sistema di relazioni
industriali. L' accordo è essenzialmente
frutto della convergenza tra sindacati e imprenditori. Qui, sì, mi
sembra che siano stati recepiti i due punti cardine del discorso che avevo
proposto tre anni fa nel libro A che cosa serve il sindacato: democrazia
sindacale e potenziamento dell' autonomia collettiva
al livello aziendale. Sono i temi che affrontai anche in un dialogo con
Eugenio Scalfari pubblicato proprio su Repubblica nel febbraio 2006». Il
governo ha appoggiato l' intesa. E la saluta con
favore anche il vertice del Pd. Questa convergenza bipartisan quali effetti
sta avendo nel partito democratico che sembra diviso anche su questo? «Il Pd è in grave ritardo nella definizione precisa
della propria linea di politica del lavoro. Ma nel manifesto elettorale del
14 marzo scorso, "Per dare valore al lavoro", erano contenuti, in nuce ma molto chiaramente, gli elementi più
importanti della riforma che ora si avvia con questo accordo». Non crede che
al Pd manchi coraggio nell' affrontare la strada
delle riforme sociali e economiche, ma anche su quella per i diritti dei
cittadini su vita e morte? «Mi sembra che il
discorso programmatico di Walter Veltroni al Lingotto, poi quello del 19
dicembre scorso, non manchino affatto di coraggio e precisione. è il partito nel suo complesso che non ha ancora
acquisito la necessaria coesione interna e una adeguata capacità di
comunicazione esterna. è urgente recuperare
il ritardo». Professore, che cosa ha provato l' altro
giorno in tribunale di fronte all' aggressione dei terroristi? «Rammarico per non poter parlare con loro. In
qualità di testimone, il rito non me lo consentiva. Mi è
accaduto molte volte, in università, di imbattermi in contestazioni
anche aspre da parte di studenti. Sono sempre andato alle riunioni per
discutere con loro e ogni volta le tensioni si sono placate, sono riuscito a
farmi capire e rispettare. In realtà, come dicevo all'
inizio, i brigatisti non sanno nulla né di me né delle mie proposte.
Mi sembra, poi, che sappiano poco anche del mondo del lavoro reale». Perché
ha deciso di costituirsi parte civile in questo giudizio? «In
questa vicenda non era e non è in gioco soltanto la mia libertà
personale, ma anche la libertà di pensiero e di dibattito di tutta la
comunità dei giuslavoristi italiani. Non esiste un altro paese al
mondo in cui il mestiere dello studioso dei problemi del lavoro sia rischioso
come da noi». Nel 2003 lei scrisse, attraverso il "Corriere della
Sera", una lettera aperta ai terroristi, piena di coraggio e ironia. Non
ha mai ottenuto risposta. Oggi che cosa si sente di dire loro? «Vorrei potermi confrontare con loro faccia a faccia,
senza una gabbia di mezzo. Parlare, discutere con loro le mie tesi, le
ragioni delle mie proposte. Soprattutto guardarci negli occhi. Se il codice
di procedura penale lo consentisse, mi piacerebbe chiedere la condanna degli
imputati a questo risarcimento "in forma specifica": l' obbligo di partecipare a un seminario sulle politiche
del lavoro nella mia facoltà, con i miei colleghi, gli studenti, e con
me naturalmente. Obbligati a ascoltare, obbligati a discutere». Come spiega
il ritorno al clima degli anni Settanta, un clima che sembrava ormai
superato? «Non vedo un ritorno a quel clima. Allora
i brigatisti godevano di un' area di consenso molto
più ampia». Ma l' area di consenso potrebbe
allargarsi con la crisi economica e il crescere del disagio sociale. «Non riesco a vedere alcun nesso tra questo terrorismo e
il disagio sociale. Questi sono impiegati pubblici, tecnici col posto fisso,
studenti figli di famiglie ricche». Quali colpe hanno la politica e il sindacato
in tutto questo? «Le colpe vanno cercate in un passato ormai lontano, nel
quale abbiamo consentito una ideologizzazione
eccessiva della politica e del movimento sindacale». Quali
responsabilità ha la sinistra, che si trova ad essere abbandonata dai
lavoratori e dalle tute blu? Al Nord molti hanno votato Lega, al Sud tanti si
sono avvicinati alla destra. «La
responsabilità di avere difeso un sistema di protezione del lavoro
tragicamente squilibrato. Un sistema iperprotettivo, ma che si applica ormai
soltanto a meno di metà dei lavoratori dipendenti italiani (meno di 9
milioni su 18 e mezzo), che offre alle nuove generazioni prospettive
desolanti, condannando i migliori a migrare verso Paesi più civili,
che contribuisce a condannare il Mezzogiorno a tassi di disoccupazione e di
lavoro irregolare mostruosi». Professore, lei ha detto che chi tocca lo
statuto dei lavoratori muore. Perché? «Non lo
sostengo io. Sono i brigatisti a minacciarlo, in senso non soltanto
metaforico. Ma c' è anche una "morte politica" temuta da
tutti coloro, a sinistra come a destra, che a tu per tu si dicono convinti
della necessità di riscrivere quella legge per adattarla ai tempi, ma
quando ne parlano pubblicamente sono paralizzati dal tabù». Anche
nella destra? «Giulio Tremonti lo ha detto esplicitamente, l'
anno scorso. E nel programma del governo Berlusconi non compare
neppure la modifica di una virgola del vecchio impianto della protezione del
lavoro regolare stabile, a tempo indeterminato. Si continua a rosicchiare
brandelli di flessibilità sempre e soltanto nell' area
del lavoro precario». Lei è scortato dal 2002. Oltre la barriera degli
agenti che la proteggono percepisce la solidarietà del Paese, delle
istituzioni, della parte politica a cui si sente di appartenere? «L' ho sempre
sentita vivissima». Mi dica una cosa, lei si considera un uomo coraggioso?
«Guardi, un po' di coraggio mi è stato necessario dopo l' assassinio di Massimo D' Antona,
quando il ministro Bersani mi chiese di continuare il suo lavoro all' Enav, l' ente degli uomini-radar, per cercare di
riportare a un minimo di razionalità un sistema di relazioni sindacali
impazzito. Gli assassini erano tutti ancora in circolazione. Oggi no: quasi
tutti i carnefici sono dietro le sbarre e io sono protetto molto efficacemente».
Pensa spesso: questo potrebbe essere il mio ultimo giorno, oggi mi
spareranno? «Mi è accaduto nel triennio fra l' assassinio
di D' Antona e quello di Biagi, quando ancora non
avevo la scorta. Al momento di uscire di casa al mattino, o rientrando la sera,
mi veniva fatto di pensare che proprio quello poteva essere
il luogo dove sarebbe avvenuta l' aggressione. Mi pareva di vedere in
anticipo la scena della mia morte. E qualche volta l' ho sognata». Non ha mai pensato, dopo D' Antona
e Biagi e le minacce sempre più insistenti, di farsi da parte, di
nascondersi? Non si è mai detto: meglio fare il professore e basta?
«La tentazione l' ho avuta più volte, soprattutto quella di andare a
insegnare all' estero. Ho avuto diversi inviti. Ma
avrebbe significato tradire la memoria di Biagi, di D' Antona,
di Tarantelli, chinare la testa, subire l' intimidazione mafiosa dei brigatisti. La loro strategia
consiste proprio in questo: tappare la bocca a uno perché altri cento stiano
zitti». Lei ha moglie e figli. Ai terroristi scrisse: voi, per noi, siete
soltanto una cosa, al più un volto coperto e una canna di pistola
puntata. Noi bersagli sappiamo che non possiamo pretendere di conoscere i
vostri coniugi, i vostri figli, ma voi potete conoscere i nostri: fatelo. Una
sfida? «Forse sì, ma una sfida in positivo, a costruire una cornice
civile in cui inserire il rapporto tra di noi». Lei invitò i
terroristi al dialogo, dicendo loro che, pur di riuscire a convincerli a
considerarla come una persona umana e non come un bersaglio, per lei valeva
anche la pena di morire. Non hai mai ottenuto risposta. La pensa ancora
così? «Certo che sì. La vita non ha
molto senso se non si accetta di spenderla fino in fondo, e persino di
perderla, per quello in cui si crede. In quella lettera dicevo loro che
quello che manca tra di noi era la stessa cornice di riconoscimento dell' essere uomini, che troppo spesso manca tra
israeliani e palestinesi, tra fondamentalisti di ogni parte, tra esseri tra
loro alieni». Vivere sotto scorta è una prigione? «è una
piccola menomazione, e anche una mortificazione». A che cosa deve rinunciare?
«A una parte della mia libertà, in
particolare quella di girare in bicicletta in città. I miei hobby sono
la mountain-bike, il tennis, gli scacchi e la montagna. Li amo sempre molto,
se li pratico sempre meno non è per colpa del dispositivo di
protezione». Le cito una strofa di una canzone di Paolo Conte: "Una bici
si declama come una poesia". è d'
accordo? «Sì, la conosco ed è molto
vera. Ogni bicicletta è un piccolo miracolo. In città,
purtroppo, non mi è più consentito usarla. In montagna
sì. Per i sentieri in costa delle montagne della Val
D' Aosta, o per le marmifere dismesse delle Alpi Apuane. Mi piace pedalare
senza avere macchine intorno; farmi portare dalla bicicletta, ma a tratti
essere io a dover portare lei, perché sui sentieri di montagna si fa
così. Poter scollinare e discendere da una vallata diversa da quella
percorsa in salita. Questo, a piedi, è possibile solo raramente». E
che cosa ha imparato da un' altra sua passione, gli
scacchi? «A non dare mai la partita per persa, ma
anche a non darla mai per vinta. Negli scacchi, come nella vita reale, la
catastrofe è sempre in agguato, anche quando si pensa di essere
nettamente i più forti». è ottimista
sul futuro dell' Italia o ritiene che il nostro sia un Paese perduto? «Non
sarà perduto finché resta legato all' Europa.
La nostra speranza sta nell' osmosi, ormai sempre
più intensa, con le culture civili degli altri grandi Paesi nostri
partner, più avanzati e civili». d.crestodinarepubblica.it
- |