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Documento d’interesse   Inserito il 28-1-2009


 

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Dossier 1968-2008

 

 

La Repubblica 27-1-2009

 

Ichino: Ai brigatisti dico venite a lezione da me

 

Dario Crestodina

 

Ci sono uomini che credono che nella vita ci siano cose per le quali vale la pena morire. Pietro Ichino è uno di questi. Un professore di 59 anni. Un giuslavorista, uno studioso di diritto del lavoro. Come lo erano Massimo D' Antona e Marco Biagi. Entrambi sono stati uccisi dalle nuove Brigate Rosse. Ora nel loro mirino c' è questo docente esile e timido. L' altro giorno in un' aula di tribunale di Milano, durante la sua deposizione nel processo contro diciassette presunti appartenenti al "Partito comunista politico-militare", alcuni imputati gli hanno urlato in faccia: «Fai schifo. Assassino, massacratore di operai». La prima domanda è banale, quasi stupida. Professore, ha paura? «Ora no. Ma le dispiace se le chiedo di parlare prima del mio lavoro? Perché questi pazzi non ne sanno niente: né di me, né delle mie idee, né delle mie proposte». Cominciamo allora di qui. Qual è la sua valutazione sull' accordo per la riforma dei contratti raggiunto alcuni giorni fa nonostante il no della Cgil? «Pur con alcune ombre, considero l' accordo una tappa molto importante sulla strada per rendere più efficiente e moderno il nostro sistema di relazioni industriali». La Cgil teme che porti a un abbassamento dei livelli retributivi garantiti dai contratti nazionali. è un timore giustificato? «L' intesa prevede che nei contratti nazionali si negozi un "elemento retributivo di garanzia" destinato a scattare nei casi in cui la contrattazione aziendale non decolla. Il livello di garanzia nazionale dipenderà anche dall' entità di quell' elemento. Come si fa a dire che la copertura nazionale si ridurrà, se non conosciamo ancora l' entità di questa voce? In ogni caso lo spostamento verso la periferia del baricentro della contrattazione collettiva è indispensabile se vogliamo rivitalizzare i redditi di lavoro». Nell' accordo ci sono almeno due punti che ricalcano le sue proposte. Lei è senatore del Pd. Considera questo una svolta anche nei rapporti tra maggioranza e opposizione? «Mi sembra, semmai, una svolta nell' evoluzione del sistema di relazioni industriali. L' accordo è essenzialmente frutto della convergenza tra sindacati e imprenditori. Qui, sì, mi sembra che siano stati recepiti i due punti cardine del discorso che avevo proposto tre anni fa nel libro A che cosa serve il sindacato: democrazia sindacale e potenziamento dell' autonomia collettiva al livello aziendale. Sono i temi che affrontai anche in un dialogo con Eugenio Scalfari pubblicato proprio su Repubblica nel febbraio 2006». Il governo ha appoggiato l' intesa. E la saluta con favore anche il vertice del Pd. Questa convergenza bipartisan quali effetti sta avendo nel partito democratico che sembra diviso anche su questo? «Il Pd è in grave ritardo nella definizione precisa della propria linea di politica del lavoro. Ma nel manifesto elettorale del 14 marzo scorso, "Per dare valore al lavoro", erano contenuti, in nuce ma molto chiaramente, gli elementi più importanti della riforma che ora si avvia con questo accordo». Non crede che al Pd manchi coraggio nell' affrontare la strada delle riforme sociali e economiche, ma anche su quella per i diritti dei cittadini su vita e morte? «Mi sembra che il discorso programmatico di Walter Veltroni al Lingotto, poi quello del 19 dicembre scorso, non manchino affatto di coraggio e precisione. è il partito nel suo complesso che non ha ancora acquisito la necessaria coesione interna e una adeguata capacità di comunicazione esterna. è urgente recuperare il ritardo». Professore, che cosa ha provato l' altro giorno in tribunale di fronte all' aggressione dei terroristi? «Rammarico per non poter parlare con loro. In qualità di testimone, il rito non me lo consentiva. Mi è accaduto molte volte, in università, di imbattermi in contestazioni anche aspre da parte di studenti. Sono sempre andato alle riunioni per discutere con loro e ogni volta le tensioni si sono placate, sono riuscito a farmi capire e rispettare. In realtà, come dicevo all' inizio, i brigatisti non sanno nulla né di me né delle mie proposte. Mi sembra, poi, che sappiano poco anche del mondo del lavoro reale». Perché ha deciso di costituirsi parte civile in questo giudizio? «In questa vicenda non era e non è in gioco soltanto la mia libertà personale, ma anche la libertà di pensiero e di dibattito di tutta la comunità dei giuslavoristi italiani. Non esiste un altro paese al mondo in cui il mestiere dello studioso dei problemi del lavoro sia rischioso come da noi». Nel 2003 lei scrisse, attraverso il "Corriere della Sera", una lettera aperta ai terroristi, piena di coraggio e ironia. Non ha mai ottenuto risposta. Oggi che cosa si sente di dire loro? «Vorrei potermi confrontare con loro faccia a faccia, senza una gabbia di mezzo. Parlare, discutere con loro le mie tesi, le ragioni delle mie proposte. Soprattutto guardarci negli occhi. Se il codice di procedura penale lo consentisse, mi piacerebbe chiedere la condanna degli imputati a questo risarcimento "in forma specifica": l' obbligo di partecipare a un seminario sulle politiche del lavoro nella mia facoltà, con i miei colleghi, gli studenti, e con me naturalmente. Obbligati a ascoltare, obbligati a discutere». Come spiega il ritorno al clima degli anni Settanta, un clima che sembrava ormai superato? «Non vedo un ritorno a quel clima. Allora i brigatisti godevano di un' area di consenso molto più ampia». Ma l' area di consenso potrebbe allargarsi con la crisi economica e il crescere del disagio sociale. «Non riesco a vedere alcun nesso tra questo terrorismo e il disagio sociale. Questi sono impiegati pubblici, tecnici col posto fisso, studenti figli di famiglie ricche». Quali colpe hanno la politica e il sindacato in tutto questo? «Le colpe vanno cercate in un passato ormai lontano, nel quale abbiamo consentito una ideologizzazione eccessiva della politica e del movimento sindacale». Quali responsabilità ha la sinistra, che si trova ad essere abbandonata dai lavoratori e dalle tute blu? Al Nord molti hanno votato Lega, al Sud tanti si sono avvicinati alla destra. «La responsabilità di avere difeso un sistema di protezione del lavoro tragicamente squilibrato. Un sistema iperprotettivo, ma che si applica ormai soltanto a meno di metà dei lavoratori dipendenti italiani (meno di 9 milioni su 18 e mezzo), che offre alle nuove generazioni prospettive desolanti, condannando i migliori a migrare verso Paesi più civili, che contribuisce a condannare il Mezzogiorno a tassi di disoccupazione e di lavoro irregolare mostruosi». Professore, lei ha detto che chi tocca lo statuto dei lavoratori muore. Perché? «Non lo sostengo io. Sono i brigatisti a minacciarlo, in senso non soltanto metaforico. Ma c' è anche una "morte politica" temuta da tutti coloro, a sinistra come a destra, che a tu per tu si dicono convinti della necessità di riscrivere quella legge per adattarla ai tempi, ma quando ne parlano pubblicamente sono paralizzati dal tabù». Anche nella destra? «Giulio Tremonti lo ha detto esplicitamente, l' anno scorso. E nel programma del governo Berlusconi non compare neppure la modifica di una virgola del vecchio impianto della protezione del lavoro regolare stabile, a tempo indeterminato. Si continua a rosicchiare brandelli di flessibilità sempre e soltanto nell' area del lavoro precario». Lei è scortato dal 2002. Oltre la barriera degli agenti che la proteggono percepisce la solidarietà del Paese, delle istituzioni, della parte politica a cui si sente di appartenere? «L' ho sempre sentita vivissima». Mi dica una cosa, lei si considera un uomo coraggioso? «Guardi, un po' di coraggio mi è stato necessario dopo l' assassinio di Massimo D' Antona, quando il ministro Bersani mi chiese di continuare il suo lavoro all' Enav, l' ente degli uomini-radar, per cercare di riportare a un minimo di razionalità un sistema di relazioni sindacali impazzito. Gli assassini erano tutti ancora in circolazione. Oggi no: quasi tutti i carnefici sono dietro le sbarre e io sono protetto molto efficacemente». Pensa spesso: questo potrebbe essere il mio ultimo giorno, oggi mi spareranno? «Mi è accaduto nel triennio fra l' assassinio di D' Antona e quello di Biagi, quando ancora non avevo la scorta. Al momento di uscire di casa al mattino, o rientrando la sera, mi veniva fatto di pensare che proprio quello poteva essere il luogo dove sarebbe avvenuta l' aggressione. Mi pareva di vedere in anticipo la scena della mia morte. E qualche volta l' ho sognata». Non ha mai pensato, dopo D' Antona e Biagi e le minacce sempre più insistenti, di farsi da parte, di nascondersi? Non si è mai detto: meglio fare il professore e basta? «La tentazione l' ho avuta più volte, soprattutto quella di andare a insegnare all' estero. Ho avuto diversi inviti. Ma avrebbe significato tradire la memoria di Biagi, di D' Antona, di Tarantelli, chinare la testa, subire l' intimidazione mafiosa dei brigatisti. La loro strategia consiste proprio in questo: tappare la bocca a uno perché altri cento stiano zitti». Lei ha moglie e figli. Ai terroristi scrisse: voi, per noi, siete soltanto una cosa, al più un volto coperto e una canna di pistola puntata. Noi bersagli sappiamo che non possiamo pretendere di conoscere i vostri coniugi, i vostri figli, ma voi potete conoscere i nostri: fatelo. Una sfida? «Forse sì, ma una sfida in positivo, a costruire una cornice civile in cui inserire il rapporto tra di noi». Lei invitò i terroristi al dialogo, dicendo loro che, pur di riuscire a convincerli a considerarla come una persona umana e non come un bersaglio, per lei valeva anche la pena di morire. Non hai mai ottenuto risposta. La pensa ancora così? «Certo che sì. La vita non ha molto senso se non si accetta di spenderla fino in fondo, e persino di perderla, per quello in cui si crede. In quella lettera dicevo loro che quello che manca tra di noi era la stessa cornice di riconoscimento dell' essere uomini, che troppo spesso manca tra israeliani e palestinesi, tra fondamentalisti di ogni parte, tra esseri tra loro alieni». Vivere sotto scorta è una prigione? «è una piccola menomazione, e anche una mortificazione». A che cosa deve rinunciare? «A una parte della mia libertà, in particolare quella di girare in bicicletta in città. I miei hobby sono la mountain-bike, il tennis, gli scacchi e la montagna. Li amo sempre molto, se li pratico sempre meno non è per colpa del dispositivo di protezione». Le cito una strofa di una canzone di Paolo Conte: "Una bici si declama come una poesia". è d' accordo? «Sì, la conosco ed è molto vera. Ogni bicicletta è un piccolo miracolo. In città, purtroppo, non mi è più consentito usarla. In montagna sì. Per i sentieri in costa delle montagne della Val D' Aosta, o per le marmifere dismesse delle Alpi Apuane. Mi piace pedalare senza avere macchine intorno; farmi portare dalla bicicletta, ma a tratti essere io a dover portare lei, perché sui sentieri di montagna si fa così. Poter scollinare e discendere da una vallata diversa da quella percorsa in salita. Questo, a piedi, è possibile solo raramente». E che cosa ha imparato da un' altra sua passione, gli scacchi? «A non dare mai la partita per persa, ma anche a non darla mai per vinta. Negli scacchi, come nella vita reale, la catastrofe è sempre in agguato, anche quando si pensa di essere nettamente i più forti». è ottimista sul futuro dell' Italia o ritiene che il nostro sia un Paese perduto? «Non sarà perduto finché resta legato all' Europa. La nostra speranza sta nell' osmosi, ormai sempre più intensa, con le culture civili degli altri grandi Paesi nostri partner, più avanzati e civili». d.crestodinarepubblica.it -