La
Repubblica 11-4-2008
Il popolo antiracket e Mangano "l'eroe"
di GIUSEPPE D'AVANZO
I movimenti sociali sono energia che chiede di essere organizzata. Esprimono
una vitalità che spezza l'oppressiva costrizione dell'abitudine. Che
frantuma le ordinarie rappresentazioni collettive per aprirne di nuove -
impreviste e inattese, fino a quel momento. I movimenti sociali possono
mettere in moto un cambiamento brusco, addirittura
"rivoluzionario". Rappresentano, per la vita sociale, per la
comunità, per le istituzioni e le élites
politiche che le governano, una sorprendente occasione.
Annunciano quel che Emile Durkheim definiva
"un periodo creativo": il tempo in cui gli interessi individuali -
e di gruppo - vengono messi provvisoriamente da parte e inaspettati attori,
diventati "complici" di un'azione collettiva, chiedono "un
nuovo ordine della vita"; un altro sistema di valori; più moderne
morfologie sociali; una nuova "grammatica" pubblica. Il movimento
contro il pizzo, le estorsioni, il racket mafioso non è altro che
questo: una forma di solidarietà che chiede di liberare la vita
sociale dalla violenza, dalla paura, dall'angheria per ottenere più
qualità dell'esistenza, più eguaglianza nelle
opportunità, più diritti, rispetto dei doveri, maggiori chances di realizzazione individuale. L'antiracket che
oggi vede collegati, in uno stesso reticolo sociale, il pizzicagnolo e la
Confindustria, la microimpresa artigiana e la Confcommercio, è la
più stupefacente novità politica degli ultimi anni. È il
sintomo che nella nostra società esistono costituenti sani che
vogliono prevalere sugli agenti "patologici". Solo Berlusconi non
lo comprende. Al di là dell'indignazione che sollecita sentir dire
"eroe" un mafioso come Vittorio Mangano in una terra dove gli eroi
sono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, l'elogio deforme del Cavaliere
svela quanto egli sia conservatore, il custode di un "sistema
Italia" che non ha futuro (quale futuro può avere il Paese con un
Mezzogiorno schiacciato dalle mafie?); prigioniero di un interesse
esclusivamente elettoralistico (la mafia vota); incapace di un disegno
modernizzatore di medio e lungo periodo (l'antiracket lo è).
Sempre, però, i movimenti anche i più energici devono guardarsi
dalle debolezze che incubano. L'antiracket non fa eccezione. È storia
di questi giorni. Un imprenditore siciliano emigrato a Brescia denuncia una
richiesta di tangenti da parte di dirigenti della
Federazione antiracket (Fai) che lo hanno assistito nella richiesta
degli aiuti previsti dallo Stato a favore degli imprenditori vittime del
pizzo.
L'accusa viene lanciata prima da una piccola televisione agrigentina (e
l'accusatore viene denunciato per calunnia), poi lievita. Rotola addirittura sulla pagine dell'Espresso. Coinvolge il presidente
onorario della Fai, Tano Grasso. La denuncia dell'imprenditore, già
indagato egli stesso per estorsione, appare volatile. Molte incongruenze.
Circostanze decisamente infondate, anche soltanto a una prima verifica. Una
scena priva di puntelli che comunque tocca alla magistratura accertare. Tano
Grasso riceve l'apprezzamento e la solidarietà di Giuliano Amato, di
don Luigi Ciotti, Pina Maisano (la vedova di Libero
Grassi), Vincenzo Consolo, del presidente della commissione antimafia
Francesco Forgione, di vittime del racket come Silvana Fucito
e Vincenzo Conticello, soltanto per fare qualche
nome tra le centinaia.
Il problema non è difendere Tano Grasso da un'accusa ingiusta. Grasso
si tutela da solo. È difeso soprattutto dalla sua storia, dai
comportamenti quotidiani, dai risultati delle sue fatiche, dalle
difficoltà che il suo metodo di lavoro crea ai mafiosi, nei tribunali
e non nei convegni. Più interessante è qui notare come una
piccola e assai dubbia storia, nata male e cresciuta peggio, possa avere acceso
una infuocata polemica nel mondo dell'antimafia. Si
è letto di un Grasso simbolo dell'antimafia di regime, di una casta
che si appropria di spazi pubblici recitando le movenze di un artificioso
contropotere fino a concludere spensieratamente che il pizzo non è il
momento essenziale della sfida alle mafie. Chiunque legga di mafia, anche
soltanto distrattamente, sa come l'estorsione non sia semplicemente una delle
attività illecite di Cosa Nostra: è l'attività
principale, lo strumento irrinunciabile per controllare il territorio e
governare chi lo abita. Se si vuole combinare qualcosa contro la mafia
è da lì che bisogna muovere. Dinanzi a tanta leggerezza
culturale e ostilità personale e politica è utile chiedersi che
cosa produca quel furore accusatorio, che cos'è - e quale natura ha -
quella secrezione sciagurata che, periodicamente, scuote il movimento
antimafia, creando conflitti fraterni, velenosi, autodistruttivi, tanto
più infelici oggi che la mafia appare debole
e forte e diffusa la determinazione di chi vuole liberarsene.
Se soltanto si guarda meglio in quel movimento che si oppone ai poteri
criminali non si farà fatica a scorgere come sia attraversato non
soltanto da quella speranza di futuro coltivata dagli attori dell'antiracket,
ma in molti angoli da una "memoria infetta", da "un'impotenza
prolungata", dalle ferite del passato, dal ricordo che non si acquieta
delle umiliazioni subite, delle aspettative disattese; da un inestinguibile
rancore per le ingiustizie patite. In una parola, da un risentimento che
invoca più che un futuro possibile, la vendetta per il passato.
Naturalmente c'è chi di questo risentimento ha fatto affare e rendita,
ma coloro che sono in buona fede - animati da quel cieco, sfiduciato rancore
- costruiscono un'identità di gruppo monolitica, totalmente
autoreferenziale, che esclude ogni dialettica, confronto, ogni critica,
addirittura ogni miglioramento della situazione. Intrappolati in queste mura,
ogni passo in avanti appare una resa. Ogni sentiero praticabile, una liquidazione.
Ogni soluzione possibile, una minaccia da cui difendersi. Ogni pur parziale
successo, una sfida che provoca esplosioni di odio incontrollato che si
scarica curiosamente non contro gli avversari dichiarati (mafiosi, amici dei
mafiosi), ma più violentemente contro chi, nello stesso campo, non ha
sempre opinioni che coincidono con i Risentiti (il risentimento provoca un
odio paranoide "per il simile, non è odio per la
differenza"). Ogni risultato, ogni convinzione "differente"
appare al Partito e alle Agenzie del Risentimento un'impurità e impone
azione. Prescrive che quel rancore distilli calunnia, menzogna, maldicenza.
Diffamando si distrugge una reputazione, si "sporca" la
rispettabilità, si ferisce (ne fu martire proverbiale Giovanni
Falcone), ma che importa? Si devono scovare ed estirpare come un cancro
maligno le eresie, combattere in una crociata quotidiana le potenze malefiche
che le alimentano, così che ai Risentiti appare sciocco attardarsi in
scrupoli. L'esito è paradossale. L'antimafia del Risentimento -
declinata ora con i canoni della demagogia, ora con un estremismo astratto -
ha la stessa natura del conservatorismo di Berlusconi. Lascia tutto
com'è.
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