HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli Documenti d’interesse Inserito il 10-12-2006
Da La Repubblica
10-12-2006
Il ministro dell'Interno ammonisce Ds e Margherita a non
ripiegare
sull'ipotesi della federazione: "Rischiamo un Pim Fortuyn italiano"
Amato: "Avanza un'onda populista.
Soltanto il Pd la potrà fermare"
di MASSIMO GIANNINI
ROMA - "Sono allarmato. Le sfide della
modernità, dalla bioetica alla sicurezza alla globalizzazione, impongono
una svolta al sistema politico. Se non si accelera sul partito democratico, noi
rischiamo un'ondata di anti-politica che può travolgere tutto".
Giuliano riprova a suonare la campana dell'ultimo giro al centrosinistra. Di
fronte alle polemiche fra Ds e Margherita, sulla Finanziaria e sui Pacs, il
ministro dell'Interno avverte: "L'Italia è ormai una democrazia che
scricchiola. Si rischia una deriva populista, l'avvento di un Pim Fortuyn
italiano, che mette insieme tutte le rabbie diffuse nel Paese e finisce per
sfasciare culture, partiti e istituzioni".
Ministro Amato, perché tanto pessimismo? L'apertura arrivata dal Partito
socialista europeo nei confronti dell'esperimento italiano non le sembra un
fatto positivo?
"Vorrei partire proprio da qui. E' verissimo, l'accoglienza al congresso
del Partito socialista europeo nei confronti dell'idea del nostro partito
democratico è stata molto positiva in effetti. Negli anni scorsi non
sarebbe stato così. E in un passato neanche troppo remoto, avremmo
registrato una chiusura burocratica: se non ti chiami socialista non ti prendo.
Oppure ti prendo purché sulla tua targa ci sia scritto "socialista",
come accadde per alcuni partiti comunisti dell'Est. Ad Oporto, invece, è
emersa una indicazione molto incoraggiante. Ma poi, proprio in questa
novità, cogli qualcosa che, se riportato alla realtà italiana, ti
fa sentire a disagio. Io, per esempio, a Oporto non c'ero...".
Appunto. Perché lei non c'era?
"Ero stato eletto vice presidente unico del Pse in rappresentanza di due
partiti socialisti italiani che sembravano convergere verso uno sbocco comune.
Ma negli ultimi due anni, purtroppo, c'è stata una crescente
divaricazione tra Ds e Sdi. Per questo, io che li avevo rappresentati entrambi,
non me la sono sentita di andare a Oporto".
Quindi lei oggi suona un campanello d'allarme. L'Europa guarda con interesse
al cantiere dei riformisti italiani, ma in Italia il partito democratico non
riesce a fare passi avanti. E' così?
"I passi ci sono, ma l'allarme suona lo stesso. Eccome se suona. Per
questo dovrebbe spingerci ad ascoltarlo con molta attenzione. Ma santo iddio,
come si fa a non tener conto di quello che molto giustamente ha scritto Eugenio
Scalfari, cioè che in questo paese si sta rompendo, o forse si è
già rotto, lo specchio? E come non capire che questa mia piccola vicenda
personale, in fondo, è un frammento di questa rottura? Il problema
è che i pezzi sono sempre più numerosi, e producono solo tanta
confusione e tanta inquietudine".
Quali segnali la preoccupano?
"Ma non lo vede? Neanche i partiti che si autodefiniscono socialisti
riescono a trovare in Italia una strada comune. E la ricerca è
così difficile anche per quelli che si sono messi in cammino verso il
partito democratico. La preservazione delle identità precedenti è
ormai diventata più importante di quella identità comune che
invece bisognerebbe trovare".
In tutte le riunioni non si fa altro che rilanciare la necessità di
mettersi insieme. Perché poi non si trova la sintesi?
"Proprio questa è la difficoltà. Quando parli di problemi
del mondo sei confortato. Esci da seminari come quello di Orvieto, e ti senti
più ottimista. Ma quando passi ai processi concreti, ciascuno si trova
assillato e trascinato da tiranti che ci portano solo verso il passato. La
mediazione, allora, è più difficile e difficile è mettere
insieme le tessere, che in questo caso non sono quelle del mosaico, ma quelle
dei partiti che dovrebbero convergere. Mi passi un luogo comune: mai come in
questo caso stiamo discutendo sulla tolda del Titanic. Lo specchio che si
è rotto è la nostra società. Come ha osservato
opportunamente Prodi, l'Italia è impazzita. Il senso delle parole di
Romano era molto chiaro: i pezzi dello specchio non stanno più
insieme".
Ministro Amato, cerchiamo di parlare di cose concrete: a cosa si riferisce?
Ci faccia qualche esempio.
"Penso ad esempio alle nuove condizioni della concorrenza internazionale,
che ha cambiato i sentimenti che nutre chi lavora in un paese come l'Italia. Il
mondo proprietario è così cambiato che non c'è più
un conflitto di classe in senso tradizionale. Capita ormai che le persone
scioperano contro imprese di cui sono azionisti i fondi pensione che gestiscono
i loro stessi risparmi. Così il povero Cipputi non può non
perdere la testa, non può non smarrire l'orientamento. Un altro esempio:
un tempo gli italiani erano abituati a fare i conti con la mafia, la camorra,
la 'ndrangheta. Oggi hanno invece in casa la criminalità rumena, ucraina
e albanese. Sono il primo a sapere che il fenomeno migratorio non coincide con
la criminalità. Ma sarei un pazzo se non tenessi presente che un qualche
legame tra queste due realtà esiste comunque. E poi ci sono le questioni
bioetiche. Se le viviamo in modo che ciascun frammento dello specchio rotto
punta solo a difendere le sue posizioni, in nome delle proprie identità
storiche, noi non ne usciamo più. Se di fronte ai Pacs la nostra
reazione è unilaterale e dogmatica, e non ispirata alla ricerca di un'etica
comune, allora i pezzi saltano, e non saranno mai più
ricomponibili".
Quale può essere lo sbocco, al di là del caos al quale stiamo
assistendo in questi giorni?
"La mia è la diagnosi di una democrazia che scricchiola. E se non
troviamo, e presto, alternative migliori, l'unico sbocco sarà il
populismo. Basterà che qualcuno metta insieme tutti quelli che hanno un
nemico, usando quel minimo comune denominatore così diffuso che oggi
è diventata la rabbia, e la fiammata populista finirà per
bruciarci tutti. Questo rischia di essere il vero sbocco, se non si sostituisce
a questo caleidoscopio di rabbie l'interesse generale. I partiti democratici
servono per questo. E dunque o il partito democratico è quello che
dà vita a una funzione storica in attesa, e non per molto, di un
soggetto politico che la incarni, o diventerà solo un passaggio
preagonico di questa democrazia che scricchiola, di questo specchio che si
rompe".
I partiti non sembrano molto consapevoli di questo pericolo. Parlano di
resistenze culturali che arrivano dalla base. Lei non crede invece che il
problema sia l'autoconservazione degli apparati?
"Qui bisogna davvero andare al di là dei partiti, che non trovano
al loro interno un humus sufficiente a valicare le loro rispettive
identità del passato. La sfera della militanza è solo un cerchio
minore. Lo dice la stessa esperienza dell'Ulivo, dove il cerchio più
vasto è proprio quello esterno alla militanza, in cui non per caso si
coltivano le maggiori aspettative unitarie".
Un caso di scuola, al quale proprio lei faceva riferimento, sono i Pacs. La
coscienza dell'opinione pubblica sembra molto più avanti di quella dei
partiti, non è così?
"E' esattamente così. Se non c'è consapevolezza di un humus
comune, resta solo il cozzare evidente tra identità contrapposte, che
cercano di non farsi spossessare le une dalle altre. Si può continuare
così e nel frattempo chiedere alle diverse religioni di farsi esse
portatrici di un'etica comune senza farsi paralizzare dalle rispettive verità
di fede? ".
Come si esce da questo che appare un vicolo cieco?
"Tanto per cominciare, invece di spendere migliaia di euro per ammassare
gente nelle piazze, i partiti potrebbero utilizzare strumenti come i
"sondaggi informati" per capire cosa davvero vogliono i cittadini".
Lei tratteggia un quadro sul limite dello sfacelo. Davvero il Pd può
essere il collante che lo impedisce?
"Può e deve avere l'ambizione di esserlo, per la semplice ragione
che è possibile e storicamente essenziale che lo sia. Ma deve volare
all'altezza giusta, i suoi dirigenti devono rischiare e devono adeguare i passi
che fanno alla dimensione - me ne rendo conto ciclopica - del tema. Ed anche
chi resiste deve rendersi conto che chiudersi nel proprio frammento non giova a
difendere l'integrità dello specchio. Ciascuno lo fa profetizzando una
sua verità. Ma di profeti sono pieni i deserti".
Ma un passo concreto è proprio la scelta della famiglia politica
europea alla quale iscriversi. Perché il Pd non si decide ad aderire al Pse?
"La questione del Pse viene dopo, non prima. E non usiamo questo argomento
per litigare, come fosse un tavolo Pacs. Invece a questo siamo: il tavolo Pse,
come il tavolo Pacs. Sotto questo profilo io ho trovato molto equilibrata la
posizione di Piero Fassino: da una parte c'è la giusta soddisfazione per
le aperture arrivate da Oporto, dall'altra c'è la convinzione che ci
vorrà tempo, che bisognerà misurare cosa si va a fare in Europa.
Ai non socialisti è giusto chiedere di aderire ad un progetto condiviso
anche dai socialisti, non ad una identità pregressa che non è
loro".
Dica la verità: lei crede che ci si arriverà davvero, al
partito democratico, o alla fine prevarranno le spinte centrifughe della
nomenclatura? Lei non teme insomma che invece del grande partito unitario ci si
riduca ad una semplice federazione?
"Eccome se lo temo. Ma percepisco che si sta formando una marea
antipolitica pericolosissima. Se non troviamo soluzioni convincenti prima, il
possibile referendum sulla legge elettorale potrebbe far abbattere quella marea
sulla riva, e quindi sui partiti, come già successe nel 1992-1993.
Basterà che qualcuno la sappia cavalcare. Forse sarà un volto
noto, forse sarà qualcuno a cui oggi non pensa nessuno. Intendiamoci,
non ho, da ministro degli Interni, un dossier al Viminale su questo leader
ignoto. Ma può venire alla ribalta un Pim Fortuyn all'italiana.
Pensiamoci. Ci aiuterà ad accorgerci, tutti, che non è tempo,
questo, per contare le tessere. E' tempo per ridare un tessuto alla nostra
società".
(10 dicembre 2006)