I
COMMENTI
Il Corriere della Sera 29-4-2008 - La vittoria di Alemanno. Non solo Roma
- di Massimo Franco. 1
La Stampa 29-4-2008 - La
sinistra succube della destra - Fabrizio Rondolino. 2
Il Sole 24 Ore 29-4-2008 - Rutelli
paga la sconfitta strategica del Pd - di Stefano Folli 5
La Repubblica
29-4-2008 - Lezione capitale - di EZIO MAURO. 6
Il Giornale 29-4-2008 - LE MACERIE DEL LOFT - di Mario Giordano. 9
Il Corriere della Sera 29-4-2008 - La vittoria di Alemanno. Non solo Roma
- di Massimo Franco
Il significato storico della vittoria di un
esponente della destra ex missina nella capitale d’Italia non va
sottovalutato. Gianni Alemanno sindaco di Roma rappresenta uno spartiacque
che legittima pienamente l’arco costituzionale della Seconda Repubblica:
postfascista, più che antifascista; almeno non nel senso un po’ ossificato
e molto strumentale nel quale una parte della sinistra ha continuato a
rappresentare e svilire un valore fondante come l’antifascismo. Ma proprio
per questo, accreditare una continuità fra il Gianfranco Fini
avversario perdente di Francesco Rutelli nel 1993, e l’Alemanno vincente di
ieri, può risultare fuorviante. Si tratta di una continuità
indubbia e insieme parziale.
Alemanno non ha vinto solo in quanto uomo con un
marcato profilo di destra, ma come candidato di una coalizione capace di
parlare insieme alle periferie capitoline ed al ceto medio; e di riscuotere
consensi al Nord come al Centro e al Sud. In questo senso, riequilibra
l’impronta «nordista» e leghista del voto politico. Forse, a spiegare meglio
la conquista del Campidoglio da parte del Pdl
è il fatto che il centrosinistra abbia presentato lo stesso volto del
1993: un ex sindaco che pure in passato aveva fatto bene. Ma che
evidentemente appariva «vecchio », espressione di un modello amministrativo
datato. Per questo è stato ritenuto incapace di captare i cambiamenti
avvenuti non solo nel Paese ma nella stessa capitale, governata
ininterrottamente prima da lui e poi da Walter Veltroni.
Il Pd sperava di arginare la marea berlusconiana del
13 e 14 aprile proprio nel ballottaggio a Roma. L’onda, invece, è
diventata ancora più potente e distruttiva. La voglia di ordine,
sicurezza e cambiamento da parte dell’elettorato ha spazzato via l’equilibrio
impossibile di una capitale in bilico fra magìe
cinematografiche e periferie abbandonate a se stesse. Si può anche
ammettere che sul voto ad Alemanno abbiano pesato la paura e l’indignazione
per i recenti stupri di donne. Ma questa è un’aggravante, non
un’attenuante per l’amministrazione uscente. La verità è che il
Pd e la sinistra in generale non sono riusciti ad opporre alla candidatura
del nuovo sindaco nulla che non fosse già sentito e, alla fine, stantìo: le foto in bianco e nero di Alemanno
«picchiatore» negli anni Settanta; l’indignazione per l’incontro fra Silvio
Berlusconi ed il senatore del Pdl Giuseppe
Ciarrapico, «fascista non pentito », proprio il 25 aprile; l’evocazione dello
spettro leghista e antiromano. E via di questo passo. Il risultato
paradossale è stato quello di dilatare la sensazione del vuoto
strategico del centrosinistra; di mostrare in bianco e nero non il Pdl ed il suo «uomo senza qualità», ma un Pd che
invece pretendeva di presentarsi nuovo di zecca, ed invincibile nella sua
roccaforte capitolina.
A questo punto, il problema non è più
soltanto l’eredità governativa di Romano Prodi. Di fatto, il risultato
del ballottaggio per il Campidoglio lesiona la leadership veltroniana
e di tutto il «gruppo romano» che ha costruito il Pd e la sua strategia
solitaria. Ma soprattutto, lascia indovinare una crepa in quel «partito dei
municipi » che ha sempre rappresentato il cuore duro del potere del
centrosinistra in Italia; e che sembrava al riparo da qualunque
sconvolgimento nazionale. È come se di colpo il gruppo dirigente si
svegliasse da un lungo sonno. E scoprisse che la realtà, dispettosamente,
non ha assecondato le loro convinzioni. Si tratta di una sorta di «sindrome
di Ecce bombo» collettiva: la stessa di quei ragazzi di sinistra immortalati
nel 1978 dal regista Nanni Moretti nel film omonimo. Raccontava la storia di
un gruppo di amici che erano andati a dormire sulla spiaggia aspettando
l’alba; e che alla fine si accorgevano che il sole era spuntato non dove
credevano, ma alle loro spalle: una metafora degli abbagli culturali, prima
che politici, della sinistra. L’immagine di un Pd
convinto di tenere Roma, il quale assiste invece al trionfo di Alemanno ed ai
caroselli selvaggiamente gioiosi dei tassisti, fa impressione più che
se fosse diventato sindaco Umberto Bossi. In fondo, il leader dei lumbard poteva essere considerato un invasore. Alemanno,
invece, incarna la rivolta delle viscere della capitale contro chi l’ha
governata negli ultimi anni: e neppure così male. È un monito
per gli sconfitti, e per i vincitori.
29 aprile 2008
La Stampa 29-4-2008 - La sinistra succube della destra - Fabrizio
Rondolino
C’è
la sinistra in Italia? Dal punto di vista lessicale, per la prima volta dal
1946 non è presente in Parlamento. Non soltanto non ci sono più
i comunisti e i socialisti: non c’è più neppure la parola
«sinistra», che i Ds ancora portavano sulle loro insegne. I risultati delle
ultime elezioni non sono meno drastici: grosso modo, il Pd è fatto per
un terzo di ex Margherita e per due terzi di ex Ds; sommando alla quota
diessina i voti raccolti da tutte le sinistre antagoniste (compresi Ferrando
e Turigliatto) e dal Ps, si arriva al 27,3% dei voti validi. Tre punti in meno
di quanto raccolse il Fronte popolare di Nenni e Togliatti nel '48. Sette
punti in meno della «gioiosa macchina da guerra» assemblata da Occhetto nel
‘94. Più di cinque punti in meno rispetto ad appena due anni fa.
Si è più volte polemizzato, in campagna elettorale, sulle
somiglianze fra i programmi del Pd e del Pdl, con
reciproche accuse di «aver copiato» e con l’inevitabile evocazione del nuovo
mostro, il «Veltrusconi». In realtà, che i
programmi dei due partiti che competono per il governo di un qualsiasi Paese
occidentale siano relativamente simili è un’assoluta ovvietà.
Non è infatti sui programmi che si decide il
successo di una forza politica, ma sulla sua identità. In generale,
l’idea che far politica e vincere le elezioni significhi presentare una lista
della spesa più o meno credibile, più o meno compatibile, e
più o meno gradita agli esperti del Sole 24Ore, è un'idea
risibile. Sebbene la parola sia carica di equivoci, la politica è
fatta di valori, non di programmi. Ciò naturalmente non significa che
le «cose», cioè i programmi elettorali e le leggi che (a volte) ne
conseguono, non abbiano un peso e un significato: ma quel significato
è inscritto e dipende da un sistema di valori che lo precede e lo
contestualizza.
L’esempio più clamoroso è lo scontro sulla sicurezza. È
evidente a tutti che chi commette un reato va punito, e che i crimini vanno
prevenuti: non è dunque di questo che si sta discutendo. Negli ultimi
sette anni, Berlusconi ha governato per cinque, e se c’è oggi un’emergenza,
una qualche responsabilità deve avercela anche il centrodestra: ma
all’elettore di Berlusconi quest’ipotesi non viene neppure in mente.
Viceversa, né i provvedimenti già presi dal centrosinistra (la
criminalità nelle aree metropolitane è oggettivamente
diminuita), né quelli annunciati in campagna elettorale, riescono a
soddisfare un’opinione pubblica che, si legge sui giornali, «non ne
può più». La ragione è semplice. Nell’identità
valoriale della destra c’è un’idea di ordine sociale tendenzialmente
esclusivo anziché inclusivo, c’è il valore della comunità e
della nazione, c’è l'idea un poco paternalistica per cui uno
scappellotto ogni tanto fa bene, e così via. I fallimenti pratici dei
governi di centrodestra sono oscurati dalla saldezza dell’orizzonte simbolico
di riferimento.
Per la sinistra, accade esattamente il contrario. I valori storici della
sinistra hanno a che fare con la solidarietà e con la difesa dei
più deboli. Una politica di sinistra moderna dovrebbe chiedersi come
declinare questi valori nel mondo d’oggi; se però, come accade
regolarmente, finge che siano andati fuori corso e suggerisce l’impressione
di scimmiottare la destra, il risultato è un cortocircuito vistoso che
lascia perplessi i simpatizzanti e certo non convince gli incerti.
In altre parole, la sinistra su molte questioni suona inautentica
a chi non è di sinistra, e ambigua o irriconoscibile a chi lo
è, perché nel dibattito pubblico insegue sempre più spesso
(magari per moderarne la portata) le proposte della destra, cioè
quelle proposte, giuste o sbagliate, che sorgono e fruttificano all’interno
di un universo valoriale tradizionalmente di destra. In questo modo la
sinistra subisce la scelta del campo di gioco e accetta di giocare una
partita non sua. Oggi è la destra a detenere saldamente l’egemonia
culturale del dibattito pubblico, di cui regolarmente scrive l’agenda. Si
tratta di una novità che pochi, persino a destra, sanno riconoscere.
Ma è questa la novità politica del nuovo secolo, e da qui
discende tutto il resto.
Fare politica significa convincere i cittadini delle proprie buone ragioni,
per poi agire di conseguenza una volta eletti; non significa rincorrere
l’opinione pubblica in cambio di una poltrona. L’idea stessa di «opinione
pubblica» è fuorviante, e andrebbe maneggiata con cura. La sinistra
invece ne è diventata succuba, e scambia regolarmente il sismografo
per il terremoto; come una mosca impazzita, sbatte contro il vetro
dell'avversario senza accorgersi che tutt'intorno lo
spazio è aperto. Il moderatismo e il radicalismo, le due malattie
mortali della sinistra italiana, sono precisamente questo sbattere senza fine
della mosca contro il vetro.
Il moderatismo del Pd ha paura di spaventare i «moderati», rincorre la Lega
al Nord, nasconde i Radicali e archivia i Dico; il radicalismo
dell'Arcobaleno si trincera dietro una serie estenuante di no. Entrambi sono
figli del Pci di Berlinguer, che dapprima annacquò il profilo
programmatico fino a renderlo indistinguibile da quello di Andreotti, nel
tentativo di cancellare l’appartenenza, seppur su posizioni critiche,
all’universo sovietico; e che poi, fallita la «solidarietà nazionale»,
si rifugiò nel fondamentalismo ecopacifista
e finì col condividere fin nei dettagli la politica estera di Breznev. Da allora, la sinistra ha sempre oscillato e si
è sempre divisa fra il tentativo di cancellare il colore di una pelle
di cui si vergogna, e l’esibizione rancorosa della propria impotenza.
Eppure non è così difficile, nel mondo, essere di sinistra,
«essere sinistra». Lasciamo da parte Blair, che è stato a lungo
indicato come modello e che nel frattempo se ne è andato in pensione
senza che una sola delle sue idee trovasse ospitalità nella prassi
della sinistra italiana. Guardiamo a Zapatero. Il suo straordinario successo
elettorale non si deve a una complessa alchimia di alleanze moderate o a un
cambio di nome, ma, più semplicemente, all’aver
rifondato una sinistra per la Spagna, e all’aver convinto gli spagnoli
che quella sinistra avrebbe governato (cioè interpretato) la
contemporaneità meglio della destra.
Il centrosinistra italiano in sette anni di governo non è stato capace
di legiferare sulle unioni civili, sulla libertà di ricerca
scientifica, sul conflitto d'interessi, sulle droghe leggere, sulla
procreazione assistita, sulla liberalizzazione dell'accesso alle professioni…
In compenso i conti pubblici sono un po’ meno in disordine, mentre quelli
delle famiglie non quadrano più. Nulla di ciò che segna oggi
l’idea e il concetto di sinistra è stato fatto dalla «sinistra»
italiana. In particolare, il campo cruciale delle libertà individuali
e dei diritti civili è stato congelato in nome di un malinteso
rapporto con il mondo cattolico, dimenticando che la sinistra ha sfondato al
centro, negli Anni Settanta, grazie alle battaglie sul divorzio e
sull'aborto.
Se non si comincia da qui, cioè dalla definizione di un un’identità radicata nella tradizione e capace
di fruttificare nel presente, la sinistra, nonostante abbia persino smesso di
chiamarsi così, continuerà a perdere. Fra l’originale e una
confusa contraffazione, non è difficile scegliere l’originale.
Paralizzata fra il rifiuto della modernità e l’esaltazione dei suoi
aspetti più stupidi, la sinistra dovrebbe invece fermarsi a
riflettere, riordinare un po’ le idee, convincersi che il Pci non c’è
più (e neppure la Dc), che il mondo non ha bisogno di essere cambiato
ma, finalmente, interpretato, e che soltanto fidandosi di se stessa
potrà sperare di convincere gli italiani a fidarsi di lei.
Francamente, non so se Veltroni abbia il tempo, la voglia, la capacità
o l’interesse a compiere un’impresa del genere. Ma fra i tanti effetti
collaterali della disintegrazione della sinistra in Italia c'è stata
anche, com’è noto, la disintegrazione sistematica dei suoi leader. Veltroni
è l'ultimo: non ci sono alternative, né ruote di scorta. Dunque tocca
a lui, e speriamo che ce la faccia.
Il
Sole 24 Ore 29-4-2008 -
Rutelli paga la sconfitta strategica del Pd - di
Stefano Folli
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promesse prima del gong finale
Tra Rutelli e Alemanno chi
rischia di più è Veltroni
La
vittoria di Alemanno a Roma è una notizia clamorosa. Per certi aspetti
non è meno importante dei risultati del 13-14 aprile. Si sgretola
nella Capitale un sistema di potere, incardinato sul centro-sinistra, che ha
retto per quindici anni. E l'onda lunga delle elezoni
politiche travolge l'ex sindaco Rutelli che ambiva a tornare sulla sua
vecchia poltrona (dove peraltro aveva fatto bene). Rutelli paga la sconfitta
strategica del Partito democratico. Probabilmente paga la disaffezione del
suo elettorato, che non lo ha seguito nel secondo turno. In particolare
sarà interessante capire fino a che punto lo ha abbandonato
l'elettorato della Sinistra Arcobaleno. Nel primo turno Rutelli ha ottenuto i
voti apparentati dei comunisti e dei verdi. Ma in questi quindici giorni
molta acqua è passata sotto i ponti. L'estrema sinistra ha scoperto di
essere stata cancellata e ha fatto responsabile Veltroni della sua disfatta.
Difficile credere che il 27 aprile sia accorsa in massa per sostenere
Rutelli, alleato e sodale del leader del Pd.
D'altra parte, sembra che Alemanno abbia goduto dell'appoggio di Storace, che
segna così un riavvicinamento fra La Destra e il Popolo della
Libertà. Aggiungiamo che l'astensione a Roma non è stata
così alta come nel resto d'Italia. E anche questo è
significativo. Il 63 per cento di affluenza finale è appena il 3% meno
di quel 66% con cui si chiusero le elezioni del 2006, con Veltroni vittorioso.
Rispetto al resto del Paese si può dire che i romani sono andati alle
urne in misura significativa, e questo sembra aver favorito il candidato del
centrodestra. Capace, del resto, di evocare il tema della sicurezza con una
credibilità superiore al suo avversario. Ora si volta a pagina. Non
solo a Roma, ma nella politica nazionale. La prospettiva strategica del
Partito Democratico inevitabilmente sarà influenzata dal risultato del
Campidoglio. Veltroni ne esce ridimensionato proprio nel territorio a lui più
favorevole. Bersani e altri nel Pd non nascondono il proprio malessere.
Difficile credere che tutto andrà avanti come se nulla fosse.
Mancava soltanto Roma. Ieri è stata
conquistata direttamente da An, che con Alemanno porta per la prima volta nel
dopoguerra un suo uomo in Campidoglio, da dove si affaccerà non solo
sul passato imperiale e sui simboli del ventennio, ma sul nuovo paesaggio
politico italiano disegnato dagli elettori. Roma infatti
non è soltanto la capitale che ha cambiato segno politico
consegnandosi alla destra, mai salita su quel colle, nemmeno all'epoca del
trionfale avvento berlusconiano. È, in più, una roccaforte
storica della sinistra che l'ha governata ininterrottamente da quindici anni,
e che proprio con Roma - come ha spiegato Ilvo
Diamanti - usciva dalla tradizionale riserva delle regioni rosse, presentando
una geografia politica più articolata e complessa, con la più
grande città italiana fiore all'occhiello di una "sinistra dei
sindaci" moderna e sperimentale, capace di coniugare buona
amministrazione e nuovi linguaggi culturali, sviluppo e comunità,
sotto gli occhi di tutto il mondo.
Tutto questo è saltato ieri, completando invece lo scenario politico
berlusconiano, che teneva in mano il nord forza-leghista e il sud autonomista
e clientelare come due spinte popolari alleate ma separate, senza un centro
unificatore che non fosse l'autorità negoziale e politica del
Cavaliere. Ora c'è anche il baricentro politico per questa alleanza
che ha conquistato l'Italia: la capitale diventata di destra, con un sindaco
di Alleanza Nazionale, come ha subito rivendicato Fini, archiviando per una
notte il Pdl. Il risultato è chiaro: il Nord
alla Lega, il Sud a Lombardo, Roma ad An, e l'Italia a Berlusconi.
Per la potenza dei simboli, che richiamerà a
Roma giornalisti da tutto il mondo, il rovesciamento non poteva essere
più radicale. Non solo arriva in Campidoglio per la prima volta un
uomo venuto dal post-fascismo: ma ci arriva dopo sette anni di governo di un
sindaco ex comunista, con un cambio dunque che non è una semplice
alternanza ma un cortocircuito a fortissima intensità, che ha appena
incominciato a bruciare. Aggiungiamo che Alemanno ha battuto il
vicepresidente del Consiglio uscente, che era stato sindaco - e un ottimo
sindaco, giovane e innovatore - per due mandati. Ricordiamo ancora che il
vincitore fino a quindici giorni fa era dato per sicuro ministro del governo
Berlusconi, nella convinzione generale (anche sua) che la battaglia per il
Campidoglio sarebbe stata solo di bandiera. Tutto questo può dare
l'idea dello spostamento d'aria della bomba capitolina, una bomba di portata
nazionale: che tuttavia farà morti e feriti soltanto nel campo del Pd.
Il voto affonda con Rutelli uno dei padri fondatori del nuovo partito, ma
colpisce direttamente lo stesso Veltroni, perché al giudizio degli elettori
si è presentata anche la sua lunga sindacatura,
che pure aveva ottenuto un larghissimo consenso due anni fa, dopo il primo
mandato. Già questo dato testimonia l'inclinazione a destra del Paese,
che dura da quindici anni, ma che è diventata un precipizio negli
ultimi mesi, travolgendo persone, gruppi dirigenti, governi nazionali e
locali. C'è nel voto di Roma un dato di "destra reale" così
netto, addirittura biografico, fisico, concreto, che deve far riflettere. I
moderni pasticceri delle intese più o meno larghe, per i quali tutto
è uguale, Alemanno e Rutelli, Veltroni e Berlusconi, assicuravano da
settimane che si trattava solo di un voto amministrativo, dove contavano i
programmi, e nient'altro. Con ogni evidenza non è così. Non
è per il programma che è stato scelto Alemanno, ma perché la
sua alterità di post-fascista incarnava fino ad esasperarla in un urlo
quella discontinuità di cui i cittadini sentivano il bisogno, e che il
Pd non ha avvertito: fino al punto di decidere in una stanza chiusa per pochi
intimi - il Pd, partito che ha fatto un mito delle primarie - il cambio di
poltrona tra Veltroni e Rutelli. Senza capire che ciò che funziona in
termini di esperienza e di attitudine può sembrare all'opinione
pubblica, più che mai oggi, un'autogaranzia castale, un'autotutela collettiva, da "classe
eterna", nomenklatura, più che da
partito aperto.
E tuttavia, c'è un ideologismo pragmatico, sottaciuto ma praticato,
ricercato come scelta radicale di cambiamento nella scelta di Alemanno: come
uomo di An, e non "nonostante" An. Il nuovo sindaco, che ha subito
dichiarato di voler governare a nome di tutti i
cittadini, ha conquistato nel ballottaggio centomila voti in più
rispetto ai 677 mila del primo turno. Certo, la forza della vittoria
nazionale di Berlusconi, così netta, ha trascinato con sé quel pezzo
di città indecisa, flottante, al vento, che negli anni precedenti ha
votato Veltroni ed è pronta a stare con chi vince. Ma il farsi destra
della capitale è impressionante, come i 7 punti e rotti che separano
Alemanno da Rutelli. Viene da chiedersi che cosa i cittadini vedano e
vogliano da questa classe dirigente finiana che
è stata scongelata nel '94,
ha rotto con il fascismo e con i padri missini a
Fiuggi, ma poi si è fermata, trasformata d'incanto da Berlusconi da
post-fascista a statista: anche perché la cultura liberale italiana non l'ha
mai stimolata a quei passi avanti e a quel rendiconto a cui invece ha
giustamente richiamato per decenni gli ex comunisti.
Certamente i cittadini vedono in questa destra una rottura, più ancora
un sovvertimento, quella "modernizzazione conservatrice" di cui
parla Berselli: che a Roma diventa subito ribellismo corporativo, con i taxisti che accompagnano col coro dei clacson contro le
liberalizzazioni l'ascesa di Alemanno al palazzo senatorio, con la folla che
chiede a Veltroni "dacce le chiavi",
mentre urla "Roma libera", tra le braccia tese nel saluto romano.
E altrettanto certamente, questa rottura a destra ha
un significato anti-establishment, plebeo nel senso politico del termine,
dunque popolare. È come se il "rimandiamoli a casa"
gridato dal leghismo xenofobo al Nord contro gli immigrati funzionasse
anche nella capitale, ma contro il ceto politico di centrosinistra, concepito
come forestiero. Il cuore del vero meccanismo politico inossidabile del
quindicennio - Berlusconi e il suo sistema - riesce a fuoriuscire da questa
maledizione, perché il populismo è esattamente questo: establishment
ed outsider nello stesso tempo, ribellismo e professionismo, antipolitica e casta. Un miracolo dell'inganno, ma un
miracolo che funziona.
La sinistra, d'altra parte, deve temere soprattutto
se stessa. Di fronte alla spinta di destra "realizzata" che ha dato
centomila voti in più ad Alemanno, Rutelli ne ha persi 85 mila. In
più l'astensionismo ha galoppato a sinistra, favorendo la destra. Non
solo.
C'è un dato più inquietante, che lacererà la sinistra
italiana per mesi e peserà sul futuro: Rutelli al Comune ha preso 55
mila voti in meno di quanti ne ha conquistati sul
territorio cittadino Nicola Zingaretti,
neopresidente eletto della Provincia di Roma. Poiché le schede bianche e
nulle per Rutelli sono la metà di quelle per Zingaretti,
questo significa che decine di migliaia di cittadini - di sinistra,
evidentemente - hanno votato per Zingaretti alla
Provincia e contro Rutelli (dunque per Alemanno) al Comune. Un voto, bisogna
dirlo con chiarezza e subito, del tutto ideologico, che viene in gran parte
dalla sinistra radicale, così convinta dalla tesi autoassolutoria
che vede nel Pd la colpa della sua scomparsa dal Parlamento, da far pagare al
Pd la battaglia di Roma, lavorando contro Rutelli. Per questi cannibali
fratricidi, grillisti e antagonisti, Rutelli era il
bersaglio ideale, come anche per qualche estremista del Pd: troppo cattolico,
importatore della Binetti, amico dei vescovi, come
se la scommessa fondativa e perenne del Pd non
fosse quella di tenere insieme, a sinistra, cattolici ed ex comunisti. Un ideologismo
a senso unico: che serve ad azzoppare la sinistra, facendola perdere, mentre
non scatta per bloccare l'uomo di An in marcia verso il Campidoglio. Anzi.
È da qui, oggi, che deve partire Veltroni. Guardando in faccia questo
problema grande come una casa, la sindrome minoritaria della sinistra. Con il
vantaggio che Roma dimostra - sommando il fuoco amico su Rutelli e le
astensioni - come con la sinistra radicale e il suo ideologismo suicida non
si possano ipotizzare alleanze, se non per perdere. Ma nello stesso tempo,
quel voto reclama una copertura politica dello spazio vuoto a sinistra:
cominciando dalla pronuncia di quella parola, l'unica che il dizionario
politico veltroniano ha evitato per tutta la
campagna elettorale, e tuttavia l'unica che può mobilitare - coniugata
con la modernità, con il cambiamento, con l'innovazione, con la
capacità di parlare al centro - quella fetta di apolidi messi in
libertà dal fallimento dell'Arcobaleno. Cittadini che esistono, che
sono una forza potenziale di alternativa al berlusconismo,
solo che qualcuno sappia convertire in politica spendibile il loro peso senza
rappresentanza.
Veltroni ha incassato due sconfitte pesanti, e tuttavia ha varato un vascello
che può andare lontano, un partito della sinistra di governo, che
l'Italia non ha mai avuto. Eviti di negare la realtà, come talvolta
fa, usi le parole di chi sa di aver perso, ma sa anche dove vuole andare. A
cominciare dalla navigazione interna del partito. Un leader ammaccato,
depotenziato, frastornato e commissariato non serve a nessuno, se non agli
oligarchi. La discussione interna deve essere all'altezza di un partito che
è democratico davvero, vuole essere nuovo e non può più
accettare procedure d'altri tempi. Valuti Veltroni se non è il caso di
strappare di nuovo, per andare avanti, oppure rinunciare. Ci sono sempre quei
tre milioni e mezzo delle primarie, pronti a contare nei momenti che contano.
Se qualcuno si ricorda di
loro.
(29 aprile 2008)
Esecuzione Capitale. Cade Rutelli, Veltroni vacilla.
Prodi e Bertinotti non pervenuti. L’ultimo voto segna il crollo di un sistema
di potere, morbido e piacione, che voleva partire
dalla Capitale per conquistare l’Italia. E invece non solo non ha conquistato
l’Italia, ma ha perso pure la Capitale. Qualche giorno fa il manifesto
titolava: «Roma non fa’ la stupida». E infatti Roma
non ha fatto la stupida, a quanto pare.
Il sistema veltronian-rutelliano
guidava la città da 15 anni. Ora è ridotto a macerie. Il crac
è stato improvviso. E fragoroso come nessuno se l’aspettava. Il primo
dato che impressiona, infatti, è la dimensione del successo di
Alemanno: oltre 7 punti di differenza sono un’enormità in assoluto, e
ancor di più lo sono se si pensa che prima del 13 aprile in pochi consideravano possibile che il candidato del centrodestra
arrivasse al ballottaggio. Non solo ci è arrivato, non solo ha fatto
paura alla sinistra (fatto che sarebbe già stato considerato un
successo), non solo ha vinto. Ha pure stravinto. Fin troppo, non vi pare?
Le conseguenze sulla sinistra, in effetti, saranno devastanti. Veltroni sta
preparando la valigia per l’Africa, Rutelli chissà. Uno dei pochi a
cui, forse, la situazione non dispiace troppo è D’Alema: avrà
l’occasione per prendersi le sue rivincite, e magari finirà per
consegnare il Pd al robivecchi. We can, ma
sì: ora si può. Il pullman in garage, il factotum Bettini a pascolare le capre e il loft occupato dalle
truppe baffettate. Perché è vero che si
può perdere, «ma anche» la Capitale...
La festa di Roma, però, non è solo la sconfitta della sinistra.
Intanto è la vittoria di Alemanno, che ha accettato una candidatura
che nessuno voleva e che si è fatto, da alpinista qual è, una
scalata che al confronto l’Everest è un cavalcavia. E poi è
anche e soprattutto la vittoria del centrodestra. Pensateci: per due
settimane abbiamo ascoltato soloni che tentavano di ridurre il risultato del
13-14 aprile ad un’affermazione localistica della Lega. Oggi si dimostra che
non è così: il Pdl vince nella
Capitale, vince come progetto complessivo, vince come partito nazionale,
vince perché gli elettori hanno capito e apprezzato il coraggio di An nel
compiere l’ultima svolta. Sebben che fosse una
svolta pericolosa.
Non è un caso se la destra va al governo di
Roma nel momento in cui completa la trasformazione ed entra nel partito
unico. E non è un caso se da questo trionfo, nella Roma cattolica,
è escluso l’ormai desaparecido cattolico Pier Ferdinando. L’avete
notato? Da quando lui se n’è andato, il centrodestra non fa che
collezionare successi. Da Palazzo Chigi al Campidoglio, secondo atto:
così la festa è completa. E ora guai a chi fa Casini.
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